Clandestini

Su diversi quotidiani delle Venezie di ieri è apparso questo interessante articolo di Ferdinando Camon.

C’è un contrasto netto fra la Cei e il governo, tra Berlusconi e mons. Crociata, tra il rabbino capo di Roma e Maroni, tra il Pd (con importanti eccezioni) e il Pdl-Lega: i temi della discordia sono il respingimento, il pacchetto sicurezza, il diritto di asilo, l’Italia multietnica. Ma sul respingimento c’è un contrasto anche fra D’Alema e Fassino, e questo fa capire quanto la questione sia ambigua e contraddittoria. La Cei afferma che il respingimento di 277 migranti provenienti dalla Libia tradisce diritti fondamentali degli uomini. È vero. Il  ministro degl’Interni risponde che il respingimento è un successo storico, perché l’unico modo per impedire gli sbarchi clandestini è bloccarli sul nascere. È vero anche questo. La maggioranza vuol definire la clandestinità come reato, perché uno Stato con centinaia di migliaia di persone senza permesso di soggiorno, senza lavoro, senza soldi, è incontrollabile. È vero. Stabilendo che la clandestinità è un reato, la maggioranza vorrebbe sostenere che un clandestino non può fruire dei servizi statali, primi fra tutti sanità e scuola: i servizi hanno un costo, il costo si paga con le tasse, il clandestino che non paga tasse non può goderne. Provate ad andare in America senza assicurazione: se vi ammalate, vi buttano fuori dall’ospedale nudi. Abbiamo già osservato qui che questo ragionamento ha una conseguenza: se un malato è clandestino, il primo dovere del medico è denunciarlo, altrimenti diventa complice di un reato. Il medico è al servizio dello Stato. I medici oppongono un’altra concezione: il medico è al servizio dell’uomo, suo dovere è curare chi sta male, chiunque sia, anche un bandito. Quindi niente-medici-spia. Come i medici-spia sono i prèsidi-spia: se la clandestinità è un reato, i prèsidi non possono accettare l’iscrizione di bambini clandestini. La Lega afferma che accettarli a scuola vuol dire rendere permanente la presenza dei clandestini, ancorarli al nostro territorio. E’ vero, è così. I prèsidi (e con loro il presidente della Camera, Gianfranco Fini) sostengono però che ammettere a scuola i figli dei clandestini è come ricoverare in ospedale i clandestini malati: l’istruzione è un bene primario come la salute. È vero, è un ragionamento giusto e nobile. D’Alema definisce “barbara” l’etica da cui nasce il pacchetto di sicurezza, ma Fassino, parlando del respingimento, che di questa etica è l’atto più crudele, dichiara che “non è uno scandalo”, e aggiunge: “in passato l’abbiamo fatto anche noi, quando eravamo al governo”. Domanda: come sono possibili questi differenti e opposti punti di vista? Tra un vescovo e l’altro, tra un partito e l’altro, tra una parte e le altre della maggioranza e dell’opposizione? Sui problemi dei clandestini e dell’ospitalità non c’è crisi di un partito o di uno schieramento, ma del nostro diritto. È il nostro diritto che non riesce a capire e valutare questi problemi, perché il nostro diritto è il risultato della nostra storia, mentre questi problemi sono il risultato di altre storie. L’immigrazione dall’est (Albania, Romania…) è il risultato del fallimento del comunismo: un sistema che è durato a lungo, ed era costruito contro di noi, è fallito, e scarica il suo fallimento su di noi, facendone un nostro problema. L’immigrazione dal sud del Mediterraneo è il risultato del fallimento di quegli stati, nessuno dei quali è arrivato alla democrazia, alla creazione del progresso e alla spartizione del progresso. E quegli Stati scaricano i loro problemi su di noi, trasformandoli in nostri problemi. L’accoglienza di chi viene dalla fame, dall’ignoranza, dalle guerre e dalle epidemie, è un dovere umano prima che giuridico. Ma sull’orlo del Sahara ci sono 20 milioni di disperati, pronti a trascinarsi verso Libia e Tunisia per tentare la traversata verso l’Italia e l’Europa. Siamo chiusi in una morsa: 1) dobbiamo salvarli, 2) non ce la faremo mai.

La fatica di vivere

C’è la globalizzazione dei soldi e quella dello stress, della depressione, della crisi, del suicidio e del vuoto esistenziale perché si è dimenticato che la vita non è qualcosa, ma è sempre l’occasione per qualcosa. Pubblico qui sotto l’articolo FACCIO FATICA A VIVERE di Patrizia Spagnolo, presente nell’ultimo numero di Dimensioni Nuove

Ecco il “testamento” lasciato tempo fa da un sedicenne suicida: “Sarai contento ora papà. Ora che non ti do più grane. Mi dispiace averti deluso, ma è anche colpa tua. Salutami Sara e dille che la tratto così perché le voglio bene. I soldi che ho in banca li lascio tutti a Telefono Azzurro. Mi dispiace per te mamma, che sei stata più gentile del babbo, che mi ha sempre rotto le scatole. Ci rivedremo, spero il più tardi possibile, nell’aldilà. P.S. Spero che la Fiorentina vinca la coppa. Ciao, anzi addio”.

Non è dato sapere se Luca (nome fittizio) si sia tolto la vita avvelenandosi – soluzione che va per la maggiore – o tagliandosi le vene o buttandosi giù da un ponte o impiccandosi. Rientra sicuramente nella schiera di ragazzi tra i 14 e i 18 anni che ogni anno rinunciano a vivere perché sono stati bocciati a scuola, non hanno superato l’esame per la patente, sono emarginati in quanto gay, si vedono troppo grassi, si sentono troppo stupidi, comunque inadeguati. Queste le cause scatenanti, tutte riconducibili alla fatica di vivere, di trovare un senso alla propria esistenza.

“Il senso della vita” fu il tema della prima conferenza tenuta dallo psichiatra Viktor Frankl nel 1921. Morto 12 anni fa, di lui possiamo dire che è stato il fondatore della logoterapia, cioè la cura attraverso la riscoperta del significato dell’esistenza e dei suoi valori fondamentali. Che nel 1930 a Vienna, sua città natale, organizzò un’azione di straordinaria prevenzione nel periodo in cui venivano rese note le valutazioni alla fine della scuola, ottenendo come risultato che quell’anno non si verificò per la prima volta nessun caso di suicidio tra gli studenti. Possiamo dire, ancora, che dal 1942 al 1945, essendo di origine ebraica, fu internato in quattro campi di concentramento, compreso Auschwitz, e toccò con mano la possibilità che la persona sempre conserva di non lasciarsi abbattere dalle circostanze, ma di poter sempre far fronte ai peggiori condizionamenti, addirittura entrando “a fronte alta nelle camere a gas e nei forni crematori”.

“Ho trovato il significato della mia vita nell’aiutare gli altri a trovare nella loro vita un significato”, disse Viktor Frankl. Il suo metodo psicoterapeutico “riconosce – come sottolinea il prof. Eugenio Fizzotti, sacerdote salesiano docente di Psicologia all’Università Pontificia Salesiana di Roma – il ruolo della libertà e della responsabilità e fa leva su due capacità specificamente umane: l’autotrascendenza, ossia la capacità di rivolgersi verso obiettivi al di fuori di se stessi, e l’autodistanziamento, ossia la capacità di prendere distanza dai sintomi”.

Nell’ottobre 2007, L’Università Pontificia Salesiana ricordò Frankl in un convegno sulla qualità della vita e la ricerca di senso. “Il messaggio che Frankl ha trasmesso attraverso libri, articoli, conferenze, corsi universitari, interviste radiofoniche e televisive, e sulla base di una pluridecennale esperienza – disse Fizzotti – risponde pienamente all’attuale condizione esistenziale della persona, che si sente smarrita e interiormente vuota perché assalita da messaggi contrastanti e da allettanti proposte che non hanno niente a che fare con i valori, ma solo con la ricerca spasmodica del piacere o del successo a buon prezzo. La persona è perennemente alla ricerca del senso della propria vita e tale sua ricerca instancabile può avere esito positivo solo nella misura in cui non guarda passivamente se stessa, ma si apre agli orizzonti dei valori, della solidarietà, dell’impegno, della relazione interpersonale che non sfrutta l’altro, ma lo promuove nelle sue risorse e nelle sue capacità”.

Solitudine ed egocentrismo. Alcuni giovani sono ormai così “spenti” da convincersi che la morte sia l’unica soluzione: vogliono togliersi di mezzo e ci riescono. Altri, invece, sono così attaccati alla vita da tentare il suicidio per comunicare la loro disperazione ed essere aiutati a vivere: vogliono essere finalmente ascoltati, considerati, urlano che anche a loro venga riconosciuto uno spazio, che anche loro vogliono sentirsi utili.

