Rosario Livatino

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Lo scorso anno scolastico, grazie alla proposta di due colleghe, ho accompagnato due classi a vedere una mostra sul giudice Rosario Livatino ospitata nei locali dell’Università di Udine. Il 21 settembre è corso il 35° anniversario dalla sua uccisione e sul sito Vivi, dedicato dall’associazione Libera alle vittime innocenti di mafia, ho trovato una pagina che ben racconta la sua storia.

“STD. Tre lettere puntate. Un acronimo misterioso che a lungo ha impegnato gli inquirenti che indagavano sulla tragica uccisione del giudice Rosario Livatino. Tre lettere che comparivano, con assiduità, in fondo alle pagine degli scritti e delle agende private del magistrato. Quando il rebus è stato risolto, è stato chiaro che in quelle tre lettere c’era tanto della personalità, del pensiero, della vita di questo giovane giudice ammazzato dalla Stidda a 38 anni e poi diventato il primo magistrato beato nella storia della Chiesa. STD, Sub Tutela Dei, nelle mani di Dio. Un’invocazione a Dio perché guidasse i suoi passi, le sue scelte, le sue decisioni. In definitiva, la sua stessa vita.
Una vita, quella di Livatino, iniziata il 3 di ottobre del 1952 a Canicattì, in provincia di Agrigento. Papà Vincenzo era un impiegato dell’esattoria comunale e Rosario era stato il frutto del suo amore per Rosalia Corbo. Una famiglia tranquilla, in cui Rosario crebbe ben educato, rispettoso, attento allo studio e ai suoi doveri.
Si diplomò al Liceo classico Ugo Foscolo di Canicattì, affiancando allo studio l’impegno nell’Azione Cattolica, per poi iscriversi, nel 1971, alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo.
Il binomio fede e diritto comincia, sin dagli anni dell’adolescenza e della prima gioventù, a caratterizzare la sua esistenza. Un binomio sul quale la sua riflessione continuerà a lungo, costituendo di certo uno dei tratti più significativi della sua elaborazione di uomo, di cristiano, di intellettuale e di professionista.
Conseguì la laurea cum laude nel 1975, non ancora ventitreenne, per poi ricoprire, vincitore di un concorso pubblico, il ruolo di vicedirettore in prova presso l’Ufficio del Registro, negli anni tra il 1977 e il 1979.

Le indagini sulla mafia agrigentina
Intanto però Rosario inseguiva un altro sogno, quello cioè di dedicarsi al diritto e alla giustizia. Spinto da questa sorta di vocazione laica, partecipò al concorso per l’ingresso in magistratura, uscendone tra i primi in graduatoria, sebbene giovanissimo. Così, nel 1978, divenuto magistrato, fu assegnato al Tribunale di Caltanissetta e poi, un anno dopo, a quello di Agrigento, come sostituto. Ad Agrigento rimase ininterrottamente in servizio come sostituto procuratore fino al 1989, prima di essere nominato giudice a latere.
Furono anni di lavoro intensissimo. Nonostante la sua giovane età, Rosario seppe misurarsi, con grande capacità e spiccata lucidità, con indagini assai difficili e delicate, che scavarono in profondità nelle pieghe delle relazioni ambigue e perverse tra mafia, imprenditoria e politica.
Come quando si occupò di alzare il velo sui finanziamenti regionali sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle; o quando indagò su un enorme giro di fatture false o gonfiate per opere mai realizzate; o ancora quando si dedicò a una serie di indagini su alcuni eclatanti episodi di corruzione, dando il via a quella che sarebbe passata poi alla storia come la Tangentopoli siciliana e applicando, tra i primi in Italia, la misura della confisca dei beni ai mafiosi.
Il colpo più significativo fu probabilmente il lavoro investigativo che portò al maxiprocesso contro le cosche di Stidda di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera.
Per celebrare il processo, iniziato nel 1987, fu necessario utilizzare un’ex palestra adibita ad aula bunker. Alla fine, furono 40 le condanne ottenute. Un colpo durissimo alla mafia agrigentina, quella Stidda nata per contrapporsi a Cosa nostra e allo strapotere dei Corleonesi, che pretendevano di estendere il loro dominio anche nelle zone centro-meridionali della Sicilia.

