Confesso a Dio onnipotente

Conoscere se stessi significa avere il coraggio di guardarsi allo specchio senza ingannarsi, senza indossare maschere, senza far finta di essere quel che non si è, senza negare gli errori che commettiamo, riconoscendoli come sbagli o come peccati. E questo riconoscersi ha una valenza che si apre dal mondo personale al mondo sociale. Allora posto questo articolo di Vito Mancuso comparso su “Diario” di Repubblica http://www.vitomancuso.it/stampa/2010/Peccato%2020.05.10.pdf

“Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato”. Queste parole, seconde solo al saluto del celebrante e alla relativa risposta, si trovano all’inizio della messa cattolica. La liturgia in questo modo fa sì che ogni fedele percepisca se stesso anzitutto come peccatore, anzi, come uno che ha “molto” peccato. Le occasioni nella vita del resto non mancano, sono “pensieri, parole, opere e omissioni”, e più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, più si percepisce il male che opprime la coscienza.ecc128085e7a61b63314a9625b0de94bjpeg.jpg

Forse per questo Søren Kierkegaard, dando voce a una tradizione millenaria, scriveva nell’Esercizio del cristianesimo del 1850 che «l’unica porta d’ingresso al cristianesimo è la coscienza del peccato”, non senza aggiungere di suo che lo scrupolo è «una categoria eminentemente cristiana». Io non sono d’accordo con questa impostazione, detta tecnicamente amartiocentrismo (amartía è l’equivalente greco di peccato), ma non posso fare a meno di notare che essa ha avuto e continua ad avere un largo seguito sia nel cattolicesimo sia nel protestantesimo dove, ben prima di Kierkegaard, Lutero insegnava “pecca fortiter sed crede fortius” (pecca forte, ma più forte credi) legando all’esperienza del peccato lo stesso atto di fede. Contro questo cristianesimo amartiocentrico, per lui l’unico possibile, Nietzsche intraprese un titanico combattimento speculativo che lo portò a una filosofia senza morale, al sogno di poter entrare in un territorio “al di là del bene e del male” (il saggio omonimo è del 1886). Mentre sono convinto che la pars construens della filosofia nietzschiana sia insostenibile perché un tale territorio vergine privo di dimensione etica non esiste, sono altrettanto convinto che la sua pars destruens abbia svolto e debba ancora svolgere un’azione salutare con l’abbattere ancestrali e dannosi complessi di colpa. Il principale merito di Dietrich Bonhoeffer e della teologia preannunciata nelle sue lettere dal carcere nazista pubblicate col titolo Resistenza e resa consiste proprio nella ricezione della ribellione nietzschiana contro l’inquietante senso del peccato e della colpa (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa) inteso quale condizione preliminare della fede cristiana. Senza Nietzsche, Bonhoeffer non avrebbe mai sostenuto, soprattutto lui che era luterano, che «Dio non è un tappabuchi, non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita, nella vita, nella salute e nella forza».

Ciononostante l’esperienza del peccato permane, perché la terra promessa da Nietzsche di una vita al di là del bene e del male, non esiste. Per noi uomini tutto, qui e ora, è “al di qua” del bene e del male. C’è una politica buona e una politica che non lo è. C’è un’economia buona, e una che non lo è. C’è una cronaca buona, e una che non lo è. A partire dalle più elementari esperienze della vita quali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino alle più elevate produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell’uomo è sempre invalicabilmente “al di qua” del bene e del male. La libertà dell’uomo esiste, ed esistendo opera, e quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione del vivere. Volenti o nolenti, siamo rimandati all’esperienza del peccato. Il concetto di peccato infatti è sorto nella coscienza etica e spirituale di tutta l’umanità in seguito allo sforzo della mente di catalogare le azioni che contribuiscono alla diminuzione del grado di ordine (armonia, salute, bene) in relazione agli altri e a se stessi. Si spiegano così gli elenchi dei peccati e i cataloghi dei vizi che il pensiero ha stilato, ragionando ora secondo l’oggetto come avviene nel caso dei peccati (omicidio, furto, adulterio…), ora secondo la disposizione soggettiva come nel caso dei vizi (ira, gola, lussuria…).

Si aprirebbe a questo punto una questione senza fondo: perché, così spesso, l’uomo è attratto non dal bene ma dal male, non dall’ordine ma dal disordine? Fin dalla notte dei tempi questo interrogativo incombe sul pensiero. La dottrina cattolica vi risponde mediante il dogma del peccato originale, che ha il merito di segnalare il problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e moralmente indegna. Ha scritto Kant al riguardo nel suo mirabile saggio sul male radicale nella natura umana del 1792: «Qualunque possa essere l’origine del male morale nell’uomo, non c’è dubbio che… il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori». Rimane da chiedersi come la coscienza contemporanea percepisca oggi il peccato, e come possano anche i non credenti arrivare lo stesso a dire “confesso a voi fratelli che ho molto peccato”. Penso infatti che il ritrovarsi inadempienti di fronte all’imperativo etico sia inevitabile in chiunque conosca se stesso e che la percezione delle proprie colpe abbia precise implicazioni sociali. Penso altresì, però, che la dimensione giuridica che ritrascrive il peccato mediante il concetto di reato non sia sufficiente a esprimere tutta la densità umana del fenomeno. Come la legalità è solo una pallida immagine della giustizia, così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione che manifesta la coscienza del peccato. Forse chi ha espresso al meglio questa dialettica è stato Dostoevskij in Delitto e castigo, il romanzo che nel 1866 inaugura il ciclo narrativo che l’ha reso immortale.

Globalizzazione e religioni

Posto questo articolo che ho trovato su http://www.ffwebmagazine.it/ffw/page.asp?VisImg=S&Art=5954&Cat=1&I=immagini/Foto%20R-T/rising_sun1_int.jpg&IdTipo=0&TitoloBlocco=Cultura&Codi_Cate_Arti=28 . Penso che possa essere interessante soprattutto per le quinte: non si sa mai un testo allo scritto di italiano…

 

La religione può costruire una globalizzazione più umana?

di Giulio Battioni

“Jacques Derrida lo aveva intuito: «la religione è una questione inquieta ma è anche la questione delle questioni». Già, proprio così. Il revival del fenomeno religioso è la costante anomala del processo di globalizzazione. L’odierno scenario pubblico internazionale è infatti contrassegnato dal grande protagonismo delle religioni, un protagonismo che smentisce il pronostico illuministico e marxista per il quale la modernità e la secolarizzazione avrebbero definitivamente consumato l'”oppio dei popoli”. Al contrario, sembra che della religione i popoli non vogliano proprio fare a meno e, anzi, pare che continuino a gustarne le consolazioni e i vantaggi, al di là di qualche inedito “effetto stupefacente” provocato dalla sua mistificazione ideologica.

Le religioni sono oggi vive, vegete e in discreta espansione. Il mondo globalizzato e post-ideologico del nostro tempo assegna alla religione un ruolo pubblico considerevole, l’importante funzione sociale di unire aggregati umani sempre più complessi e di mediare fra domande di senso, stili di vita e culture diverse. Il pluralismo culturale e religioso è il dato strutturale dell’era globale, un’epoca dominata da grande fluidità, incertezza, instabilità. Se nei paesi in via di sviluppo la religione costituisce un fattore permanente di mobilitazione sociale, nei paesi industrializzati avanzati, pur dissipandosi le percezioni culturali e identitarie della religione, non è certo marginale il suo positivo, naturale contributo alla vita associata. Certo, non mancano le circostanze polemiche. Si pensi all’obbligo o al divieto del burqa, a seconda dei confini geografici in cui ci si trova. Ma dalla laicità alla libertà religiosa, dalla bioetica alla giusta applicazione della pena negli ordinamenti legali-giudiziari, dalla pace fra i popoli alla tutela dei diritti umani, la religione offre un contributo di giustizia sociale e progresso umano insostituibile.

Potrebbe essere questa la sintesi dei lavori della conferenza internazionale Religions, Cultures, Human Rights: Complex Relations in Evolution, svoltasi presso il Ministero degli Affari esteri, sotto l’Alto patronato del presidente della Repubblica e con l’adesione di alcune tra le più importanti personalità della diplomazia, delle istituzioni religiose e della comunità universitaria di tutto il mondo. Ebrei, musulmani, sikh, buddhisti, cristiani evangelici e cattolici, rappresentanti di centri culturali, forum di idee, istituzioni pubbliche e organizzazioni non governative, dall’Accademia delle Scienze Umane e Sociali ad Amnesty International, dall’Unesco a Religions for Peace, da CasaAfrica all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, hanno animato una intensa due giorni di seminari, relazioni, dibattiti.

La ricerca sociale applicata ha dimostrato che le religioni sono sempre più presenti nella realtà internazionale perché la globalizzazione acuisce qual desiderio di verità e speranza intrinseco alla natura umana. La sociologia si ferma alla superficie dei dati empirici limitandosi a una diagnosi in cui la mondializzazione dei processi economici, il ruolo decrescente degli Stati nella strutturazione delle relazioni tra i popoli, la rivoluzione cognitiva determinata dalla tecnica, l’estrema mobilità-ubiquità-velocità delle possibilità di conoscenza ed esperienza umana hanno creato un circolo vizioso di aspettative-frustrazione-alienazione rispetto al quale la religione, una religione non meglio identificata, dovrebbe riuscire a porre un freno. Questo, almeno, nelle società occidentali.

