La libertà del genio

In questi giorni, se a un friulano dici “Liverpool” sa di cosa parli, anche se, come tanti friulani, per l’Udinese manco tifa. Ma in settimana, da Liverpool, è anche arrivata un’altra notizia che ho letto sul Corriere l’altro giorno: “La ragazza più intelligente di Einstein”. Oggi, a commento, ho trovato questo pungente articolo di Monica Mondo su Il sussidiario.

“Confessate. Quale genitore non ha almeno una volta guardato suo figlio cercando di C_2_articolo_1063115_imagepp.jpgintravedere i segni di un’eccezionalità, anche se per pudore non si è mai ventilata la parola genio. Si comincia dalla culla: apre già gli occhi, già sorride, dice già mamma, che sguardo vivace; e all’asilo è il più sveglio, quello che impara meglio le canzoncine e ricorda i nomi di tutti gli amichetti. Le cose cominciano; si prosegue così alle elementari, dove i 9 e i 10 siglano la strada di un ragazzino speciale, e non importa se è così per tutti. Per il tuo è diverso, lui è bravo davvero. Le cose si mettono male alle medie, ma se tentenna in qualche materia è l’ambiente caotico, i professori che non lo capiscono, è troppo sensibile. Poi bisogna dargli tempo, non si matura tutti insieme… E al quarto anno di liceo, quando non ce la fai più a pagare ripetizioni e saltare le vacanze per rimediare ai suoi debiti, allora ti rassegni, sì, è intelligente ma non si applica, l’importante è che sia felice (ma lo dici perplesso, dubitando in cuor tuo che mai sia possibile, in un mondo dove già è dura se primeggi, figurarsi se sei nel mucchio o in ultima fila).

Non siamo ipocriti: piacerebbe a tutti sentirsi dire: gentilissimi, vostro figlio è superiore alla media, gradirebbe sottoporlo a una misurazione del quoziente di intelligenza? Di più: guardi, l’abbiamo fatto, livello incredibile, iscritto d’ufficio al Mensa. Che sta per tavola, in latino, cui sono invitati pochi, per un banchetto riservato. Come la Tavola Rotonda del ciclo arturiano, solo che lì non bastava essere intelligenti, toccava pure essere buoni e puri. I vantaggi di questo titolo d’onore? Non più scudiero e la stima del sovrano, ma Porte spalancate nelle più prestigiose università europee, aziende che si contendono il giovane, luminose carriere, Nobel. Piacerebbe, anche perché queste storie capitano davvero. Prendete Olivia Manning, una ragazzetta di Liverpool. Posto triste, crisi da paura, resta la squadra di calcio. Ma lei non ci gioca. Lei è la più brava a scuola, e si sgobba tutti i pomeriggi i compiti di mezza classe, mentre i pelandroni stanno alla play o fanno il filo alle sue amiche. Olivia ha solo dodici anni, anche se la fotina che ci regalano le cronache immortala un faccino più grande, nonostante il penoso fiocco a quadretti che le incornicia i capelli. Ma si sa, guardate i copricapi della regina, gli inglesi non sono mai così glamour. Fa una scuola parallela, si esercita con insegnanti appositi che lavorano solo per inventarle nuovi esercizi e aumentare le sue conoscenze. Impara troppo in fretta, praticamente legge una volta e sa. Naturale che il test sul Q.I. l’abbia brillantemente superato, attestandosi su un valore di 162 punti che, tanto per dire, è superiore di 2 a quello di Albert Einstein. Sta dunque ai primi posti, tra i 100 mila al mondo che hanno passato i test. Ed è cavaliera del Mensa Club. Poco importa se un aborigeno neozelandese applica la sua genialità nel solcare le onde col wind surf o ingegnandosi per nuove tecniche di pesca. Se un coetaneo dei bassi napoletani la esercita a tirar su il pranzo con la cena, con sfacciata baldanza; se quella bimbetta dell’Ohio potrebbe essere assunta alla Nato come antihacker, tanto è brava al computer. Loro non hanno fatto i test del Mensa, non fanno parte degli eletti. Me li immagino, gli adepti della setta degli esseri superiori, che si ritrovano a recitare versi, discettare di formule, filosofare, pianificare – speriamo di no – le sorti dell’umanità. Che ci fa con loro la piccola Olivia? Si annoia? Invidia gli amici che possono marinare la scuola e giocare a freccette sui prof? Pensa languida al compagno del primo banco che la considera troppo in alto, per farci su un pensierino? Chissà se possiamo parlare anche per lei, di “diversa abilità”. Dove l’accento va sempre sul “diverso”, per quanta attenzione mettiamo al politically correct. Può darsi che la piccola Olivia si stufi, dei fiocchi in testa e dei programmi speciali, e decida prima o poi di tatuarsi le braccia e forarsi il naso e darsi al metal; che si sforzi di sembrare più scema, per confondersi e sparire tra i tanti. Spero che i sui genitori, troppo solerti nell’accudire la sua eccezionaltà, non la condizionino. Che auspichino per lei un futuro grandioso, ma innanzitutto in felicità. Chi è intelligente può esserlo più di altri, se usa la sua ragione per comprendere il significato delle cose, per essere grato dei doni preziosi che ha ricevuto, per aiutare qualcuno. Può essere tremendamente infelice, se il suo genio lo isola o gli fa credere di essere migliore, indiscusso artefice della propria sorte. E’ in gioco la libertà: anche il genio può usarla male, e seppellire il suo talento in un prato.”

La storia e la memoria

Qualche anno fa, nelle quinte, in occasione dell’anniversario del 27 gennaio mostravo il Shlomo Venezia _2_.jpgfilm Gli ultimi giorni. Uno dei motivi per cui avevo scelto quel film era che metteva in risalto l’importanza della memoria. Uno dei più infaticabili trasmettitori di tale memoria è stato senza dubbio Shlomo Venezia, scomparso da poche ore. Lo storico Bidussa, su Linkiesta, riflette su questo argomento, sulla storia, sull’insegnamento della storia, sulla scuola. Lo ammetto: post per appassionati! 🙂

 

Con postmemoria intendo il contenuto culturale, emozionale, e mentale che ci troviamo a “governare” dopo “l’era del testimone”, come l’ha chiamata Annette Wieviorka. Non solo. Infatti la post-memoria è una condizione culturale che obbliga a riflettere da una parte su ciò che ereditiamo, sulle forme del sapere e della coscienza pubblica che abbiamo acquisito in seguito all’ascolto di narrazioni di coloro che hanno vissuto un tempo diverso da quello dei loro ascoltatori le cui storie personali sono forzate a farsi da parte dalla irruzione delle storie della generazione precedente con cui devono ancora “prendere una misura”; dall’altra, su quale sia il rapporto che intratteniamo col passato. Su tutto il passato del Novecento, per riflettere nel presente (Maus di Art Spiegelman è con molta probabilità il prodotto culturale che con più efficacia ha posto questo tipo di questione).