La fede e il diritto
A un ruolo pubblico che, in funzione delle sue capacità professionali e dei suoi successi investigativi, lo rendeva via via più “esposto”, Rosario continuò per tutta la sua esistenza a preferire una condotta riservatissima, fatta di una vita familiare discreta, di una profonda fede cristiana, di valori etici che trasferiva con coerenza e fedeltà nel lavoro. È un’elaborazione intellettuale molto profonda quella che ha affidato ai suoi scritti e ad alcuni suoi interventi pubblici che ci aiutano a delineare con nettezza il suo pensiero e la sua visione del magistrato.
“L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività” (Rosario Livatino – intervento sul tema “Il ruolo del giudice nella società che cambia” – Canicattì, 7 aprile 1984).
Parole che lasciano trasparire con chiarezza il senso di profondo rigore morale di questo giovane magistrato, la sua visione etica della professione. Un’etica del dovere non disgiunta dalla consapevolezza del peso di quella responsabilità che porta chi è chiamato a giudicare e deve farlo con rispetto anche per chi è ritenuto colpevole. Valori, pensieri, riflessioni senz’altro frutto anche della sua profonda fede, del suo continuo interrogarsi, da laico, su quel binomio tra fede e diritto sul quale ci ha lasciato parole altrettanto chiare:
“Il compito (…) del magistrato è quello di decidere; (…): una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. (…) Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia” (Rosario Livatino – intervento sul tema “Fede e diritto” – Canicattì, 30 aprile 1986).

Il 21 settembre 1990

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Tra Canicattì e Agrigento ci sono poco meno di 40 chilometri. Ci si sposta lungo la Strada Statale 640 che collega Caltanissetta alla costa meridionale della Sicilia. Mezz’ora di strada che Rosario percorreva regolarmente per raggiungere il Tribunale. Lo fece anche la mattina del 21 settembre 1990. Senza scorta, a bordo della sua vecchia Ford Fiesta amaranto.
All’altezza a del viadotto Gasena – oggi intitolato a lui – la sua auto fu affiancata e speronata da un’altra vettura, da cui furono esplosi alcuni colpi di pistola. Rosario, benché già ferito ad una spalla, tentò una disperata fuga nei campi accanto alla strada. Ma fu inutile. Inseguito dai killer, fu ucciso senza pietà. Aveva appena 38 anni.
Sul luogo dell’omicidio giunsero poco dopo i colleghi del Tribunale di Agrigento. Da Palermo arrivarono il Procuratore Pietro Giammanco e l’aggiunto Giovanni Falcone. Da Marsala, il Procuratore Paolo Borsellino.
La morte di Rosario fece rumore. E provocò polemiche, anche molto aspre. I colleghi agrigentini Roberto Saieva e Fabio Salomone, pochi giorni dopo l’omicidio, denunciarono le condizioni difficili in cui i magistrati erano costretti a lavorare. I Procuratori di tutta la Sicilia minacciarono le dimissioni in blocco se lo Stato non avesse agito con immediatezza contro quel delitto efferato. Qualcuno parlò delle responsabilità dei superiori di Livatino, della loro inerzia. E poi quelle parole ambigue pronunciate il 10 maggio del 1991 dal Presidente della Repubblica Cossiga sul tabù dei “giudici ragazzini”: “non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza”. Parole rinnegate solo dodici anni più tardi, quando l’ormai ex Presidente chiarì che non si riferiva a Rosario Livatino, definendolo anzi un eroe e un santo.

La vicenda giudiziaria
La verità sulla morte del giudice Livatino è passata attraverso tre processi. Il primo, nell’immediatezza dei fatti, fu reso possibile dalle dichiarazioni di un agente di commercio di origini milanesi che passava sul viadotto Gesena per caso e che assistette all’omicidio. Pietro Nava decise coraggiosamente di testimoniare e le sue parole consentirono, già il 7 ottobre del 1990, l’arresto di due ragazzi di 23 anni, Paolo Amico e Domenico Pace. Furono presi nei pressi di Colonia, in Germania, dove ufficialmente facevano i pizzaioli. In realtà erano organici alla Stidda di Palma di Montechiaro. Nel novembre del ’91 furono condannati entrambi all’ergastolo come esecutori materiali del delitto.
La collaborazione di Gioacchino Schembri, anch’egli esponente della Stidda di Palma, consentì poi l’apertura di un nuovo processo, il Livatino bis, che portò all’arresto, nel 1993, degli altri membri del gruppo di fuoco: Gateano Puzzangaro (23 anni) Giovanni Avarello (28 anni) e Giuseppe Croce Benvenuto. I primi due furono condannati all’ergastolo. Benvenuto invece decise di collaborare, aprendo la strada al Livatino ter.
Il processo, iniziato nel 1997, si è basato sulle dichiarazioni di Benvenuto e di un altro “pentito”, Giovanni Calafato, che hanno indicato i mandanti dell’omicidio nei capi della Stidda di Canicattì e Palma: Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti. Al termine del processo di primo grado, nel 1998, Gallea è stato condannato all’ergastolo. 24 anni per Calafato. Assoluzione per Parla e Montanti. Entrambi sono stati poi condannati all’ergastolo nel settembre del 1990 dalla Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, che ha esteso all’ergastolo anche la condanna di Calafato. Sentenze poi confermate, tra il 2001 e il 2002, anche in Cassazione.

