Neruda in cattedra

E continuando con il post precedente, pubblico un altro contributo di oggi in classe. Una allieva, per parlare dell’amore, ha proposto questo sonetto di Pablo Neruda. Sotto lo propongo in un video pescato dalla rete, con la musica di Ludovico Einaudi e la voce di Paolo Rossini.

 

Non t’amo come se fossi rosa di sale, topazio

o freccia di garofani che propagano il fuoco:

t’amo come si amano certe cose oscure,

segretamente, entro l’ombra e l’anima.

 

T’amo come la pianta che non fiorisce e reca

dentro di sé, nascosta, la luce di quei fiori;

grazie al tuo amore vive oscuro nel mio corpo

il concentrato aroma che ascese dalla terra.

 

T’amo senza sapere come, né quando, né da dove,

t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:

così ti amo perché non so amare altrimenti che così,

 

in questo modo in cui non sono e non sei,

così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,

così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.

Nudi nella rete?

Sono convinto che internet sia un’opportunità molto importante per incrementare le conoscenze in vari ambiti e la circolazione di idee e opinioni. Sono altresì convinto che sia una risorsa da maneggiare con cura e che possa nascondere insidie non sempre chiaramente identificabili. Mi riferisco, in particolare, all’utilizzo che può essere fatto dei social network, o comunque di tutti quei siti che offrono la possibilità di esposizione personale. Sento la necessità, per la mia professione, di interessarmi dei mezzi che i ragazzi di oggi utilizzano per relazionarsi o semplicemente per svagarsi e devo confessare che non è sempre facile stare al passo con i tempi. Basti pensare che le differenze tra le varie età sono notevoli: alcuni degli studenti che ho in quinta non conoscono gli spazi web utilizzati da quelli delle medie o del primo biennio delle superiori… Figuriamoci io… Quello che mi preoccupa è che troppo spesso vedo i ragazzi esporsi in maniera personale sulla rete: sono loro, con le loro foto, i loro luoghi, le loro famiglie, i loro animali, i loro gusti, le loro passioni, i loro amori, le loro rabbie, i loro sfoghi. E spesso compaiono nomi e cognomi di amici, amori, nemici, rivali, parenti, conoscenti, insegnanti, allenatori… E in tutto ciò si espongono con il loro essere e le loro emozioni, piangono o ridono per quello che si scrive su di loro. Di frequente quanto appena descritto è pubblico, visibile a tutti. Ho amici scafati a proposito della rete, che utilizzano pseudonimi per gestire blog o profili e che si divertono a provocare discussioni o confronti, scrivendo spesso anche ciò che non condividono a livello ideale, solo per osservare le reazioni; e se ricevono insulti sanno regolarsi, sanno mettere una distanza di sicurezza tra la propria realtà e quella virtuale. La paura che ho, invece, nei confronti dei ragazzi è che questa distanza non ci sia e più avanti vanno le cose più il virtuale diventerà parte della realtà. Basta vedere quello che è successo ieri negli States: su twitter è apparso questo messaggio

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La reazione immediata di Wall Street è stata questa

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Si è risolto tutto in pochi attimi, quando si è scoperto che The Associated Press era vittima di hackeraggio. Un ragazzo che viene offeso in rete perché goffo o eccessivamente sensibile, una ragazza accusata di essere una poco di buono o di avere chili di troppo avranno lo stesso crollo di Wall Street. Avranno la stessa capacità di risollevarsi?

Un virtuale molto reale

Afferma Philippe Queau: “Ci sono diverse specie di realtà. Il cyberspazio ci insegna che la url.jpgrealtà non è qualcosa di statico, ma che ci sono diversi livelli di realtà. Platone avrebbe detto che ci sono dei livelli intermedi di realtà. Dunque io credo che bisogna evitare di opporre il reale e il virtuale. E’ troppo semplicistico. Bisogna cercare di comprendere che cosa c’è di virtuale nel reale e che cosa c’è di reale nel virtuale.” Facebook, twitter, ask, myspace, google+… non sono estranei alle nostre vite; dobbiamo avere la consapevolezza che nel momento in cui decidiamo di starci abbiamo la responsabilità di quello che scriviamo, postiamo, tagghiamo, askiamo… E tutto questo ha a che fare con le nostre vite, smettendo ben presto di essere virtuale per divenire molto molto reale e concreto. Penso sia necessario fare uno sforzo fondamentale: mettersi nei panni degli altri, provare a calzare le loro scarpe, provare a leggere quanto scriviamo con gli occhi di un’altra persona. Sul blog cerco di farlo e non sempre ci riesco e mi dico, magari a distanza di settimane o mesi “beh, questo avrei potuto scriverlo in un’altra maniera”… E’ un esercizio continuo, magari pesante, ma, ritengo, necessario.

Sfide

Premessa: in questo breve post userò il genere maschile come genere neutro.

Martedì mattina un collega mi avvicina “Sai, mi sono molto arrabbiato con XX l’altro giorno. E’ stato molto scorretto. Vedi se riesci a parlarci tu”. Oggi ho parlato con XX: “Cos’è successo con il prof ZZ? Era arrabbiatissimo!”. Mi risponde XX: “Sì, lo so prof, ho già chiarito: ho chiesto scusa perché a un adulto non posso rivolgermi così. Però sono stato offeso e lì non c’ho visto più…”.

La sfida dell’essere adulti coerentemente: per studenti e insegnanti.