Per un errore di proiezione molti ritengono che questa condizione ci lascerà orfani di un supporto essenziale – la voce dei testimoni – e dunque il percorso incerto avviato con l’emergere del ruolo della testimonianza sui fenomeni di massa della storia, subirà un arresto, una deviazione, comunque sarà seriamente destinato a perdersi.

E’ molto probabile che la condizione in cui noi ci troveremo dopo registrerà incertezze, silenzi, marginalizzazioni. Probabilmente l’emergere di nuove centralità culturali e tematiche verrà percepita e interiorizzata come “regressione”. Tuttavia noi oggi se vogliamo che quel tema rimanga nell’agenda culturale della formazione civile dovremmo preoccuparci non tanto di cosa accadrà dopo i testimoni, ma di come noi siamo entrati nell’era del testimone, di ciò che ha significato questa fase, e dunque di che cosa tratteremo di essa.

Così come per i totalitarismi non c’è un individuo creato dal totalitarismo nel momento in cui questo si produce come sistema (mentre certamente esiste un individuo totalitario come effetto della durata di quel sistema), ma c’è una mentalità totalitaria in gran parte anticipata dall’avvento dei sistemi totalitari e anzi, per certi aspetti non solo adeguata ad essi, ma generativa della domanda di sistema totalitario e allo stesso tempo mentalità che rimane anche dopo il crollo di quei sistemi, noi dovremmo chiederci non cosa sarà di noi dopo i testimoni, ma quale sia il nostro rapporto con la storia nel momento in cui è iniziata l’era del testimone e quale sia oggi e prevedibilmente domani quel rapporto. Il problema a mio avviso è quanta consapevolezza storica noi oggi abbiamo, se ci sia uno scarto rispetto a prima; se siano cambiate le nostre domande rispetto al passato e se siamo in grado o meno di interrogare in forma critica e non a-prioristica il nostro presente. In breve se la nostra competenza storica (non la nostra conoscenza dei fatti) è aumentata.

La mia risposta discende da un duplice groviglio di questioni.

Sono convinto che nel momento in cui la testimonianza o la voce testimoniale è entrata a far parte a pieno titolo (legittimamente) delle fonti e dei documenti che uno storico deve prendere in carica se vuol tentare non solo di descrivere, ma anche di comprendere un fatto storico, quella fonte sia inovviabile e anzi sia indispensabile per discutere non solo di quell’evento, ma soprattutto della percezione e della comprensione, dopo, che un’opinione pubblica informata ha di quell’evento. Non solo quella fonte è indispensabile, ma la discussione se essa sia legittima o meno, se essa abbia un fondamento o meno, è parte di quella retorica che ha come fine la negazione di quell’evento. Sotto questo profilo la riflessione proposta da Pierre Vidal-Naquet è inoppugnabile sia sul piano della discussione metodologica sulle fonti, sia su quello dell’analisi storica tra narrazione della storia e discussione pubblica. Coloro che pretendono di negare l’esistenza del Genocidio ebraico – scrive Pierre Vidal-Naquet – cercano di colpire ciascuno di noi nella propria memoria individuale . Questa memoria non è la storia. Ma la storia è fatta anche dell’intreccio tra le nostre memorie e la memoria dei testimoni. (Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008, p. 224). E’ una suggestione che costituisce una buona pista e che dice due cose: la memoria e la testimonianza non sono né un’alternativa né concorrenti contro la storia. Questa oggi, a partire dall’ “era del testimone”, ha un futuro solo se è in grado di saper trattare e includere le fonti testimoniali come parti della propria problematica di indagine. Ma questa questione non significa, peraltro, che oggi la storia sia l’indagine sui fatti accompagnata dalla testimonianza. Il gioco è più complicato e anche più sottile. Consideriamo il secondo groviglio di questioni.

La storia d’Italia che gli italiani sanno, chi l’ha raccontata? Il manuale del liceo o “La storia siamo noi”? E sulla base di quale scelta documentaria si reggono questi o quelli? Quale consapevolezza culturale si ricava dalla storia raccontata in televisione? Non è solo un problema delle competenze del conduttore. E’ anche un problema di fonti, del loro uso, della loro molteplicità e di come si presentano. La storia la raccontano i film, la fotografia, gli oggetti, i diari, i libri, le lettere, i cippi, i memoriali. Dietro ciascuno di questi documenti c’è sempre un autore (o un gruppo di autori), non c’è “la storia”o “l’evento com’è andato”. Ci sono scelte, c’è un’idea del passato e c’è una proposta di interpretazione. C’è soprattutto una selezione del passato presentata invece come se fosse tutto il passato. Ovvero c’è una scelta soggettiva presentata come oggettiva e dunque come autentica e vera. Una scelta che viene nascosta, perché a priori si presume che l’idea di scelta sia l’origine del racconto falso o falsato. L’uso politico del passato nasce proprio da questa convinzione. E’ una convinzione che la moltiplicazione dell’offerta di storia negli ultimi anni ha incrementato, anziché contribuire a ridurre. La storia visuale, gli strumenti di supporto, l’esplosione dell’offerta documentaria non hanno aiutato a farsi un’idea, ma hanno trasferito all’utente/fruitore del prodotto storico un kit di spiegazione senza dotarlo degli strumenti per giudicare. E’ accaduto con La meglio gioventù, lo sceneggiato dedicato alla storia italiana tra anni ’60 e fine secolo ma è anche accaduto con Il cuore nel pozzo, lo sceneggiato televisivo dedicato alle foibe. In entrambi i casi il vissuto di un protagonista contribuisce a esaltare la storia della persona, ma anche elimina le sfumature, impedisce di cogliere la complessità della realtà, inibisce i molti dati sociali. In breve la vicenda specifica sceglie, giustamente e opportunamente, ma la storia che si vuole proporre pretende di raccontare tutta la storia. Soprattutto non analizza il contesto. La condizione in cui si producono atti, convinzioni, parole, scelte. Per individuarli occorrono competenze di due tipi: competenze di interpretazione e competenze disciplinari specifiche. Nel primo caso si tratta di dedurre in assenza di documenti, o in condizioni di carenza, informazioni da ciò che abbiamo a disposizione. Non è solo una condizione che deriva dalla pazienza del lettore. A monte implica anche una chiarezza sulla possibilità di reperire documentazione diretta e in assenza, di trovare le vie attraverso le quali riuscire a sapere dati, informazioni che direttamente non troviamo. Nel secondo caso si tratta di dotarsi di competenze definite dalla natura stessa dei documenti che si usano. Ci sono competenze specifiche di analisi che riguardano i film, le fotografie, le testimonianze orali, i quadri, le lettere. L’analisi di ciascuno di questi documenti richiede una competenza specifica che non riguarda solo il linguaggio, ma anche la tecnica di montaggio. In breve ciascuno di questi documenti è un risultato, non è un documento che nasce in questa forma. Così un film è il risultato di un montaggio, include, per capire il prodotto che abbiamo di fronte, un’informazione sullo scarto, sulle tecniche di ripresa, sull’uso delle inquadrature p.e., ovvero chiede che ci siano delle informazioni tecniche inerenti la sua realizzazione specifica. Una fotografia, al contrario di ciò che comunemente crediamo non è l’originale (Adolfo Mignemi, Lo sguardo e l’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 2003). L’originale è il negativo della fotografia. Ciò che ci troviamo di fronte spesso è solo una parte dello scatto originario, è uno sviluppo, un particolare. E inoltre dove la troviamo quella foto, chi ce la fornisce, in quale sequenza ce la fornisce. Una fonte orale include varie cose: un rapporto di fiducia tra intervistatore e intervistato; un confronto ripetuto; una tecnica di conduzione (Alessandro Portelli, Storie orali Donzelli, Roma 2007, pp. 5-24). La stessa questione, ovvero la competenza sul trattamento della fonte prescelta riguarda ovviamente i quadri e certamente le lettere, gli epistolari, i diari, comunque le fonti memoriali scritte. Fin qui si potrebbe dire la competenza di cui stiamo trattando concerne la grammatica, la sintassi comunque le regole di montaggio della fonte in relazione al supporto prescelto. Ma il tema delle fonti non è solo avere consapevolezza delle procedure tecniche relative alla loro costruzione in quanto documenti e dunque avere la competenza per “decostruirli”, ma anche avere la competenza per comprendere che cosa contiene quel documento, ovvero quante informazioni (intenzionali e non intenzionali) è in grado di fornirci. Un documento propone, ma poi bisogna anche farlo parlare. Per farlo parlare occorre sapere scavare dentro. Ovviamente occorre sapere la storia fattuale di ciò a cui quel documento di riferisce, ma bisogna anche avere un’autonomia rispetto al modo in cui quel documento si presenta. Il tema è la formazione degli insegnanti, la costruzione delle unità didattiche, il trasferimento di competenze per mettere nella condizione educatori e dunque cooperatori di divenire competenti ovvero analizzare fonti, connetterle, e costruire documenti, narrazioni, storie. L’obiettivo dunque è costruire capacità, non trasferire pacchetti di narrazione. L’investimento, più lento, ma certamente più solido è definire sensibilità professionali, l’obiettivo è formare, non sorprendere.