Altrove, la religione si configurerebbe come fattore d’identificazione e coesione sociale, laddove alle necessità della naturale socievolezza umana si aggiungono “costruzioni” culturali e antropologiche legate alla tradizione primitiva o alla ideologia politica moderna. Ma anche in questo caso la sociologia resta nel vago. La filosofia e il diritto, forme di sapere più realistiche, guardano alla religione con maggiore profondità. La religione non è un semplice fenomeno sociale ma, come parte costitutiva dell’essere umano, del suo desiderio di salvezza, purificazione e trascendenza, ha una base antropologica. Inoltre, la storia delle religioni mostra come una forma spirituale, più di altre, ha introdotto un punto di non ritorno decisivo anche per la storia politica e giuridica internazionale.

La secolarizzazione della religione infatti, cioè la desacralizzazione e la neutralizzazione della violenza originaria delle religioni antiche, così come il superamento degli universalismi teocratici medievali, è stata la grande cesura introdotta dalla teologia biblica e dal monoteismo giudaico-cristiano. Le guerre di religione che in nome della Bibbia e del Vangelo sono state praticate nei secoli passati non sono che il tradimento di una rivelazione che fa dell’equilibrio tra fede e ragione, tra carità e verità dell’uomo una conquista e una profezia. Soltanto il monoteismo giudaico-cristiano e la Trinità cattolica “liberano” le religioni del loro contenuto sacrale, il sacrificio violento di una vittima, per dirla alla maniera di René Girard, su cui si fondano le civiltà pagane e i naturalismi religiosi a-teistici.

Come scrisse anche Emmanuel Lévinas, il monoteismo non unifica, né gerarchizza gli dèi, cioè le religioni naturali, ma li nega, neutralizzandone il potenziale disumanizzante. Riconoscendo la natura personale di Dio, il cristianesimo impedisce che la secolarizzazione si ritorca contro se stessa, inciampando nella disumanizzazione fondamentalista o nell’indifferenza laicista, e fonda il diritto e la relazione tra le culture particolari sull’universale dignità della persona umana.”

Il paradiso del samurai

Un breve racconto per fare un passo oltre l’egoismo

Dopo una lunga ed eroica vita, un valoroso samurai giunse nell’aldilà e fu destinato al paradiso. Era un tipo pieno di curiosità e chiese di poter dare prima un’occhiata anche all’inferno.
Un angelo lo accontentò e lo condusse all’inferno.
Si trovò in un vastissimo salone che aveva al centro una tavola imbandita con piatti colmi di pietanze succulente e di golosità inimmaginabili. Ma i commensali, che sedevano tutt’intorno, erano smunti, pallidi e scheletriti da far pietà.
«Com’è possibile?», chiese il samurai alla sua guida. «Con tutto quel ben di Dio davanti!».SAMURAI.jpg
«Vedi: quando arrivano qui, ricevono tutti due bastoncini, quelli che si usano come posate per mangiare, solo che sono lunghi più di un metro e devono essere rigorosamente impugnati all’estremità. Solo così possono portarsi il cibo alla bocca».
Il samurai rabbrividì. Era terribile la punizione di quei poveretti che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a mettersi neppur una briciola sotto i denti.
Non volle vedere altro e chiese di andare subito in paradiso.
Qui lo attendeva una sorpresa. Il Paradiso era un salone assolutamente identico all’inferno.
Dentro l’immenso salone c’era l’infinita tavolata di gente; un’identica sfilata di piatti deliziosi.
Non solo: tutti i commensali erano muniti degli stessi bastoncini lunghi più di un metro, da impugnare all’estremità per portarsi il cibo alla bocca.
C’era una sola differenza: qui la gente intorno al tavolo era allegra, ben pasciuta, sprizzante di gioia.
«Ma com’è possibile?», chiese il samurai.
L’angelo sorrise. «All’inferno ognuno si affanna ad afferrare il cibo e portarlo alla propria bocca, perché si sono sempre comportati così nella vita. Qui, al contrario, ciascuno prende il cibo con i bastoncini e poi si preoccupa di imboccare il proprio vicino».
Paradiso e inferno sono nelle tue mani. Oggi.

Una sana e lunga vita mortale?

Brian May ha scritto per i Queen la canzone “Who wants to live forever” che mi è venuta alla mente leggendo questo articolo pubblicato su Dimensioni Nuove http://www.dimensioni.org/maggio10/articolo8.html 

 

“Who wants to live forever?” cantavano i Queen qualche anno fa. E chi non ricorda i film come Cocoon, oppure The Fountain, o Highlander? Pare che vivere almeno 120 anni sia ormai alla portata di tutti. Infatti, la medicina “anti-aging”, quella che combatte l’invecchiamento, sta tornando a far parlare di sé. Perché nasce dalle conoscenze del Dna e si pone l’obiettivo di mantenere il più a lungo possibile la giovinezza delle nostre cellule per prevenire le malattie degenerative legate all’invecchiamento, con il risultato di aumentare la durata della vita. Negli ultimi 20 anni i progressi della medicina, soprattutto nella cura delle malattie cardiovascolari e dei tumori, hanno contribuito ad allungare di due anni la vita media degli italiani: le donne hanno superato la soglia degli 82 anni, gli uomini si stanno avvicinando a quella dei 77. Va chiarito subito che la scienza non si interessa all’immortalità. L’obiettivo non è allungare la durata della vita, ma la durata della sua qualità, cioè intervenire non sul tempo dell’esistenza, ma sul tempo senza malattia. La storica scoperta del professor Pier Giuseppe Pelicci sul “gene 66”, cioè che la durata della vita umana è scritta nei nostri geni, è stata accolta come la ricetta per la vita eterna. In realtà, le indagini molecolari che sta sviluppando all’Istituto Europeo di Oncologia mirano a ridurre il peso delle malattie degenerative come il cancro, l’Alzheimer e il Parkinson. DN lo ha incontrato alla Quinta Conferenza sul Futuro della Scienza, organizzata dalla Fondazione Cini di Venezia.

Prof. Pelicci, perché moriamo?

Morire è biologicamente necessario: è parte del programma di ogni cellula ed è, per me, anche un nostro “dovere biologico”, perché significa lasciare posto a nuove generazioni, sempre più forti, che possono contribuire all’evoluzione. Tuttavia, non vedo perché “eticamente” dovremmo opporci a un prolungamento della vita, in condizioni di lucidità di pensiero e autonomia fisica. Oggi abbiamo moltissime informazioni sull’invecchiamento e la biologia molecolare ci permette di ipotizzare che il controllo sulla vecchiaia, intesa come fenomeno cellulare, sia un traguardo raggiungibile. Se una persona è messa in grado di godere della propria esistenza, non c’è ragione di temere un mondo più longevo.

Ma come possiamo arrivare fino a quella età? Riusciremo a mantenerci in buone condizioni?

La ricerca sta arrivando a decodificare i geni preposti all’invecchiamento, per capire come bloccarli. Bisogna dire, però, che questo tipo di studi non è finalizzato all’eterna giovinezza. Punta, prima di tutto, a curare i mali che accorciano o rovinano la vita. Dal cancro all’Alzheimer. Ed è qualcosa di realisticamente raggiungibile. Me lo sono detto quando, nel 1999, sono incappato in uno dei geni dell’invecchiamento: si chiama p66shc. Ebbene, ho scoperto con la mia équipe che, senza quel gene, i topi vivevano il 35% in più. La notizia ha fatto scalpore: lo studio è finito in copertina sulla rivista scientifica Nature e anche i giornali italiani ne hanno parlato, pensando alla tappa successiva: l’uomo.

Perché gli animali di laboratorio diventavano più longevi?

Ci siamo resi conto che riuscivano ad arginare molto meglio quei danni che fanno invecchiare la cellula e la fanno degenerare, innescando patologie come tumore, demenza senile, infarto, arteriosclerosi. Si capisce, dunque, come il ruolo della ricerca sia duplice: allungare la vita e, soprattutto, eliminare le malattie degenerative.

Invecchiamo per colpa del gene p66shc?

Dopo tanto lavoro, siamo arrivati a nuovi risultati, pubblicati sulla rivista Cell. Abbiamo scoperto il meccanismo di funzionamento del p66 e il motivo per cui nell’organismo esiste un gene che lo danneggia e lo fa invecchiare. La proteina p66, che ha lo stesso nome del gene, favorisce la produzione di acqua ossigenata da parte dei mitocondri, che propongono gran parte dell’energia necessaria alla cellula. L’acqua ossigenata è molto reattiva e induce danno a proteine, lipidi e Dna: quello che si chiama stress ossidativo. La cellula si difende attivando meccanismi di riparazione o, addirittura, un programma di suicidio. Se tutto questo non avviene, degenera e può, per esempio, innescare un tumore.

Qual è la funzione del p66?

Durante l’invecchiamento si ha un aumento progressivo dello stress ossidativo. Come mai? Colpa anche del p66, che induce a produrre acqua ossigenata. E perché fa questo? Per regolare funzioni biologiche come il metabolismo degli zuccheri e il mantenimento della temperatura corporea. Infatti, nelle cellule, questi processi sono sottomodulati dalle concentrazioni di acqua ossigenata. La cellula, per sopravvivere, ha bisogno di energia e l’energia viene prodotta al suo interno da una sorta di centralina elettrica: il mitocondrio. Tutto avviene attraverso uno scambio di elettroni, che corrono da una proteina all’altra fino all’ossigeno. È come l’elettricità in un filo che va verso la lampadina e l’accende. Ogni tanto, uno di questi elettroni salta via dal percorso e va a reagire con l’ossigeno anzitempo, producendo alla fine acqua ossigenata. Gli scienziati hanno sempre pensato che la sua formazione fosse un prezzo da pagare: l’uomo spende energia, la produce mediante la cosiddetta respirazione cellulare, la recupera mangiando e respirando, con un costo finale obbligato che è di acqua ossigenata. Una sorta di rifiuto tossico, causa di malattie e invecchiamento. In realtà, non è solo così: esistono proteine nelle cellule che, per mestiere, prendono gli elettroni dalla catena energetica e formano acqua ossigenata. Una delle proteine è quella prodotta dal gene p66. Ecco la nostra scoperta.