Pare che per ogni suicidio “riuscito” ve ne siano almeno 20 “tentati”. E di questi non si parla, ovviamente. In una società in cui la morte viene rimossa, parlare del suicidio è quasi un tabù e affrontare l’argomento con i giovani è cosa poco, pochissimo gradita, quasi come se il solo parlarne inducesse qualcuno a farlo, non riconoscendo quindi il dolore, il senso di solitudine e certe emozioni negative che attanagliano coloro che per definizione sono “nel fiore della vita”.

Se si va a guardare le statistiche, negli ultimi decenni i suicidi tra i giovani sono diventati un’emergenza in ogni angolo del mondo. Alcuni Paesi riportano dati precisi, altri un po’ meno, ma a prescindere dai differenti contesti economici, sociali e culturali, emerge l’incapacità di sopportare difficoltà soggettive e oggettive. Ovunque, lo spettro della disoccupazione, un individualismo competitivo, le aspettative di consumo e modelli di vita irraggiungibili generati da pubblicità e cultura di massa determinano un’assenza di futuro, devastante, opprimente e insopportabile.

Secondo David Baron, professore di psichiatria e scienze comportamentali alla Temple University di Philadelphia, “la decisione di un ragazzo di togliersi la vita trova la sua origine prevalentemente in situazioni di violenza domestica, stati di ansia e depressione, poca stima di sé, fenomeni di bullismo (con percentuali sempre maggiori anche in internet), aggressività e indisciplina, scarsa capacità di socializzare, uso e abuso di sostanze stupefacenti e difficoltà ad accettare la propria identità sessuale”. Sicuramente si vanno diffondendo patologie psichiche quali depressione, disturbo bipolare e schizofrenia, che trasformano i giovani in pentole a pressione pronte ad esplodere.

Tra il 1991 e il 2005, i suicidi in Colombia sarebbero aumentati del 195%, in maggioranza tra i giovani, mentre qualche anno fa anche l’Albania registrava picchi mai visti. In Italia, pare che siano la seconda causa di morte nella fascia di età 15-24 anni, dopo gli incidenti stradali. I dati di una ricerca condotta nel 2006 dall’onlus “L’amico Charly” tra 2312 studenti delle scuole superiori lombarde riportano che il 12% degli intervistati aveva pensato o continuava a pensare al suicidio e il 10% lo aveva tentato.

E ancora: la Chinese Association for Mental Health ha reso noto che tra i ragazzi e ragazze cinesi dai 15 ai 34 anni il suicidio è la prima causa di morte, al punto che le autorità pubbliche sono intervenute disponendo una sorta di “censimento psichiatrico” degli studenti con quiz e questionari rivolti a migliaia di ragazzi per conoscere la loro condizione psichica. Tra le cause del desiderio di farla finita, una società sempre più competitiva, che ha imposto la politica del figlio unico, e la povertà estrema delle campagne (dove infatti si verifica la maggior parte dei suicidi, in prevalenza tra donne, totalmente subalterne agli uomini e senza relazioni sociali, a volte neppure registrate all’anagrafe).

In Cina, i bambini hanno vita dura, con pressioni e obiettivi da raggiungere, tantissime ore di lezione, un enorme carico di compiti, poco spazio per il gioco e la creatività. Spremuti come limoni, considerati “adulti piccoli” e degni di attenzione solo se in grado di emergere e farsi strada, vittime di una cultura conformista che non lascia spazio alle esigenze dell’individuo.

Ma in fondo non è quanto accade anche in Occidente? Pensiamoci. Ritmi serrati, conformismo, bambini delle elementari a scuola fino alle 16,30 e poi i compiti da fare, corsi vari e attività sportive, affannati, stressati e di corsa da una parte all’altra dietro a genitori malati di efficientismo, che se si fermano a guardare un film o se vanno a dormire senza aver lavato i piatti si sentono a disagio, inadeguati, falliti.

Mentre ci circondiamo di oggetti e attività, perdiamo la consapevolezza che abbiamo della nostra vita e blindiamo le nostre case con muri, porte e sbarre di ferro. “Nel Medioevo – ha detto recentemente il cardinale salesiano honduregno Oscar Maradiaga – le città avevano alte mura per proteggersi dalle invasioni dei barbari. Oggi le città sono circondate da mura psichiche di incomunicabilità nell’era in cui paradossalmente esistono le comunicazioni migliori. In particolare molti giovani hanno scelto di non comunicare attraverso i mezzi di comunicazione. Conosco casi in cui in una famiglia i figli comunicano con i genitori attraverso il computer o messaggi sul cellulare. Non hanno tempo di sedersi e dialogare. Assistiamo allora alla globalizzazione dello stress, della depressione, della crisi, del suicidio e del vuoto esistenziale”.

“La vita non è qualcosa, ma è sempre, semplicemente, l’occasione per qualcosa”, diceva lo psichiatra austriaco Frankl. Chiudiamo allora con la lettera di una ragazza pescata nel mare di Internet: “Ankio pensavo ke avevo 1 carattere forte e invece sn fragile, solo adesso stanno venendo a galla le mie paure, ansie, speranze, problemi. Questa nn è assolutamente una cosa da sottovalutare. Mi sento sola, sempre, nonostante tutti vogliano diventare miei amici e tutti vogliano fidanzarsi cn me. Mi sento terribilmente sola… Avverto sl la falsità della gente, in tutto c’è un velo di ipocrisia. X me l’amicizia nn conta + nulla xkè oramai ho avuto sempre e solo delusioni e chissà se 1 giorno avrò una vera amica”. “E mi ritrovo sola – ripete – xkè sn io ke già dal primo momento li allontano. Ed ecco ke divento cm loro, gioco il loro stesso gioco, divento falsa e mi faccio skifo. In quel momento vorrei morire, mi tengo sempre tutto dentro e qualke volta mi incazzo x una sciocchezza e inizio a piangere a più nn posso, cado nel buio + profondo. Ovviamente poi nn ho nessuno cn cui confidarmi e sto male. Poi mi ripeto ke esistono cose peggiori nella vita, ke devo fregarmene xkè la vita è una sola, ke ci sono persone in fin di vita ke vorrebbero vivere, ma cm faccio a vivere se nn credo + a niente? Forse è sl un periodo e ne uscirò fuori ma cn l’aiuto di chi? Tutto passa ma riuscirò da sola ad alzarmi…ho paura”.

Bere in Friuli

Il 21 luglio 2008 su Repubblica è uscito questo durissimo articolo sul consumo di alcol in Friuli Venezia Giulia. Visto che ne stiamo parlando in II, ve lo ripropongo: da brividi!