Memoria viva
Il 9 maggio del 1993, Giovanni Paolo II, nel suo memorabile discorso dalla Valle dei Templi di Agrigento, definì Rosario Livatino un “martire della giustizia e indirettamente della fede”. In quello stesso anno, il vescovo di Agrigento Carmelo Ferraro diede mandato di avviare il lavoro di raccolta delle testimonianze per la causa di beatificazione. Il 19 luglio 2011 è arrivata la firma del decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione, che si è aperto ufficialmente il 21 settembre successivo. 45 persone hanno testimoniato sulla vita e la santità del giudice Livatino. Tra loro anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer. Il 6 settembre 2018, l’annuncio della chiusura del processo diocesano e l’invio in Vaticano, alla Congregazione per le cause dei santi, delle 4000 pagine di notizie e testimonianze raccolte.
È stato poi Papa Francesco, il 21 dicembre del 2020, ad autorizzare la Congregazione alla promulgazione del decreto riguardante il martirio, aprendo la strada alla beatificazione, avvenuta il 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento. La memoria di Rosario Livatino si celebra il 29 ottobre, nel giorno in cui, trentaseienne, ricevette il sacramento della confermazione.
In un processo di memoria laica che rende viva la sua testimonianza di coraggio e impegno, a Rosario sono intitolati i Presidi di Libera a Sanremo, nel Basso Polesine, a Pomezia e a Mogoro, in provincia di Oristano. Portano il suo nome anche due case di accoglienza ad Andria e la Cooperativa Libera Terra di Naro, in provincia di Agrigento. A Rosarno, gli studenti dell’Istituto superiore Raffaele Piria producono un olio intitolato a lui.
Nel 1992, Nando dalla Chiesa ha pubblicato il suo “Il giudice ragazzino”, riprendendo polemicamente l’ambigua definizione del Presidente Cossiga. Nella sinossi si legge: “Alla vicenda del magistrato si intreccia la ricostruzione dei casi più clamorosi e delle polemiche più dirompenti che hanno contrapposto, nell’arco del decennio, mafia, società civile e istituzioni, troppo spesso nel segno di un attacco diretto all’attività di quei “giudici ragazzini” mandati a rappresentare lo Stato in prima linea” (Nando dalla Chiesa – Il giudice ragazzino. Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia sotto il regime della corruzione, Einaudi 1992).Con lo stesso titolo, “Il giudice ragazzino”, la storia di Rosario è stata raccontata, nel 1994, anche nel film di Alessandro Robilant con Giulio Scarpati. Nel 2006, a sostegno della causa di beatificazione, è stato prodotto il documentario “La luce verticale”. Dieci anni più tardi, nel 2016, è uscito invece il documentario indipendente “Il giudice di Canicattì – Rosario Livatino, il coraggio e la tenacia” curato da Davide Lorenzano e con la voce narrante dello stesso Scarpati, che ha rivelato nuovi episodi di vita e immagini inedite di Rosario (visibile qui).
Tra tutto quanto ha scritto e ci ha lasciato in eredità, di lui, uomo di fede e di giustizia, resta in particolare una frase. Poche parole, che graffiano la coscienza e pesano come macigni: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” (Rosario Livatino).”

Tra intelligenza e giustizia artificiale

Margherita Ramajoli sulla rivista Il Mulino scrive un pezzo sul rapporto tra Intelligenza Artificiale e mondo della giustizia dal titolo Siamo pronti per una giustizia artificiale? E’ del 25 marzo.

