Almeno lei

 

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Domani a scuola ricevimento generale. E’ per me il giorno dell’ “Almeno lei” dettomi da mamme e papà degli studenti che zoppicano un po’: “Almeno lei mi dica qualcosa di positivo, mi tiri su il morale: l’ho lasciata per ultimo apposta!”. Daniel Pennac scrive: “I nostri studenti che “vanno male” (studenti ritenuti senza avvenire) non vengono mai soli a scuola. In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulati su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso. Guardateli, ecco che arrivano, il corpo in divenire e la famiglia nello zaino. La lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla. Difficile spiegarlo, ma spesso basta solo uno sguardo, una frase benevola, la parola di un adulto, fiduciosa, chiara ed equilibrata per dissolvere quei magoni, alleviare quegli animi, collocarli in un presente rigorosamente indicativo. Naturalmente il beneficio sarà provvisorio, la cipolla si ricomporrà all’uscita e forse domani bisognerà ricominciare daccapo. Ma insegnare è proprio questo: ricominciare fino a scomparire come professori. Se non riusciamo a collocare i nostri studenti nell’indicativo presente della nostra lezione, se il nostro sapere e il piacere di servirsene non attecchiscono su quei ragazzini e quelle ragazzine, nel senso botanico del termine, la loro esistenza vacillerà sopra vuoti infiniti. Certo, non saremo gli unici a scavare quei cunicoli o a non riuscire a colmarli, ma quelle donne e quegli uomini avranno comunque passato uno o più anni della loro giovinezza seduti di fronte a noi. E non è poco un anno di scuola andato in malora: è l’eternità in un barattolo.”

Inclinazioni del cuore

Stamattina, all’ultima ora, dopo aver letto dei brani di E. Wiesel e L. Millu sull’esperienza di fede durante la tragedia dei lager ho chiesto agli studenti di riflettere sul problema del male cercando dentro di sé quali tentativi di risposta provassero a darsi. Mentre riflettevano e scrivevano li guardavo e pensavo: “tra pochi mesi non li rivedo più” (era una quinta). “Cosa faranno? Lavoreranno, studieranno, che strade percorreranno?”. Poi ho preso dalla borsa il libro “Un minuto di saggezza nelle grandi religioni” di Anthony de Mello, una raccolta di brani che ho letto a più riprese nella mia vita. E mi ha stupito che il primo racconto fosse questo:

Il discepolo era un ebreo. “Quale opera buona debbo fare per essere gradito a Dio?”. “Come posso saperlo?”, rispose il maestro. “La tua Bibbia dice che Abramo praticava l’ospitalità e Dio era con lui. Elia amava pregare e Dio era con lui. David governava un regno e Dio era anche con lui. C’è un modo per scoprire il lavoro che mi è stato assegnato?”. “Sì. Cerca l’inclinazione più profonda del tuo cuore e seguila”.

Un caso? 

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La valutazione

Stamattina assemblea d’istituto. Ho partecipato, parzialmente, solo l’ultima ora. Mi è piaciuta la partecipazione, mi sono piaciuti i temi. Posto questa immagine provocatoria su uno degli argomenti che sono usciti. Che ne dite?

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Cos’è questa nota?

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Amarezza

 

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61 anni fa esatti moriva George Bernard Shaw. “La libertà significa responsabilità: ecco perché molti la temono” è una sua frase. Mi è venuta in mente stamattina quando, dopo un ponte festivo di 3 giorni, in una classe mancavano metà alunni per evitare delle verifiche… Amarezza.

Esercizi di noia

 

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«Una parte del mio mestiere consisteva nel persuadere i miei studenti più abbandonati a loro stessi che la gentilezza più del ceffone invita alla riflessione, che la vita in comunità ha delle regole, che il giorno e l’ora della consegna di un compito non sono negoziabili, che un compito malfatto è da rifare per l’indomani, che questo, che quello ma che mai e poi mai né i miei colleghi ne io li avremmo abbandonati in mezzo al guado. Affinché avessero una possibilità di farcela, occorreva reinsegnare loro il concetto stesso di sforzo, restituire loro il piacere della solitudine e del silenzio, e soprattutto il controllo del tempo, quindi della noia. Sì, qualche volta ho consigliato loro esercizi di noia, per collocarli nella durata. Li pregavo di non fare niente: non distrarsi, non consumare niente, nemmeno conversazione, né tantomeno studiare, insomma non fare niente, niente di niente.

“Oggi pomeriggio, esercizio di noia, venti minuti a non fare niente prima di mettervi a studiare.”

“Nemmeno ascoltare musica?”

“Assolutamente no!”

“Venti minuti?”

“Venti minuti. Orologio alla mano. Dalle 17.20 alle 17.40. Tornate diritti a casa, non rivolgete la parola a nessuno, non vi fermate in nessun bar, ignorate l’esistenza dei flipper, non riconoscete i vostri amici, entrate in camera vostra, vi sedete sul letto, non aprite la cartella, non vi mettete il walkman sulle orecchie, non guardate il vostro gameboy, e aspettate venti minuti, fissando il vuoto.”

“Per fare cosa?”

“Per curiosità. Concentratevi sui minuti che passano, non perdetevene neanche uno e domani mi raccontate.”

“E come farà, lei, a verifìcare che l’abbiamo fatto?”

“Non posso.”

“E dopo i venti minuti?”

“Buttatevi sui compiti come degli affamati.”»

(Daniel Pennac, Diario di scuola, pag. 135-136)

Election day

Domani è giornata di elezioni a scuola: rappresentanti di classe, di istituto, della consulta.puzzle.jpg Dedico questa storiellina di Bruno Ferrero a tutti quelli che si sono messi in gioco. Qualcuno di loro vincerà. Cosa? Un servizio, un servizio a tutti gli altri studenti: l’onore e la responsabilità di rappresentarli. La storiellina non la voglio interpretare o spiegare, coglietene voi il senso più opportuno. In bocca al lupo!

Durante l’assenza della moglie, un importante uomo d’affari dovette rimanere in casa per badare ai due scatenatissimi bambini. Aveva un’importante pratica da sbrigare, ma i due piccoli non lo lasciavano in pace un istante. Cercò così di inventare un gioco che li tenesse occupati un po’ di tempo. Prese da una rivista una carta geografica che rappresentava il mondo intero, una carta complicatissima per i colori dei vari stati. Con le forbici la tagliò in pezzi minutissimi che diede ai bambini, sfidandoli a ricomporre il disegno del mondo. Pensava che quel puzzle improvvisato li avrebbe tenuti occupati per qualche ora. Un quarto d’ora dopo, i due bambini arrivarono trionfanti con il puzzle perfettamente ricomposto. “Ma come avete fatto a finire così in fretta? “, chiese il padre meravigliato. “È stato facile”, rispose il più grandicello. “Sul rovescio c’era una figura di un uomo. Noi ci siamo concentrati su questa figura e, dall’altra parte, il mondo si è messo a posto da solo”.