Fra quanto tempo sarà completata la vostra scoperta?

Fra non molto potremo essere facilmente ultracentenari e in forma. Siamo programmati per vivere 120 anni, è scritto nel nostro Dna, a prescindere da malattie e incidenti la nostra durata è fissata. L’obiettivo non è l’immortalità ma vivere più a lungo e più giovani, ammalandosi meno.

Maria & Enrico Marotta

 

Alle origini della religione

In prima abbiamo visto una presentazione in ppt sull’origine delle religioni, sul senso del mistero, sulle domande di senso. Posto l’estratto in word di quella presentazione con alcune piccole aggiunte.

Alle origini della religione.doc

Questioni di dialogo

FATHER & SON (Dall’album “Tea for the tillerman”, Cat Stevens)

Questa vecchia canzone sta ormai attraversando le generazioni, grazie anche a una versione remix che l’ha fatta conoscere anche a persone più giovani; parla del difficile dialogo tra un padre e il proprio figlio.

cat-stevens.jpgNella I, II e IV strofa è il genitore a parlare, a invitare il figlio a prendere le cose con calma, a non avere premura, a non affrettare i propri passi. Riconosce che non è facile “rimanere calmi quando hai trovato qualcosa che funziona”, tuttavia mette in guardia il figlio e lo fa con una frase molto interessante: “per te sarà ancora qui il domani, ma forse non i tuoi sogni”.

E’ una frase bella e che potrebbe  piacere pure al figlio: invita a conservare i sogni, a mantenerli in vita. Fa paura l’ipotesi di un domani senza sogni, senza quei pensieri belli e carichi di aspettative di cui soprattutto i figli sono capaci. Sono parole che vanno in controtendenza rispetto a un mondo che ci fa fare ogni giorno i conti con la realtà e ci dice continuamente di stare con i piedi per terra.

Al padre risponde il figlio, un figlio arrabbiato che usa parole cariche di astio e rancore. Non entro nella dinamica del rapporto tra i due, ma osservo semplicemente ciò che il ragazzo lamenta. Non si è sentito ascoltato; ha provato a spiegare, ma ha poi concluso che era meglio tenere tutto dentro (ma è la soluzione giusta…?). Ha infine scoperto l’esistenza di una sua strada e ha deciso che è venuto il tempo di andarsene: “Dal momento in cui potevo parlare, mi fu ordinato di ascoltare. Ora c’è una strada e so che devo andarmene”.

E allora, sulla spinta di questa canzone potremmo interrogarci sul rapporto genitori-figli, sulla necessità ma anche sulla difficoltà di dialogo. E pure sul rapporto giovani-adulti, sulla ricerca del loro riconoscimento reciproco: a tal proposito un esempio biblico. Gesù, da ragazzino, si ferma a parlare nel tempio con i dottori della legge e questi si stupiscono per la sua arguzia e la sua intelligenza. Se lui non si fosse posto in tal maniera, non sarebbe stato ascoltato. E’ allora necessario, a mio avviso, chiedersi se si debba arrivare a questo: devo obbligare l’altro a venire sul mio piano per rendere possibile il dialogo? Devo costringere i giovani alla seriosità per parlare agli adulti? Devo costringere mamma e papà ad ascoltare i 50 cent o i Coldplay per riuscire a interagire con i figli? Devo costringere i giovani all’alfabeto ecclesiastico per parlare di Dio? Devo costringere la Chiesa agli slang per parlare ai giovani? Dove si possono incontrare?

 

Father

It’s not time to make a change,

Just relax, take it easy.

You’re still young, that’s your fault,

There’s so much you have to know.

Find a girl, settle down,

If you want you can marry.

Look at me, I am old, but I’m happy.

I was once like you are now, and I know that it’s not easy,

To be calm when you’ve found something going on.

But take your time, think a lot,

Why, think of everything you’ve got.

For you will still be here tomorrow, but your dreams may not.

 

Son

How can I try to explain, when I do he turns away again.

It’s always been the same, same old story.

From the moment I could talk I was ordered to listen.

Now there’s a way and I know that I have to go away.

I know I have to go.

 

Father

It’s not time to make a change,

Just sit down, take it slowly.

You’re still young, that’s your fault,

There’s so much you have to go through.

Find a girl, settle down,

if you want you can marry.

Look at me, I am old, but I’m happy.

 

Son

All the times that I cried, keeping all the things I knew inside,

It’s hard, but it’s harder to ignore it.

If they were right, I’d agree, but it’s them you know not me.

Now there’s a way and I know that I have to go away.

I know I have to go.

 

Il dono del cervo

Cosa c’entra una canzone che può essere intesa come una presa di posizione contro la caccia con l’argomento della religiosità? Il brano “Il dono del cervo” di Angelo Branduardi racconta la storia di un cervo che incontra un cacciatore e gli dice «Aspetta, non tirare, perché io sto per morire e ti regalo sette pezzi del mio corpo, così per sette volte rivivrò». Probabilmente, adesso, la nostra è la stessa impressione che ebbe Angelo Branduardi quando, alla fine di un suo concerto a L’Aquila, venne avvicinato da una suora: «Complimenti per la canzone sulla risurrezione». Branduardi tentò di spiegare che forse la suora stava sbagliando cantante, ma ella intendeva proprio la canzone del cervo.

Tutta questa premessa mi serve per dire che molte esperienze, in particolare nell’ambito religioso e spirituale, sono significative per le persone che le vivono e la percezione di esse cambia molto da soggetto a soggetto. Un’esperienza positiva per un gruppo (che ne so, immaginiamo un ritiro spirituale), può essere molto meno positiva per un altro. Non solo; penso che oggi questa differenza percettiva scenda dal livello del gruppo al livello delle singole persone che compongono quel gruppo. Un gruppo funziona se le singole persone che lo formano si sentono soddisfatte da un punto di vista personale: insomma, il gruppo non copre, non risolve più le magagne personali, anzi tende a farle emergere e a lasciarne la soluzione alla persona o al massimo al coordinatore. Lo stesso accade anche nel gruppo-chiesa o comunità locale. L’esigenza primaria che deve essere soddisfatta, almeno a livello giovanile, penso sia quella del soddisfacimento personale: attenzione, non voglio ricoprire di un’accezione negativa il termine soddisfacimento. Voglio solo intendere che se qualche tempo fa la realizzazione del giovane era prima a livello di gruppo e poi a livello personale, ora ho la sensazione che avvenga l’esatto contrario: se manca il soddisfacimento personale, è molto difficile che ci sia una buona esperienza di socializzazione.
Ciò, a mio avviso, comporta vantaggi e svantaggi. Un indubbio vantaggio è che i giovani che stanno facendo una buona esperienza di fede siano convinti di quel che stanno vivendo, siano felici e che quindi riescano a trascinare amici e coetanei. Essi hanno spesso un ottimo rapporto con i loro animatori e anche con il prete (soprattutto se giovane, o meglio, se sa stare con i giovani) e vivono effettivamente bene la dimensione della parrocchia, sovente impegnandosi nei vari ambiti pratici e formativi. Chiaramente ciò comporta un rischio: nel momento della crisi del rapporto personale con l’educatore può andare in difficoltà tutto l’ambito della fede, segno di un modo di credere che ha ancora bisogno di radicarsi, che è ancora a un livello emotivo. Molti oggi cercano proprio l’esperienza emotivamente forte e coinvolgente (si pensi all’emozione suscitata dalla scomparsa di Giovanni Paolo II). Il rischio più grosso, però, secondo me lo corrono tutti quei giovani che non possono fare questi tipi di esperienze, perché magari vivono in piccole realtà o semplicemente perché, e capita, inutile nasconderlo, hanno incontrato le persone sbagliate che non hanno fatto scoprire la vera persona importante nella fede, che è quella di Cristo.
La scommessa per una pastorale giovanile parrocchiale e diocesana, è quella di riuscire a offrirsi in mille modi diversi, a incontrare ognuno dei ragazzi che desidera lasciarsi incontrare, a costruire e progettare mille strade diverse lungo le quali i giovani possano fare conoscenza con l’unico oggetto-soggetto di tale incontro: Cristo. Si tratta di fare un po’ come il cervo, che poi non è nient’altro che il seme che muore per dare frutto
“ed in dono allora
a te io offrirò
queste ampie corna
mio buon signore,
dalle mie orecchie
tu potrai bere,
un chiaro specchio
sarà per te il mio occhio,
con il mio pelo
pennelli ti farai.
E se la mia carne cibo ti sarà,
la mia pelle ti riscalderà,
e sarà il mio fegato
che coraggio ti darà.
E così sarà buon signore
che il corpo del tuo vecchio servo
sette volte darà frutto, sette volte fiorirà…”