Gorizia – Il taxi bianco è vuoto, ma non libero. Sei bottiglie sono accomodate sul sedile posteriore, di pelle nera. Ogni mattina la dose di rosso «della signora» lascia la cantina di Gradisca d’Isonzo. Il viaggio è breve. Discretamente il Refosco raggiunge la grande dimora in via dei Faiti, a Gorizia. Maria Cristina scende nel giardino mite della villa, profumato di magnolie, riceve l’ospite clandestino e si ritira in camera. Sempre a letto, con un segreto. Nessuno l’ha mai vista bere. Il marito, il figlio, di sera osservano i suoi occhi liquidi. Tentano l’alito fermentato. Tacciono. «Sono ricaduta per un bicchiere – dice – dopo 18 anni che non toccavo un goccio». L’ospedale di Monfalcone è a mezz’ora. Hanno salvato un neonato di 54 giorni. Sembrava addormentato, eternamente. Le analisi hanno scoperto che, per arrestarne il pianto, la madre mesceva del Verduzzo nel biberon. Anche a Udine i medici affrontano un nemico nuovo: coma etilico a 9 anni. Come al «Burlo Garofalo» di Trieste: l’intossicazione infantile da alcol ha conquistato la vetta tra le cause di ricovero. Una statistica impotente, rispetto al destino di un infermiere di Pordenone. Brandiva il bisturi contro chiunque gli contendesse il whisky infilato nello scaffale delle garze. Ha ricominciato per festeggiare il terzo figlio. E’ morto ieri, con il bambino in braccio. Il dramma negato del Nordest, epicentro di una sommersa tragedia nazionale, esplode in Friuli Venezia Giulia. Trent’anni fa, tra queste vigne benedette dalla provvidenza, Renzo Buttolo ha fondato l’alcologia italiana. Negli stessi giorni, da Udine, Vladimir Hudolin iniziava a seminare nel Paese i club degli alcolisti in trattamento. Gli ubriachi, grazie al triestino Franco Basaglia, non sono stati più inghiottiti in un manicomio. Non è un caso però, è evidente, se oggi Francesco Piani, responsabile del Sert Medio Friuli, guida la commissione delle regioni italiane finalmente decise a lottare contro il killer di Stato che sta bruciando una generazione. «In Italia la droga ogni anno uccide meno di mille persone – dice – mentre l’alcol ne miete 34 mila. La metà di incidenti stradali, infortuni sul lavoro e domestici, è riconducibile al bicchiere. Se qualsiasi altra sostanza facesse una simile strage, sarebbe proclamato il coprifuoco. E’ tempo di capire perché non succede: e di dirci la verità». La realtà, ostinatamente nascosta per interesse e per vergogna, è questa: l’ Italia, sempre più povera, delusa e priva di speranza, si dà al bere. In Friuli, nel Nordest e nel Paese, l’alcol sta sostituendo le altre droghe. è la terza causa di morte, la prima per i ragazzi tra 18 e 25 anni. Ne assorbiamo 58 ettolitri all’anno. Sette italiani su dieci sono grandi consumatori. Venti bambini su cento iniziano a bere tra gli 11 e i 15 anni. Ogni anno, a causa dell’alcol, muoiono sul lavoro 750 persone. La metà dei morti sulla strada va ricondotta alla bottiglia. Le vittime, solo in Friuli, nel 2007 sono state 1500. Insufficienti i controlli. Gli alcoltest, in Italia, sono 400 mila all’anno: 10 milioni in Francia. La probabilità è di essere fermati una volta ogni due vite. Sei persone su dieci, nel Nordest, consumano quotidianamente alcol lontano dai pasti. Gli italiani colpiti da gravi disturbi sono 12 milioni: 14 mila in cura nella regione friulana. Le cifre, dal 2002, si moltiplicano vertiginosamente. I giovani alcolisti, nel Paese, sono ormai 1 milione e 300 mila. Quattro decessi su dieci, negli ospedali, sono dovuti all’eccesso di alcol: 44 mila, negli ultimi tre anni, i ricoverati in Friuli. “Un trapiantato di fegato – dice Paolo Cimarosti, tossicologo di Pordenone – costa 300 mila euro. Ogni anno almeno 300 interventi sono dovuti all’alcol. Eppure scrivere che un paziente è alcolista, resta un tabù. Scorro cartelle dove si parla ancora di “epatopatia cronica nutrizionale”, invece che di “cirrosi epatica alcolica”. Intanto scoppia la bomba dello “sballo da week-end”. Nel Triveneto, ossessionato da lavoro, ronde xenofobe e neo-precarietà, è uno choc. Il 10% dei teenager si ubriaca almeno una volta alla settimana. Il 74% si abbandona al “binge drinking”: oltre sei bicchieri in poche ore con l’obbiettivo esclusivo di andare fuori di testa. Quanto c’è, da dimenticare? In tre anni il fenomeno è triplicato e ormai colpisce anche sette ragazze su dieci. Il record è in Friuli Venezia Giulia: il 14,2% della popolazione, sotto i 24 anni, eccede con l’alcol lontano da casa e più di due volte alla settimana. Tra vino, birra, superalcolici e alcolpops, le nuove bibite gassate a bassa gradazione, si spendono 129 mila euro al giorno: poco meno di 6 mila, negli ultimi 3 anni, le vittime. “I dati – dice Valentino Patussi, responsabile della medicina del lavoro a Trieste – sono ancora incompleti. Dal 2003 il cambiamento è travolgente. In fabbriche e cantieri iniziamo a scoprire che il 51% degli infortunati ha tracce di alcol nel sangue. La maggioranza dei vecchi fratturati in casa, o per strada, cade perché ha bevuto troppo. Avanza uno spaventoso alcolismo senile da solitudine, mentre un giovane su due deve il ricovero alla bottiglia. Dobbiamo ammettere che il problema è stato drammaticamente sottovalutato”. “Crociate, demonizzazioni, proibizionismo e moralismi – dice Bernardo Cattarinussi, sociologo dell’università di Udine – non danno risultati. Siamo però di fronte ad un’emergenza senza precedenti: chiederci perché la società italiana si suicida con l’alcol, perché gli adulti considerano i giovani un mercato da sfruttare ad ogni costo, è un dovere”. Lo spettacolo, vagando al tramonto tra la baia di Sistiana a Trieste e gli happy hours offerti dai caffè su piazza Matteotti a Udine, è impressionante. Finito il lavoro, si vive con il cocktail in mano. Una tempesta alcolica: sagre del vino, feste della birra, cantine aperte, serate del prosecco, rave party, drive-beer, pub che promuovono il “drink as you like”, o il “paghi uno e bevi tre”. Al ristorante il cameriere ti riceve solo con lo spumante in mano. Migliaia di adolescenti e di adulti svuotano calici colmi di ghiaccio, alcolici fosforescenti e mix a base di vodka e taurina. Una comunità impegnata, pubblicamente, ad anestetizzare una paura misteriosa con un’autoprodotta droga legale. Sottrarsi al rito costa imbarazzo e diffonde uno stupore ilare. “Per restare nel gruppo – dice Andrea, 36 anni, agricoltore di Duino – in due anni sono arrivato a bere 5 litri di vino al giorno, o 40 bicchieri di superalcolici. Un professionista. Scambiavo i miei incubi, fuochi e serpenti, con la realtà. Cercavo di uccidere l’ansia, di arrivare in cima al dolore: non ci sono mai riuscito”. Medici e psichiatri puntano il dito contro l’ipocrisia delle leggi. In Italia, ai minori di 16 anni, è vietata la somministrazione di alcol, ma non la vendita. Un’assurdità controproducente: ciò che è consentito alla commessa, a prezzo di paghetta, è precluso al barista, ad un costo da stipendio. Le aziende, a differenza della maggioranza dei Paesi europei, possono fare pubblicità. Sulle bottiglie non si scrive che l’eccesso “nuoce gravemente alla salute”, come sulle confezioni del tabacco. Negli uffici pubblici, ospedali compresi, il fumo è vietato ma l’alcol è a portata di mano: non si può acquistare, ma “assumere” sì. Concerti rock, mostre d’arte ed eventi sportivi sono sponsorizzati dalle industrie degli spiriti. La televisione martella con gli spot che spiegano come l’alcol sia il sigillo di successo, ricchezza, amore. Lo Stato, per contrastare ufficialmente l’alcolismo, investe gli spiccioli delle imposte sugli alcolici. Nessun ticket aggiuntivo, per gli alcolisti. Il licenziamento per giusta causa o le ferie forzate, se uno lavora nonostante la sbronza, sono vietati. Solo a Pordenone, da due anni, sindacati e imprese collaborano per un accordo anti-alcol sul lavoro. In autunno la Regione potrebbe essere la prima ad approvare un piano contro l’alcol alla guida e nei luoghi di lavoro. “L’82% delle persone con gravi problemi legati all’alcol – dice Rosanna Purich, psicoterapeuta del centro di alcologia di Trieste – considera però il proprio comportamento normale. Nelle scuole, medie e superiori, la bevanda preferita è il “Bacardi Breezer”, seguita dal “Campari Mixx”. Non si capisce più la differenza tra un’aranciata e una grappa. Siamo al killeraggio dell’offerta-studenti: come se uno che per divertirsi è obbligato a ubriacarsi, fosse normale”. Friuli e Venezia Giulia non sono l’epicentro della crisi di una nuova società “costretta all’alcolismo per restare in corsa”. Sono però, assieme a Veneto, Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna, la sconcertante punta dell’iceberg di un’emergenza nazionale prossima all’esplosione. L’allarme unisce medici, psichiatri e sociologi: l’Italia è alcolizzata perché è malata e soffre perché non crede più nei valori civili espressi dalla sua classe dirigente. “Dopo vent’anni di veti – dice la responsabile del Sert di Trieste, Roberta Balestra – in ottobre si terrà la prima conferenza nazionale sull’alcol. Per approvare la prima e inadeguata legge contro l’alcolismo, nel 2001, c’ è voluto mezzo secolo. Si insegna a “bere bene”, invece che a “bere meno”. Si tuona contro la “velocità assassina”, invece che contro la “bottiglia omicida”. Piuttosto che chiarire la causa, si criminalizza l’effetto. Nel frattempo le strutture che combattono l’alcolismo sono lasciate senza soldi e i servizi, senza personale, e chiudono”. A far riflettere, la diversa considerazione tra alcol e droga. Il primo è legale, tollerato e promosso. La seconda è illegale, demonizzata e rimossa. “La bottiglia – dice lo scrittore triestino Mauro Covacich – non richiede pusher. Anche un bambino può portarsela in giro e tracannare whisky alle feste di compleanno. Un litro di vodka costa pochi euro, non come una dose di coca. Lo trovi vicino alle patatine e nessuno ti sbatte dentro. Al Nord l’alcol è ormai l’ultimo collante della comunità dei normali che studiano, lavorano e producono: il loro estremo e tragico anestetico sociale”. Davanti alla strage in Friuli, timidamente e per la prima volta, si comincia così a discutere. La domanda è: se l’Italia non fosse uno dei principali produttori di vini pregiati e distillati di qualità, si userebbe il termine droga anche per l’alcol? Si chiamerebbe tossicodipendente anche un alcolizzato? Si definirebbe overdose una sbornia? “La differenza – dice l’alcologo giuliano Salvatore Ticali – in effetti non c’è. Se l’alcol dovesse essere iniettato con la siringa, o dovessimo importarlo, sarebbe vietato da anni. E’ chiaro che la pressione dei produttori italiani è decisiva. Si è iniziato a parlare di una legge contro l’alcol negli anni Settanta: in parlamento piovvero 800 emendamenti per bloccarla. In regione, anche alle ultime elezioni, si sono svolti comizi offrendo da bere gratis. Oggi chi nega che l’alcol sia una droga, deve assumersi le proprie, pesantissime, responsabilità. Il mondo politico, riluttante a informare e a investire nella prevenzione, rischia di macchiarsi di una storica omissione”. Non che, in termini assoluti, il consumo sia aumentato. Il problema è il suo devastante cambiamento. Si beve dalla prima adolescenza, con l’obbiettivo di ubriacarsi, per non essere diversi ma puntando ad isolarsi. “Esordienti dell’alcol – dice Anna Peris, responsabile regionale della direzione salute – ma con l’atteggiamento del vecchio alcolizzato. Nessuno li informa che bere sotto i 16 anni quadruplica le probabilità di ritrovarsi alcolizzati dopo i 21”. Si sballa più volte alla settimana e con bevande dolci in cui l’alcol è scientificamente nascosto. Così le femmine, da un paio d’anni, consumano quasi le stesse dosi di alcol dei maschi. Gli anziani, con pensioni da fame, abbandonati o nelle mani delle badanti, adottano la bottiglia quale alternativa all’eutanasia. “Uno scandalo – dice Anna Muran, medico dell’Asl di Trieste – misconosciuto. Le chiamate, dalle case di riposo, aumentano ogni giorno: c’è chi baratta la bistecca con lo spriz”. Tra Sauris e Ravascletto, nelle montagne della Carnia e tra i colli di San Daniele, i frequentatori degli alcolisti anonimi e di quelli in trattamento, superano pompieri volontari, ex alpini e parrocchiani. Un esercito: 250 tra gruppi e club, 3500 in cura, 358 associazioni mobilitate, centinaia di degenti e migliaia di curanti. Eppure, vicino alle discoteche, aprono i chioschi che possono vendere alcol anche ai ragazzini e dopo le 2 di notte. “Dal barbone sulla panchina – dice Franco Boschian, presidente dell’Acat di Udine – siamo però passati all’avvocato nel wine-bar. Gli alcolisti in trattamento non sono emarginati, ma persone normali: vescovi, generali, bambini, manager, medici, operai, preti, politici, mamme, studenti. Ricchi o miserabili, sono afflitti da un incubo comune: rivelare il loro stato ai conoscenti. Nelle serate degli incontri, tra province e città diverse, le colonne di auto sono sempre più lunghe”. Pino Roveredo, scrittore triestino di essenziale poesia, è tra i pochi che resistono. “Ho iniziato a 15 anni – dice – e a 17 ero in galera. Mi hanno definito “irrecuperabile”. Invece la scrittura è stata più forte della paura di vivere e mi ha salvato. Non mi impressiona l’alcolismo, ma la noia disperata che oggi lo alimenta. I ragazzi non vogliono più sentire i morsi dell’esistenza. Possibile che una simile emergenza non sia in cima all’agenda di un governo che trova il tempo di prendere le impronte a una manciata di zingari? L’accettazione sociale dell’alcol, in Italia, è incredibile”. E’ una notte marina e sugli spettri umani del centro alcologico residenziale, nel parco di San Giovanni a Trieste, soffia il vento che arriva dall’ex Jugoslavia. Ogni annullato è un reduce, un morto sopravvissuto a un lutto ideologico, culturale, o affettivo. Dino e Maura fumano. Siedono fuori dall’ingresso, sotto l’ombrello di quattro pini. “Ho bevuto per protesta – dice lei – mi sono fidata degli Intillimani”. Lui dice che ci è caduto “per non salire alla risiera di San Sabba, con il vino nelle vene per guardare nel fondo della fessura che ha inghiottito due millenni”. L’Italia che ha superato il Novecento e il Nordest che si cancella brindando all’incubo del suo ritorno: riflessi assieme, fiasco contro flut, in un doppio specchio. – GIAMPAOLO VISETTI