Ars copiandi

Gianfranco Zavalloni su CEM Mondialità ha scritto un breve articolo che penso possa far discutere e riflettere. Si arriva a parlare del diritto-dovere di copiare a scuola… Ne ho parlato spesso in classe. Sottolineo anche qui che il copiatore deve mettere sempre in conto la possibilità di essere beccato, fa parte del gioco… E l’insegnante “più sgaio” è spesso quello che conosce i trucchi del mestiere per averli praticati…scuola_copiare_430_2.jpg

“Copiare è un verbo che nel mondo della scuola ha due significati che potremmo definire antitetici. Ri-copiare un brano sul proprio quaderno, ri-copiare l’esercizio… e poi eseguire un dettato: tutti esercizi di copiatura che hanno avuto fino ad ora un profondo significato «positivo». Ma c’è anche un aspetto che il qualche modo colloca il copiare come elemento negativo del mondo scolastico: «hai copiato!». Ora, io credo che siano poche le persone che, nel corso della propria carriera scolastica, non abbiano fatto l’esperienza di «copiare». E ci sono persone che, avendo raggiunto posizioni professionalmente invidiabili, hanno ammesso, magari anni dopo, di aver copiato tante volte da uno o più compagni di classe. Insomma, copiare fa parte dell’esperienza scolastica. Ma non solo. Pensiamo ai grandi artisti e alle loro scuole. Di molte grandi produzioni artistiche antiche tutt’ora si dice «è di scuola….» e poi si cita il maestro. Ma gli allievi, contemporanei o non, erano talmente bravi che sapevano copiare benissimo lo stile del maestro, da non saperne poi distinguere le mani. E comunque, anche fra i contemporanei, generalmente tutti gli artisti copiano. È la prima fase della loro esperienza artistica. Quella che generalmente precede la fase in cui un artista trova poi il suo stile e si caratterizza. Nonostante la mia esperienza di maestro coi bimbi e le bimbe si sia conclusa 15 anni fa, devo dire che ho imparato proprio da loro il senso della solidarietà. Ai bimbi e alle bimbe della scuola d’infanzia viene spontaneo solidarizzare con i compagni in difficoltà… e fanno copiare. «Fai come faccio io…»: una frase del tutto consueta per i bambini piccoli, quando ancora la competitività non fa parte del loro dna. E devo dire che in questa loro spontanea collaborazione ho capito che spesso sono gli stessi studenti i migliori maestri dei loro compagni. Si apprende più facilmente da un compagno, che ha già imparato la regola, che dal docente. Le due competenze prevalenti che dovrebbero caratterizzare uno studente in uscita dalla scuola superiore dovrebbero essere quella di saper argomentare, a voce, su un tema per almeno 10 minuti. La seconda, di non minore importanza, è quella di saper lavorare in team. Credo che in una società che da anni è ritornata ad esaltare le capacità e i meriti di ogni singolo individuo… affermare che una delle funzioni principali della scuola è “imparare a lavorare insieme” sia importantissimo. In proposito, mi viene da copiare l’inizio di un articolo che Claudio Magris ha pubblicato anni fa sul Corriere della Sera: «A scuola, come nella vita, ciascuno dovrebbe essere consapevole del proprio ruolo e fare bene la parte che gli spetta. Anzitutto copiare (in primo luogo far copiare) è un dovere, un’espressione di quella lealtà e di quella fraterna solidarietà con chi condivide il nostro destino (poco importa se per un’ora o per una vita) che costituiscono un fondamento dell’etica. Passare il bigliettino al compagno in difficoltà insegna ad essere amici di chi ci sta a fianco e ad aiutarlo pure a costo di rischi, forse anche quando, più tardi, tali rischi, in situazioni pericolose o addirittura drammatiche, potranno essere più gravi di una nota sul registro». Più chiaro di così!”

Le “mie” frecce

Ho trovato questa lettera di una maestra andata in pensione sul sito del CEM. Condivido molte delle cose che sono scritte, molte delle difficoltà descritte; ma voglio anche sottolineare la bellezza del lavoro in classe, le discussioni appassionanti, le facce stupite degli allievi, i contributi arricchenti di ciascuno di loro, il dispiacere nel vedere gli studenti che escono per quell’ora perché non saprò come la pensano, il vederli entrare in prima piccoli gavanelli e il vederli uscire in quinta come frecce scoccate verso il futuro. E’ vero il contesto è complesso, ma voglio pensare positivo 🙂

5645659643_1477bb2563_b.jpg«… E un ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un rimpianto…». Basta «sfogliare» Fabrizio de Andrè per trovare le parole per dirlo. Per 40 anni ho fatto la maestra. Un mestiere sottopagato, che ha sempre meno riconoscimento sociale ma che rimane il mestiere più bello del mondo. Ora è tempo di andare in pensione. Se ripercorro, come in un film, la storia di questi lunghi anni non mi vengono certo in mente le circolari, il POF, le griglie di valutazione, l’Invalsi, i registri (quelli li ho sempre compilati , e malvolentieri, appena prima della scadenza). Rivedo invece le facce – quelle sì le ricordo bene -, gli occhi, le voci, le storie dei tanti e tanti bambini – ora diventati più che adulti – con cui ho condiviso emozioni, scoperte, la fatica e la ricerca di un percorso per imparare e per diventare grandi. Una maestra i suoi scolari se li ricorda per la vita. E vedo le facce delle tante maestre, diventate care amiche, insieme a me impegnate nella difficile ed affascinante impresa di costruire una scuola «di tutti e di ciascuno», come diceva don Milani, una scuola di «scienza e di tenerezza»… Tanti, ma tanti, i ricordi. Avevo 19 anni quando ho cominciato, in Friuli, mia terra d’origine. Era il 1971: il posto di lavoro garantito era la normalità in quegli anni. Un altro secolo, un altro millennio. La scuola era quella dell’obbedienza, della maestra unica-tuttologa, chiusa nella sua classe, degli armadi chiusi a chiave che le supplenti non avevano il diritto di aprire, dei grembiulini neri d’ordinanza… Era la scuola selettiva, la scuola dei voti, dei ripetenti, quelli alti alti confinati negli ultimi banchi, quelli che neanche alle elementari ce la facevano a stare al passo. La mia era la generazione cresciuta con «la rivolta tra le dita», con la voglia e l’impegno di cambiare la scuola e di cambiare il mondo. Vivevamo, come ha scritto recentemente Goffredo Fofi su Repubblica, «una stagione irripetibile della pedagogia italiana, quando educazione voleva dire conquista della democrazia, crescita di uomini nuovi e responsabili nei confronti della comunità, della collettività, del creato».