C’è dunque un compito preciso che abbiamo davanti. Questo compito riguarda la riflessione sulla storia, la capacità di far lavorare sul passato e che quella conoscenza più estesa sia il risultato di una capacità maggiore di saper lavorare sui documenti. Di non essere ripetitori, ma di dotarsi di una cassetta degli strumenti in grado di “muoversi” nella storia. E’ una sfida e non riguarda l’eroismo. E in ogni caso, proprio perché la conoscenza del passato solo in parte e solo formalmente coinvolge la scuola, noi dobbiamo sapere che la coscienza civile della generazione che domani sarà adulta non si forma solo al’interno di un’aula di scuola e dunque non possiamo ritenere responsabile la scuola, ovvero gli insegnanti dei nostri figli, come i soli, o i principali, responsabili della loro formazione.

Ciò detto, è corretto chiedere al corpo docente della scuola una qualità dell’insegnamento che abbia come obiettivo anche la formazione culturale e civile dei giovani. Ma è anche necessario capire che questa richiesta deve preliminarmente contenere una consapevolezza: la formazione professionale non è un optional o un generico “fai da te” dove vige l’arte di arrangiarsi. Perché ci siano insegnanti competenti occorre che ci sia non solo un sistema scolastico che funzioni, ma anche una società che capisce che niente è un atto dovuto, che sapere è avere gli strumenti, i mezzi, le opportunità perché quella richiesta abbia la possibilità di essere soddisfatta. Certo che occorrono volontà, determinazione e curiosità. Ma occorre anche una società che investe sul miglioramento della qualità di un servizio. Gli insegnati sono spesso soli, avvertiti come un mondo alieno, talora sono anche un mondo non “friendly”. Ma se vogliamo che domani sia meglio, se siamo convinti che il passato abbia dato prove pessime e soprattutto se non vogliamo che quelle eventualità si ripetano, e se siamo convinti che uno dei modi per impedirlo sia nella costruzione di una consapevolezza critica profonda, non abbiamo che da assumere una maggiore consapevolezza del ruolo di cittadini, di genitori, di operatori pubblici e mettere in condizione che un percorso sia possibile. Poi certamente vale la scelta degli individui, la loro disponibilità, a impegnarsi.

Se mi ci metto pure io a citare Quintiliano…

Scrive Gianluca Zappa su Il Sussidiario:

“Entro in una quinta linguistico. È una classe nuova, per me, mi è stata assegnata quest’anno. In programma ci sono due ore di latino, le ultime due, dalle 12 alle 14. Il fatto mi preoccupa: non può funzionare la solita oretta in cui si fa conoscenza della classe e si presenta brevemente il programma. Mi devo inventare qualcosa. E allora decido di dare ai ragazzi un assaggio di certi autori che faremo durante l’anno.