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Un amore di… Franz

A breve, nel nostro Istituto, terremo un incontro sull’orientamento e sulla valorizzazione dei talenti interni ad ognuno di noi. Uno degli aspetti che emergeranno sarà senz’altro che oggi gli studenti devono avere una prospettiva per lo meno europea sul mondo del lavoro. E allora pubblico una pagina, tra l’altro scritta in uno stile che mi piace molto, del blog Franz io ti amo (recuperata da scambieuropei): frizzante, vivace, coinvolgente.

Franzbroetchen-a24925929.jpg“Il mio blog si chiama “Franz io ti amo” perché quasi tutte le mattine, qui ad Amburgo, mi sveglio con Franz. Non facciamo coppia fissa: lo tradisco spesso, ma stiamo bene così Franz e io. Franz per gli amici, Franzbrötchen per tutti gli altri, è un croissant alla cannella, vanto della pasticceria amburghese da almeno un paio di secoli. Io, invece, mi chiamo Erika. Ho ventisette anni, una laurea magistrale 110 e lode, qualificazioni varie, parlo quattro lingue e devo picchiare molto forte perché il mondo non mi calpesti. Mi sono trasferita in Germania non per amore di Franz (quello è arrivato dopo), bensì per motivi professionali: per trovare, cioè, quelle opportunità che l’Italia, al momento, sembrava non potermi offrire (sarei felice di venire smentita, ovviamente: nel frattempo però non riesco a stare ferma ad aspettare e me la costruisco qui, la mia carriera). Sono partita da sola e da sola mi arrangio. Tranne che per montare le tende; per quello, credo, aspetterò che il mio nuovo coinquilino torni dalle vacanze. Ho iniziato con uno stage, che qui si chiama Praktikum. Adesso proseguo la scalata alle vette di un lavoro dignitoso con un contratto da Trainee. Mi pagano per scrivere testi, correggere bozze, concepire progetti web, realizzare campagne pubblicitarie online. Faccio tutto questo in italiano, tedesco, inglese e francese; mi arrangio con lo spagnolo e il terribile olandese; qualche volta, a fine giornata, ho un po’ di mal di testa.

Sono una ragazza con la valigia. Una ragazza con la valigia lo son sempre stata. Prima per passione, ora anche per necessità. La mia storia è simile a quella di tanti altri giovani volenterosi , testardi e di talento che non hanno avuto altra scelta che lasciare l’Italia. Mi sono laureata il giorno di San Valentino del 2011 (da allora, perlomeno, ho una ragione per festeggiare il 14 febbraio). Subito dopo sono partita per Berlino. Vi sono rimasta per cinque mesi, traslocando per cinque volte. E’ stata, sotto diversi aspetti, una delle esperienze più importanti della mia vita. Neppure dopo, comunque, ho cessato di cacciarmi in situazioni incredibili nei posti più vari: Roma, Bruxelles, Münster, ancora Berlino, Selb, Amburgo, poi di nuovo in Italia, poi di nuovo Amburgo. Borse di studio, progetti europei, tirocini e viaggi della speranza. Il tutto, in circa un anno e mezzo. E’ stato anche divertente, ma non sempre. Ho parlato un mix di lingue diverse, fatto lavori differenti e preso molte, molte, molte fregature (personali, professionali, tutto il possibile e l’immaginabile).

Vivere all’estero: In definitiva è semplice prendere, partire e trasferirsi all’estero? Io credo che, anzitutto, occorra essere parecchio motivati e resistenti agli urti. I primi mesi possono essere logoranti: cercare casa, le procedure burocratiche, la mancanza di qualunque punto di riferimento, gli errori grandi e piccoli commessi perché non sapevi/non ti avevano detto/non avevi capito. Senza dubbio si conosce un’infinità di gente nuova. L’impressione è proprio di non fare altro che ripetere come ti chiami, quanti anni hai, dove hai studiato e cosa fai in Germania, e di arrivare molto più di rado, purtroppo, a discorsi un po’ più densi . Con alcune persone, l’affinità è immediata; con molte altre, le barriere (sia linguistiche, sia culturali) sembrano insormontabili. Per alcuni, sei un animale esotico; per altri, semplicemente, non esisti. Devi importi per far capire ai più ottusi che non sei un Gastarbeiter; che “Italia Mafia” risulta offensivo anche se viene pronunciato col sorriso (anzi, soprattutto in questo caso); che non ne puoi più delle battutine su Berlusconi; che l’Italia è anche altro, accidenti, e che concetti come “Dolce vita”, “Bella Italia”, “temperamento italiano”, ti rappresentano tanto quanto un “O sole mio”, cioè: neanche un po’.

Poi, per quanto mi riguarda, non gesticolo perché sono italiana: gesticolo perché sono nevrotica.”

De rerum…

Un simpatico e leggero articolo di Alberto Mattioli su La Stampa; si parla del latino.

“L’ultimo sponsor del latino è anche il più illustre. Annunciando la sua abdicazione in latino, Benedetto XVI rilancia la più viva delle lingue morte. Del resto, Joseph Ratzinger è il Pontifex Maximus di una Chiesa che da Roma ha preso tutto: la sede, l’universalità, l’organizzazione territoriale e, appunto, la lingua. Ricordate Dante? «Roma, onde Cristo è romano». Eh, il latino. Più si cerca di mandarlo giù, più si tira su. Sopravvive a epurazioni scolastiche e concilii ecumenici. Trovando, sempre, testimonial affezionati. Come Georges Brassens, di certo non un lefevriano, che già negli Anni Settanta cantava così: «Il ne savent pas ce qu’il perdent / Tous ces fichus calotins / Sans le latin, sans le latin / La messe nous emmerde», e non crediamo che si debba tradurre. «Calotin», comunque, in argot è il prete.