Tanti i nostri Maestri ispiratori, quelli che davano idee e sostanza ai nostri progetti: don Milani, con la sua Lettera a una professoressa e l’attenzione agli ultimi, Mario Lodi, campione di didattica e di umanità, Guido Petter, partigiano resistente che ci aveva guidato con le sue Conversazioni psicologiche, Gianni Rodari e la sua Grammatica della fantasia quando «La fantasia al potere» era uno degli slogan che più ci rappresentava, Gianni Cordone – mitico e mai dimenticato direttore didattico – che a Vigevano, sul finire degli anni Settanta, aveva già realizzato tutte quelle innovazioni che poi sarebbero diventate legge. Leggevamo e discutevamo molto, con grande passione ed entusiasmo, senza guardare l’orologio e senza segnare le «ore eccedenti» da recuperare. C’era una scuola nuova da costruire insieme. Sono stati gli anni del diritto all’istruzione e alla cultura per tutti, degli handicappati che cominciavano ad essere inseriti nelle classi (senza insegnanti di sostegno, ma, in qualche modo, ce la cavavamo). Gli anni della furia iconoclasta (in seguito ce ne saremmo pentiti!) contro certi baluardi della vecchia scuola: le poesie da imparare a memoria, la grammatica … Gli anni delle aule e degli armadi che si aprivano. Gli anni del Tempo Pieno ( e poi del Modulo), delle maestre che si specializzavano in una materia e che lavoravano in team. Le cose da fare quotidianamente in classe si decidevano insieme. La programmazione era il risultato di studi approfonditi su contenuti e metodi, di confronti, di discussioni anche molto accese. Una grande rivoluzione, sancita dalla legge dopo anni di sperimentazione, che ha cambiato in modo irreversibile il nostro modo di essere e di fare scuola, che ha lasciato in noi tutte un imprinting speciale. Erano tempi in cui la cultura e la scuola contavano, erano importanti. Tempi in cui i genitori ci davano fiducia, credevano nel cambiamento e partecipavano a quella ventata di democrazia che sono stati gli Organi Collegiali.

Sono passati gli anni, i decenni. Tanto è cambiato nella società e, di riflesso, inesorabilmente, anche nella scuola. Scuola e cultura non godono più del prestigio di un tempo, non sono più ai primi posti della scala dei valori della società, degli studenti e delle famiglie. Il grande movimento di idee, di conoscenze, di valori – non sostenuto da politiche adeguate – si è appannato. Ha perso in entusiasmo ed in passione, in lucidità e progettualità. Da troppi anni manca un pensiero collettivo sulla scuola. Mancano idee, valori etici di riferimento, riforme condivise. Mancano Maestri ispiratori. Manca una riflessione generale su temi fondanti del nostro «essere» e «fare» scuola: su «sapere e saper fare», su competenze e contenuti , su abilità e conoscenze , su «imparare» ed «imparare ad imparare», su merito-selezione-integrazione, su rigore e qualità degli apprendimenti da coniugare con la scuola di massa. Da anni la scuola ha mutuato un linguaggio aziendale. Bambini e famiglie sono diventati «clienti». I direttori didattici sono stati trasformati – loro malgrado – in Dirigenti, con la didattica «evaporata» dal loro ruolo. E poi il tentativo di tornare alla maestra unica di morattiana memoria, il tutor, il Pecup, le Unità di Apprendimento , il monoennio, il Portfolio (ne ho conservati alcuni esemplari: leggere per credere…) Quando, anni fa, ho sentito in un Collegio Docenti di Pavia (non il mio) parlare di customer satisfaction («soddisfazione del cliente») ho misurato la deriva verso cui stava precipitando la scuola.

Per arrivare all’oggi, al Ministro dell’Istruzione che «riforma» la scuola a suon di tagli, senza nemmeno ascoltare le tante voci di critica e di dissenso che si sono levate da insegnanti, sindacati, genitori. Una scuola appiattita sul presente – mi piange il cuore doverlo dire -. Una scuola che non vola alto, che non ha progettualità sul futuro. L’oggi è fatto di una generazione di insegnanti precari, classi sempre più numerose e più complesse da gestire, bambini che fanno sempre più fatica a rispettare regole, accettare insuccessi, assumersi responsabilità. E ancora: le compresenze finite, l’inglese imparato d’ufficio dalle maestre con 50 ore di corso, gli Organi Collegiali diventati ritualità da rispettare per legge, la fiducia incrinata dei genitori, il ritorno ai voti, l’enfasi assoluta data ai test, quasi che a scuola verificare sia più importante che insegnare ed educare… Anche il «clima umano» è cambiato: più stress, più stanchezza, più malessere, meno felicità in circolazione oggi nelle  scuole.

Poi entri a scuola al mattino. Ritrovi tante facce amiche. I bambini ti aspettano, ti raccontano le loro storie, ti si affidano. Riesci ancora a farli appassionare. « … E un ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un rimpianto». Buona scuola a chi rimane

E’ vietato calpestare i sogni!

Copio dal blog Ho ascoltato il silenzio questo piccolo intervento. Aggiungo che sulla miaÈVIETA~1.JPG stufa c’è un piccolo sasso verniciato con una scritta “E’ vietato calpestare i sogni!”. Un prof che lascia calpestare i sogni può smettere di fare il prof, così come uno studente, ma un prof che li calpesta è veramente un cattivo prof…