insegnanti, scuola, quintilianoPropongo due belle pagine: la prima dall’epistola a Lucilio in cui Seneca parla degli schiavi e se ne esce con quell’eccezionale e lapidario “nulla servitus turpior est quam voluntaria”. La seconda da Quintiliano, II libro dell’Institutio oratoria, dove si tratteggia la figura del bravo maestro. Leggo in latino e traduco. Mi guardano con interesse e seguono in silenzio: sono il quinto docente di latino in cinque anni di liceo (prodigi del sistema scolastico italiano)! Sono ragazzi che hanno subito una straordinaria discontinuità didattica. E io gli parlo del bravo maestro, perché sono i più titolati a dirmi se Quintiliano ha ragione o no, loro che hanno conosciuto un vero e proprio campionario di insegnanti. L’attacco è già di per sé eccezionale: “Sumat igitur ante omnia parentis erga discipulos suos animum, ac succedere se in eorum locum, a quibus liberi tradantur existimet”. Il maestro deve essere come un padre. Qui c’è già tutto: siamo molto di più che erogatori di nozioni, siamo educatori, punti di riferimento, e spessissimo andiamo a colmare vuoti che le famiglie da sole non riescono più a colmare. Spesso siamo rimasti solo noi a chiedere qualcosa a questi ragazzi, a metterli di fronte all’impegno, alla fatica, mentre tutti intorno si sono arresi alle scorciatoie, alla vita facile (che è solo una tragica illusione). A partire da questo presupposto fondamentale, da questa “paternità” del maestro, segue, a cascata, tutta una serie di suggerimenti. Alcuni mi sembrano di un’attualità inaudita, dopo quasi duemila anni: “Non austeritas eius tristis, non dissoluta sit comitas”. Sono i due estremi, negativi, che ancora fanno danni. Da una parte c’è il docente che è oppressivo nei suoi modi, che crea un distacco assoluto. Ma questo tipo è ormai in minoranza. Abbiamo avuto una sfornata di docenti (specie gli ex sessantottini) che invece hanno impostato tutta la loro relazione su una “dissoluta comitas”, una sregolata familiarità. Come c’è stata e c’è la moda del “padre-amico”, così c’è stata e c’è quella dell’“insegnante-amico” (in fin dei conti il celebre film L’attimo fuggente non faceva che riproporre questa immagine contrapposta all’altra). Quintiliano è di una lucidità incredibile: il primo atteggiamento è negativo perché genera “odium”; il secondo lo è altrettanto, perché genera “contemptus”, disprezzo. I ragazzi che ho davanti confermano tutto. Sì, ne hanno fatto esperienza, Quintiliano ha proprio ragione.

“Minime iracundus – dunque – nec tamen eorum quae emendanda erunt, dissimulator”: il fatto sacrosanto di non doversi abbandonare all’ira non comporta allo stesso tempo il “passar sopra” a quanto deve essere corretto nei ragazzi. Non comporta la pessima attitudine alla dissimulazione, al far finta di non vedere, per non affrontare il doloroso compito della correzione. Magari autoilludendosi che i ragazzi sono capaci di autocorreggersi (e che quindi, in fin dei conti, non ci è richiesto tanto).

Ci vogliono gli attributi, per insegnare, per essere un maestro. A volte bisogna alzare la voce quando non vorremmo, minacciare addirittura, essere “duri” quando invece ci piacerebbe che tutto andasse da solo per il verso giusto. La società che ci affida i figli (e che ci critica perché “lavoriamo poco”) è quella stessa società che non ha più il coraggio di dire “questo sì, questo no”. Noi non possiamo esimerci dal rischio e dalla fatica di prendere posizione. L’importante è che i ragazzi non percepiscano il nostro odio nei loro confronti. Quintiliano può sembrare qui esagerato, ma non lo è affatto: quale professore non ha mai provato un sentimento di odio verso quello dell’ultimo banco che non la smette di fare il cretino? Eppure nemmeno questo possiamo permetterci: siamo chiamati a superarci, a trascenderci, per non rischiare che quel ragazzo si chiuda e perda ogni residua motivazione.

C’è ancora tanto, nel brano di Quintiliano: la semplicità nell’insegnare; la disponibilità alla fatica (perché per essere semplici ed efficaci bisogna lavorare, prepararsi le lezioni); la disponibilità di rispondere volentieri a chi fa domande e, allo stesso tempo, quella di stimolare quelli che non domandano mai; il non essere né troppo stretto, né troppo largo dei voti, perché entrambi gli atteggiamenti fanno male ai ragazzi. E, soprattutto, proporre il bene e tendere al bene. Almeno provarci. Essere veri. Perché gli uomini ascoltano più volentieri quelli che ammirano. Uno studente mi chiede: “Ma lei si ritiene un bravo insegnante?”. Rispondo, con Seneca, che vorrei esserlo e che non finisco mai d’imparare ad esserlo. Una ragazza chiede: “Prof, ma i suoi colleghi non le hanno mai lette queste “Uno studente mi ha chiesto: lei si ritiene un bravo insegnante?”. Rispondo, con Seneca, che vorrei esserlo e che non finisco mai d’imparare ad esserlo. Una ragazza chiede: “Prof, ma i suoi colleghi non le hanno mai lette queste cose?”. E un’altra: “Ma questo brano lo sta leggendo per la prima volta?”. È perché ha visto che mi confrontavo con quelle parole, che mi entusiasmavo, che ero direttamente coinvolto, come se quelle parole fossero del tutto nuove per me. E in effetti era proprio così, perché non ci si può confrontare con la grandezza dell’animo umano senza provare un contraccolpo. L’ultima domanda, così ingenua, mi ha dato una grande soddisfazione. In fin dei conti m’interessava proprio questo: che delle parole antiche risuonassero come nuove e vere, adesso, per me e per i miei ragazzi.”

Campi del sapere non adatti alla natura femminile

Stamattina, in una quinta stavamo leggendo alcuni articoli di approfondimento sulle proteste nel mondo islamico e abbiamo dato un’occhiata ad alcuni siti per controllare se ci fossero aggiornamenti. Ci siamo imbattuti in questo articolo preso da Linkiesta. A me sono venute in mente le emozioni provate durante la lettura di Persepolis…

donne_iran.jpg“Alcuni studenti hanno già ricominciato, altri inizieranno nelle prossime settimane. Le università di tutto il mondo stanno riaprendo le proprie aule, salutando l’inizio di un nuovo anno accademico. Per moltissime ragazze iraniane, però, l’istruzione universitaria rischia di rimanere un sogno irrealizzato. Sono ben trentasei, infatti, gli atenei che, nella Repubblica Islamica, hanno vietato l’accesso alle donne. Una brutta “novità” che limita ancora di più i diritti riservati agli individui di sesso femminile nel Paese di Mahmoud Ahmadinejad. Settantatasette i corsi di laurea interessati dal divieto, spiega l’agenzia di stampa nazionale Mehr News Agency. Tra le materie accessibili soltanto agli uomini, specifica il sito Rooz Online, ci saranno contabilità, ingegneria e chimica. Tra gli atenei che vieteranno l’accesso alle donne ci sarà anche l’Università di Teheran, la più grande del Paese. Anche qui saranno affette soprattutto materie scientifiche, come la matematica, la selvicoltura e la biologia, e i corsi di laurea dedicati all’insegnamento della gestione del petrolio. Continua l’emarginazione sistematica delle donne da parte del governo retto dal Presidente Mahmoud Ahmadinjad, che soltanto un anno fa aveva imposto la separazione di maschi e femmine all’interno degli atenei. Secondo Abolfazl Hasani, dell’Istituto iraniano di Educazione, “alcuni campi del sapere non sono adatti alla natura femminile”. Una situazione resa ancora più paradossale da un dato, pubblicato dal New York Times, secondo cui le donne rappresenterebbero il 60 per cento degli studenti totali iscritti alle università del Paese medio-orientale. Una situazione, quella della donna in Iran, sempre più difficile: le repressioni degli ultimi anni, infatti, hanno fatto svanire anche le pochissime conquiste ottenute all’inizio del decennio scorso. Chi non indossa “propriamente” il velo, in Iran, rischia fino a 100 frustate in pubblico. E secondo il leader spirituale del Paese, Ali Khameini, le donne non hanno nemmeno diritto a compiere attività politica, né a partecipare ad attività sociali. Troppo fragili per assumersi qualsiasi tipo di responsabilità al di fuori di quelle legate all’educazione dei figli ed all’impegno casalingo. Una vita segnata, senza possibilità di svolta: e la chiusura degli accessi universitari è un ulteriore passo in questa direzione.”