Solo nostalgia? No. Il «Figaro» nota che il latino non solo è vivo e vegeto, ma vende anche benissimo. E riporta una dichiarazione di Marcel Botton, presidente della società Nomen International, specializzata nel trovarne uno ai prodotti: «l’economia mondiale dei prodotti è greco-latina» e «le lettere latine dominano il mondo». Esagerato? Macché. Ci sono le automobili Volvo, Audi e Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino, ma anche verbo latino), i fermenti lattici di Actimel, la crema Nivea, gli orologi Festina, i tappi per le orecchie Quies, computer Acer, le salse Rustica, l’omino della Michelin si chiama Bibendum e Navigo l’abbonamento alla metro di Parigi. La mitologia greca va forte nella moda: Hermès, Nike. Non è solo questione del latino che insegna a ragionare, a sistemare i pensieri in ordine logico, soggetto verbo e complemento, come ci ripetevano quando recalcitravamo davanti al rosa rosae. E’ che il latino è economo di parole, è tutto nervi e niente grasso, incita e anzi obbliga alla sintesi. Niente di meglio per gli slogan. Altro che tweet.

9782915732450_1_75.jpgSempre dalla Francia arriva un’altra bella notizia per il latino. Il «Petit Nicolas», che non è Sarkozy ma il protagonista del fumetto nazionale insieme ad Asterix (con cui peraltro ha in comune lo sceneggiatore Goscinny, il disegnatore è invece Sempé), 13 milioni di copie vendute in tutto il mondo, è stato tradotto per la prima volta in latino, a uso e consumo dei 9.500 professori di lettere classiche francesi e dei loro 500 mila studenti. Bene: il «Pullus Nicolellus» è andato benissimo e, uscito in novembre, ha già avuto tre ristampe. Un trionfo (per inciso: la tipica esclamazione del Nicolas-Nicolellus, «C’est chouette!», è diventata «Glaucops est!»).

Poi ci sono i finlandesi. I quali parleranno pure una lingua che non è simile a nessuna altra, ma sono affezionatissimi a quella da cui sono derivate molte altre. Insomma, sono dei latinisti talmente appassionati che la radio di Stato ha un notiziario in latino seguito da 75 mila fedelissimi. E quando è toccata a Helsinki la presidenza di turno dell’Unione europea, i finlandesi ne hanno pubblicato i comunicati nella lingua di Cicerone. Del resto, Mario Capanna fece un memorabile discorso al Parlamento europeo esprimendosi appunto in latino, la più europea delle lingue. E venne complimentato da Otto d’Absburgo: divisi dalla politica, uniti dalla lingua.”

Suo figlio partecipa poco

Colloquio genitore-insegnante.

Insegnante: E’ bravo, solo che interviene poco, dovrebbe proporsi un po’ di più, partecipare maggiormente alla lezione, buttarsi ogni tanto.

Genitore: Eh, sapesse quante volte glielo dico…

Pensiero dello studente:

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Uno sguardo oltre la quinta

Quintini? Diamo un’occhiata al domani? Stacchiamo un attimo la spina dal presente per puntare un faretto sul futuro? Ecco qui…

http://orientagiovani.wordpress.com/2013/01/23/107/

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Dritto al cuore

Un articolo di Valerio Capasa su cui riflettere con calma e a lungo, un articolo sulla scuola, sul modo di “fare” scuola. E’ preso da Il sussidiario.

“Immaginiamo che a scuola debba iniziare lo studio di un nuovo autore, e poniamo per assurdo che esso sia Vasco Rossi. Come si procede, di solito?

Paragrafo 1: la vita. Ossia: Vasco Rossi nacque a Zocca il 7 febbraio 1952; suo padre faceva il camionista, eccetera eccetera.

Paragrafo 2: le opere. Il primo album fu pubblicato nel 1978 e si intitola Ma cosa vuoi che sia una canzone; contiene otto tracce: La nostra relazione, eccetera.

Paragrafo 3: l’ideologia. Ossia: «vita spericolata», «pessimismo cosmico» e robe del genere.

Paragrafo 4: lo stile. Cioè il rock, dai predecessori come i Rolling Stones al confronto con Ligabue.

Dopo qualche settimana, uno studente avrebbe tutte le ragioni per chiedere: «professoressa, scusi ma Vasco Rossi non fa il cantante? e quando ascoltiamo una sua canzone?». Dimenticavo: prima di questo capitolo – come non manca mai quello sul Medioevo prima di Dante e sul Romanticismo prima di Leopardi (ma non doveva averlo già fatto l’insegnante di storia?) – bisogna sorbirsi l’introduzione al contesto storico-culturale dell’epoca, ed ecco pagine e pagine sull’Emilia Romagna nel dopoguerra. Quale mai possa essere il nesso con Albachiara non è dato sapere: certo è che intanto perfino Vasco è diventato insopportabile.

scuola, lezione, autori, testi, culturaQual è la prima cosa che serve per fare letteratura? Le parole dell’autore: non le parole sull’autore. È davvero rilevante la biografia? Sentite Pirandello: «nella mia vita non c’è niente che meriti di essere rilevato: è tutta interiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri». Pascoli rincara la dose, suggerendoci che spiegare la vita dei poeti è soltanto un trucco inventato da chi non capisce niente di poesia pur di avere qualche cosa da dire: «si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto»; «i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi». Noi studiamo Dante, Tasso, Leopardi per quello che hanno scritto, non per quello che hanno fatto. Anche perché di un paragrafo sulla biografia rimane soprattutto il gossip: «prof, ma è vero che D’Annunzio si fece togliere una costola per fare meglio le sue porcate?». Dopo cinque anni di liceo, uno studente sa poche cose ma chiare: Omero era cieco, Beethoven era sordo, Leopardi era gobbo, Tasso era pazzo, Pascoli era sfigato, Orazio beveva, Pasolini era pedofilo, Svevo era inetto, Montale aveva il male di vivere. Una galleria di mostri, insomma, e una sola conclusione: “loro erano strani, io sono normale, quindi quello che loro dicono non mi riguarda”.