Le dirò che io quest’anno a scuola non ci volevo proprio tornare. Pensare che voi (lei e i suoi colleghi) mi farete perdere il primo mese di scuola per ambientarmi (è l’undicesimo anno che varco quella soglia!), che comincerete già dalla seconda ora a parlarmi degli esami di maturità quando mancano ancora tre anni, che parlerete male di Berlusca e dei suoi inservienti, che mi riempirete la testa della nuova Manovra e dell’incapacità del Governo di rappresentarci e che condirete il tutto intervallandolo con i vostri problemi familiari ed esistenziali un po’ mi fa incavolare. Perchè lei, prof, dovrebbe sapere che sotto la mia faccia da asino ci sta un alfabeto di desideri: di correre, di gridare, di piangere, di amare, di sognare, di diventare grande, di sognare da capitano. Per fare questo le sue frustrazioni mi sono più d’intralcio che d’aiuto. Scusi se glielo dico, ma se ci torno a scuola è perchè anche quest’anno – mi creda: non giochi con la bontà degli studenti – spero che la musica cambi per davvero. Io vorrei tanto vederla piangere mentre spiega la sua materia, scoprire dentro il suo sguardo la passione per quello che dice, inabissarmi nel suo entusiasmo per poi scoprire che lei è davvero quello che dice. Sentirmi raccontare di quando Pasteur tratteneva il fiato sopra il suo miscroscopio, di quando Cèzanne immobile e muto scrutava il mare dentro i suoi quadri, di quando Platone s’accorse di consumare più olio nella lampada che vino nella coppa. Quest’estate ho sognato tante notti di entrare in classe e scoprire che la mia prof crede davvero che la vita abbia un senso splendido da far sbocciare, che noi non siamo qui per caso, che dentro noi c’è un microcosmo meraviglioso da illuminare. Quando penso che alla mia età Mozart già componeva musica, Domenico Savio era già santo, Alessandro Magno stava per vincere la battaglia di Cheronea e Pascal già scrivera opere, sento nascere la passione nel mio cuore. Le chiedo solamente, prof, che qualora lei non l’avvertisse questa passione mi faccia il piacere di starsene a casa quest’anno: s’inventi una scusa qualsiasi, ma ci faccia il favore di non scegliere ancora noi come destinatari della sua frustrazione esistenziale. C’abbiamo grandi aspettative noi ragazzi. E tanta speranza che qualche prof entri in classe e ci faccia finalmente innamorare delle cose più alte e nobili. Di Berlusca ne parli pure. In sala docenti, però.

Facebook a scuola

Prendo dalla rete questa notizia. Sapete che io ho deciso di accettare amicizi su fb dagli studenti solo dopo l’ultimo scrutinio dell’ultimo anno. Ma vietarlo per legge è un’altra cosa…

STATI UNITI – Una nuova legge sta per entrare in vigore nello stato del Missouri: sarà fatto divieto assoluto agli insegnanti e studenti di diventare amici tramite siti di social networking come Twitter e Facebook. La legge entrerà in vigore il 28 agosto ed è emanata per rafforzare il senso di ‘limite’ tra studenti e insegnanti. Dopo tutto, se uno studente diventa amico di un insegnante su Facebook e gli altri non lo sono, si può anche dare l’impressione di essere favoriti. Il disegno di legge non esclude del tutto il contatto online. Gli insegnanti possono avere pagine su Facebook e Twitter che permettono il contatto diretto con tutti gli studenti online ma senza essere amici. Restano domande su come il divieto sarà applicato e se è davvero costituzionale impedire alla gente di avere rapporti sociali con gli altri. Tuttavia, il Missouri povrebbe essere solo il primo di una lunga serie a proporre una legge per regolare il contatto online tra insegnanti e studenti.

Prima che

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Nel triennio abbiamo parlato in queste 2 settimane di quello che stava succedendo nel bacino del Mediterraneo, cercando di capire quello che stava realmente accadendo là. Tra le altre cose abbiamo anche riflettuto su come le vicende riguardassero da vicino l’Italia, anche per i notevoli interessi politici, economici, culturali coinvolti. Eppure due settimane fa nessuno si chiedeva quale vita conducessero gli abitanti della periferia di Tripoli o di Bengasi, di quali libertà godessero i cittadini del Cairo, quale impresa potesse mettere in piedi un piccolo imprenditore di Tunisi. La maggior parte di noi si interessa a questi paesi nel momento in cui deve andarci in vacanza (preferibilmente organizzata). Ma poco o nulla sappiamo di quanto succede al di fuori dell’Italia: qualcosa arriva dall’Europa, dagli Stati Uniti e nulla più. Purtroppo non possiamo fare affidamento sui canali televisivi e neppure sui giornali; ci dobbiamo affidare alla rete. Ed è necessario farlo: ormai penso sia visibile a tutti che viviamo in un mondo unico, in cui non è possibile essere interessati soltanto a quanto accade nel proprio orticello o al massimo nel cortile del vicino. E’ da tempo che dico quanto sia assurdo ripetere per tre volte durante il percorso scolastico la “storiella” (perché alla fine troppo spesso si riduce a questo) delle guerre puniche e non arrivare mai o quasi mai ad affrontare seriamente la storia contemporanea, che poi è la storia della nostra vita. Nei miei ricordi di bambino di 8 anni c’è l’immagine di mio padre in lacrime davanti alla tv durante i funerali del Generale Dalla Chiesa: la storia me la sono ricostruita da solo, perché nessun programma scolastico vi è mai arrivato (ma neppure agli anni ’60). Penso allora sia necessario mantenersi informati, aperti alle notizie, andandosi a cercare autonomamente i fatti da sapere senza attendere l’urgenza della cronaca e possibilmente sintonizzandosi sul cuore del mondo che non sempre ha un battito chiaro e distinto.

Sei connesso?

Sul sito del Corriere di oggi c’è un pezzo allarmistico che ci mette in guardia sul futuro di internet: dall’estate del 2011 non ci sarà più spazio su internet per un nuovo utente che volesse navigare sol suo nuovo pc o smart-phone. E’ poi sufficiente dare un’occhiata ai commenti dei lettori per ridimensionare notevolmente l’allarmismo generato dell’articolo. Sta di fatto che la questione dell’accesso alla rete è ormai diventata oggetto di rivendicazione dei diritti umani. E in Italia gli amministratori non sembrano averlo capito: non è questione di colorazione politica, perché non vedo grosse differenze. A livello locale ci sono zone dell'”avanzatissimo e produttivo Frìuli” (per dirlo alla TG) scoperte da Adsl o con velocità lentissime… Pensiamo semplicemente alla velocità della connessione nella nostra scuola… Ecco allora due notiziole che arrivano dal nord-europa che ci possono far riflettere non poco: son prese da Dimensioni Nuove

Se è vero che da tempo i Paesi del Nord Europa si distinguono per propensione all’innovazione e attenzione al welfare, negli ultimi mesi i casi di Finlandia e Islanda hanno costituito un interessante connubio di questi due fattori e un coraggioso tentativo di valorizzare le nuove tecnologie, Internet in particolare, per diminuire le disuguaglianze sociali e garantire diritto di informazione e libertà d’espressione.