Trapianti

In IV stiamo finendo di parlare dei trapianti e allora vi metto un po’ di materiale utile, che in parte abbiamo già visto in classe:

  1. un manuale completo in modo che possiate sapere praticamente tutto
  2. un file sull’atteggiamento molto generale delle diverse religioni
  3. un articolo preso da L’espresso sul commercio di organi in Nepal e India
  4. un articolo preso da Internazionale sugli xenotrapianti

manuale.pdf

Trapianti e religioni.doc

Ho comprato un rene in Nepal.doc

Xenotrapianti (da Internazionale).doc

A 15 anni dalla morte di don Peppino

Quindici anni fa, la mattina del 19 marzo 1994, a Casal di Principe, in provincia di Caserta, i sicari della camorra uccisero don Giuseppe Diana. Pubblico questo articolo scritto da Roberto Saviano su Repubblica.

La mattina del 19 marzo del 1994 don Peppino era nella chiesa di San Nicola, a Casal di Principe. Era il suo onomastico. Non si era ancora vestito con gli abiti talari, stava nella sala riunioni vicino allo studio. Entrarono in chiesa, senza far rimbombare i passi nella navata, non vedendo un uomo vestito da prete, titubarono.

Chi è Don Peppino?

Sono io…

Poi gli puntarono la pistola semiautomatica in faccia. Cinque colpi: due lo colpirono al volto, gli altri bucarono la testa, il collo e la mano. Don Peppino Diana aveva 36 anni. Io ne avevo 15 e la morte di quel prete mi sembrava riguardare il mondo degli adulti. Mi ferì ma come qualcosa che con me non aveva relazione. Oggi mi ritrovo ad essere quasi un suo coetaneo. Per la prima volta vedo don Peppino come un uomo che aveva deciso di rimanere fermo dinanzi a quel che vedeva, che voleva resistere e opporsi, perché non sarebbe stato in grado di fare un’altra scelta.

Dopo la sua morte si tentò in ogni modo di infangarlo.

Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan. Appena muori in terra di camorra, l’innocenza è un’ipotesi lontana, l’ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. Persino quando ti ammazzano, basta un sospetto, una voce diffamatoria, che le agenzie di stampa non battono neanche la notizia dell’esecuzione. Così distruggere l’immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale. Don Diana era un camorrista titolò il Corriere di Caserta. Pochi giorni dopo un altro titolo diffamatorio: Don Diana a letto con due donne.

Il messaggio era chiaro: nessuno è veramente schierato contro il sistema. Chi lo fa ha sempre un interesse personale, una bega, una questione privata avvolta nello stesso lerciume. Don Peppino fu difeso da pochi cronisti coraggiosi, da Raffaele Sardo a Conchita Sannino, da Rosaria Capacchione, Gigi Di Fiore, Enzo Palmesano e pochi altri. Ricordarlo oggi – a 15 anni dalla morte – significa quindi aver sconfitto una coltre di persone e gruppi che pretendevano di avere il monopolio sulle informazioni di camorra, in modo da poterle controllare. Ricordarlo è la dimostrazione che anche questa terra può essere raccontata in modo diverso da come è successo per lungo tempo. Come dice Renato Natale, ex sindaco di Casal di Principe e amico di don Peppe, “è sempre complicato accettare l’eroismo di chi ci sta vicino, perché questo sottolineerebbe la nostra ignavia”. Don Peppino fu ucciso nel momento in cui Francesco Schiavone Sandokan era latitante, mentre i grandi gruppi dei Casalesi erano in guerra e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete che accompagna le bare dei ragazzi soldato massacrati dicendo “fatevi coraggio” alle madri in nero. A condannarlo fu ciò che aveva scritto e predicato. In chiesa, la domenica, tra le persone, in piazza, tra gli scout, durante i matrimoni. E soprattutto il documento scritto assieme ad altri sacerdoti: “Per amore del mio popolo non tacerò”. Distribuì quel documento il giorno di Natale del 1991. Bisognava riformare le anime della terra in cui gli era toccato nascere, cercare di aprire una strada trasversale ai poteri, l’unica in grado di mettere in crisi l’autorità economica e criminale delle famiglie di camorra.

“Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della Camorra. – scriveva – La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone con violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario, traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti…”.