Ci devo tornare?

Se qualcuno ce l’ha fatta a starmi dietro oggi, si merita un sorriso :-)))

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Un nuovo inizio

Un anno fa Elisa e Giada, due ragazze di quinta che ora si stanno preparando al primo anno di università, nella loro classe hanno letto ai compagni alcune frasi prese da un articolo di Alessandro D’Avenia. Pochi giorni fa Giada mi ha scritto su fb che a loro sarebbe piaciuto un sacco che qualche prof le avesse lette in classe. Non sono riuscito a farlo, preso da mille cose. Metto qui, però, tutto l’articolo. E dico un “buon anno” ai miei studenti e un caldo saluto e in bocca al lupo a tutti gli ex-studenti, sia quelli freschi freschi che quelli più stagionati…

“Che cosa avrei voluto sentirmi dire il primo giorno di scuola dai miei professori o cosa vorrei che mi 1.jpgdicessero se tornassi studente? Il racconto delle vacanze? No. Quelle dei miei compagni? No. Saprei già tutto. Devi studiare? Sarà difficile? Bisognerà impegnarsi di più? No, no grazie. Lo so. Per questo sto qui, e poi dall’orecchio dei doveri non ci sento. Ditemi qualcosa di diverso, di nuovo, perché io non cominci ad annoiarmi da subito, ma mi venga almeno un po’ voglia di cominciarlo quest’anno scolastico. Dall’orecchio della passione ci sento benissimo.

Dimostratemi che vale la pena stare qui per un anno intero ad ascoltarvi. Ditemi per favore che tutto questo c’entra con la vita di tutti i giorni, che mi aiuterà a capire meglio il mondo e me stesso, che insomma ne vale la pena di stare qua. Dimostratemi, soprattutto con le vostre vite, che lo sforzo che devo fare potrebbe riempire la mia vita come riempie la vostra. Avete dedicato studi, sforzi e sogni per insegnarmi la vostra materia, adesso dimostratemi che è tutto vero, che voi siete i mediatori di qualcosa di desiderabile e indispensabile, che voi possedete e volete regalarmi. Dimostratemi che perdete il sonno per insegnare quelle cose che – dite – valgono i miei sforzi. Voglio guardarli bene i vostri occhi e se non brillano mi annoierò, ve lo dico prima, e farò altro. Non potete mentirmi. Se non ci credete voi, perché dovrei farlo io? E non mi parlate dei vostri stipendi, del sindacato, della Gelmini, delle vostre beghe familiari e sentimentali, dei vostri fallimenti e delle vostre ossessioni. No. Parlatemi di quanto amate la forza del sole che brucia da 5 miliardi di anni e trasforma il suo idrogeno in luce, vita, energia. Ditemi come accade questo miracolo che durerà almeno altri 5 miliardi di anni. Ditemi perché la luna mi dà sempre la stessa faccia e insegnatemi a interrogarla come il pastore errante di Leopardi. Ditemi come è possibile che la rosa abbia i petali disposti secondo una proporzione divina infallibile e perché il cuore è un muscolo che batte involontariamente e come fa l’occhio a trasformare la luce in immagini.

Ci sono così tante cose in questo mondo che non so e che voi potreste spiegarmi, con gli occhi che vi brillano, perché solo lo stupore conosce. E ditemi il mistero dell’uomo, ditemi come hanno fatto i Greci a costruire i loro templi che ti sembra di essere a colloquio con gli dei, e come hanno fatto i Romani a unire bellezza e utilità come nessun altro. E ditemi il segreto dell’uomo che crea bellezza e costringe tutti a migliorarsi al solo respirarla. Ditemi come ha fatto Leonardo, come ha fatto Dante, come ha fatto Magellano. Ditemi il segreto di Einstein, di Gaudì e di Mozart. Se lo sapete ditemelo.

Ditemi come faccio a decidere che farci della mia vita, se non conosco quelle degli altri? Ditemi come fare a trovare la mia storia, se non ho un briciolo di passione per quelle che hanno lasciato il segno? Ditemi per cosa posso giocarmi la mia vita. Anzi no, non me lo dite, voglio deciderlo io, voi fatemi vedere il ventaglio di possibilità. Aiutatemi a scovare i miei talenti, le mie passioni e i miei sogni. E ricordatevi che ci riuscirete solo se li avete anche voi i vostri sogni, progetti, passioni. Altrimenti come farò a credervi? E ricordatemi che la mia vita è una vita irripetibile, fatta per la grandezza, e aiutatemi a non accontentarmi di consumare piccoli piaceri reali e virtuali, che sul momento mi soddisfano, ma sotto sotto sotto mi annoiano… Sfidatemi, mettete alla prova le mie qualità migliori, segnatevele su un registro, oltre a quei voti che poi rimangono sempre gli stessi. Aiutatemi a non illudermi, a non vivere di sogni campati in aria, ma allo stesso tempo insegnatemi a sognare e ad acquisire la pazienza per realizzarli quei sogni, facendoli diventare progetti.

Insegnatemi a ragionare, perché non prenda le mie idee dai luoghi comuni, dal pensiero dominante, dal pensiero non pensato. Aiutatemi a essere libero. Ricordatemi l’unità del sapere e non mi raccontate l’unità d’Italia, ma siate uniti voi dello stesso consiglio di classe: non parlate male l’uno dell’altro, vi prego. E ricordatemelo quanto è bello questo Paese, parlatemene, fatemi venire voglia di scoprire tutto quello che nasconde prima ancora di desiderare una vacanza a Miami. Insegnatemi i luoghi prima dei non luoghi. E per favore, un ultimo favore, tenete ben chiuso il cinismo nel girone dei traditori. Non nascondetemi le battaglie, ma rendetemi forte per poterle affrontare e non avvelenate le mie speranze, prima ancora che io le abbia concepite.

Per questo, un giorno, vi ricorderò.”