La Finlandia è il primo Paese al mondo che ha riconosciuto, per legge, la connessione Internet a banda larga come diritto universale per iinternet_la_rete.jpg suoi 5 milioni di cittadini. E’ stata infatti attuata dai primi di luglio del 2010 la legge sul Mercato delle Comunicazioni, che mirava a garantire a un prezzo ragionevole la connessione ad almeno 1 Megabit per secondo all’interno dei servizi di comunicazione di base come il telefono e la posta. Questo ha significato, per i provider, l’obbligo di fornire a ogni residente una linea a banda larga, che, tra l’altro, dovrà raggiungere i 100 Megabit per secondo entro il 2015. Secondo la ministra per le Telecomunicazioni Suvi Linden “i servizi Web non sono più solo intrattenimento, la Finlandia infatti ha lavorato duramente per lo sviluppo della società dell’informazione e un paio di anni fa abbiamo scoperto che non tutti avevano un accesso”, da cui questa legge innovativa e unica per portare l’accesso a tutti. Se si fa il confronto con l’Italia si può solo constatare come, nonostante il susseguirsi di governi di diverso colore, Internet non sia mai stato considerato una priorità e un’opportunità per il nostro Paese. Ci sono sì differenze non trascurabili a livello demografico e ambientale rispetto a Paesi come la Finlandia, ma il punto è che un deciso investimento sull’innovazione, e sulla rete in particolare, nel nostro Paese non è mai stato fatto. Prova ne è l’ultima indagine UE, che fotografa la situazione a metà 2009 e indica un tasso di penetrazione della banda larga in Italia pari al 20%, contro il 37% di Olanda e Danimarca e il 29% di Francia e Germania. E non è un caso se proprio da Wired Italia sia nato il progetto Internet for Peace, la proposta-provocazione di Riccardo Luna di candidare Internet a Premio Nobel per la pace 2010. Non si tratta, a mio avviso, di voler eleggere Internet a panacea di tutti i mali, ma semplicemente di capire come possa avere un ruolo importante nell’informazione e nella partecipazione dei cittadini e come possa, al tempo stesso, diventare un elemento di divisione e disuguaglianza sociale nel momento in cui sia privilegio di pochi.

L’altro caso interessante dell’anno è quello dell’Islanda, il “Paese senza bavaglio”, secondo un provocatorio titolo di Repubblica di quest’estate. In effetti il progetto approvato il 16 giugno dal parlamento islandese, denominato Icelandic Modern Media Iniziative, mira a “garantire uno scudo quasi totale a chi metterà su Internet segreti militari, giudiziari, societari e di Stato di pubblico interesse”, contemplando, tra le altre cose, una considerevole protezione per i blogger e per tutte le fonti, in nome della libertà d’espressione. Sebbene si prevedano per questa risoluzione tempi di attuazione di circa un anno, in tempi di leggi anti-intercettazioni la mossa dell’Islanda coglie piacevolmente di sorpresa, soprattutto se si considera che il parlamento di Reykjavik l’ha votata con cinquanta voti a favore, zero contrari e un solo astenuto. Nel nostro Paese invece si susseguono proposte di legge, dal centrosinistra come dal centrodestra, che cercano di limitare, se non impedire, le attività dei blogger e delle piccole webTV. Così, mentre in Italia la banda larga avanza a passo di lumaca e il mondo dei blog si prepara alla graticola, ci sono fortunatamente Paesi che si muovono e legiferano per garantire diritti come l’accesso a Internet e la libertà d’espressione, candidandosi a diventare la nuova frontiera dell’innovazione e del giornalismo d’inchiesta.

Giudizio a scuola

Nell’ultimo numero di Dimensioni Nuove c’è un articolo molto interessante di Susanna Conti che mi ha fatto venire in mente quella bella frase che dice: “ogni volta che punti il dito contro qualcuno per giudicarlo ricordati che tre dita restano puntate contro di te”. L’aspetto più interessante dell’articolo penso sia quello educativo, che lega l’atteggiamento del giudizio e soprattutto del colpevolizzare a un modo di fare che purtroppo è diventato comune. Ho vissuto sulla mia pelle, nell’età dell’adolescenza in cui si vivono le emozioni a tinte forti, cosa significhi vedere accusata e condannata prima del processo una persona che si ama. Poi la persona è stata riconosciuta innocente ma quelle dita puntate, quelle telefonate anonime di accusa nel pieno della notte sono stampate nei miei ricordi. E’ purtroppo vero che viviamo in un periodo di processi mediatici e ci stiamo abituando allo scontro e non più al confronto: non ci scambiamo più le idee, non è dialogo, ma è solo una lotta a chi grida più forte le proprie ragioni, senza ascoltare, nel vero senso del termine, le opinioni altrui. Concordo con Susanna Conti che la scuola abbia un ruolo molto importante in tutto questo…

Pubblico l’articolo che potete trovare qui http://www.dimensioni.org/giugno10/articolo14.html 

COMPLEMENTO DI COLPA di Susanna Conti

Quel che la scuola dovrebbe insegnare. Analisi (logica) di un diritto dimenticatoDitoPuntato.jpg

Sarebbe bello costruire un elenco di comportamenti e valori che la scuola dovrebbe saper insegnare e poi trattarne un punto in ciascun numero di Dimensioni, almeno per un po’ di tempo. Sarebbe ancora più bello costruire questo elenco assieme, studenti, prof, persone che si occupano di scuola e di giovani. Questa è la proposta da inventare. La condizione è che nessuno dica che la scuola dovrebbe insegnare a scrivere bene o a leggere di più o a progettare saggi e tesine: tutto vero, per carità. Ma soltanto saper scrivere bene quando siano poco chiari alcuni capisaldi del vivere civile e democratico serve tutt’al più a ingannare e a confondere, non a comunicare. Nessuno dica nemmeno che alla scuola si chiede troppo: tutto vero anche questo. Ma è la natura della scuola quella di avere un compito infinito: non istruire a un sistema chiuso di conoscenze e capacità, ma aprire la testa delle persone e ricominciare sempre con persone nuove. Prima di tutto ciascuno con se stesso.