La cosa incredibile è che quel prete ucciso, malgrado tutto, continuò a far paura anche da morto. Le fazioni in lotta di Sandokan e di Nunzio di Falco cominciarono a rinfacciarsi reciprocamente la colpa del suo sangue, proponendo di testimoniare la loro estraneità a modo loro: impegnandosi a fare a pezzi i presunti esecutori della banda avversaria. Oltre a cercare di diffamare Don Peppino, dovevano cercare di lanciarsi dei messaggi scritti con la carne, per togliersi di dosso il peso dell’uccisione di quell’uomo. Così come era stato difficile trovare i killer disposti a farlo fuori. Uno si ritirò dicendo che a Casale lo conoscevano in troppi, un altro accettò ma a condizione partecipasse pure un suo amico, come un bambino che non ha il coraggio di fare da solo una bravata. Nel corso della notte prima dell’agguato, uno dei killer tormentati riuscì a convincere un altro a rimpiazzarlo, ma il sostituto, l’unico che non sembrava volersi tirare indietro, era l’esecutore meno adatto. Soffriva di epilessia e dopo aver sparato rischiava cadere a terra in convulsioni, crisi, bava alla bocca. Con questi uomini, con questi mezzi, con queste armi fu ucciso Don Peppino, un uomo che aveva lottato solo con la sua parola e che rivoluzionò il metodo della missione pastorale. Girava per il paese in jeans, non orecchiava le beghe delle famiglie, non disciplinava le scappatelle dei maschi né andava confortando donne tradite. Aveva compreso che non poteva che interessarsi delle dinamiche di potere. Non voleva solo confortare gli afflitti, ma soprattutto affliggere i confortati. Voleva fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.

Scrisse: “La camorra chiama “famiglia” un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all’onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di “famiglia”, strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per “famiglia” si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l’amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, ad ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime (…) Non permettere che la funzione di “padrino”, nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l’onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale…”.

Questo è il lascito di Don Peppino Diana, un lascito che ancora oggi resta difficile accogliere e onorare. La speranza è nelle nuove generazioni di figli di immigrati, e nuovi figli di questo meridione, persone che torneranno dalla diaspora dell’emigrazione, emorragia inarrestabile. Il pensiero e il ricordo di Don Peppino sarà per loro quello di un giovane uomo che ha voluto far bene le cose. E si è comportato semplicemente come chi non ha paura e dà battaglia con le armi di cui dispone, di cui possono disporre tutti. E riconosceranno quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. Realmente, non come metafore. Una parola che è sentinella, testimone, così vera e aderente e lucida che puoi cercare di eliminarla solo ammazzando. E che malgrado tutto è riuscita a sopravvivere. E io a Don Peppino vorrei dedicare quasi una preghiera, una preghiera laica rivolta a qualunque cosa aiuti me e altri a trovare la forza per andare avanti, per non tradire il suo esempio, offrendogli le parole di un rap napoletano. “Dio, non so bene se tu ci sei, né se mai mi aiuterai, so da quale parte stai”.

Incenso o cannabis?

Visto che in II stiamo parlando di tossicodipendenze pubblico questo articolo uscito sul Corriere su un nuovo tipo di droga spacciata come incenso e di cui si è parlato a Trieste nell’ultimo weekend in occasione della Conferenza nazionale sulle politiche antidroga.

Nuova cannabis venduta come incenso

Gli esperti: difficile da identificare. Allarme dell’Istituto di sanità: fa più danni della marijuana naturale

TRIESTE — È venduto come incenso per profumare gli ambienti, viene comperato per essere fumato. Perché «Genie» (uno dei tanti nomi sotto i quali si nascondono mix di erbe aromatiche) contiene una nuova cannabis sintetica, molto più potente di quella naturale. Ed è in vendita negli smart shop italiani. L’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha appena scoperto, proprio in «Genie», un composto sconosciuto finora in Italia, che funziona come il Thc, o tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis. Quello che dà il piacere della droga. «Si chiama Jwh-018 — spiega Teodora Macchia dell’Iss che ha coordinato la ricerca — e stimola un recettore della cannabis che sta nel cervello. Questa sostanza appartiene a un gruppo di un centinaio di molecole che sono state studiate per la loro attività analgesica, ma che hanno poi rivelato un’azione simile a quella della cannabis. Sono di sintesi, non hanno niente a che fare con i prodotti naturali». Nel mix di erbe che vanno sotto il nome generico di «Spice » («speziate»: hanno, fra gli ingredienti, l’alchemilla vulgaris, la rosa gallica, e la leonotis nepetifolia, tanto per fare qualche esempio), la cannabis sintetica non ci è finita per caso. Esistono gruppi ben organizzati che producono queste sostanze da mescolare alle erbe e le erbe vengono poi vendute negli smart shop o nei negozi online. Sono le nuove droghe, difficili da identificare perché non c’è letteratura scientifica, perché non sono considerate droghe, e quindi non sono oggetto di sequestro, perché viaggiano su Internet e approdano su una grande quantità di siti ad altissima professionalità grafica per attrarre i giovani (in Italia, negli ultimi sei mesi, il numero di accessi ai siti Internet legati alla droga sono aumentati dal 40 al 60 per cento).

E, infine, perché ancora non esistono test di laboratorio capaci di identificarle, come hanno sottolineato a Trieste gli esperti che hanno partecipato alla «V Conferenza nazionale sulle politiche antidroga » organizzata dalla Presidenza del Consiglio. «Ci dobbiamo confrontare con una serie di nuove sostanze propagandate come legali — commenta Giovanni Serpelloni capo del Dipartimento per le Politiche antidroga —, ma che in realtà sono psicoattive. Sempre più spesso arrivano nei pronto-soccorso degli ospedali giovani con disturbi psicotici inspiegabili, a meno di non pensare all’uso di queste nuove droghe. Che, però, sono difficili da identificare proprio perché sono ancora poco conosciute, anche dai medici. E sono molto potenti ». «Siamo abituati a pensare alla marijuana che contiene 2-3% di principio attivo— aggiunge Macchia — e all’hashish che ne contiene il 7%, ma lo Skunk, ottenuto da un ibrido fra cannabis sativa e cannabis indica, arriva fino al 20%. Gli «Spice» hanno una potenza quattro-cinque volte superiore a quella della cannabis naturale. E il contenuto può variare da prodotto a prodotto, anche della stessa marca ». Per Gustavo Merola dell’Iss: «Gli Spice sono già stati proibiti in Germania, in Austria e da pochissimo anche in Francia».

Adriana Bazzi

Tempo di crisi: cosa ci dice Dante?

Quello che stiamo vivendo è sicuramente un periodo di crisi, economica ma non solo. Girovagando sulla rete ho trovato questo divertente pezzo di Pigi Colognesi su come Dante ha affrontato una crisi nell’Inferno.

La parola «crisi» è sulla bocca di tutti. Essa indica un dato di fatto innegabile, di fronte al quale è decisiva la posizione della persona.

Lo documenta un passaggio cruciale del viaggio di Dante nell’inferno. Quando il poeta giunge di fronte alle mura della città di Dite (alla fine del canto VIII) ha già visto un gran numero di dannati e osservato atroci pene. Ma ora gli si presenta una situazione del tutto nuova. Le porte della città sono chiuse e vigilate da stuoli di demoni. La sua guida, Virgilio, lo lascia solo per andare a parlamentare coi diavoli perché lascino libero il passaggio. Ma torna sconfitto: i custodi infernali si rifiutano di far proseguire i due pellegrini dell’oltretomba. È una situazione di «crisi», uno di quei momenti in cui le certezze su cui ci si appoggiava appaiono insufficienti per proseguire. Tanto che Dante si conferma che l’unica cosa da fare sia quella di tornare indietro, di rinunciare al cammino.

Il canto IX si apre, perciò, in un’atmosfera di paura e smarrimento. Sembra quasi, così interpreta Dante, che lo stesso Virgilio dubiti. Allora gli chiede, come a confermarsi di non aver riposto in lui una speranza vana, se mai avesse fatto il tragitto per il quale lo sta guidando. Tra le certezze che la crisi mette in discussione c’è quella su chi testimonia la possibilità stessa del cammino. È il dubbio più devastante.