In una poesia, invece, non parla la vita dell’autore, bensì la nostra vita: «la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve», sentenzia con semplicità mirabile Massimo Troisi nel Postino. Il primo verso della Divina Commedia è esplicito: parla di «nostra vita», dice «nostra», non dice «mia». Non sarebbe letterariamente serio ignorare il nesso con quello che viviamo. Se leggendo il primo canto dell’Inferno non troviamo nulla che riguardi la «nostra vita», o Dante ha sbagliato a scrivere o qualcosa non va nel modo in cui lo leggiamo.

È necessario allora far piazza pulita di un metodo scolastico di leggere. Provate a chiedere a qualsiasi ragazzo se ha presente canzoni, film, poesie e anche libri da cui si sente descritto, che addirittura lo commuovono: assolutamente sì, non farà fatica a trovarne. Il problema è che rarissimamente qualcuno di loro si è commosso per qualcosa che ha letto a scuola. Che cosa in classe ostruisce questo cuore? Anni sui banchi hanno sortito l’effetto di fargli disimparare un metodo che la natura ci ha comunicato fin da piccolissimi. Maria Michelle ha un anno e mezzo, ma quando ha visto il pesciolino Nemo che ritrovava il padre si è girata e ha abbracciato il suo papà: totalmente dentro una storia altra e così immedesimata da paragonare quella storia con la propria esistenza. Quanti studenti liceali sanno farlo ancora quando leggono Ariosto o Virgilio? È che molti insegnanti non credono che un testo sia in grado di parlare al cuore di un ragazzo. Il mio maestro ci credeva, e in quarta elementare ci fece imparare a memoria nientemeno che La vergine cuccia di Parini: se ne infischiò di 250 anni di distanza linguistica e dello stile classicheggiante, e io non smetterò di ringraziarlo per avermi fatto decidere, a 9 anni, di iscrivermi a Lettere, semplicemente perché quella poesia era troppo bella. Se invece mi avesse fatto studiare dei paragrafi sull’illuminismo e sulla polemica dell’intellettuale contro la società nobiliare, mi avrebbe fatto ammuffire la letteratura. Anche perché, come osserva Michail Bachtin, «se il significato di un’opera viene ridotto, ad esempio, alla sua funzione nella lotta contro la servitù della gleba (nella scuola media si fa così), quest’opera deve perdere totalmente il suo significato, quando la servitù della gleba e i suoi residui escono dalla scena». Chi sommerge i testi con troppe informazioni fiacca le energie di uno studente prima ancora che inizi a leggere. Provate a sondare a che capitolo dei Promessi sposi sono arrivati a Natale gli studenti del secondo anno: di un romanzo di 38 capitoli è rarissimo che se ne siano letti 10, e sono pronto a scommettere che nella maggioranza delle classi si sono perse invece settimane a parlare della mamma di Manzoni, del giansenismo, di Walter Scott e del Seicento. Basterebbe un calcolino per capire che se fai 4 capitoli in 3 mesi, è praticamente impossibile leggere i restanti 34 in 5 mesi. Prendete una prima: stanno un mese a fare la questione omerica e poi leggono in tutto tre brani dell’Iliade. Ma la questione omerica si può fare in 20-25 secondi: “su Omero non abbiamo certezze: secondo alcuni ha scritto Iliade e Odissea ma di lui non sappiamo altro, quindi leggiamo direttamente Cantami o diva…; secondo altri non è nemmeno esistito, quindi di cosa dovremmo parlare? Leggiamo direttamente Cantami o diva…”. Ho visto ragazzi del primo liceo e anche di prima media entusiasmarsi leggendo integralmente i poemi omerici, ho sentito dire da alcune mamme che mai avevano visto i figli finire così in fretta la cena, e tutto per continuare l’Odissea! Lo so che per tanti insegnanti proporre un testo senza paragrafo è scandaloso come un corpo senza mutande. Per chi è cresciuto all’ombra dello storicismo dei manuali, è un dogma di fede che l’autore è un uomo del suo tempo e dunque va anzitutto inquadrato nel suo contesto. Ed è anche vero, solo che «gli artisti veri», come scrisse Piero Calamandrei a Pavese, «sono del loro tempo e di tutti i tempi»: cioè soprattutto del mio tempo, altrimenti non si capisce perché mai possano interessarmi. Siamo pronti a lasciarci sfidare da quello che leggiamo? «I libri seri non istruiscono, interrogano» (Gòmez Dàvila). Non sono cose che hai imparato e che spieghi, come pacchetti ben incartati: le poesie non si sanno, succedono. Vogliamo che i nostri alunni diventino dei bravi ripetitori di paragrafi o che veramente raggiungano queste stracitate “competenze”? cioè che imparino a leggere delle opere letterarie? che scoprano il gusto di leggerle? Smettiamola di interrogare sui paragrafi, strappiamo pure le pagine inutili come nella celebre scena dell’Attimo fuggente, e leggiamo direttamente i versi dei poeti: ci troveremo di fronte alla bellissima difficoltà di capire con la nostra testa cosa stanno dicendo e cosa ci stanno dicendo, senza avere già il discorso pronto, di cercare noi le parole giuste per raccontare una scena, di sentire il ritmo di un’ottava, e magari, mentre leggiamo, a sentirci letti. «C’era una volta Wordsworth. Poi venne il diluvio di commenti su Wordsworth», osserva amaramente George Steiner: perché «vogliamo con tutte le nostre forze che ci venga risparmiato l’incontro diretto con la ‘vera presenza’»? Anziché indottrinarli e annoiarli, fidiamoci dell’intelligenza dei nostri studenti, che magari scopriranno di saper pensare qualcosa che non ha mai pensato né il libro né l’insegnante né answers.yahoo: «se io ho un libro che pensa per me», scriveva Kant, «io non ho più bisogno di darmi pensiero di me». Ecco la posta in gioco mentre leggiamo: accorgersi di sé.”