Un complemento spia

Il complemento di colpa del titolo non ha molto a che fare con l’ora di grammatica. Tuttavia il fatto che nelle grammatiche quel complemento si chiami proprio di colpa è spia inquietante di una mentalità radicata. Leggete la definizione tratta da una grammatica di scuola media: Il complemento di colpa indica di che cosa uno è accusato oppure da che colpa viene assolto Capito? Uno è accusato (magari di una cosa che non ha fatto) oppure viene assolto (perché non l’ha proprio fatto) eppure lo si bolla subito con un complemento di colpa, non di accusa o di innocenza… Sarebbe bello riscrivere le grammatiche inventando anche il complemento di innocenza: possibile, questo, in un mondo che non copre i colpevoli veri, ma che tutela i più deboli. Il complemento di colpa del titolo ha a che fare con la mentalità: è quello che ha rovinato l’esistenza a molti accusati innocenti, sia in procedimenti giudiziari sia, più spesso, nella vita comune. È il vergognoso atteggiamento che ha chi giudica un altro (mai se stesso) colpevole fino a quando non ne sia provata l’innocenza. E oltre: una volta provata l’innocenza, “chissà se è vero che non ha fatto proprio niente”… Il complemento di colpa è il pregiudizio di aggiungere colpa agli altri perché elevarsi a giudice dà potere e perché pensare solo il peggio (degli altri) dà la sensazione di essere sempre a posto.

Un articolo spregiudicato

C’è un articolo della nostra Costituzione conosciuto quanto tutti gli altri (e cioè molto poco) dalla comunità, ma decisamente opposto al pregiudizio comune. È l’articolo 27. Esso recita, tra l’altro, che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Questo sul piano della legge civile. Sul piano della convivenza fanno piuttosto legge i salotti televisivi, quelli pomeridiani seguiti dalle nonne e quelli serali seguiti da padri e madri. I ragazzi ascoltano passando e (forse) si adeguano. I salotti televisivi processano a priori, senza avvisi di garanzia e soprattutto senza garanzie. Siccome non c’erano né La vita in diretta né Chi l’ha visto, Renzo Tramaglino, fra Azzeccagarbugli e cacce agli untori, ha solo dovuto emigrare nel Bergamasco e ha messo su casa senza ulteriori problemi, se non quello di essere chiamato baggiano (come dire rumeno o marocchino in un mondo globale come il nostro). Se ci fosse stata la TV, l’avrebbero scovato anche nel Bergamasco e avrebbero rivelato quale colpa si celasse dietro la vita tranquilla di uno che a suo tempo s’era dovuto perfino cercare un avvocato… Quello che in realtà preoccupa non sono i salotti televisivi, è il fatto che i salotti esistano perché il pubblico li vuole, magari in modalità interattiva. È il fatto che ci sentiamo tutti principi del foro e giudici in ermellino, senza averne la minima competenza. E non è un film.

Un complemento nuovo

Questo è un tempo in cui si parla di giustizialismo e di strapotere dei giudici. Ma noi lasciamo ai giudici il loro mestiere, regolato dalla legge e dalle istituzioni democratiche. Noi qui parliamo di educazione, con alcuni esempi su cui pensare.

Primo esempio Mario è un professore di liceo. Un suo allievo (che chiameremo Claudio) è vissuto in alcune comunità ed è stato “preso in carico” dai servizi sociali. A 19 anni (quando si è considerati maggiorenni dalla legge) ha certamente sbagliato e, durante una riunione familiare, ha perso il controllo e ha compiuto un gesto che è un reato. Ora Claudio è detenuto in attesa di giudizio. Mario è una persona normale, con le paure e le ansie di una persona normale. Siccome però è un prof come si deve, non ha avuto dubbi sul fatto che la scuola non si limita alle ore e agli anni di scuola né tanto meno alle Grazie del Foscolo. Pertanto non ha avuto dubbi nemmeno sul fatto di richiedere il permesso per andare a parlare con Claudio in carcere. Mario è rimasto colpito dal pregiudizio di sospetto e di colpa che percepiscono su di sé perfino i visitatori. È straziante l’attesa prima di entrare in una sala, poi arriva la guardia, c’è la perquisizione, poi un’altra porta, il visitatore dichiara che cosa vuol consegnare e magari scopre che non può: niente libri con la copertina rigida, niente biscotti né merendine, nemmeno arance. Deve consegnare l’orologio e, quando finalmente arriva nella sala colloqui, è preso da uno stordimento senza tempo. Non ha il senso dei minuti che passano, ma solo un’ansia pressante di cui non capisce il perché. Quando arriva la guardia a dire che il tempo è finito, Mario scopre l’ansia degli altri, dei familiari che, fino a quel momento, davanti a tanti tavoli uno vicino all’altro, cercavano di dare e di ricevere (di rubare?) un gesto d’affetto e di confidenza. Nei detenuti Mario scopre la dimensione della disperazione, la paura del vuoto, di essere dimenticati.

Secondo esempio Tonino è un detenuto che sta scontando la pena. È l’anima della biblioteca del carcere e del giornale che (quando è possibile, purtroppo di rado) lui e i suoi compagni realizzano. Tonino ha ricevuto il permesso di andare a trovare sua mamma anziana, assieme ai familiari. Queste sono alcune delle sue parole: non è facile riallacciarsi alla vita normale dopo anni di carcere. Vivi quei momenti come se ti vedessi in terza persona e ti vedi con persone e in un mondo che non è il solito, non vedi le guardie, i cancelli, non ci sono sbarre… Non c’è nulla che la tua mente è abituata a vedere e allora sei un po’ spaventato, sei disorientato e anche intimidito da queste novità, da questi nuovi rumori, dai colori delle pareti, dagli odori, dalle piante, dai fiori e maggiormente dallo spaziare della la tua vista che, solitamente, finisce per sgretolarsi contro un muro di cinta e non va oltre, mai. Questa non è solo una bellissima pagina di scrittura. Tonino sa di condividere queste sensazioni con tutte le persone rinchiuse, ad esempio gli anziani negli ospizi e i bambini negli istituti.

Terzo esempio Appello da parte di una volontaria che opera nel carcere di in una grande città. L’appello è stato letto dopo la messa domenicale: in carcere manca carta igienica, mancano saponette e assorbenti, non c’è mai acqua calda. La volontaria chiede ai presenti di realizzare una raccolta di articoli di prima necessità. Ha ragione lei e ha ragione la signora Flora, pensione sociale e una bolletta del gas triplicata rispetto al solito a causa di aumenti retroattivi. Flora (con parole meno neutre) dice di non dover essere lei a mettere toppe alle carenze istituzionali. Vengono in mente gli ermellini delle toghe cerimoniali, viene in mente la distanza tra il mondo della forma e quello della vita. Vengono in mente anche gli ermellini vivi che sono creature del Signore e non pellicce da allevare in gabbia…

Viene in mente che sarebbe necessario fondare un complemento nuovo: il complemento di dignità, fondamentale in tutta la grammatica della vita. Di fronte a Omar che dal carcere esce non può non esplodere il ricordo del fratellino di Erika, quello che non può più uscire dal buio che lo ha travolto in questo mondo. Ma il discorso è di nuovo collegato con ciò che fa notizia: Omar fa notizia, venti anni di depressione di un uomo finito in carcere per un delitto non commesso non fanno notizia. Quando muore Pietro Vanacore, la voce che circola è che, tutto sommato, chissà che cosa sapeva (e nascondeva) il portinaio dello stabile di Roma… Parliamo di nuovo di umanità negata, non del “giallo di via Poma” che non è affatto un film, ma morte vera.