Virgilio racconta di essere già stato fin nel fondo dell’inferno e, quindi, sollecita Dante a non temere. Il poeta fiorentino non è molto convinto, ma prima ancora che Virgilio abbia finito di parlare, Dante è distratto da nuove improvvise presenze che compaiono sulle mura ferrigne di Dite: sono le Furie. In esse la tradizione antica e medievale vedeva le varie forme del male e, insieme, il rimorso che perseguita chi ha sbagliato. Quasi a suggerirgli che è la propria debolezza morale a non permettergli nessun cammino positivo. Ma questo problema Virgilio lo aveva già sciolto all’inizio stesso del viaggio. Nel canto II, infatti, Dante aveva detto alla sua guida di non ritenersi degno di compiere lo stesso cammino che Dio aveva permesso a Enea e a san Paolo. Ma il poeta dell’Eneide gli aveva risposto che quel viaggio non gli era consentito per la sua dignità morale, ma perché «tre donne benedette» (Maria, santa Lucia e Beatrice) si erano preoccupate di lui e avevano mandato Virgilio stesso a guidarlo. Infatti ora, senza esitazione Virgilio dice a Dante di guardare bene in faccia le tre Furie e le addita addirittura per nome: non possono più nuocergli.

Ma le Furie hanno in riserva un’altra, più terribile arma. Esse invocano Medusa. E subito Virgilio ordina a Dante di abbassare la faccia, di non guardarla e lui stesso gli copre gli occhi con le sue mani. Medusa, infatti, la donna coi crini di serpente, è la personificazione della disperazione. Guardarla significa diventare di pietra, bloccarsi nell’impossibilità.

Solo dopo aver superato questa estrema tentazione che ogni momento di crisi porta con sé la situazione si sblocca. Preceduto dal vento e dal frastuono di un temporale, appare sulla scena un messo celeste. Senza dire neppure una parola ai due pellegrini ansiosi e impauriti, minaccia i diavoli per la loro «oltracotanza» e con una semplice «verghetta» apre quella porta che sembrava un ostacolo insormontabile. La disperazione della crisi è vinta; il cammino può riprendere.

Sull’amicizia

Nelle prime stiamo parlando di relazioni. Abbiamo dato anche un’occhiata a questo brano sull’amicizia. immaginemanico7.jpgRicordo a chi può interessare che “L’amico ritrovato” fa parte di una trilogia, per cui suggerisco di leggere anche “Niente resurrezioni per favore” e “Un’anima non vile”. Se qualcuno desiderasse leggerli è sufficiente che me lo dica, li posso prestare.

“Tutto ciò che sapevo, allora, era che sarebbe diventato mio amico. Non c’era niente in lui che non mi piacesse. […] Il problema era come attirarlo a me. Cosa dovevo fare per conquistarlo, chiuso com’era dietro le barriere della tradizione, dell’orgoglio naturale e dell’altezzosità acquisita? Senza contare che sembrava perfettamente soddisfatto di starsene solo e di non mescolarsi agli altri, che frequentava solo perché vi era costretto. Come attirare la sua attenzione, come fargli capire che io ero diverso da quella folla opaca, come convincerlo che io e solo io avrei dovuto diventare suo amico, erano tutti quesiti di cui non conoscevo la risposta. […] Tre giorni dopo, il quindici marzo – una data che non dimenticherò più – stavo tornando a casa da scuola. Era una sera primaverile, dolce e fresca. [… ] Davanti a me vidi Hohenfels; pareva esitare come se fosse in attesa di qualcuno. [… ] L’avevo quasi raggiunto, quando si voltò e mi sorrise. Poi con un gesto stranamente goffo ed imprecìso, mi strinse la mano tremante. «Ciao, Hans», mi disse e io all’improvviso mi resi conto con un misto di gioia, sollievo e stupore che era timido come me e, come me, bisognoso di amicizia. Non ricordo più ciò che mi disse quel giorno… e tuttavia io sentivo che quello era solo l’inizio e che da allora in poi la mia vita non sarebbe più stata vuota e triste, ma ricca e piena di speranza per entrambi.”

F. UHLMAN, L’amico ritrovato, Feltrinelli, Milano 1990, p. 23-30

La libertà secondo Gibran

In III stiamo parlando della libertà e allora posto un testo molto importante di Kahlil Gibran preso da Il Profeta.

E un oratore disse: Parlaci della Libertà.

E lui rispose: Alle porte della città e presso il focolare vi ho veduto, prostrati, adorare la vostra libertà, così come gli schiavi si umiliano in lodi davanti al tiranno che li uccide. Sì, al bosco sacro e all’ombra della rocca ho visto che per il più libero di voi la libertà non era che schiavitù e oppressione. E in me il cuore ha sanguinato, poiché sarete liberi solo quando lo stesso desiderio di ricercareprisonerofmyownbyshimoda75bm.jpg la libertà sarà una pratica per voi e finirete di chiamarla un fine e un compimento. In verità sarete liberi quando i vostri giorni non saranno privi di pena e le vostre notti di angoscia e di esigenze. Quando di queste cose sarà circonfusa la vostra vita, allora vi leverete al di sopra di esse nudi e senza vincoli. Ma come potrete elevarvi oltre i giorni e le notti se non spezzando le catene che all’alba della vostra conoscenza hanno imprigionato l’ora del meriggio? Quella che voi chiamate libertà è la più resistente di queste catene, benché i suoi anelli vi abbaglino scintillando al sole. E cos’è mai se non parte di voi stessi ciò che vorreste respingere per essere liberi? L’ingiusta legge che vorreste abolire è la stessa che la vostra mano vi ha scritto sulla fronte. Non potete cancellarla bruciando i libri di diritto né lavando la fronte dei vostri giudici, neppure riversandovi sopra le onde del mare. Se è un despota colui che volete detronizzare, badate prima che il trono eretto dentro di voi sia già stato distrutto. Poiché come può un tiranno governare uomini liberi e fieri, se non per una tirannia e un difetto della loro stessa libertà e del loro orgoglio? E se volete allontanare un affanno, ricordate che questo affanno non vi è stato imposto, ma voi l’avete scelto. E se volete dissipare un timore, cercatelo in voi e non nella mano di chi questo timore v’incute. In verità, ciò che anelate e temete, che vi ripugna e vi blandisce, ciò che perseguite e ciò che vorreste sfuggire, ognuna di queste cose muove nel vostro essere in un costante e incompiuto abbraccio. Come luci e ombre unite in una stretta, ogni cosa si agita in voi. E quando un’ombra svanisce, la luce che indugia diventa ombra per un’altra luce. E così quando la vostra libertà getta le catene diventa essa stessa la catena di una libertà più grande.

Crisi mondiale

Posto da www.ilsussidiario.net due articoli molto interessanti sull’economia, utili alle quinte ma non solo. Il primo è un articolo molto interessante di Mauro Bottarelli sulla crisi economica mondiale. Certo, il linguaggio è un po’ tecnico, ma penso valga la pena leggere il pezzo per capire che le avvisaglie della crisi hanno radici piuttosto lontane e che evidentemente a qualcuno sia convenuto far finta di niente… Il secondo articolo è invece un’intervista al corrispondente di Repubblica da Pechino Federico Rampini su come viene vissuta la stessa crisi economica mondiale in Cina. Buona lettura

Crisi economica. Il 9 agosto 2007.doc

La crisi economica in Cina.doc

Cane gatto

Pubblico una simpatica breve presentazione sull'”amicizia”

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La forza della vita

Posto un articolo di Claudio Risé comparso su Il Mattino di Napoli il 19 gennaio scorso

 

I bravi ragazzi ci sono ancora. Le loro buone azioni, però, fanno notizia per un solo giorno, diventano un breve spot pubblicitario sul «bene», per lasciar subito spazio alle consuete celebrazioni dei soliti «cattivi e cattive ragazze» che, come dicono molte pubblicità: «Vanno dappertutto».

Come mai questo diverso trattamento del sistema di comunicazione, che a parole deplora il male, ma poi non si occupa granché di chi lo contrasta, non presenta la sua vita come esempio per gli altri? Prendiamo la storia di Ermir.

Diciassette anni, vive e studia al quartiere Laurentino di Roma, dove è arrivato dall’Albania 10 anni fa con la mamma, che ha potuto allora ricongiungersi al marito, meccanico. Ermir qualche giorno fa ha rischiato di farsi ammazzare per difendere un compagno, aggredito sul campo di basket del liceo da tre bulli con coltello e pistola. Un fendente gli ha perforato il polmone; è grave, ma ce la farà.

«Non potevo restare fermo e lasciarlo solo», ha raccontato uscendo dalla sala operatoria, «volevano fare del male al mio amico». Questa è la visione della vita del bravo ragazzo: il male da contrastare, il bene da favorire, gli affetti, come, appunto, l’amicizia, da mettere sempre al primo posto. Una visione molto semplice, netta, senza tante storie e tanti ragionamenti.

Anche se non la conosce, né ci pensa, un ragazzo così mette in pratica istintivamente l’esortazione di Gesù nel vangelo di Matteo: «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il resto viene dal diavolo».

Forse è proprio per questa semplicità, così lontana dagli intorcinamenti pseudo psicologici dei trionfatori dei reality show, che il sistema delle comunicazioni punisce questi eroi di tutti i giorni, lasciandoli affacciare alla cronaca quando salvano la vita a qualcuno, ma poi condannandoli rapidamente al silenzio. Come si fa, infatti, a costruire una «tendenza» sulla semplice bontà?