“Disciplinare una tecnologia inafferrabile e in costante evoluzione come l’intelligenza artificiale non è un’impresa facile. Ciò spiega perché il Regolamento sull’intelligenza artificiale (AI Act), approvato la scorsa settimana dal Parlamento europeo – manca solo il passaggio formale da parte del Consiglio –, ha avuto una gestazione lunga oltre tre anni ed entrerà in vigore gradualmente, tra la fine del 2024 e il 2026. La normativa, inevitabilmente complessa, segue un approccio fondato sul rischio e regola l’intelligenza artificiale sulla base della sua attitudine a causare danni alla società, modulando gli obblighi introdotti in base al diverso grado di pericolo di lesione per i diritti fondamentali: più alto è il rischio paventato, maggiori sono gli oneri e le responsabilità dei fornitori, distributori e operatori dei sistemi di IA.
Il Regolamento è conscio del fatto che l’applicazione dei sistemi di IA nello specifico campo della giustizia produce benefici, ma altrettanti problemi. L’AI Act parla di risultati vantaggiosi sul piano sociale che la giustizia digitale porta con sé. Più nello specifico, l’uso dell’IA nel campo della giustizia consente il raggiungimento degli obiettivi propri della giustizia standardizzata: l’efficienza, perché l’IA può essere impiegata in massa a scale e velocità di gran lunga superiori a quelle raggiungibili da qualsiasi essere umano o collegio di esseri umani nelle attività di archiviazione, indagine e analisi delle informazioni giudiziarie; l’uniformità, perché per definizione l’IA elimina spazi di creatività e fornisce risposte prevedibili.
Tuttavia, l’affidarsi a sistemi di IA nel processo decisionale presenta anche punti di debolezza e pone due problemi: il problema della scatola nera e il problema del pregiudizio dell’automazione. Si parla di scatola nera perché esiste una tensione intrinseca tra il dovere del giudice di motivare le proprie decisioni e la limitata «spiegabilità» di alcuni sistemi di IA. Il procedimento trasformativo degli input in output può risultare opaco al punto tale che gli esseri umani, compresi pure quelli che hanno ideato e progettato il sistema, non sono in grado di capire quali variabili abbiano esattamente condizionato e determinato il risultato finale. Questa opacità limita, se addirittura non impedisce, la capacità del giudice che si serve del sistema di IA di giustificare le decisioni assunte sulla scorta del sistema.
Il pregiudizio dell’automazione allude invece al fenomeno generale per cui gli esseri umani sono propensi ad attribuire una certa autorità intrinseca ai risultati suggeriti dai sistemi di IA e nella nostra quotidianità abbondano esempi di questo sottile condizionamento. Di conseguenza, l’applicazione dei sistemi IA nel campo della giustizia può soffocare l’aggiornamento valoriale, visto che i sistemi di IA imparano dal passato e tendono a riprodurre il passato. Se nel futuro un giudice facesse affidamento, sia pure inconsciamente, solo sui sistemi di IA, il cosiddetto effet moutonnier [una naturale tendenza a conformarsi alla maggioranza, ndr] spingerebbe i giudici verso un non desiderabile conformismo giudiziario, sordo alle trasformazioni sociali ed economiche.
Se queste sono le questioni poste dalla giustizia artificiale, le soluzioni offerte dal diritto risultano significative, anche se non sempre facili da applicare. I sistemi di IA destinati all’amministrazione della giustizia, tranne quelli impiegati per attività puramente strumentali (l’anonimizzazione o la pseudonimizzazione di decisioni, documenti o dati giudiziari, le comunicazioni tra il personale e così via), sono reputati ad alto rischio e come tali sono sottoposti a rilevanti limiti e obblighi. Secondo il Regolamento «il processo decisionale finale deve rimanere un’attività a guida umana» e quindi l’IA può fornire sostegno ma mai sostituire il giudice. Questa riserva d’umanità, ora solennemente proclamata dal legislatore europeo, sottende la consapevolezza che l’attività giudiziaria ha una sua unicità, non è formalizzabile a priori e non è riproducibile artificiosamente. Per giudicare non sono sufficienti solo conoscenze giuridiche, perché il ragionamento giudiziario richiede una varietà di tecniche cognitive, l’apprezzamento dei fatti complessi e sempre diversi, l’impiego dell’induzione e dell’analogia, l’impegno nell’argomentazione, l’uso di ragionevolezza e proporzionalità.
Tuttavia, nel passaggio dal piano astratto proclamatorio al concreto piano applicativo riemergono alcune questioni irrisolte. Anzitutto, non è immediato individuare né quale soggetto istituzionale sia legittimato a controllare il rispetto della riserva d’umano nelle decisioni giudiziarie, né quali strumenti efficaci possano essere impiegati a tal fine. In secondo luogo, non può dirsi superato il rischio del pregiudizio dell’automazione, perché l’effetto gregge potrebbe spingere il giudice ad aderire al risultato algoritmico e a non assumersi la responsabilità di discostarsene anche quando tale risultato non risulti cucito su misura sulle specificità della lite in esame. Ancora, per quanto l’AI Act abbia introdotto specifici obblighi per i fornitori di IA e in particolare l’obbligo di procurare ai giudici e alle autorità di vigilanza le «istruzioni per l’uso», comprensive delle specifiche «per i dati di input o qualsiasi altra informazione pertinente in termini di set di dati di addestramento, convalida e prova», queste fondamentali informazioni vanno condivise solo «ove opportuno». In altri termini, il Regolamento rende non necessaria, ma discrezionale la resa di informazioni proprio di quei dati di input che determinano in modo significativo gli output con cui i giudici dovranno fare i conti. Torna così anche il problema della scatola nera, quella tensione intrinseca tra il dovere del giudice di motivare le proprie decisioni e la limitata comprensibilità e, di conseguenza, spiegabilità di alcuni sistemi di IA.
In ultima analisi, i detentori della tecnologia – sviluppatori di sistemi di IA – si ergono a veri e propri poteri privati, rispetto ai quali l’ordinamento giuridico, ma ancora prima la politica, devono ancora ingegnarsi a trovare efficaci contrappesi.
Anche se non possiamo realisticamente ritornare a un mondo senza intelligenza artificiale, sia in generale, sia in campo giudiziario, le questioni da affrontare sono ancora tante e il diritto è solo uno dei tanti strumenti per cercare di risolverle.”