Una speciale normalità

Una mattinata di scuola. Studenti di prima che per dire cos’è l’amore fanno ascoltare ai compagni La cura di Battiato. Studenti di quinta che parlando di bene, male, Dio, destino e caso citano Schelling. Studenti di terza che ascoltano in silenzio assoluto il monologo finale di Novecento e il brano de Il grande inquisitore di Dostoevskij. Studenti di prima che propongono ai compagni una poesia di Prévert. Studenti di quarta curiosi delle quattro nobili verità… E dalle 8.00 alle 13.00 sento di fare uno dei mestieri più belli che ci siano… E non è un’eccezione, è la speciale normalità.

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Dietro un paravento

arroganza.jpeg“Una prepotente rozzezza dei modi e del linguaggio scambiata per franchezza e sincerità” scrive Fulvio Scaparro, sul Corriere della Sera 30 dicembre scorso. Mi capita spesso di sperimentarla, quella rozzezza, e di rifletterci sopra. Chi la utilizza spesso premette “Sai, sono uno schietto, le cose le dico in faccia”. Peccato che a volte si dimentichi che le parole, dette e scritte, possono far male come pugni, più di pugni. Canta Francesco Guccini in Cyrano: “con questa spada (la penna) vi uccido quando voglio”. Ecco l’articolo di Scaparro, dal titolo “I bambini gentili hanno successo, ma l’esempio deve venire dagli adulti”.

“Alcuni ricercatori della University of California sostengono che i bambini al di sotto dei dieci anni ai quali è stato chiesto di compiere tre atti di gentilezza per quattro settimane nei confronti dei compagni di classe acquistano popolarità tra i coetanei e appaiono più contenti. Stando ai risultati la gentilezza paga e, aggiungono i ricercatori, si tratta di un comportamento che consente di ottenere risultati simili anche da adulti. Per di più, rinforzare le relazioni sociali tra bambini servirebbe anche a combattere il diffondersi del bullismo. Su questo punto occorre chiarire che gli studiosi non ritengono sufficiente essere gentili per bloccare un bullo che per definizione è impermeabile alle buone maniere dei coetanei ed è incline a ritenere la cortesia un segno di debolezza. Quello che appare chiaro dalla ricerca è che il clima collaborativo che si instaura nella classe taglia l’erba sotto i piedi del bullo o addirittura potrebbe contagiarlo positivamente. L’Oxford Dictionary of Current English definisce la cortesia come il possesso e l’impiego di buone maniere unito alla considerazione per gli altri. Sono proprio la considerazione e il rispetto per gli altri che conferiscono alla gentilezza una profonda moralità e un elevato valore di coesione sociale. Di qui l’invito agli adulti a dedicare la dovuta attenzione a questo aspetto dell’educazione che a me pare oggi trascurato a favore di una prepotente rozzezza dei modi e del linguaggio scambiata per franchezza e sincerità. In italiano il congiuntivo, modo della possibilità, è a rischio di estinzione ma pare che anche il condizionale, modo della cortesia, non goda di buona salute. «Voglio» dice il piccino, «vorrei» lo correggono i genitori aggiungendo per buon peso «per favore». Tutto molto edificante; peccato che troppo spesso dentro e fuori casa il garbo, la buone maniere e la gentilezza non vadano per la maggiore. Genitori ed educatori abbiano fiducia nella forza del loro esempio: crescere in un clima di rispetto e considerazione fa stare meglio noi e gli altri e, aspetto non trascurabile, ci aiuterà non solo a scuola ma anche nel mondo del lavoro e nelle relazioni affettive.”

Il peso del futuro… e dello spreco…

Difficilmente scrivo dei post per il gusto di fare polemica. Ora, sono 5 giorni che aspetto di scrivere questo post. Nel nostro liceo, come nelle altre scuole superiori, sta arrivando il libercolo “Vie al futuro” prodotto (e deduco finanziato) dalla nostra Regione (o quantomeno pagato da un altro ente pubblico). Lo sconcerto nasce dalla grammatura della carta: sono anni che non mi capita di sentire uno spessore del genere all’interno di un libro! L’ho anche messo sul dorsetto: sta in piedi da solo… In un periodo come questo è necessario? Essendo diretto a ragazzi di quinta, che su internet ci navigano come Giovanni Soldini sul mare, si potrebbero iniziare a immaginare dei canali informativi che utilizzino tali strumenti… a tutto vantaggio di toner e carta risparmiati. Mi scuso per lo sfogo, ma era una cosa a cui tenevo.