Padre della notte

Una canzone che è una preghiera, non solo per il verso finale che se lo auspica (“Fa’ che questa mia canzone diventi una preghiera”), ma per tutto il contenuto e il tono delicato del brano. Il Dio invocato da Sergio Cammariere è quello della creazione e quello del Nuovo Testamento. E’ quello della creazione per i continui rimandi agli elementi naturali: “Padre della notte che voli insieme al vento”, “Padre della notte che le stelle fai brillare, tu che porti vento e sabbia dalle onde del mare”, “Padre della terra, Padre di ogni uomo, Padre della notte della musica e dei fiori, Padre dell’arcobaleno dei fulmini e dei tuoni”. Ed è anche quello del Nuovo Testamento, quello di Gesù, quello che viene percepito dall’uomo come un “Padre” affettuoso che si prende cura dei figli: “Tu che ascolti i nostri cuori, quando soli poi restiamo nel silenzio della notte, solo in Te noi confidiamo” (Salmo 71)

La richiesta del cantautore è quella della speranza, quella di un abbraccio e di uno sguardo affettuoso e caloroso nel momento in cui tutto si fa buio: “togli dal mio cuore la rabbia ed il tormento e fammi ritornare agli occhi di chi ho amato quando è poca la speranza che resta nel mio cuore”. Sembra paradossale, ma l’uomo sente il bisogno di continuare a sperare e sognare anche là dove sembrano non esserci possibilità, anche là dove tutto sembra vano: “Tu che accendi i nostri sogni e li mandi più lontano come barche nella notte che da terra salutiamo e fammi ritornare tra le braccia di chi ho amato quando è vana la speranza che resta nel mio cuore”. Insuccessi, delusioni e disillusioni a volte ci fanno vedere i nostri sogni non come delle prospettive o delle possibilità da realizzare proiettate nel futuro, ma come se fossero presenti negli specchi retrovisori della vita, o nel treno che ci parte davanti agli occhi mentre stiamo arrivando in stazione, o come barche viste dalla riva mentre si allontanano. “Dammi una pace limpida come un limpido amore” è la richiesta dell’uomo in preghiera. Ultimo suo appiglio resta quel Padre il cui mistero è ovunque, un ovunque che si colloca non solo nello spazio ma anche nel tempo: “dentro ogni secondo come in ogni giorno intero”. La possibile risposta dell’uomo si colloca all’interno di un dono fatto da Dio stesso, un dono che ha tutti i caratteri della naturalità: “Tu che hai dato a noi la fede come agli uccellini il volo”. E la fede trova risposta concreta nell’amore: “Fammi ritrovare un giorno l’amore che ho aspettato”.

 

Venerdì santo

Nel 1987 è uscito un film di Damiano Damiani intitolato “L’inchiesta”, in cui il protagonista Tito Valerio Tauro ha il compito di cercare e trovare il corpo di un uomo ucciso qualche anno prima, un certo Gesù, falegname galileo. Alla fine del film queste sono le sue conclusioni:El Greco. Crocifissione.jpg

La mia missione è fallita, non ho trovato quel corpo e nemmeno un ribelle annidato fra le montagne … … Se c’è qualcuno che chiede di essere liberato, non dagli eserciti, ma dagli insegnamenti di un uomo crocifisso, allora il mondo sta già cambiando; questo è ciò che temevi, non è vero Tiberio, mio amato imperatore? … … La mia inchiesta è finita. Gesù di Nazareth è morto; sulla croce, dove lo abbiamo inchiodato. Ma i suoi seguaci hanno la certezza che è morto e risorto e aspettano il suo ritorno, senza sapere quando e come apparirà. … … Qui, in questa strana terra è nato un pericolo per l’impero. Bisogna indagare meglio: capire che cosa significano certe parole come “Ama il tuo nemico”. Capisci Pilato? Io dovrei amare te, e tu me! … … Con questa spada Roma ha conquistato il mondo. Lungo questo filo sottile corre la logica e la morale nella quale sono cresciuto… e se fosse tutto? e niente… Aiutami Trifone! Spingimi nel mistero”.

Il modo per entrare nel mistero in questo caso è la morte… Ma penso che l’amore sia già un ottimo invito al mistero. E allora posto un brano di bellezza incredibile del corregionale David Maria Turoldo

“Teologi e chiesasti, pulite (o complicate) quanto volete la fede, ma lasciatemi credere.

Cristo non è una cavia o un sistema; è l’evento dentro e oltre i fatti.

E, distrutto, sempre si ricompone dalla sua e nostra morte, per la sua e nostra risurrezione.

Non già “la causa dell’uomo che continua”, ma dimensione biologica, tensione della terra: sempre vivo mistero del genere umano.

Egli è il solo frutto possibile, l’eterno presente ove t’infuturi, dandogli tu la carne e il sangue.

Nessuno può narrare l’evento. Leggenda che muove il mondo, essa è la storia più vera: allora finalmente crederemo.

Lingua non serve a dire le ragioni dell’ultimo donarsi, la suprema gratuità dell’amore.

Abbiamo appena fragili simboli; e cercare prove e sillogi alla fede è come voler spegnere il sole o incatenare il vento.

E quanto pagheremo amaramente: fede di atei, fede senza incantesimo e senza mistero.

Egli è la luce fattasi corpo, nato dalla creazione pura, nato da donna vergine per opera dello Spirito, venuto sotto la legge per amore.

Era nel principio e nulla ha vita senza di lui: e la vita è venuta e vive.

Cristo, unico uomo: l’uomo povero e libero, l’ultimo di tutti gli uomini! Mio Cristo, vero sacramento di Dio.”

(D.M. TUROLDO, Mio atto di fede, in O sensi miei, Rizzoli, Milano 1990).

Getsemani

Posto il video in inglese e sottotitolato in spagnolo della scena del Getsemani presa da Jesus Christ Superstar. Più sotto la traduzione del duro testo

Voglio soltanto dire 
Se c’è un modo
Allontana da me questo calice poiché non voglio assaggiarne il veleno
Sentirne il bruciore, Io sono cambiato, non sono piu’ cosi’ sicuro 
Come quando abbiamo iniziato
Allora ero ispirato 
Adesso sono triste e stanco
Ascolta… Non c’è dubbio che ho superato ogni aspettativa
Ho tentato per tre anni, che sembrano trenta
Potresti chiedere altrettanto a qualsiasi altro uomo?
Ma se io muoio
Se vado fino in fondo e faccio quello che tu mi chiedi

Se lascio che mi odino, che mi colpiscano, che mi feriscano, che mi inchiodino al loro legno
Vorrei sapere, vorrei sapere mio Dio
Vorrei sapere, vorrei sapere mio Dio
Vorrei capire, vorrei capire mio Dio
Vorrei capire, vorrei capire mio Dio
Perché devo morire
Sarei notato più di quanto lo sono mai stato prima?
Le cose che ho detto e fatto avrebbero maggior peso?
Dovrei sapere, dovrei sapere mio Signore
Dovrei sapere, dovrei sapere mio Signore
Dovrei capire, dovrei capire mio Signore
Dovrei capire, dovrei capire mio Signore
Se muoio quale sarà la mia ricompensa?
Se muoio quale sarà la mia ricompensa?
Dovrei sapere, dovrei sapere mio Signore
Dovrei sapere, dovrei sapere mio Signore
Perché, perché dovrei morire?
Oh perché dovrei morire?
Puoi mostrarmi ora che non verrei ucciso invano?
Mostrami almeno un po’ della tua mente onnipresente
Mostrami che c’è un motivo per cui tu vuoi che io muoia
Sei anche troppo preciso sul dove e sul come,
Ma non altrettanto sul perché
Va bene, morirò!
Oh, oh guardami morire!
Vedi come, vedi come morirò!
Oh, guardami morire!

Allora ero ispirato
Adesso sono triste e stanco
Dopo tutto ho provato per tre anni che sembrano novanta
Perché allora ho paura di finire ciò che ho cominciato?
Ciò che hai cominciato tu, non io
Dio, la tua volontà Ã¨ dura
Ma sei tu che comandi il gioco
Berrò il tuo amaro calice, inchiodami alla tua croce e spezzami
Fammi sanguinare, battimi, uccidimi, prendimi adesso – prima che io cambi idea.

La notte nel Getsemani

E’ giovedì santo. Nel post del 20 marzo 2008 http://oradireli.myblog.it/archive/2008/03/20/giovedi-santo.html avevo messo quella che resta, a mio avviso, una delle pagine più belle e profonde sulla notte passata da Gesù nell’orto del Getsemani, scritta da Turoldo. Oggi posto un testo di Boris Pasternak, “L’orto del Getsemani”

Lo scintillio di lontane stelle un’indifferente

luce gettava alla curva della strada.

La strada aggirava il Monte degli Ulivi,El Greco. L'orazione nell'orto 2.jpg

giù, sotto di lei, scorreva il Cedron.

Il prato a metà s’interrompeva.

Dietro cominciava la Via Lattea.

Canuti, argentei ulivi tentavano

nell’aria passi verso la lontananza.

In fondo c’era un orto, un podere.

Lasciati i discepoli di là dal muro,

disse loro: «L’anima è triste fino alla morte,

rimanete qui e vegliate con me. »

E rinunciò senza resistenza,

come a cose ricevute in prestito,

all’onnipotenza e al miracolo,

e fu allora come i mortali, come noi.

Lo spazio della notte ora pareva

il paese dell’annientamento e dell’inesistenza.

La distesa dell’universo disabitata,

e soltanto l’orto un luogo capace di vita.

E guardando quei neri sprofondi,

vuoti, senza principio e fine,

perché quel calice di morte via da lui passasse

in un sudore di sangue pregò il padre suo.

Lenito dalla preghiera lo spasimo mortale,

tornò al di là della siepe. Per terra

i discepoli, vinti dal sonno,

giacevano nell’erba lungo la strada.

Li destò: «Il Signore vi ha scelti a vivere

nei miei giorni, ed eccovi crollati come massi.