Conoscere per scegliere

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Carlo Alberto Redi è “professore ordinario di Zoologia presso l’università di Pavia e professore a contratto presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori. Accademico dei Lincei e socio onorario della società genetica del Cile” (fonte wikipedia). In un breve articolo comparso su La Lettura del 22 gennaio si interroga sul rapporto tra biologia ed etica. Inizia così: “Il Dna è divenuto l’icona della nostra era: dopo il secolo della chimica (Ottocento) e della fisica (Novecento), siamo ora nel millennio delle scienze della vita…”. Molte sono le discipline coinvolte dai cambiamenti e dalla scoperte in ambito biologico, argomenta: “dalla filosofia all’antropologia, dall’economia alla giurisprudenza”. Inizio e fine vita, brevetti sul vivente, esperimenti sulle cellule… sono tutte questioni biopolitiche e “gli avanzamenti del sapere lasciano intravedere applicazioni in grado di trasformare la stessa percezione di che cosa sia oggi «umano». Paure e aspettative si mischiano in continuazione, tra desiderio di progresso e timore di cosa esso ci possa riservare.
La via suggerita da Redi è quella della conoscenza. Scrive ancora: “Informarsi sui progressi della biologia diviene parte integrante della nostra cultura”. Certo non è semplice e neppure immediato, ma è necessario se si vuole essere “cittadini capaci di scegliere, in autonomia, che cosa si ritiene lecito applicare delle tante innovazioni prodotte dalla ricerca biologica”. Questa, secondo lo studioso lombardo, la via per giungere ad un “armonioso vivere sociale” in cui sono combattute le ingiustizie e si promuove “la fioritura di nuovi diritti civili”, nella direzione di una “cittadinanza scientifica”, ancora lontana da venire. Certo ci sarà qualcuno che si interrogherà se la ricerca non vada regolata ex ante piuttosto che ex post, soprattutto da parte di chi ha il potere di farlo; ed è proprio qui che si focalizza la giustificata preoccupazione di Redi: “vi è una generale ignoranza del sapere biologico da parte della classe dirigente (decisori politici, magistrati, operatori dei media)”.
Che ruolo possono avere in tutto questo studiosi e accademici? Ecco la conclusione del professore: “Ai biologi il compito di partecipare con il proprio sapere alla necessaria comune riflessione con i filosofi per indirizzare l’elaborazione delle norme da parte degli uomini del diritto”.