Per fare tendenza ci vogliono (si pensa) cose complicate: bizzarrie sessuali, pettegolezzi, dispetti, carognate di cui i media possano parlare a lungo; raccogliendo testimonianze, personaggi di contorno; promuovendo consumi, gadgets, luoghi di ritrovo, meglio se un po’ ambigui e «maledetti».

Nel personaggio Ermir, invece, tutto questo manca. Qui non c’è nulla di superfluo, non ci sono optional. Una storia di autenticità: la lotta per la sopravvivenza nella povertà, il padre meccanico che viene da Durazzo a Roma, la famiglia che lo raggiunge, tutti che fanno la loro parte, con intelligente prontezza, e, di nuovo, senza far storie.

Ermir, per esempio, che è bravissimo a smontare e rimontare i motorini, per ora impara a scuola tutto quello che c’è da imparare, e poi farà l’ingegnere meccanico. Tutto semplice e lineare. Com’è caratteristico della forza vitale: una volta riconosciuta, e nutrita con gli affetti e le spinte elementari dell’esistenza (la fame, l’amore, la volontà di affermarsi per come si è), si sviluppa e si esprime. Il resto, il superfluo (che spesso è la materia prima dei commenti mediatici), qui manca del tutto.

Infatti, la forza è, da sempre, nelle cose, sentimenti e personaggi, semplici. «O sole mio», canzone tra le più amate e cantate in tutto il mondo, è semplicissima: «’O sole mio sta nfronte a te». Elementare, ogni innamorato lo pensa, da sempre.

«Non potevo restare fermo e lasciarlo solo, volevano fargli del male». Quintali di discorsi inutili polverizzati da un sentimento, e un comportamento conseguente. Persone così, fedeli alla forza elementare della vita, possono andare più lontano che da Durazzo a Roma: possono, con qualche rischio, costruire una vita felice.

La leggenda della “zingara rapitrice”

34711. ROMA-ADISTA. La ‘zingara rapitrice’? Un mito senza alcun fondamento: questi i risultati di una ricerca presentata lo scorso 10 novembre presso Radio Vaticana dalla Fondazione Migrantes. La ricerca, commissionata dalla Fondazione al Dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale dell’Università di Verona, si è articolata in due diversi studi: il primo – a cura di Carlotta Saletti Salza e ancora in corso di pubblicazione – volto a verificare quanti bambini figli di rom o sinti siano stati dati in affidamento e/o adozione a famiglie gagé (così i romanì chiamano i non romanì); il secondo – a cura di Sabrina Tosi Cambini, già edito con il titolo La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007) – incentrato sui presunti casi di tentata sottrazione di minori gagé da parte di rom.

I risultati sorprenderanno, forse, quanti in questi mesi hanno cavalcato l’“isteria collettiva” che ha portato, tra l’altro, al pogrom di Ponticelli (v. Adista n. 43/08): sui quaranta casi presi in esame da Sabrina Tosi Cambini nessuno si è concluso con una condanna per sequestro o sottrazione di persona (ci sono sì tre condanne, ma per tentato sequestro o tentata sottrazione di minore). Nessun bimbo gagiò scomparso è stato mai trovato tra rom o sinti. Il dato è sconcertante, ha affermato nel corso della conferenza stampa mons. Piergiorgio Saviola, direttore generale della Migrantes, “non tanto in riferimento agli zingari, quanto in riferimento a chi punta il dito verso di loro”: “Sarebbe reato, crimine infamante rapire un bambino, ma non meno infamante e criminoso è attribuire a qualcuno questa infamia senza averne le prove; atto criminoso forse non giudiziariamente perseguibile, che tuttavia grava pesantemente sulla coscienza”. Risultato ancor più inquietante se confrontato con i dati emersi dalla ricerca condotta da Carlotta Saletti Salza: “La scelta – spiega la ricercatrice – è stata quella di condurre una ricerca sull’affidamento e sull’adozione dei minori rom e sinti a partire dai dati relativi alle dichiarazioni di adottabilità registrati presso le sedi dei tribunali minorili”. L’analisi mostra la facilità con la quale “la tutela sociale (dei servizi di territorio) e civile (dell’Autorità Giudiziaria) scivolano nell’indifferenziare l’identità di un minore rom con quella di un minore maltrattato. Come se la cultura ‘altra’ potesse fare del male al bambino”. “L’intervento di tutela operato in molti contesti – continua la ricercatrice – diventa quindi quello di allontanare, togliere il minore dal suo contesto famigliare, per educarlo, come se la cultura rom non avesse un modello educativo o, per lo meno, come se la cultura rom non avesse un modello educativo valido. I concetti impliciti che precedono questa riflessione propria di molti operatori così come di molti magistrati minorili, vedono il bambino rom come soggetto di una situazione di pregiudizio solo e proprio perché è rom”. “L’antropologia – ha scritto il coordinatore della ricerca Leonardo Piasere nella presentazione al volume La zingara rapitrice – insegna da tempo che spesso una società crea dei miti che rappresentano il contrario di quanto avviene nella realtà”. “Il mito della zingara rapitrice fa pendant con un’altra denuncia, quella di rom e sinti che si vedono ‘sottratti’ i figli dai gagé. Ma quello non è un mito, è una realtà: inquietante e perciò censurata dai gagé e trasfigurata nel suo contrario: la zingara rapitrice”.

Anche il mensile Confronti ha ritenuto necessario, “in questo periodo di ‘strana euforia securitaria’”, un approfondimento sul tema e, con la collaborazione del Servizio Rifugiati e Migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei), ha realizzato un dossier, Mamma li zingari!, allegato al numero di ottobre: “Questo dossier – spiega il direttore di Confronti, Gian Mario Gillio -, è un breve viaggio alla scoperta di un popolo ricco di tradizioni, musiche, storie, e che da tempi lontani abita il nostro Paese, ma non solo: un popolo di pace, che non ha mai fatto la guerra a nessuno”. (ingrid colanicchia)

Immigrazione

Il tuo Cristo era ebreo
La tua scrittura è latina
I tuoi numeri sono arabi
La tua democrazia è greca
Il tuo player musicale è giapponese
Il tuo pallone è coreano
La tua playstation è di Hong Kong
La tua camicia è thailandese
Le tue stelle del calcio sono brasiliane
Il tuo orologio è svizzero
La tua pizza è italiana

E tu pensi ai lavoratori immigrati come stranieri da disprezzare?

Successo

Ti confesso che non m’interesso molto al successo ma appassionatamente al succede e al succederà. Il successo è un paracarro, una pietra miliare che segna il cammino già fatto. Ma quanto più bello il cammino ancora da fare, la strada da percorrere, il ponte da traversare verso l’imprevedibile orizzonte e la sorpresa del domani che hai costruito anche tu… 

Joyce Lussu

Amico

Un amico è qualcuno

che sa la canzone nel tuo cuore

e te la può cantare

quando ti sei dimenticato le parole.

                                               Proverbio africano

 

PDM in Somalia

Dal Corriere della Sera

Somalia: lapidata adultera, un parente la aiuta e nel conflitto a fuoco muore bimbo

Sentenza eseguita dalle Corti islamiche. Ma per i familiari non ha ricevuto un processo coranico equo

CHISIMAIO (SOMALIA) – Miliziani somali fedeli alle deposte Corti islamiche hanno giustiziato in pubblico una giovane donna accusata di adulterio, ricorrendo all’arcaico e macabro metodo della lapidazione: lo hanno denunciato testimoni oculari, secondo cui l’esecuzione è avvenuta nella tarda serata di lunedì a Chisimaio, città portuale situata circa 520 chilometri a sud-ovest di Mogadiscio, davanti a centinaia di spettatori, molti dei quali costretti ad assistervi, parenti della vittima compresi.

La ragazza si chiamava Asha Ibrahim Dhuhulow e aveva 23 anni; tradizionale velo verde sul capo, il volto coperto da un panno nero, è stata condotta sul luogo del supplizio a bordo di un furgone per poi essere massacrata. Ai presenti è stato detto che lei stessa aveva riconosciuto la propria colpa, e accettato il suo crudele destino: ma, al momento di essere trucidata, si è messa a urlare e a divincolarsi, mentre i carnefici la immobilizzavano legandole mani e piedi. A quel punto un congiunto le è corso incontro, tentando di aiutarla, ma gli integralisti di guardia hanno aperto il fuoco per fermarlo, e hanno ucciso un bambino. Secondo i familiari, Asha non ha ricevuto un processo coranico equo: «L’Islam», ha ricordato uno di loro, «non permette che una donna sia messa a morte per adulterio se non sono presentati pubblicamente l’uomo con cui ha avuto rapporti sessuali e quattro testimoni del fatto». I giudici fondamentalisti si sono però limitati a replicare che puniranno in maniera adeguata la guardia responsabile della morte del bimbo. È il primo episodio del genere di cui si abbia notizia in Somalia da due anni: da prima cioè che, alla fine del 2006, le truppe del governo transitorio di Mogadiscio sconfiggessero le Corti islamiche con il determinante appoggio militare dell’Etiopia. I ribelli hanno però intrapreso una guerriglia difficile da contrastare, e lo scorso agosto si sono reimpadroniti di Chisimaio, reimponendovi leggi ispirate alla più vieta concezione dell’Islam; in città, per esempio, è proibita qualsiasi forma di svago perchè considerata blasfema.