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Prof, lei ci crede?

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“prof, lei ci crede alla questione del 21 dicembre?”

“certo”

“sul serio?”

“sicuro! ma ve lo spiego il 22”

🙂

Pur sempre figli

Oggi pomeriggio ero a un corso sulla LIM con altri insegnanti di religione e alla fine mi sono Giovani.jpgmesso a parlare con Massimo, un caro collega, e come spesso capita ci siamo messi a parlare dei nostri ragazzi. E tra le varie cose, quando poi sono arrivato a casa, mi è tornata alla mente una frase di Fabrizio De André: “Non è che i giovani di oggi non abbiano valori; hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capire bene, perché siamo troppo affezionati ai nostri”… In che occasione l’ha detta? Presentando la canzone La città vecchia, le cui ultime righe recitano: “Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese, ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo.”

Quell’aula semivuota…

Oggi, in una quinta, erano presenti, in tutto quattro alunni. La prima domanda che ho fatto a chi c’era è stata “Cosa avevate oggi? Compito? Interrogazione?”. Risposta: “No, oggi niente, ce li abbiamo i prossimi giorni”. La cosa era diversa da come mi ero immaginato: pensavo avessero voluto saltare qualche verifica, invece no. Oggi pomeriggio ci ho riflettuto sopra e i miei pensieri sono andati da A a Z. Sono partito da A, le parole di mio padre quando ero al liceo: “Te lo scordi di stare a casa per evitare una prova o per studiare. Andare a scuola è un po’ il tuo lavoro, resti a casa solo se stai male”. E’ con questo che sono cresciuto, col fatto di avere rispetto verso gli altri, che a scuola ci stavano andando, e verso me stesso: “è una questione di dignità” diceva scuola, insegnanti, insegnare, studenti, studiare, d'avenia, votosempre il papi. Poi i miei pensieri hanno fatto un ampio giro e sono finiti in Z: per tutto il periodo della scuola noi insegnanti diciamo continuamente “dovete studiare per voi stessi, non per il voto, ma per la vostra crescita, per la vostra cultura, per formarvi”. Peccato che poi, nei fatti, la maggior parte di noi disattenda queste parole. E il fatto che quasi un’intera classe preferisca stare a casa a studiare piuttosto che essere presente a una lezione la dice tutta. Il protagonista di “Bianca come il latte, rossa come il sangue” di D’Avenia, a un certo punto dice: “Io non studiavo molto lo stesso, perché le cose le fai se ci credi. E mai un professore è riuscito a farmi credere che ne valeva la pena. E se non ci riesce uno che ci dedica la vita perché lo dovrei fare io?”.

E tra la A e la Z ci siamo in mezzo noi, studenti, insegnanti, famiglie e tutti coloro che fanno parte del nostro mondo, con i nostri piccoli desideri da crescere, custodire e magari realizzare. Ve ne svelo uno mio. Smentire un’altra frase di D’Avenia: “Tanto i compiti di religione non li fa nessuno. Nella vita serve solo ciò per cui ti danno un voto”. Ovviamente, voi che mi conoscete sapete che la frase che mi interessa è la seconda visto che di compiti non ve ne ho mai dati…

Domani non vado

Ho trovato su Linkiesta questa lettera di un imprenditore italiano a suo figlio. La trovo interessante: ci sono cose che condivido, altre che faccio fatica a capire. Però in classe ne può nascere una bella discussione.

Italys-brain-drain.jpg“L’altro giorno mi hai telefonato alle 8 di sera per dirmi quanto ti angosciasse la verifica di greco della mattina dopo. Venivi da una settimana nera per te, in cerca come sei di un difficile equilibrio tra i genitori separati, gli amici e l’amore in conflitto, lo studio e lo sport ormai inconciliabili. Forse per la prima volta, a diciott’anni, tutto ti è sembrato troppo pesante per le tue spalle. Mi hai detto che non stavi bene, che avevi provato a studiare tutto il pomeriggio, ma senza riuscirci. Avevi il mal di testa e il cuore nero. “Domani non vado”, hai concluso. Ti ho risposto di no. Ti ho detto che quando scappi la prima volta, nella vita, prima o poi ce ne sarà sicuramente una seconda. E poi una terza. Dopo un po’, diventa il tuo modo di vivere. Dopo, non è mai colpa tua. Dopo, c’è sempre un buon motivo per scappare, una persona con cui è meglio non confrontarsi, un appuntamento importante al quale non presentarsi. Ti ho detto che mancavano ancora quattro ore alla mezzanotte. Quattro ore per provare a fare del tuo meglio. E stringere i denti. “Fa quello che puoi, ho insistito, e domattina vai alla tua verifica a testa alta. Non importerà il voto. Se sarà un 5, lo festeggeremo perché sarà un 5 che avrai preso senza darti per vinto. Ti sarà costato fatica e dolore, ma sarà il più bel 5 della tua vita, molto meglio di un qualsiasi 8 preso la settimana successiva. Ma se prenderai un 6 o un 7, quello sarà il più bel voto della tua vita. Te lo sarai guadagnato contro ogni pronostico.” Questa volta mi hai ascoltato: la mattina ero in riunione quando è arrivato il tuo messaggio. La stanza era piena di colleghi alle prese, insieme a me, con l’ennesima emergenza aziendale di quella che sembra una storia infinita. “Ho preso 7 e mezzo.”