Riflessione: un uomo, una volta, ci ha insegnato il complemento di perdono. Quasi tutti gli altri lo ritenevano colpevole, non importa di che cosa, purché potessero dichiararlo colpevole. Non dimentichiamolo.

Pc a scuola

Pubblico un link a un articolo del Corriere della Sera di oggi. Un prof distrugge con l’azoto liquido un portatile: detto così possiamo pensare che sia impazzito. Poi si legge tutto e si capiscono tante cose…

http://www.corriere.it/esteri/10_marzo_09/pc-distrutto-usa-ennio-caretto_e07be724-2ba4-11df-8630-00144f02aabe.shtml

Viaggi d’istruzione

Oggi sul Corriere è uscito questo articolo sul fatto che sempre meno insegnanti siano disponibili ad accompagnare le classi in viaggio. Che ne pensate?

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/10_febbraio_10/gite-1602435544474.shtml

Calendario 2009-10

Inizieranno il 15 settembre le lezioni in tutte le scuole del Friuli Venezia Giulia. Lo ha stabilito la Giunta regionale, nell’approvare il Calendario scolastico per l’anno 2009/2010. Le lezioni saranno sospese il 2 novembre, il 7 dicembre, nei periodi dal 23 dicembre al 5 gennaio (vacanze natalizie) e dall’1 al 6 aprile (vacanze pasquali). Per quanto riguarda le scuole primarie e secondarie di primo grado e di secondo grado, statali e paritarie, le lezioni termineranno l’11 giugno 2010 per un totale di 209 giorni utili, tenuto conto dei giorni di festivita’ e di sospensione obbligatoria delle attivita’ didattiche. Questo non significa che il Percoto terminerà l’11 giugno, ma queste sono le indicazioni regionali.

Mi ven di ridi

Prendo dal sito del corriere

«Oscura» i cellulari in classe

Il preside, esasperato, ha acquistato un dispositivo illegale capace di schermare il «campo»

L’uso del cellulare a scuola è uno dei problemi più comuni e delicati che gli insegnanti e i dirigenti scolastici devono affrontare ogni giorno. Spesso vietarne l’uso durante le lezioni o per tutta la giornata di studio è insufficiente; per questo il preside di una scuola di Vancouver ha deciso di usare un sistema drastico e alternativo, schermando il campo dei telefonini con un «jammer», dispositivo in grado di oscurare le radiofrequenze.

Peccato però che il congegno sia illegale (in Canada come negli Stati Uniti e nella maggior parte dei Paesi europei) . Gli studenti si sono accorti subito che qualcosa non andava nella ricezione dei loro cellulari e, dopo una rapida ricerca online (suggerita dal preside stesso), hanno identificato il metodo usato. Ma non solo: hanno scoperto che utilizzare un dispositivo per schermare le onde elettromagnetiche è illegale. Una sorpresa anche per il dirigente Steve Gray, che ignorando l’Atto sulle comunicazioni radio vigente in Canada, aveva acquistato online il dispositivo da un rivenditore cinese, utilizzando i fondi scolastici (115 dollari).

Gray, intervistato in merito alla vicenda, ha dichiarato: «C’era un continuo problema di gestione delle classi. C’era sempre qualche cellulare confiscato agli studenti perchè lo usavano in aula contro le regole della scuola». «(Il dispositivo) ha immediatamente bloccato le prestazioni dei cellulari. Era solo un piccolo progetto per vedere cosa sarebbe accaduto, sono rimasto sorpreso per come funzionasse bene. Ma una volta scoperto che era illegale l’ho subito spento». Robert Holmes, presidente del Consiglio consultivo dei genitori, non sostiene la scelta del preside: «Posso capire quali fossero i suoi livelli di frustrazione, ma non avrebbe dovuto farlo. I bambini avrebbero dovuto seguire le regole». D’altra parte però a volte sono gli stessi genitori a non rispettare il regolamento della scuola, telefonando ai figli negli orari di lezione, controbatte Mary-Lou Donnelly, presidente della Federazione canadese degli insegnanti. Questa vicenda ha comunque un risvolto positivo, avendo portato nuovamente in primo piano il problema di una concreta regolamentazione sull’utilizzo dei telefonini nelle scuole. Interessante la proposta di Richard Smith, del dipartimento di comunicazione all’Università Simon Fraser, secondo il quale è inutile combattere l’uso del cellulare, in quanto parte integrante della nostra cultura: «La sfida per gli insegnanti è trovare il modo di integrare i telefonini nelle classi, insegnando e cercando un compromesso con i ragazzi su come e quando è appropriato usarli o meno».

 

Valentina Tubino

02 aprile 2009

Quintini 2 (e direi pure quartini!)

L’altro giorno ho pubblicato un post sull’ammissione all’esame di stato. Oggi vi metto qui sotto l’opinione di Roberto Pasolini, Preside del Liceo europeo Leopardi di Milano. Che ne pensate?

La presentazione dello schema di Regolamento concernente il “Coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni” approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 13 marzo ha suscitato le inevitabili reazioni ed i commenti che usualmente, da anni, incontra ogni provvedimento del Ministero quando propone modifiche all’esistente.

Oltre ad un apprezzamento per la chiarezza del testo (non usuale nei testi normativi), per la volontà di uniformare i criteri di valutazione nei diversi ordini di studio, per aver risolto brillantemente il modo in cui il comportamento “concorre” alla valutazione complessiva e per il rigore normativo, ritengo che la lettura di questo documento dovrebbe essere basata su tre considerazioni fondamentali: serietà degli studi, modalità di valutazione, tempi di attuazione.

Da tempo ogni analisi sul nostro sistema scolastico, sul livello degli apprendimenti dei nostri studenti e sulla responsabilità con la quale affrontano gli studi ha un denominatore comune: occorre ridare serietà al sistema migliorando il livello degli apprendimenti ed aumentando le pretese di studio.