L’ora del figlio dell’uomo è venuta.

Egli si darà in mano ai peccatori. »

E aveva appena parlato che, chissà da dove,

ecco una folla di servi, una turba di schiavi,

luci, spade e, davanti a tutti, Giuda

col bacio del tradimento sulle labbra.

Pietro tenne testa con la spada agli sgherri

e un orecchio a uno di loro mozzò.

Ma sente: «Non col ferro si risolve la contesa,

rimetti a posto la tua spada, uomo.

Pensi davvero che il padre mio di legioni alate

qui, a miriadi, non m’avrebbe armato?

E allora, incapaci di torcermi un capello,

i nemici si sarebbero dispersi senza lasciar traccia.

Ma il libro della vita è giunto alla pagina

più preziosa d’ogni cosa sacra;

Ora deve compiersi ciò che fu scritto,

lascia dunque che si compia. Amen.

Il corso dei secoli, lo vedi, è come una parabola

e può prendere fuoco in piena corsa.

In nome della sua terribile grandezza

scenderò nella bara fra volontari tormenti.

Scenderò nella bara e il terzo giorno risorgerò,

e, come le zattere discendono i fiumi,

in giudizio, da me, come chiatte in carovana,

affluiranno i secoli dall’oscurità.»

Il color indaco dei Baustelle

Il 26 marzo 2010 è uscito il nuovo album dei Baustelle “I mistici dell’Occidente”. Vi rimando alla rete per tutte le notizie correlate e tutte le possibili interviste. Desidero intanto soffermarmi sulla prima traccia “L’indaco”. Premetto che il brano non mi piace particolarmente: lo trovo piuttosto noioso, salvo l’impennata finale che mi ricorda un po’ i Jethro Tull con quel flauto. Il testo però mi ha colpito e lo trovo interessante. L’invito generale della canzone è quello a non angustiarsi per i vari motivi di dolore che possono affliggere l’uomo: dal semplice andarsene delle rondini, segno però del passare delle stagioni e dell’avvicinarsi dell’inverno, all’interrogarsi davanti all’enigma della morte rappresentata dal carro funebre. Non buttarsi giù, non soffrire più è l’auspicio dei Baustelle: lascia andare le rondini, lascia passare il carro funebre, c’è un azzurro oltre le nubi,  c’è forse un mare color indaco oltre lo stretto di Gibilterra… C’è un infinito oltre il finito?

indaco.jpg

Qui sotto il testo. Il brano è http://www.youtube.com/watch?v=puujNlHcInk

Non angosciarti più

che bisogno c’è

quando partono le rondini

lasciale andare

 

non domandare più

che ragione c’è

quando passa il carro funebre

fallo passare

 

e non buttarti giù

che in fin dei conti c’è

un azzurro che fa piangere

oltre le nubi

 

e non soffrire più

che in fondo forse c’è

al di là di Gibilterra

un indaco mare

Vissi d’arte… perché?

Quando le cose non vanno come noi vorremmo o non vanno bene proprio, vien spesso da chiedersi perché. A volte ci si ferma lì, alla domanda e non si cerca neppure la risposta. Altre volte si tira in ballo il caso, il destino, la sfiga. Altre volte ancora la nostra domanda scavalca l’umano e desidera interrogare il divino. Ci aveva provato anche Ligabue con una domanda banale (chi prende l’Inter?) e due esistenziali (dove mi porti? soprattutto perché?). Ma il perché l’uomo se lo pone fin dall’inizio dei tempi e allora vado all’indietro anche con la musica…

Siamo nel 1800 e la famosa cantante Floria Tosca viene ricattata dal barone Scarpia, capo delle guardie del papa: se ella non gli si concederà, il fidanzato di lei, il pittore Mario Cavarodossi, morirà. Tosca si rivolge allora a Dio, quasi a rimproverarlo, a ribellarsi: mi sono sempre comportata bene, non ho mai fatto male ad alcuno, ho aiutato chi era nella miseria, ho sempre pregato e messo fiori agli altari e ho abbellito il cielo col mio canto… perché ora, nel momento del dolore, Dio mi ringrazia così? Il brano “Vissi d’arte” è stato recentemente ripreso da Roberto Vecchioni quale prima traccia del cd “In Cantus”.

Vissi d’arte, vissi d’amore,

non feci mai male ad anima viva!

Con man furtiva

quante miserie conobbi, aiutai.

Sempre con fe’ sincera,

la mia preghiera

ai santi tabernacoli salì.

Sempre con fe’ sincera

diedi fiori agli altar.

Nell’ora del dolore

perché, perché Signore,

perché me ne rimuneri così?

Diedi gioielli

della Madonna al manto,

e diedi il canto

agli astri, al ciel, che ne ridean più belli.

Nell’ora del dolore,

perché, perché Signore,

perché me ne rimuneri così?

 

Uccidere in nome di Dio

In questi giorni in III stiamo parlando dell’Islam e degli Islam, mentre in V a breve inizieremo a trattare l’argomento del terrorismo di matrice ideologica e religiosa. Allora posto questo articolo di Nicola di Mauro tratto dall’ultimo numero di Dimensioni Nuove.

Tanto negli States quanto in Europa. Allarmi improvvisi, che per fortuna rientrano, creano tensione e insicurezza. Con la crisi economica che sembra non finire, il terrorismo aprirà le porte a un futuro inquietante?

I guerriglieri martiri, i terroristi, le cellule integraliste islamiche, i kamikaze della Jihad, la guerra santa in nome di Maometto, hanno una nuova, sconcertante identità: vengono formati anche tra giovani occidentali, di nazionalità, per esempio, belga, olandese, o francese, che i servizi segreti europei azzardano a definire come «più pericolosi e fanatici». Caso paradigmatico di questa inquietante realtà relativa al terrorismo internazionale di matrice integralista islamica, in base alla documentazione rilasciata dalla polizia belga, è quello di Muriel Degauque, una giovane donna di nazionalità belga, di 37 anni, con i capelli biondi e gli occhi chiari.

Si era fatta esplodere in Iraq. Proveniva da Charleroi, una cittadina povera a sud di Bruxelles (dove abitano molti italiani ex minatori). La sua esistenza poteva comunque già definirsi di quelle «a rischio». Aveva un temperamento svogliato e aggressivo. Frequentava cattive amicizie, faceva uso di droga, svolgeva qualche lavoretto saltuario. Il padre impiegato della Previdenza sociale, e la madre segretaria in uno studi medico. La ragazza si era sposata con un turco, ma la relazione non continuò, così fece la conoscenza a Bruxelles di Issam Goris, un belga di genitori marocchini, e di sette anni più giovane di lei. Viene convinta a convertirsi all’islam, prende il nome di Myriam, studia anche l’arabo, porta il velo, il burka e si trasforma in una jihadista, una guerrigliera integralista. Il 9 novembre 2005, a Baghdad, Muriel, la prima kamikaze di origine europea, s’immola facendo una strage in nome di Allah. Da allora sono passati cinque anni, e l’onda rosa delle kamikaze aumenta.

«Ad abbracciare l’islam radicale sono giovani precari, per lo più senza lavoro, non frequentano le scuole, e vivono in aree fortemente urbanizzate». Di questo tenore era un’informazione passata dai servizi segreti transalpini a proposito dei giovani che vogliono sacrificare la propria vita come «combattenti islamici». Oggi sappiamo che non è più così. Possono essere benestanti e acculturati, parlare tre lingue e amare la bella vita. I proseliti e seguaci sono anche di nazionalità europea. Il processo di conversione all’islam avviene intorno ai 30 anni. È il salafismo la forma di culto a cui tendono ad aderire. Si tratta di un movimento religioso che educa all’odio verso l’Occidente, ha come fine precipuo la rottura definitiva con la cultura, i costumi, il modo di vivere occidentali, definiti «corrotti», perciò da annientare. Da un’indagine resa pubblica dalla testata francese di Le Monde, nel 37% dei casi sono giovani nati in suolo francese, con genitori maghrebini, e abitanti nelle periferie; il 27% diventa salafista in seguito a matrimoni o concubinati; il 15% è oggetto o vittima di predicazione, plagio e proselitismo; il 4% si converte all’islam integralista anche dietro le sbarre, in prigione. E se quasi il 50% di questi giovani non ha un diploma, molti sono laureati. Ma quello che spinge è il consenso che questi gesti trovano presso le masse islamiche, specie fra i disoccupati. Questa base sostiene le «cellule dormienti». Per loro, basta un niente e scatenano l’inferno.

In Europa ci sono venti milioni di musulmani: di origine algerina in Francia; marocchina in Spagna; turca in Germania; pakistana in Gran Bretagna. Sono in molti a volersi integrare e salire la scala sociale. Ma da parte dei figli e nipoti islamici europei di seconda e dunque terza generazione, si sta verificando un preoccupante dietro-front. Che si configura nella non volontà a integrarsi, ad assimilarsi culturalmente, trovando nella fede islamica una barriera di opposizione efficace, decisa e perentoria. Questi giovani possono costituire un potenziale di contrasto violento non indifferente, già manifestatosi in maniera eclatante nelle rivolte recenti delle periferie parigine, facilmente adescabile dai predicatori fondamentalisti islamici. Diventano facile humus per il terrorismo di matrice islamica, per la Jihad. Non a caso, la rivista Time li ha identificati con l’espressione generation Jihad.