La mattina dopo ho letto su un giornale la lettera che un ex collega aveva scritto a suo figlio. Adesso questo ex-collega, dopo una carriera importante, guida un’università che dovrebbe formare i giovani dirigenti dell’Italia di domani. Vedi, in questa lettera c’era scritto esattamente l’opposto di quello che ti avevo detto poche ore prima. Diceva a suo figlio di andarsene dall’Italia. Diceva che per un giovane di talento non vale più la pena di lavorare nel nostro paese. Che la mediocrità, il clientelismo, la rissa istituzionalizzata come unico strumento di confronto, l’impunità sono ormai l’unica legge e che le regole del gioco sono ormai talmente alterate che non vale nemmeno più la pena di provarci. Tu sai quanto io ami il nostro Paese. Però continuo ad incazzarmi ogni volta che vedo il suo potenziale sprecato. Continuo a non capire perché la nostra struttura pubblica sia al tempo stesso così ipertrofica e così assente, perché i meccanismi legislativi siano così ridondanti e perché ogni volta che si parla con i sindacati italiani sembra che l’istinto di autoconservazione dell’apparato prevalga sempre sull’interesse dei lavoratori. Sono tante le cose che mi mandano in bestia, almeno tante quante quelle che fanno arrabbiare il mio ex-collega, ma nonostante tutto continuo a lottare ogni giorno. Fra non molto toccherà a te, ai tuoi amici, raccogliere il testimone. Le sfide che vi attendono sono enormi, ma forse non più grandi di quelle che hanno affrontato i vostri nonni, che ereditarono un Paese distrutto dalla guerra, diviso, penalizzato da un’alfabetizzazione incompiuta e ancora alle prese con un’identità nazionale incerta. Certo, le esperienze all’estero sono importanti nel mondo globalizzato e integrato di oggi: come fai a competere con inglesi, francesi, tedeschi, ma anche cinesi, indiani e arabi, se non sai come ragionano? Loro vengono da decenni a casa nostra per carpire i segreti di un modello che ha punte di eccellenza riconosciute ovunque, meno che da noi. A te, ai tuoi compagni della generazione del ’90, dico che il vostro futuro è qui, nel vostro Paese. A te, dico che se non siete orgogliosi del vostro Paese, anche quando avete legittimi motivi per criticarlo, è difficile essere orgogliosi di voi stessi. La sfida è rimanere per cambiarlo, questo Paese, dove serve, col tempo che ci vuole fosse anche un sempre. Ci sarà tanto da fare, e tocca a voi.”

Studenti di seconda classe

Un genitore viene a colloquio a scuola, si siede davanti a me e tra le prime cose emerge la timidezza della figlia. “E’ dalla prima elementare che tutti me lo dicono, ma che ci posso fare? Io le dico di buttarsi, di aprirsi, di provare, ma faccio solo peggio”. Così, da un po’ di anni non lo dico più e cerco di valorizzare in altro modo la partecipazione alla lezione di una persona introversa. Oggi ho letto questo interessante articolo di Alessandra Farkas.

bambino-timido.jpgNEW YORK — «Sono stata ispirata dalla stessa passione e dalla stessa indignazione che nel 1963 spinsero Betty Friedan a pubblicare The Feminine Mystique», spiega alla «Lettura» Susan Cain. «Un estroverso guarda all’introverso — continua — proprio come gli uomini hanno guardato alle donne fino agli anni Sessanta: cittadine di seconda classe. Una discriminazione che produce una colossale perdita di talento, energia e felicità». Una tesi forte, condivisa dai tanti critici che hanno acclamato il suo Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare, il libro già cult in America («una esplorazione affascinante della psiche umana — scrive “Kirkus” — capace di cambiare delle vite») che dopo essere stato un caso dell’editoria Usa, sta per essere tradotto in 17 Paesi (in Italia da Bompiani).

Il libro si scaglia contro un’America «terra degli urlatori e patria dei logorroici» dove tutto, dalla scuola al lavoro, dai media alle mega-chiese, dalla politica allo showbiz, privilegia chi strilla più forte. «Il problema non è certo solo americano», spiega Cain, che dopo le lauree a Princeton e all’Harvard Law School, ha lavorato come consulente per molte aziende e multinazionali, nonostante la timidezza cronica. In Quiet la 44enne autrice sostiene che agli introversi — almeno un terzo della popolazione — dobbiamo alcuni dei più grandi progressi dell’umanità: dalla teoria della relatività (Albert Einstein) all’invenzione del personal computer (Steve Wozniak), da Harry Potter (J. K. Rowling) a Google (Larry Page) e Microsoft (Bill Gates). «Picasso aveva ragione quando affermava che, senza totale isolamento, non è possibile realizzare grandi opere», teorizza Cain. «La solitudine è il catalizzatore dell’innovazione e ciò spiega il potere di Internet: un luogo dove si può essere da soli ma insieme. Proprio come la lettura, che Marcel Proust definì “quel fruttuoso miracolo di una comunicazione nel mezzo della solitudine” ». Eppure il mondo continua a credere che Apple sia stata creata da Steve Jobs invece che da Wozniak. «Jobs era un genio del marketing, che è per definizione un dominio pubblico. Wozniak ha inventato il primo pc, ma l’ha fatto in maniera riservata, senza cercare allori, perché i riflettori non gli interessavano».

Qual è il debito che arte e letteratura hanno nei confronti degli introversi? «Gli artisti possono anche essere estroversi, come lo sono stati Caravaggio, Raffaello, Norman Mailer. Eppure la maggior parte dei grandi maestri della storia — da Chopin a Van Gogh, da Orwell a Salinger, da Spielberg a Dr. Seuss — erano e sono introversi. Senza di loro, ci sarebbe una falla colossale nel tessuto della nostra storia culturale».