Quando il ministro Fioroni ha deciso l’abolizione del sistema dei debiti formativi introdotto dall’allora Ministro D’Onofrio, ha avuto, sul concetto, un plauso generale e traversale che comprendeva docenti, dirigenti scolastici e famiglie. Il Ministro Gelmini ha proseguito su questa strada chiedendo a docenti e studenti di portare la scuola verso una maggior serietà introducendo anche la richiesta di tornare alla pretesa di un corretto comportamento e che la sua valutazione concorresse sul giudizio espresso nello scrutinio finale, ottenendo a sua volta un plauso ed un consenso “bulgaro”.

In questo contesto la decisione di pretendere la sufficienza in ciascuna disciplina o gruppi di discipline per decidere promozioni ed ammissioni, mi sembra una conseguenza logica ai principi espressi e condivisi, come sopra enunciato. Perché non accettarlo?

In secondo luogo, ritengo occorra introdurre un approfondimento sulle modalità di valutazione. La normativa relativa a questo punto ha sempre dato indicazioni precise ai docenti. Se rileggiamo (senza andar troppo lontano) l’OM 90 del 2001 o l’OM 92 del 2007 troviamo le radici di quanto espresso anche in questo schema di regolamento: «la valutazione ha per oggetto il processo di apprendimento, il comportamento e il rendimento scolastico complessivo degli alunni. La valutazione concorre, con la sua finalità anche formativa e attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze di ciascun alunno, ai processi di autovalutazione degli alunni medesimi, al miglioramento dei livelli di conoscenza e al successo formativo». Di fatto partecipazione, attenzione, diligenza, frequenza, miglioramento disciplinare sono elementi di cui ogni docente dovrebbe tener conto per una sua valutazione finale e dovrebbero concorrere, come hanno sempre concorso, a presentare con una sufficienza gli studenti che sulla base della “mera media” non lo sono ancora (ha senso basarsi solo su un 5,71?). Su questi stimoli occorrerà lavorare affinché gli studenti non si demotivino e sappiano che i loro docenti, con un’opera formativa, sapranno tener conto dei loro positivi sforzi e della loro volontà di miglioramento che si è concretizzata in un rendimento più buono.

La terza parte del mio intervento si riferisce ai tempi. Nella scuola vigeva la consuetudine che modifiche normative avevano immediata applicazione se emanate entro il 31 dicembre (mi sono confrontato e non è solo nella mia memoria), altrimenti entravano in vigore dall’anno scolastico successivo con l’intento di “non cambiare le regole del gioco a gioco in corso”. Per questo ritengo che il Ministro possa fare una riflessione basata sullo stesso principio che l’ha spinta a far slittare di un anno l’avvio della riforma della scuola secondaria di II grado e procedere a far spostare di un anno l’applicazione per l’ammissione all’esame di stato. Ritengo che una decisione in tal senso sarebbe accolta con un altro plauso, ma soprattutto permetterebbe di rivedere la normativa complessiva delle ammissioni all’esame di stato, razionalizzandola in una logica di equità.

La Rosa di Emil

Venerdì 27 marzo 2009 alle 21.00 al Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” si terrà “La Rosa di Emil”, serata alla quale parteciperà anche il coro della nostra scuola. Qui sotto altre informazioni

“La Rosa di Emil”

Venerdì 27 Marzo 2009

UDINE

Teatro Nuovo “Giovanni da Udine”

La serata, fa parte di una serie di progetti pianificati in occasione del 25° anno di attività dell’Associazione. Il filo conduttore comune di questi progetti è il concetto della solidarietà e del dono di se stessi attraverso la donazione del sangue, del midollo osseo e del sangue del cordone ombelicale. Il percorso di sensibilizzazione è rivolto in particolar modo ai giovani e mira a suggerire stili di vita sani e corretti anche al fine di preservare ciò che in noi può essere di importanza vitale per gli altri.

I protagonisti della Rosa di Emil saranno gruppi di studenti di alcuni licei udinesi e, precisamente, del liceo scientifico “Marinelli”, coordinati dalla professoressa Chiara Vidoni, del liceo pedagogico “Percoto”, diretti dalla professoressa Simonetta Fabro e del liceo classico “Stellini”, diretti dai musicisti Sarah Anania, Angela Caporale e Stefano Mesaglio, i quali si esibiranno in cori e orchestra. La recitazione è, invece, affidata a Erik Pagnutti, uno studente dell’Istituto d’Arte “Sello”, che è anche animatore.

Il repertorio musicale e quello teatrale si alterneranno creando un intreccio di monologhi, canto e musica di elevato spessore qualitativo ed emotivamente coinvolgenti. Allo spettacolo contribuiranno, a titolo gratuito, la giovanissima pianista Alice Moretti, studentessa dello “Stellini”, il direttore Alessandro Pozzetto, il maestro Rudy Fantin e, con una sua performance, il jazzista di fama internazionale Daniele D’Agaro. Saranno presenti inoltre personaggi del mondo dello spettacolo, di quello scientifico e dell’informazione. Introdurrà e concluderà la manifestazione Daniele Damele.

Rosa si apre agli altri in un’ottica di dono, dona una parte di sé e diventa ogni giorno più ricca, di una ricchezza che si alimenta e si rigenera continuamente. Rosa è una persona come tante, che trova in sé la forza di ridere e far ridere in situazioni che sembrano le più lontane dalla gioia. Sono proprio queste situazioni che fanno scaturire in lei risorse che non avrebbe mai pensato di possedere, dando un significato nuovo ed autentico alla sua vita. Attraverso le parole del giovane Emil, noi potremo conoscerla, rivivere alcuni momenti della sua singolare storia, significatamene felici o, talvolta, connotati dalla tragedia umana, in un’alternanza di sentimenti ed emozioni che ci porteranno ad un profondo confronto con noi stessi e l’altro…

Con questa serata, l’A.G.M.E.N. – F.V.G. rende inoltre omaggio a tutto quel volontariato silenzioso che sostiene ed aiuta gli altri nelle situazioni più difficili.

I biglietti gratuiti per la partecipazione alla serata vanno ritirati alla biglietteria del Teatro Giovanni da Udine a partire da lunedì 9 marzo (ore 16.00- 19.00 dal lunedì al sabato).

Organizzato da:

Associazione Genitori Malati Emopatici Neoplastici del F.V.G.

040 764441 – agmen@burlo.trieste.it

Ginetta Pozzoli (referente del progetto)

348 7936562 – ginnypozz@libero.it

Sito web: www.agmen-fvg.org