Vestiti e cultura

Di buon auspicio per l’anno scolastico alle porte…

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Guardare con gli occhi dell’anima

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Poco meno di due settimane fa c’è stata la serata di fine anno della nostra scuola. Ci sono stati ballerini, il coro, ginnasti, video, la citazione di tutti i premi vinti e le certificazioni linguistiche… C’è stata anche Francesca, una studentessa di 5AS che ci ha regalato una bella emozione leggendo le sue riflessioni e una sua poesia. Le ho chiesto di spedirmele e di poterle pubblicare. Per fortuna ha accettato, così posso condividere qui le emozioni di quella sera. Grazie

“Riflettendo in un pomeriggio di sole ho pensato di riportare sulla carta le suggestioni che percorrevano la mia mente. Il sole e il bel tempo mi mettono una grande allegria. La luce, infatti, aiuta a vedere meglio le cose, ad apprezzarle per come sono. Ed è questo in realtà che mi fa sorridere.

Amo osservare cose e persone e soprattutto cerco di scoprire come sono fatte veramente. Perché …dietro alla maschera di ognuno c’è molto di più, tutto quello che con i soli occhi del viso non si riesce a cogliere. Guardando con gli occhi dell’anima si può percepire la grandezza della diversità:

NON tutti abbiamo due braccia, due gambe, due occhi;

NON tutti abbiamo il dono della vista, della parola, della scrittura, del pensiero logico;

NON tutti amiamo, pensiamo, desideriamo le stesse cose,

ma se c’è una cosa che ci accomuna è che abbiamo l’immensa fortuna di essere tutti qui su questa terra.

E allora dobbiamo amarci e rispettarci, imparare ad apprezzare anche i difetti dell’altro e scoprire la ricchezza, la bellezza e le risorse che si nascondono in colui che consideriamo diverso.

Abbiamo tutti dei sogni, magari anche gli stessi, l’unica cosa che cambia è la modalità per raggiungerli.

Ognuno sceglie la sua strada: lineare, tortuosa, in salita, in discesa; ciò che importa è che tutte portano alla stessa meta.

La vita umana è unica ed irripetibile, per questo dobbiamo impegnarci al massimo per viverla nel miglior modo possibile, sia per noi stessi che per gli altri.

L’esistenza di ognuno deve essere degna di essere vissuta fino in fondo.

Abbiamo tutti dei diritti, primo fra tutti il diritto di essere rispettati per quello che siamo, di essere amati ed apprezzati per le nostre qualità, ma anche per i nostri difetti o le nostre mancanze.

Non esiste una definizione universale di normalità e perfezione.

Anzi, queste ultime non esistono nemmeno.

Ognuno di noi è un essere unico e speciale e già per questo perfetto.

 

La Diversità

La diversità è…

Un punto di vista nuovo

Con il quale osservare il mondo…

Un metodo originale

Per raggiungere i propri obiettivi…

Un’opportunità

Per confrontarsi…

Un’occasione

Per crescere…

Uno stile

Contro corrente…

Uno strumento

Per sentirsi i soli e gli unici…

Un quadrifoglio

Nel prato del conformismo…

La ricerca del senso

Della propria esistenza…

Una risorsa

Tutta da scoprire…

Questa è la diversità.

Quella bellezza

Apprezzabile solo se

Si guarda con gli occhi dell’anima…

Quella luce

Che illumina gli occhi…

Quel lume di speranza

Che mai deve spegnersi…

Quell’amore per la vita

Incondizionato ed eterno

Che solo la diversità può donare.

La diversità esiste.

La diversità ci circonda.

La diversità siamo noi.”

Francesca Del Zotto

Verso quali lidi?

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In questo periodo i ragazzi dell’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado si stanno preparando agli esami e poi a lasciare le loro classi per approdare alle scuole “superiori”. Come sceglieranno? Ieri su radio 3 ho sentito un’interessante intervista a Francesco Dell’Oro che si occupa di orientamento a Milano. Qui sotto l’estratto di un’altra intervista di Simonetta Pagnotti.

“– I ragazzi non vivono bene questa scelta?

«Sono molto preoccupati e indecisi. Sono adolescenti, lo ripeto, spesso il linguaggio di noi adulti esercita su di loro una pressione indebita, li mette in sofferenza. Dobbiamo cercare di presentare il momento della scelta in modo positivo».

– Si spieghi meglio…

«Spesso si sentono dire: “Tu non puoi fare questo, tu non puoi fare quest’altro”, che tradotto significa: i più bravi al liceo, i meno bravi al tecnico e così via. Così si sentono stigmatizzati per quello che non possono fare. Dobbiamo invece valorizzare le loro potenzialità, in modo che diventino protagonisti della scelta. Dobbiamo rassicurarli, far capire loro che le difficoltà che hanno incontrato nel percorso scolastico possono essere superate o, perché no, trasformate in risorsa. Che esistono non una ma tante intelligenze: un’intelligenza logica, un’intelligenza pratica, un’intelligenza artistico musicale…».

– Quali sono i consigli che si sente di dare alle famiglie che devono sostenere i ragazzi in questo momento di scelta?

«Sono fondamentalmente tre suggerimenti. In primo luogo: aiutiamo i ragazzi a scegliere una scuola che non li mandi in sofferenza, ma che permetta loro di vivere con serenità, anche se con impegno, gli anni dell’adolescenza. Il secondo consiglio è quello di aiutarli a capire che cosa li interessa davvero, che cosa li appassiona».

– Ha parlato di tre suggerimenti. E l’ultimo?

«È probabilmente il più prosaico, ma in quarant’anni di esperienza ho constatato che è molto utile. Lo dico ai ragazzi, in ogni incontro. Se scegliete un certo tipo di scuola, dovete anche capire che impegno richiede. Ossia quante ore al giorno dovete stare seduti al tavolino sui libri. A volte io chiedo: “Perché avete scelto una scuola dove dovete affrontare il greco e il latino?”. I meno motivati scuotono la testa e dicono: “Ci tocca”. Di fatto hanno scelto mamma e zia».

– Il vostro servizio si occupa anche dei ragazzi delle superiori che hanno fatto una scelta sbagliata…

«È vero, sono le scuole a segnalare i giovani in difficoltà e noi cerchiamo di riagganciarli. Nei casi più difficili andiamo a parlare con il preside e con il consiglio di classe».

– In questi casi consigliate di cambiare?

«Noi diciamo subito che non siamo un ufficio traslochi, non è questo il nostro compito. In certi casi è bene che il ragazzo cambi indirizzo e anche in fretta, ma molto spesso il suo disagio è frutto di un problema di relazioni, è esistenziale più che scolastico. Allora bisogna cercare di rimotivarlo».

– Lei sta sempre dalla parte dei ragazzi…

«A volte fanno arrabbiare, per alcuni di loro l’impegno scolastico è veleno. Ma è altrettanto vero che vediamo troppe anime ferite, per non dire devastate. Hanno bisogno di regole ma, se non cerchiamo di rafforzare la loro autostima, il messaggio non passa».”