Rapporto Caritas 2008

E’ stato presentato proprio ieri 15 ottobre il rapporto Caritas su povertà ed esclusioni. Posto, dopo un breve ma interessante intervento, 2 begli allegati utili a tutti e non solo alle quinte in cui stiamo parlando di globalizzazione

LA QUESTIONE POVERTÀ NON È UN INCIDENTE DA POCO SVILUPPO

«Se si è perso tempo, in particolare negli ultimi anni, è anche perché si è dato credito a una tesi convincente e seducente: la povertà potrà essere ridotta grazie allo sviluppo economico. In sostanza: “maggiore sviluppo economico, maggiore redistribuzione dei vantaggi di tale sviluppo, quindi meno povertà”. Si tratta di una tesi che ha avuto, almeno fino al recente crack finanziario, un’indubbia capacità di convinzione e nello stesso tempo ha contribuito a rinviare un impegno responsabile per affrontare il problema».

Se questa tesi fosse vera, nel Paese che, pur con molte contraddizioni e fragilità messe a nudo dall’attuale crisi dei mercati finanziari, è ai primi posti dello sviluppo mondiale – gli USA – non dovrebbero esserci 13 milioni di bambini che vivono in condizione di povertà. Se consideriamo i bambini che vivono in famiglie povere e in famiglie a basso reddito, la percentuale passa dal 17% al 39%. «Se prendiamo in esame la condizione dei bambini poveri in quel paese negli anni dal 2000 al 2006, risulta che la povertà infantile è aumentata dell’11%, cioè 1.200.000 bambini si sono aggiunti ai già tanti costretti a crescere poveri ed emarginati (National Center for Children in Poverty, 2007). Se la tesi della riduzione della povertà, grazie allo sviluppo economico, avesse mantenuto le sue promesse, non dovrebbe essere così, anzi il contrario». Evidentemente «la questione povertà non è un incidente “da poco sviluppo”. È invece fortemente radicata nelle economie occidentali».

Vittorio Nozza, direttore Caritas Italiana, e Tiziano Vecchiato, direttore Fondazione Zancan

Sintesi rapporto caritas 2008 sulla povertà.pdf

Italia Caritas ottobre 2008.pdf

Mumble mumble

Nel libro “Tenebre su tenebre” di Ferdinando Camon a pag. 9 si leggono queste parole che mi sono tornate alla mente in questi giorni in cui si è riparlato di Eluana Englaro:38551527.jpg

“Di fronte ai casi di giovani o vecchi tenuti in vita in condizioni dì enorme sofferenza (sepolti in polmoni d’acciaio, in camere di rianimazione, intubati, con assistenza ininterrotta, diurna e notturna, tra strumenti e medicinali di ogni tipo), esseri umani che non possono né lavorare né godere ma soltanto soffrire, e che comunicano solo con uno sguardo, un sospiro, il silenzio, noi sentiamo che i medici curanti conducono una lotta meritoria, anche se si dovesse tradurre, come spesso succede, non nella guarigione, ma in un semplice prolungamento dell’esistenza per qualche settimana, qualche giorno, qualche ora, un minuto: in quel minuto è possibile che colui che è ancora vivo senta qualcosa che non aveva mai sentito, un pensiero, un’emozione, che scopra una novità: fosse pure che tutti vogliono salvarlo pur sapendo già che non ce la faranno che nessuno si arrende pur sapendo già che lui si è arreso: se egli se ne va con la sensazione che tutti vogliono trattenerlo mentre precipita, la sua vita è profondamente diversa da quella di chi precipita sentendo che tutti lo mollano e lo spingono.

Un mondo in cui gli altri ti aiutano anche quando non ce la fai più, è migliore del mondo in cui, se vuoi un’iniezione mortale, c’è il medico pronto con la siringa in mano.

Ma questo vale finché un filo, magari sottile, congiunge la corteccia cerebrale al sistema nervoso. Tagliato quel filo, è tagliata la vita. Il malato non è più tra noi, e non potrà tornare.

Il credente non vuole che al malato in stadio vegetativo da quindici anni si stacchi la macchina che lo nutre, perché la vita del malato è legata a un principio che la supera. Ma questa è fede, non è amore.

Il medico lascia che il malato muoia di fame e di sete, anche se ci mette settimane, perché non vuole infrangere la legge.

L’amico va al malato e gli da una morte dolce, istantanea e indolore.

Il credente ama Dio, il medico ama la scienza, solo l’amico ama l’amico.

Ma l’amico ama l’uomo e ama Dio: Dio ha deciso che quell’uomo deve finire, l’amico rispetta questa decisione e vi collabora.

Il credente che fa vivere il malato nell’incoscienza all’infinito non ha pietà del malato né dei famigliari né degli uomini in generale. Il medico che lascia morire il malato di morte naturale, per giorni e giorni, non ha pietà del malato né dei suoi parenti né di chiunque venga a conoscere quella morte. L’amico che uccide il malato dolcemente ha pietà dell’amico, e avendo pietà dell’amico ha pietà di sé stesso e della condizione umana.”

Giornata europea contro la pdm

1167237398.jpg10 ottobre 2008: s’intitola “La pena di morte nel mondo – I FATTI PIÙ IMPORTANTI DEI PRIMI NOVE MESI DEL 2008” il dossier che Nessuno tocchi Caino ha presentato in occasione della Giornata europea contro la pena capitale.

L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre dieci anni, si è confermata anche nei primi nove mesi del 2008, rileva l’Associazione.

I paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 150. Di questi, i paesi totalmente abolizionisti sono 95; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 7; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 4; i paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 44.

I paesi mantenitori della pena di morte sono 47. Nei primi nove mesi del 2008, è diminuito il numero di paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali: sono stati 18, a fronte dei 26 del 2007 e dei 28 del 2006.

Nei primi nove mesi del 2008, vi sono state almeno 5.454 esecuzioni, a fronte delle almeno 5.851 del 2007 e delle almeno 5.635 del 2006. Una diminuzione significativa rispetto allo stesso periodo del 2007, dovuta sicuramente alla approvazione, il 18 dicembre 2007, della risoluzione delle Nazioni Unite sulla moratoria universale delle esecuzioni capitali.

Dei 47 mantenitori della pena di morte, 38 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In 18 di questi paesi, nei primi mesi del 2008, sono state compiute almeno 5.409 esecuzioni, oltre il 99% del totale mondiale. A ben vedere, in tutti questi paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.

Sul terribile podio dei primi tre paesi che nei primi mesi del 2008 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo figurano, come nel 2007, tre paesi autoritari: la Cina , l’Iran e l’Arabia Saudita.

Le democrazie liberali che nei primi mesi del 2008 hanno praticato la pena di morte sono state 4 e hanno effettuato in tutto 45 esecuzioni, meno dell’1% del totale mondiale: Stati Uniti (24), Giappone (13), Indonesia (almeno 7) e Botswana (almeno 1). Esecuzioni potrebbero essere avvenute anche in Mongolia, anche se non risultano dati ufficiali.

Ancora una volta, l’Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se contiamo che in Cina vi sono state almeno 5.000 esecuzioni (anche se diminuite rispetto all’anno precedente), il dato complessivo dei primi nove mesi del 2008 nel continente asiatico corrisponde ad almeno 5.410 esecuzioni, in netto calo rispetto al 2007 quando erano state almeno 5.782 e al 2006 quando erano state almeno 5.492.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, dopo che nel 2007 il New Jersey è diventato il primo Stato Usa in quarant’anni ad abolire la pena di morte, l’Illinois, per il nono anno consecutivo, ha rispettato la moratoria delle esecuzioni. I dubbi sul metodo dell’iniezione letale hanno investito della questione la Corte Suprema e di fatto portato ad una sospensione delle esecuzioni in molti stati che è iniziata nel settembre del 2007 e si è protratta per otto mesi fino a maggio 2008. Questo ha fatto sì che le esecuzioni nei primi nove mesi del 2008 siano state “solo” 24, mentre nel 2007 erano state 42, il numero più basso degli ultimi 14 anni.