La politica è forse diversa? È possibile essere un leader efficace se non si possiede il magnetismo soprannaturale degli estroversi? «Hitler, Mussolini e gran parte dei dittatori della storia erano estroversi estremi. Eppure una delle rivelazioni più sorprendenti della mia ricerca è stata scoprire che molti grandi leader — Gandhi, Rosa Parks, Eleanor Roosevelt, Lincoln, Jfk — erano introversi. Adam Grant, docente alla Wharton School, di recente ha pubblicato uno studio pionieristico secondo cui, nel gestire i dipendenti di talento, i leader introversi danno risultati migliori perché più aperti al loro contributo creativo».

Il settimanale «Time» si è chiesto se il Sexgate, la guerra in Iraq e la crisi di Wall Street del 2008 siano state il risultato di leadership eccessivamente estroverse. «Il risvolto della medaglia nella vita degli estroversi è la loro propensione a correre rischi ingiustificati. Gli studi mostrano che essi hanno più incidenti d’auto e tendono a rischiare di più in Borsa».

Il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà un estroverso o un introverso? «Stiamo assistendo alla prima campagna presidenziale della storia americana in cui entrambi i contendenti sono introversi. L’elettorato ammira lo stile cerebrale e riflessivo di Obama. Ma l’America è un Paese estroverso e la gente brama la cordialità e la socievolezza di Bill Clinton».

Nel libro lei cita due proverbi confuciani — «Il vento ulula, ma la montagna resta immobile» e «Colui che sa, non ne parla» — per dimostrare quanto in Oriente gli introversi siano rispettati e ammirati. «In Asia gli individui si considerano parte di un insieme più grande — la famiglia, l’azienda, la comunità — e danno grandissimo valore all’armonia del gruppo. Spesso subordinano i propri desideri agli interessi del gruppo, accettando di buon grado il posto che occupano nella scala gerarchica. La cultura occidentale, al contrario, è organizzata attorno all’individuo. Ci vediamo come singole entità e riteniamo che il nostro destino sia di esprimere noi stessi, perseguire la nostra felicità, esseri liberi da vincoli indebiti».

Dove nasce il diverso atteggiamento della cultura occidentale? «Ne La montagna incantata il grande Thomas Mann scrive che “La parola è civiltà. La parola, anche quella più contraddittoria, mantiene il contatto. È il silenzio che isola”. Un atteggiamento identico a quello contenuto nelle massime di Ptah-Hotep del 2400 a.C.: “Per poter essere forte, diventa un artista della parola; perché la forza dell’uomo è nella lingua e la parola è più potente di qualsiasi arma”».

Lei sostiene che le culture latine, come quella italiana, tendono a privilegiare l’estroversione. «L’ammirazione per gli estroversi si ritrova già fra gli antichi greci, per i quali l’oratoria era una virtù degna del massimo apprezzamento, e fra i romani, per i quali la peggiore punizione immaginabile era l’esilio dalla città e dalla sua vivace vita sociale. Il vero spartiacque in Usa è arrivato all’inizio del XX secolo, con l’ascesa del big business e della sua filosofia del “parlare è vendere e vendere comporta sempre parlare”. Non è un caso che negli anni Venti e Trenta gli americani perdano la testa per le stelle del cinema. Chi meglio di un idolo della celluloide poteva rappresentare un modello di carisma e magnetismo?».

Pensa che il suo libro possa contribuire a indebolire l’egemonia del fenomeno contemporaneo che lei chiama New Groupthink, «nuovo pensiero di gruppo»? «Credo che l’impatto del mio libro, almeno negli Stati Uniti, sia già enorme. So che diverse scuole, pubbliche e private, stanno rivedendo i loro curricula per meglio valorizzare il talento degli studenti più timidi. Lo stesso sta succedendo nelle università e in compagnie come Steel Case e Vanguard, dove si sta ripensando l’efficacia dell’open space, che secondo tutti gli studi è dannoso e controproducente».

Il corriere dell’essenziale

capacità di insegnare.jpg“[…]Non esiste una professione di maggiore privilegio. Risvegliare in altro essere umano forze e sogni superiori alle proprie; indurre in altri l’amore per quello che amiamo; fare del proprio intimo presente il loro futuro; è una triplice avventura senza pari. […] È una soddisfazione incomparabile quella di essere il servitore, il corriere dell’essenziale […]”. George Steiner, La lezione dei maestri

Un’ambizione ridicola

121008Nobel_6758434.jpgA 15 anni il neo premio Nobel per la medicina John Gurdon riceveva questo giudizio dal suo professore di scienze: “E’ stato un semestre disastroso. Il suo lavoro è ben lontano dall’essere soddisfacente. Impara a fatica e i fogli dei suoi test sono mezzo strappati. In uno ha preso un 2 su un punteggio massimo di 50. Inoltre si mette nei guai perché non ascolta, e insiste a fare le cose alla sua maniera. Ho sentito che avrebbe l’idea di diventare uno scienziato: un’ambizione ridicola alla luce dei suoi voti attuali. Se non riesce ad apprendere le semplici nozioni della biologia, non avrebbe alcuna possibilità di diventare un esperto. Sarebbe una perdita di tempo, per lui e per i suoi insegnanti”. C’è molto da meditare, soprattutto per chi mostra tanta sicumera…

 

Pazienza

Interpreto le espressioni di alcuni colleghi dopo il pomeriggio di oggi 🙂

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La pazienza è l’arte di sperare (Luc de Clapiers de Vauvenargues)