Semplificando

Sono reduce da un corso d’aggiornamento, interessante e impegnativo. I pensieri sono densi. Non mi è facile rilassarmi. C’è molto lavoro da fare. E’ anche stimolante. Non semplice. Ma ecco che l’incontro casuale con due brani mi viene in soccorso. E sempre la solita domanda: casuale?

Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano a ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi occorre saper semplificare, ridurre all’essenziale l’enorme numero d’elementi che ad ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda, e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario, come il diagramma d’una macchina, dal quale si possa capire come funziona… (Italo Calvino)

Disse il maestro all’uomo d’affari: “Come il pesce muore sulla terra asciutta, così tu muori quando resti intrappolato nel mondo. Il pesce deve tornare nell’acqua… tu devi tornare alla solitudine”. L’uomo d’affari era atterrito: “Devo rinunciare ai miei affari ed entrare in convento?”. “No, no. Continua nei tuoi affari ed entra nel tuo cuore” (Anthony de Mello).

Ho bisogno di semplificare:

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HO SEMPLIFICATO TROPPO?

😉


Copia-incolla

Mi fa impazzire toccare in classe un certo argomento, tornare a casa e trovare un articolo ad hoc. Stamattina abbiamo parlato del copiare a scuola ecc ecc… Ed ecco cosa ho trovato con l’ultima frase davvero pungente.

Copia-Incolla.jpgIl mondo nuovo è un romanzo di fantascienza di genere distopico scritto nel 1932 da Aldous Huxley. È il suo romanzo più famoso e ne sono stati tratti alcuni adattamenti televisivi”. Comincia così la voce di Wikipedia sul romanzo di Huxley. Perfetta, pensa Khayman, pseudonimo di uno studente di liceo francese che deve fare un compito in classe. Copia tutta la voce. Consegna il compito. Ma poi gli viene un dubbio: e se la professoressa controlla su internet e se ne accorge? Allora va su internet e modifica la voce di Wikipedia, massacrandola. Ma un utente dell’enciclopedia se ne accorge e comincia una discussione surreale con lo studente, che chiamato in causa si giustifica: “Volevo cambiare la voce di Wikipedia solo per una settimana, perché ho consegnato il compito alla prof di francese e ho copiato parecchio. L’avrei rimessa a posto tra una settimana, tutto qua (la mia prof ha internet e conosce Wikipedia)”. Risponde l’utente: “La voce sul Mondo nuovo viene visitata in media da 3.500 persone a settimana. Lei mi sta quindi dicendo che per coprire il fatto che ha copiato il suo compito non si sarebbe preoccupato di far leggere a 3.500 persone una versione sbagliata di questa voce?”. Chissà se anche la prof si è affidata a Wikipedia. Perché se l’ha fatto, avrà trovato il compito pieno di errori.

Internazionale, numero 946, 26 aprile 2012


Sold out

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“La spiritualità oggi è in crisi”, si sente dire.

Stamattina si sono aperte le iscrizioni per le due occasioni di incontro con il Dala Lama al palasport Carnera.Il primo appuntamento è dedicato al dialogo tra le religioni in cui si potranno ascoltare le storie e le diverse visioni di fede; l’incontro del pomeriggio invece è un dibattito sulla naturale aggressività umana e sulla non violenza. Volevo accompagnare quattro delle mie classi. Invio delle mail ai colleghi accompagnatori, preavviso la segreteria per il traporto. Arrivo a casa, mi collego a fb: “Dalai Lama: incontri al Carnera sold out in poche ore!”

La spiritualità oggi è in crisi?

Quel ninja biblico

“Ragazzi, dove eravamo arrivati l’ultima volta?”

“Ah,ci aveva raccontato la storia di quel ninja biblico!”

“????????”. All’improvviso, nel mio cervello barcollante si apre uno spiraglio di luce che presto diventa abbagliante ricordo della lezione precedente:

“Volendo Nicànore far nota a tutti l’ostilità che aveva verso i Giudei, mandò più di cinquecento soldati per arrestarlo… Ma, quando quella truppa stava per occupare la torre e tentava di forzare la porta del cortile e ordinavano di portare il fuoco e di appiccarlo alle porte, egli, accerchiato da ogni lato, si piantò la spada in corpo, preferendo morire nobilmente piuttosto che divenire schiavo degli empi e subire insulti indegni della sua nobiltà. Non avendo però portato a segno il colpo per la fretta della lotta, mentre la folla premeva fuori delle porte, salì coraggiosamente sulle mura e si lasciò cadere a precipizio sulla folla con gesto da prode. Essi lo scansarono immediatamente lasciando uno spazio libero ed egli cadde in mezzo allo spazio vuoto. Poiché respirava ancora, con l’animo infiammato, si alzò, mentre il sangue gli usciva a fiotti e le ferite lo straziavano e, attraversata di corsa la folla, salì su di un tratto di roccia, ormai completamente esangue; si strappò gli intestini e prendendoli con le mani li gettò contro la folla; morì in tal modo invocando il Signore della vita e dello spirito perché di nuovo glieli restituisse.” (2Mac 14,37-46)

ADORO I “MIEI” RAGAZZI!

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Me ne lavo le mani

Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?»

Ho preso questo brevissimo frammento del Vangelo di Giovanni e l’ho portato nella mia realtà di insegnante, per riflettere sul senso del mio lavoro al di là delle conoscenze trasmesse e delle “competenze” raggiunte dagli studenti, seppur fondamentali. Ieri sera su fb ho scritto il mio stato quasi con rabbia, come fosse un grido: “Ascoltarli e accoglierli, non chiedono altro, non possiamo sottrarci. Lo dobbiamo fare se crediamo in loro, altrimenti son tutte balle”. Questo penso sia necessario se non voglio tradire la verità, se non voglio essere un mero esecutore didattico, se non voglio comportarmi come farà poi Pilato: “Pilato, vedendo che non otteneva nulla, ma che si sollevava un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani in presenza della folla, dicendo: «Io sono innocente del sangue di questo giusto; pensateci voi».” (Mt 27,24)

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Luci nel buio

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Piccolo post dedicato a tutti gli studenti convinti di non essere visti nel buio dell’aula multimediale :-)))

Gita non gita…


 