Morire martire in Iraq o in Afganistan è il sogno del più fervente terrorista islamico. Chi abbraccia l’ideologia di Al Qaeda ed è pronto a eseguire attentati suicidi o sparare a morte contro soldati e gente innocente proviene per la maggior parte dai Paesi confinanti o circostanti: saudiani, siriani, kuweitiani, giordani, maghrebini, algerini, tunisini, marocchini, libici. L’aspirante suicida o guerrigliero di Allah ha un’età compresa tra i 19 e i 25 anni; è studente in scienze, genio civile, medicina, diritto religioso, studi islamici, informatica; è anche sposato; possiede o no figli; e vive anche agiatamente, quasi da benestante; fa il commerciante o svolge una professione amministrativa. Solo una bassa percentuale è reduce dall’Afghanistan, dalla Cecenia o dal Kashemire. Molti poi non hanno nemmeno un’esperienza militare, non provengono tutti da campi d’addetramento, e imparano però presto a imbracciare e usare il kalashnikov.

A volte non esiste nessun legame diretto con Al Qaeda, Bin Laden o Abu Zarqawi. Il terrorista, che può agire con il suo carico di morte in una qualunque città europea, è soltanto animato da odio e da una fanatica e insensata determinazione a uccidere. Possono essere soggetti – secondo le descrizioni fornite da intelligence europei, in particolare britannici -, che svolgono la loro missione assassina, senza coordinazione alcuna, senza che vi sia dietro un «cervello», collegato con una rete del terrorismo internazionale. Cellule isolate e impazzite. Può trattarsi di persone che non sono state indottrinate in moschee, ma che hanno deciso di immolarsi per Allah, di propria iniziativa, decidendo di comune accordo con altri all’interno di un bar, di una casa privata, di una palestra. Costituiscono pertanto una minaccia difficile da controllare e intercettare, essendo «unità autosufficienti, che possono colpire in ogni momento», così almeno trapela dai documenti d’indagine delle polizie occidentali.

I terroristi – in base alle informazioni e le analisi dei servizi segreti europei, americani e israeliani – possono interagire secondo tre modalità d’attacco. La più catastrofica delle ipotesi di strage prevede l’esplosione nel centro di una metropoli di un mini-ordigno nucleare primitivo, venduto al mercato nero e proveniente dagli arsenali ex-sovietici, che si può installare nell’interno di uno zainetto. Con danni irreversibili e incalcolabili, che richiederebbero 4 anni prima che la vita torni normale nell’area devastata. Il secondo scenario comprende l’uso di agenti chimici come il gas nervino, che può arrivare a uccidere il 95% delle persone che si trovano nel raggio d’azione, con danni per 350 milioni di euro. Il ritorno alla normalità è previsto intorno ai 4 mesi. Una terza opzione di aggressione terroristica è quella configurabile con bombe di costruzione artigianale o meglio casalinga, fai-da-te, che possono essere fatte scoppiare dentro stazioni, mezzi di trasporto, luoghi pubblici frequentati o metropolitane. Il numero di morti può essere limitato, ma l’impatto psicologico di questo tipo di attacco è molto forte, l’effetto bomba è poi continuato dalla diffusione mediatica della notizia della strage terroristica. A noi non resta che una domanda: si può uccidere in nome di Dio?

http://www.dimensioni.org/marzo10/articolo4.html

Quali diritti per chi verrà?

Chi verrà dopo di noi, può già rivendicare oggi dei diritti? Tutelare i diritti di chi vivrà nel futuro può aiutarci anche a vivere meglio il presente?

Sono interrogativi che possono trovare risposte in questo interessante articolo che ho trovato su un sito che si occupa di filosofia del quotidiano: http://www.filopop.com/i-diritti-delle-persone-future.html

Scienza e fede secondo Veronesi

Sky tg24, pochi giorni fa, ha intervistato l’oncologo Umberto Veronesi (ex ministro della Sanità) il quale ha dichiaratoveronesig.jpg

“Scienza e fede non possono andare insieme perché la fede presuppone di credere ciecamente in qualcosa di rivelato nel passato, una specie di leggenda che ancora adesso persiste, senza criticarla, senza il diritto di mettere in dubbio i misteri e dogmi che vanno accettati o, meglio, subiti”.

Personalmente penso non sia affatto così e che la fede intesa alla Veronesi sia un’ideologia e non una fede che ha come baluardo ultimo la coscienza. Al Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes 16 si è scritto:

“L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale.”

Dio dopo Auschwitz e… dopo Haiti

In V stiamo affrontando la questione del problema del male. Vi posto un articolo di Lorenzo Albacete

DIO C’E’ AD HAITI?

Oggi il presidente Obama terrà il suo discorso sullo Stato dell’Unione davanti alle due Camere del Congresso. Spero, nel mio prossimo editoriale, di poter commentare il discorso e le reazioni che susciterà, soprattutto vista la sorprendente sconfitta nel Massachusetts, dove un Repubblicano conservatore è stato eletto al seggio che fu di Edward Kennedy.

L’altro argomento attualmente dominante è la devastazione di Haiti dopo il terremoto che pare abbia ucciso centinaia di migliaia di persone. Cristiani evangelici negli Stati Uniti e ad Haiti hanno detto che il terremoto è una punizione divina perché molti haitiani seguono il voodoo e altre pratiche “sataniche”. Molti cristiani si sono mostrati confusi circa la risposta da dare alla spiegazione della morte di cosi tante persone nel terremoto.

Obama ha definito il terremoto di Haiti una “tragedia incomprensibile”. Ha ragione, ma c’è qualche tragedia comprensibile? In che misura possiamo comprendere qualcosa di simile a quanto accaduto? Cosa potrebbe rendere un simile evento così comprensibile da eliminare dai nostri cuori e dalle nostre menti il grido che continua a riaffacciarsi ancora e ancora, il grido: perché?

Io sono un prete cattolico. Nel giorno del terremoto stavo cercando di rispondere alla mail di una giovane che, dopo il suicidio di un amico a lei molto vicino, aveva cominciato a chiedersi in che modo il Dio che la amava era compatibile con la dottrina della Chiesa sull’inferno. Avevo anche ricevuto un messaggio da un altro amico che si interrogava sulla compatibilità tra il Dio cristiano e la sofferenza di un innocente. E mi citava anche qualcosa che avevo scritto io stesso: “Non posso adorare un Dio che mi chiede di strappare dal mio cuore e dalla mia mente la domanda perché accada il dolore degli innocenti”.

Mi ricordo un dibattito con l’ateo Christopher Hitchens e la sua frustrazione quando dichiarai che ero d’accordo con lui che avvengono cose che rendono ragionevole disprezzare un Dio che esige un’accettazione cieca della bontà della Sua volontà. Poi ecco l’orrore di Haiti… Cosa possiamo dire sulla domanda sempre presente, la domanda del perché queste cose accadono?

Non cancellerò la domanda, voglio affrontare l’orrore così come è, senza consolazioni tranquillizzanti. Si continua ad assicurare le vittime che “cuori e preghiere” sono con loro. Preghiere? A Chi? A un Dio che semplicemente avrebbe potuto impedire che tutto questo accadesse? Alla Chiesa non è stato risparmiato niente. La cattedrale è crollata uccidendo l’arcivescovo, seminari e conventi distrutti, uccidendo futuri preti e suore. Il rappresentante del Papa si è salvato perché si trovava fuori della sua residenza, che è crollata, e ha passato le notti in giardino con i sopravissuti del suo ufficio. Quale Dio si può pregare in queste situazioni?

Solo quel Dio che, come scrive San Paolo,”non ha risparmiato il proprio Figlio”, solo a questo Dio può andare il dolore del grido “perché?”. Se ha dato suo Figlio perché morisse per noi, dice Paolo, è impossibile che ci rifiuti quanto ci aiuta e ci benedice, dato che non vi è nulla che Egli valuti più del Figlio (Romani 8, 32). Non voglio una spiegazione del perché questo Dio permetta che accadano tragedie simili. Una spiegazione ridurrebbe il dolore e la sofferenza a una incapacità di comprendere, a un fallimento dell’intelligenza, per così dire. Io posso solo accettare un Dio che “con-soffre” con me. Così è il Dio della fede cristiana.

Fede o no, cristiani o no, la nostra umanità chiede che la domanda del perché non sia eliminata, ma che le sia permesso di guidare la nostra risposta a tutto ciò che accade. È la sola strada per una possibile redenzione della nostra umanità.

http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=63697

A proposito di Auschwitz

Ci stiamo avvicinando al 27 gennaio, giorno della memoria. Vi posto il materiale utile agli studenti di V e a tutti gli interessati: sono alcune riflessioni sul concetto di Dio dopo Auschwitz. Per non dimenticare e soprattutto per continuare a riflettere…

A PROPOSITO DI AUSCHWITZ.doc

No Martini no party

Il 18 giugno è uscito questo articolo su Repubblica. E’ vero, è lunghetto, ma fa respirare un’aria fresca che se solo fosse diffusa in determinate stanze…

Colloquio con il cardinal Martini a cura di Eugenio Scalfari in “la Repubblica” del 18 giugno 2009

 Il volto è dimagrito ma gli occhi d’un azzurro intenso lo illuminano ancora di più. Mi guarda fisso, come per riconoscermi. Sono molti anni che non ci incontriamo anche se ci siamo sentiti spesso scambiandoci a distanza sentimenti e pensieri. Sono passati tredici anni da quel dibattito a due voci organizzato da don Vincenzo Paglia, allora assistente ecclesiastico della comunità di Sant’Egidio, nel grande salone di palazzo della Cancelleria a Roma, dinanzi ad una platea gremita di sacerdoti d’ogni provenienza con i loro variopinti costumi: vescovi e cardinali di Santa Romana Chiesa in talare e zucchetto rosso, copti, patriarchi della Chiesa orientale, pastori protestanti, anglicani. C´erano anche, ricordo, quattro monaci buddisti. Molti i gesuiti, in veste nera e fascia alla vita, venuti ad ascoltare lui, il loro compagno di seminario e di religione diventato poi cardinale e arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini.

Quel dibattito aveva come tema: «La pace è il nome di Dio» con un sottotitolo: «Che cosa può unire oggi cattolici e laici». Lui fece una premessa (fare premesse è una sua abitudine per meglio definire l’argomento). Disse: «Non sono qui per fare proselitismo, perciò non parleremo di fede e di teologia ma di etica e di convinzioni». A mia volta lo ringraziai e la discussione cominciò, ma ci accorgemmo subito che eravamo d’accordo su tutto, la sua etica era anche la mia, lui la riceveva dall’alto, io dall’autonomia della mia coscienza, tutti e due ci ponevamo il problema dell’incontro tra il sentimento religioso e una modernità laica e relativista.

Da allora la figura dell’arcivescovo di Milano è stata per me un punto di riferimento, ho seguito la sua opera pastorale diretta ai credenti e il suo dialogo costante con i non credenti, il suo rapporto con il cardinal Silvestrini, con Pietro Scoppola, con la comunità di Sant´Egidio, con le varie anime della Compagnia di Gesù. Ho letto i suoi libri e in particolare le Conversazioni notturne a Gerusalemme. Ed ora quello appena uscito Siamo tutti nella stessa barca, un lungo dialogo con don Luigi Verzè, fondatore dell’ospedale di San Raffaele a Milano e dell’Università che porta lo stesso nome.

Quel binomio Martini-Verzè ha stupito molti amici del cardinale. Il fondatore del San Raffaele è un personaggio di notevole intraprendenza che ha ben poco in comune con Martini. Perché ha scelto proprio lui come interlocutore? Il cardinale risponde così: «Io e don Luigi siamo molto diversi sia per temperamento sia per formazione; sono diverse le nostre biografie ed anche le nostre visioni politiche e sociali. Non so se don Luigi ed io abbiamo le stesse soluzioni di fronte a scelte sempre più difficili. Ma siamo insieme sulla stessa barca, la barca della Chiesa, pur con tutte le nostre diversità. Ci accomuna un grande amore verso la Chiesa, un’ardente passione per il Verbo Incarnato Gesù Cristo e il desiderio che la Chiesa incontri e comprenda la società moderna».

La spiegazione è chiara, le differenze tra i due emergono dal libro ma l’obiettivo comune è quello di porre all’attenzione dei cristiani cattolici problemi non più oltre rinviabili. Domando a Martini quale siano quei problemi in ordine di importanza. «Anzitutto l’atteggiamento della Chiesa verso i divorziati, poi la nomina o l’elezione dei Vescovi, il celibato dei preti, il ruolo del laicato cattolico, i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica. Le sembrano problemi di facile soluzione? Possono interessare anche un laico non credente come lei?». Mi guarda sorridente e si riassesta sulla sedia che scricchiola e mi viene il timore che sia malferma ma lui mi rassicura: «E’ solida, stia tranquillo, sono io che mi muovo troppo». Ci troviamo in una stanza molto sobria, un tavolo lungo e qualche sedia, nella casa di riposo dei gesuiti a Gallarate. Il cardinale, prima di ricevermi, ha incontrato una cinquantina di preti venuti dal dintorno milanese. Volevano ascoltare le sue parole di fede e di speranza in una società sempre meno cristiana e sempre più indifferente. Indifferente verso che cosa? gli chiedo. «Non c´è più una visione del bene comune. Il sentimento dominante è di difendere il proprio interesse particolare e quello del proprio gruppo. Magari pensano di essere buoni cristiani perché qualche volta vanno a messa e fanno avvicinare i loro figli ai sacramenti. Ma il cristianesimo non è quello, non soltanto quello. I sacramenti sono importanti se coronano una vita cristiana. La fede è importante se procede insieme alla carità. Senza la carità la fede è cieca. Senza la carità non c’è speranza e non c’è giustizia».

Lei, cardinal Martini, ha affermato in molte occasioni l’importanza della carità, ma forse bisogna definire con esattezza che cosa lei intenda con questa parola. Non credo che si limiti al far del bene al prossimo. «Far del bene, aiutare il prossimo è certamente un aspetto importante ma non è l’essenza della carità. Bisogna ascoltare gli altri, comprenderli, includerli nel nostro affetto, riconoscerli, rompere la loro solitudine ed esser loro compagni. Insomma amarli. La carità non è elemosina. La carità predicata da Gesù è partecipazione piena alla sorte degli altri. Comunione degli spiriti, lotta contro l’ingiustizia».

Nel suo libro Conversazioni notturne lei dice che i peccati sono numerosi e la Chiesa ne enumera molti ma, a suo parere, il vero peccato del mondo – lei dice proprio così se ben ricordo – il vero peccato del mondo è l’ingiustizia e la diseguaglianza. Se ho ben capito le sue parole, la carità è lottare contro l’ingiustizia? «Gesù disse che il regno di Dio sarà dei poveri, dei deboli, degli esclusi. Disse che la Chiesa avrebbe avuto come missione di essere vicina a loro. Questa è la carità del popolo di Dio predicata dal suo Figlio fatto uomo per la nostra salvezza».

Cardinale, che cosa intende per popolo di Dio? E’ il laicato cattolico il popolo Dio? «Tutta la Chiesa è popolo di Dio, la gerarchia, il clero, i fedeli». I fedeli hanno un ruolo attivo nel governo della Chiesa, nella partecipazione, nell’amministrazione dei sacramenti, nella scelta dei loro pastori? «Hanno certamente un ruolo ma dovrebbero esercitarlo con molta più pienezza. Troppo spesso è un ruolo passivo. Ci sono state epoche nella storia della Chiesa nelle quali la partecipazione attiva delle comunità cristiane era molto più intensa. Quando prima ho parlato d’una dilagante indifferenza pensavo proprio a questo aspetto della vita cristiana. Qui c’è una lacuna, una defezione silenziosa specie nella società europea e in quella italiana». Pensa alla scarsa frequenza dei sacramenti, della messa, delle vocazioni? «Questi sono aspetti esterni, non sostanziali. La sostanza è la carità, la visione del bene comune e della comune felicità. Felicità non solo per noi ma per gli altri e non solo nel presente qui e subito ma per i figli e i nipoti, le generazioni che verranno». La chiesa istituzionale fa abbastanza in questa direzione? «Fa molto, ma dovrebbe fare molto di più».

Cardinal Martini, vorrei porle una questione piuttosto delicata. Un noto scrittore cattolico, Vittorio Messori, ha scritto recentemente che la Chiesa istituzionale, cioè il Vaticano con la sua Segreteria di Stato i suoi Nunzi sparsi in tutto il mondo, le sue strutture di Curia, non può sanzionare i vizi privati dei potenti. Il suo compito è stipulare accordi, Concordati, affrontare problemi concreti da potere a potere. Fece accordi con Hitler, con Mussolini, con Pinochet, con Franco, con Craxi. Se li avesse pubblicamente giudicati sui loro comportamenti, sulla loro moralità, non avrebbe potuto operare politicamente come è suo compito. Il problema semmai – secondo Messori – riguarda il confessore, ammesso che qualcuno di quei potenti si confessi. Comunque il tema della salvezza riguarda il clero pastorale, i parroci e i vescovi con cura di anime. Lei è d’accordo con questa distinzione tra istituzioni vaticane e clero con funzioni pastorali? «In verità non sono molto d’accordo, la distinzione che fa Messori ci richiama ad una fase in cui esisteva ancora il potere temporale e il Papa era anzitutto un sovrano; ma quel potere grazie a Dio è finito e non può essere restaurato. E’ una fortuna che sia finito. Certo esiste una struttura diplomatica della Santa Sede, ma composta pur sempre di sacerdoti il cui fine ultimo è quello di testimoniare la predicazione evangelica ed il suo contenuto profetico. Aggiungo che la struttura diplomatica, secondo me, è fin troppo ridondante e impegna fin troppo le energie della Chiesa. Non è stato sempre così. Nella storia della Chiesa per molti e molti secoli questa struttura non è neppure esistita e potrebbe in futuro essere fortemente ridotta se non addirittura smantellata. Il compito della Chiesa è di testimoniare la parola di Dio, il Verbo Incarnato, il mondo dei giusti che verrà. Tutto il resto è secondario». Le Chiese protestanti non hanno anch´esse strutture consimili? Non sono necessarie per tutelare la libertà religiosa e lo spazio pubblico di cui la Chiesa ha bisogno per diffondere i suoi valori? «Le Chiese protestanti non hanno strutture accentrate e potenti come la nostra. Hanno assetti molto diversi. Sono, da questo punto di vista, più deboli della Chiesa cattolica ma per altri aspetti più coese con i fedeli».

Il problema che lei solleva indubbiamente esiste. Riguarda i Vescovi? Forse la figura del Papa, che esiste soltanto nella Chiesa cattolica, ha come conseguenza un certo temporalismo che è sopravvissuto al potere temporale propriamente detto. «Il Papa è innanzitutto il Vescovo di Roma. Per noi cattolici è il vicario di Cristo in terra e gli dobbiamo amore, rispetto e obbedienza senza però dimenticare che la chiesa apostolica si regge su due pilastri: il Papa e la sua comunione con i Vescovi. Ricordo che nel Concistoro che precedette l’ultimo Conclave, ci fu un dibattito preliminare per individuare una sorta di identikit del futuro pontefice. Quando toccò a me di parlare dissi che noi dovevamo eleggere il vescovo di Roma. Volevo dire con ciò che è sempre comunque prevalente la capacità e la vocazione pastorale rispetto a quella diplomatica o teologica». Lei disse questo? Che voi, il Conclave, dovevate eleggere il Vescovo di Roma? «Le sembra un’eresia? Invece questo è il mandato costante secondo la dottrina e la tradizione evangelica».