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Sabato mattina sono in treno verso Padova per andare a un matrimonio insieme a mia moglie. Abbiamo comprato il Messaggero: ci piace leggerlo insieme. Oddio, leggerlo: diciamo sfogliarlo. Arriviamo a pagina 22 e dico “Eccolo qua”. Sara mi chiede: “Cosa?”. Io: “La risposta alla domanda che ogni anno mi fanno gli studenti, cioé – Prof! Ma perché non ci porta in gita? – . E io rispondo che non mi sento tutelato dallo Stato. Però loro mi chiedono  – In che senso? – e lì faccio fatica a spiegarmi. Allora ricorro ad un esempio: ecco io vorrei questo. Che se siamo in gita ed è prevista la buonanotte, che ne so, per le 24.00, io ho il compito di fare il giro per le stanze ed assicurarmi che ogni studente sia nella stanza assegnatagli. Dopo di che ho il sacrosanto diritto di entrare nella mia stanza ed andare a dormire. Se uno si ubriaca, va in giro, vuole dare una mano di colore alla stanza, fare tarzan sulle reti del letto RISPONDE, perché ho una buona considerazione di voi e penso che un ragazzo delle superiori le cose le capisca… Ecco, ora non ho più bisogno di ricorrere all’esempio, basta leggere questo articolo….”. Il viaggio è proseguito con un pizzico di tristezza nel cuore e tanta rabbia nella testa…

Ecco l’articolo

UDINE. Gite scolastiche: i professori che accompagnano gli studenti devono controllare la sicurezza delle stanze. Sono tenuti a un «obbligo di diligenza preventivo» che impone loro di reperire strutture alberghiere il più possibile sicure. Non solo, sono tenuti anche a effettuare «controlli preventivi» delle stanze dove alloggiano i ragazzi. Lo ha stabilito la suprema corte di Cassazione nell’accogliere il ricorso di S.Q., di San Leonardo, ex studentessa dell’istituto tecnico commerciale “Deganutti” , che, nel marzo 1998, si era seriamente ferita nell’albergo di Firenze scelto dalla scuola, scivolando da una terrazza dell’hotel. La ragazza, secondo quanto ricostruito dalla sentenza 1769 dell’8 febbraio 2012, salita su un parapetto del balcone della stanza, aveva guadagnato la terrazza insieme a un compagno e, scivolando, era precipitata nel vuoto per circa 12 metri, riportando gravissime lesioni e rimanendo completamente invalida. Da qui la richiesta di risarcimento danni, sia nei confronti del ministero della Pubblica istruzione, della scuola, dell’albergo e dei genitori del compagno di scuola – che poco prima dell’incidente aveva offerto uno spinello alla giovane -, lamentando «mancanza di controllo e di sorveglianza degli alunni da parte del professore in gita con la classe e mancanza di sicurezza dell’albergo». Sia il Tribunale (marzo 2005) che la Corte d’Appello di Trieste (ottobre 2009) avevano respinto la richiesta risarcitoria della giovane, rilevando, tra l’altro che gli studenti erano prossimi alla maggiore età per cui tutti erano «presumibilmente dotati di un senso del pericolo». I verdetti sono stati ribaltati dalla Cassazione che ha accolto la tesi difensiva della ex studentessa rimasta invalida. Nel dettaglio, i giudici della Suprema corte chiamano in causa la scuola e ricordano che «proprio perché il rischio che, lasciati in balia di se stessi, i minori possano compiere atti incontrollati e potenzialmente autolesivi, all’istituzione è imposto un obbligo di diligenza per così dire preventivo, consistente, quanto alla gita scolastica, nella scelta di vettori e di strutture alberghiere che non possano, al momento della loro scelta, nè al momento della fruizione, presentare rischi o pericoli per l’incolumità degli alunni». La Cassazione spiega ancora che «incombe all’istituzione scolastica la dimostrazione di avere compiuto controlli preventivi e di avere impartito le conseguenti istruzioni agli allievi affidati alla sua cura e alla sua vigilanza». Nel caso in questione, dunque, il personale accompagnatore, spiega la Suprema Corte, «avrebbe dovuto rilevare, con un accesso alle camere stesse, il rischio della facile accessibilità al solaio di copertura per adottare poi misure idonee alle circostanze», quali anche «il rifiuto di alloggiare» in una stanza tanto insicura. Sarà ora la Corte d’Appello di Trieste (chiamata a una pronuncia bis), cui la Cassazione ha rinviato la vicenda, a stabilire l’esatto risarcimento per la studentessa, tenendo anche conto delle responsabilità della scuola, del ministero della Pubblica istruzione, e della struttura alberghiera. Esclusa invece la responsabilità dei genitori dell’ex studente salito sulla terrazza con la giovane. La vicenda della studentessa di San Leonardo suscitò, all’epoca dei fatti, molto scalpore. I ragazzi della terza classe del “Deganutti”, nel marzo del 1998, fecero un viaggio in treno fino a Firenze e trovarono alloggio all’hotel “Mirage” di Novoli. Il drammatico incidente accadde la sera stessa dell’arrivo nella città toscana. Furono due compagne di stanza della giovane a trovare il corpo esanime a terra dopo un volo di 12 metri. La studentessa rimase per lungo tempo in coma, poi si riprese, ma purtroppo rimase invalida.

L’eredità

Stasera all’Eredità una domanda biblica su Giacobbe. E penso “I miei studenti di II la saprebbero, gliel’ho appena raccontato”.

Poco prima una domanda sul modo di salutarsi in Tibet. E penso “I miei ragazzi di IV la saprebbero”.

Ho concluso: “Il voto di religione non conterà nulla, ma ti fa vincere l’eredità!”

😉

Tempo di scrutini

E’ tempo di scrutini. L’attività del blog sarà un po’ limitata in questi giorni…

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Si ricomincia… Ma sì, dai :-)

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Da scuola aperta al diploma

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Sono reduce da due giornate di Scuola Aperta: tantissime persone, molto spesso figli accompagnati da entrambi i genitori, a informarsi sugli indirizzi presenti nel nostro liceo, a capire gli sbocchi, a vedere l’ambiente… Non li aspetta un momento facile, perché scegliere il proprio futuro non è mai facile, ma certo è un momento accattivante, intrigante, in cui fare i conti con se stessi per capire aspettative, predisposizioni, talenti, carenze, desideri. Intanto, poco prima, sabato mattina, c’era stata la consegna dei diplomi ai ragazzi che a giugno hanno sostenuto l’esame di stato. Li ho visti purtroppo velocemente, ma li ho visti sorridenti, felici di essere lì e contenti di raccontarmi cosa avevano scelto di fare: erano bellissimi. Ecco, i due avvenimenti del week-end mi hanno fatto venire in mente il saluto che ogni anno lascio alle quinte. Una delle ultime frasi è “Vi ho conosciuto gavanelli e vi lascio donne e uomini, frecce scoccate verso domani, pronti a spiccare il volo”. Penso sia quello che succede nei cinque anni di liceo, la trasformazione da quattordicenne che si affaccia al mondo della responsabilità a cittadino a pieno titolo consapevole di diritti e doveri. In bocca al lupo a entrambi.