Il tempo passava e di argomenti che avrei voluto discutere con il cardinal Martini ce n’erano ancora molti, ma temevo di affaticarlo troppo. Glielo dissi, ma mi rispose che potevamo continuare. C’era un tema che mi stava a cuore. Gli dissi che leggendo il suo ultimo libro, quello scritto con don Verzè, m’era parso di capire una sua propensione a proporre un altro Concilio, una sorta di Vaticano III. La spinta del Vaticano II si era indebolita? Non bisognava riprendere il discorso e portarlo più avanti? La risposta che ne ebbi a me è sembrata molto innovatrice e anche imprevista. «Non penso ad un Vaticano III. E’ vero che il Vaticano II ha perso una parte della sua spinta. Voleva che la Chiesa si confrontasse con la società moderna e con la scienza, ma questo confronto è stato marginale. Noi siamo ancora lontani dall’aver affrontato questo problema e sembra quasi che abbiamo rivolto il nostro sguardo più all’indietro che non in avanti. Bisogna riprendere lo slancio ma per far questo non è necessario un Vaticano III. Ciò detto io sono favorevole ad un altro Concilio, anzi lo ritengo necessario, ma su temi specifici e concreti. Ritengo anzi che bisognerebbe attuare ciò che fu suggerito anzi decretato dal Concilio di Costanza, cioè convocare un Concilio ogni venti o trent’anni ma con un solo argomento o due al massimo».

Questa sarebbe una rivoluzione nel governo della Chiesa. «A me non pare. La Chiesa di Roma, non a caso, si chiama apostolica. Ha una struttura verticale ma al tempo stesso anche orizzontale. La comunione dei vescovi con il papa è un organo fondamentale della Chiesa». E quale sarebbe il tema del Concilio che lei auspica? «Il rapporto della Chiesa con i divorziati. Riguarda moltissime persone e famiglie e purtroppo il numero delle famiglie coinvolte aumenterà. Va dunque affrontato con saggezza e preveggenza. Ma c’è anche un altro argomento che un prossimo Concilio dovrebbe affrontare: quello del percorso penitenziale della propria vita. Vede, la confessione è un sacramento estremamente importante ma ormai esangue. Sono sempre meno le persone che lo praticano ma soprattutto il suo esercizio è diventato quasi meccanico: si confessa qualche peccato, si ottiene il perdono, si recita qualche preghiera e tutto finisce così. Nel nulla o poco più. Bisogna ridare alla confessione una sostanza che sia veramente sacramentale, un percorso di pentimento e un programma di vita, un confronto costante con il proprio confessore, insomma una direzione spirituale».

Ci alzammo. Mi disse di aver letto il mio ultimo libro L’uomo che non credeva in Dio e di averci trovato alcune assonanze con la sua visione del bene comune. Lo ringraziai. Io le sono molto vicino, gli dissi, ma non credo in Dio e lo dico con piena tranquillità di spirito. «Lo so, ma non sono preoccupato per lei. A volte i non credenti sono più vicini a noi di tanti finti devoti. Lei non lo sa, ma il Signore sì». Fui tentato di abbracciarlo, ma siamo un po’ tremolanti tutti e due ed avremmo rischiato di finir per terra. Ci siamo stretti la mano promettendoci di rivederci presto.

Tenete e mangiatene tutti, questo è il nostro sangue

Solitamente, quando vedo, all’interno di un blog, un post molto lungo non inizio neanche a leggerlo. Eppure stavolta sono io a farlo semplicemente perché penso che ne valga veramente la pena. Ho deciso di postare due pagine dell’ultimo libro di Margaret Mazzantini “Venuto al mondo” (pp 313-315). Vengono descritte le prime granate piovute su Sarajevo, quelle che il 27 maggio 1992 colpirono il mercato di via Vase Miskina mentre la gente era in coda per il pane. Sono parole che mi hanno commosso profondamente e allora voglio condividerle.

La gente camminava tranquilla, quella mattina, donne con i foulard, uomini con la cravatta. Bisognava mostrare il pugno chiuso con il medio fuori a quelli lassù, al club delle tre dita cetniche. È un messaggio per loro, infilatevi nel culo i vostri fucili di precisione. Quei foulard, quei passi ordinati, stavano lì a dire quello. A testimoniare che la vita continuava. La clinica ostetrica era stata colpita, l’edificio di “Oslobodjenje” era ormai un bersaglio per tiratori sfaccendati. Chi non aveva niente da fare gli sparava un colpo. La città pareva vuota, poi si rianimava, come un pascolo. Sul muro sotto casa era apparsa una scritta:

NON SIAMO MORTI STANOTTE.

La guardavo tutte le mattine dalla finestra, mi si chiudeva la gola.

C’era stata buriana il giorno prima, era bruciato lo stadio Zetra, nel villaggio olimpico, si era liquefatto quel cappello di metallo così caro a tutti. I pompieri e i volontari s’erano affannati per ore. Ormai la gente sapeva che dopo le grandinate peggiori la montagna taceva per un po’. Era stato ordinato il cessate il fuoco, senza più revoche, erano state messe sanzioni a quelli di Belgrado. Non si poteva non fare la fila. Per l’acqua, per il pane, per le medicine… si rischiava la ghirba a star lì tutti insieme come piccioni, ma quella era una giornata di fiducia, di donne che chiacchieravano sul marciapiede, di ragazzini che scappavano tra le gambe. C’era il sole. Era in via Vase Miskina, dove adesso c’è una delle rose più grandi. Anche la piccola porta c’è ancora, non vendono più il pane ma c’è.

I nomi sono scritti, piccoli, ordinati, accanto alla stella e alla luna musulmane, accanto a un versetto del Corano.

Erano donne, uomini, bambini che giocavano… E non sapevano che sarebbero stati incisi sul muro, fotografati dai cellulari dei turisti all’infinito. Era la fila per il pane, c’era un buon odore. Era una giornata di fiducia, di lepri che mettono la testa fuori. Era fine maggio, le rondini becchettavano le briciole di chi smozzicava il pane per strada. Qualche fortunato ci fu. Gente più svelta, più tempestiva, che s’era messa in fila presto, prima degli altri, e se n’era appena andata con il suo filone di pane o una di quelle pagnotte senza lievito e senza sale. Ma ci fu anche qualcuno che rimase per caso, che si mise a parlare, a scambiare due battute con un conoscente. Caddero tre granate, due per strada, una al mercato lì davanti. E tutti quelli che c’erano fecero un viaggio, schizzarono. La piazza divenne una scena teatrale, stracci rossi ovunque. Avrebbe fatto il giro del mondo, quello schifo rosso. Quel pane zuppo di sangue.

«Non credevo che un bambino avesse tanto cervello» disse un vecchio uomo aggrappato a un bastone. «Non finiva più di uscire, quel cervello.»

Una donna era seduta sul muretto, non piangeva. Stringeva due figli morti, uno di qua e uno di là, come fiori recisi. Un’altra cercava di riacchiapparsi la sua gamba, le andava dietro strisciando sui gomiti. Un uomo era più buffo degli altri. Riverso come uno di quei guanti che la gente trova per strada e appoggia a una transenna, perché magari chi lo ha perso ripassa di lì. Guanti spaiati, tristi, sporchi di fango. Ecco, lui se ne stava lì come un guanto appoggiato a uno di quei tubi di ferro che dividono le strade. Ma non aveva più la pancia. Solo un grosso buco circolare, un po’ sfilacciato. Dietro si vedeva la gente in fuga, le barelle, e lui era lì come un effetto speciale.

Gojko quel giorno sembrava impazzito, era corso subito lì, urlava ai giornalisti di filmare…

«Così adesso si accorgeranno di noi!»

Raccolse una pagnotta, la spezzò, la mollica era intrisa di sangue rosso come sugo. La offrì ai giornalisti.

«Ecco, tenete e mangiatene tutti, questo è il nostro sangue…»

Poi schizzò via, disperato come Giuda che va a impiccarsi.

Più tardi la città taceva. Era stata una giornata di fiducia. Erano arrivati quei giovani con le tute mimetiche e i caschi azzurri come il cielo… la gente si era illusa che fossero angeli custodi, che fosse finita. Invece adesso l’ospedale era pieno di carne da ricucire. Anche la montagna taceva. Le televisioni del mondo non facevano che passare quel nastro truculento. E gli animali lassù s’erano rintanati a bere rakija per festeggiare la fama.

Partimmo due giorni dopo. Era tornata la corrente, tutte le lavatrici di Sarajevo si erano messe a funzionare nella notte. Mi sembrò un buon segno. Raggiungemmo Zagabria su un pullman che aveva addirittura l’aria condizionata, era uno di quelli che solitamente portavano i pellegrini a Medjugorje. Da lì riuscimmo a prendere tranquillamente un aereo. Volevo dire tante cose a Diego, gli dissi: «Un piatto di spaghetti, ci pensi?».

Diego sorrise.

I suoi occhi erano rossi, bisognava portarlo da un medico, era la prima cosa che contavo di fare. Adesso pensavo che Dio non ci avrebbe mai più lavato gli occhi.