Gemme n° 300

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Ho portato il libro I segreti di Gray mountain di John Grisham non tanto per il contenuto quanto per la professione della protagonista. Lei, giovane avvocato, è costretta a trasferirsi a causa della crisi del 2008 da New York ai monti Appalachi, dove lavora gratis come assistente legale. Io vorrei diventare avvocato o giudice per garantire anche chi non può permettersi un avvocato: sono persone che vanno tutelate. Per me la giustizia è alla base di tutto; non so come mi sia nata questa mia passione. Farei di tutto per raggiungere l’obiettivo. Mi pongo però una domanda quando sento di alcuni giudici corrotti: come fanno dopo tanti studi e preparazione?”. Questa la gemma di E. (classe terza).
Amo i libri di Grisham, ne ho letti parecchi. Riporto da uno di essi, L’ultimo giurato, una citazione che mi sta molto a cuore: “Questi due capisaldi del diritto, la presunzione d’innocenza e la prova oltre ogni ragionevole dubbio, erano fattori di garanzia per tutti, giurati inclusi, sanciti da quegli uomini depositari di saggezza che avevano scritto la nostra Costituzione e la Carta dei diritti.”

Gemme n° 24

In una delle mie classi (una quinta) non ero ancora riuscito a spiegare questa nuova iniziativa delle gemme. L’ho fatto stamattina: finisco la descrizione, mostro un esempio e A. mi chiede “Prof! E se io avessi la gemma già qui?”. Eccola:

Ho visto questo video pochi giorni fa e mi ha profondamente colpito ed emozionato. Ho voluto condividerlo con la classe perché penso sia importante poter permettere a una persona di potersene andare con dignità” ha concluso A. Ne abbiamo parlato molto brevemente in aula, lo commento qui con poche parole: pietà, pietà per la persona, per se stessi, per la condizione umana, profondamente umana.

Tra diritto e religioni

9788843067336g.jpgA fine gennaio è uscito il libro “La libertà religiosa in Italia. Un percorso incompiuto” di Alessandro Ferrari. Oggi ho trovato su Vatican Insider questa intervista di Luca Rolandi. Argomento? Diritto, libertà religiosa, laicità dello stato, pluralismo religioso.

Nel racconto del suo saggio si evince come le problematiche del passato riemergano intatte nella società plurale.

Sì, ciò che rende affascinante la storia del diritto di libertà religiosa e, in particolare, il confronto con la storia della libertà religiosa in Italia è proprio questo costante incontro, nel tempo presente, tra passato e futuro, tra i paradigmi che hanno forgiato i caratteri più distintivi di un modello e le forze che, nel corso del tempo, si sono aggiunte, sedimentate sulle vecchie costruzioni giuridiche costringendole a rispondere a nuove domande, a fronteggiare nuove rivendicazioni e portandole, così, a trasformarsi. Nata per rispondere alle esigenze di giustizia di individui e gruppi minoritari ma normalmente appartenenti alla storia ed alla tradizione del Paese (ebrei e valdesi in particolare), il diritto di libertà religiosa si pone oggi anche in Italia come garante di un “pluralismo culturale e confessionale” che la globalizzazione ha reso quantomai variegato. Accanto alla “classica” presenza cattolica convivono, infatti, esperienze religiose ormai definitivamente trapiantate in Europa (si pensi all’islam, al buddhismo, all’hinduismo), gruppi religiosi “europei” trasmigrati dai loro contesti originari (gli ortodossi), galassie cristiane in continua ridefinizione (gli evangelici), non più “nuovi” movimenti religiosi e movimenti non confessionali ma atei ed agnostici anch’essi portatori di un’identità ancorata al diritto di libertà religiosa e di coscienza. In un quadro così complesso il diritto di libertà religiosa si pone, dunque, come strumento di libertà per i singoli e gruppi, come cartina tornasole di una democrazia costituzionale matura ed efficiente capace di assicurare a tutti – e, dunque, anche alle religioni ed ai “gruppi filosofici” secondo le rispettive specificità- la piena partecipazione alla vita pubblica, alla costruzione della “casa comune”.

Il libro di storia e di diritto. Per quale pubblico?

Per chi voglia approfondire un cammino ricco e affascinante, fatto di grandi traguardi, di ingegnosi e coraggiosi accomodamenti ma anche di battute d’arresto e salite affannose. La storia offre il contesto all’esperienza giuridica, alla decisione politica e determina l’angolo prospettico da cui guardare alla libertà religiosa. Quest’ultima, infatti, vive da sempre un movimento, per così dire, pendolare, ora esprimendo con più decisione una vocazione “personalistica”, di protezione pluralistica delle coscienze religiose individuali e collettive ora risentendo maggiormente, invece, di una impostazione più “statocentrica” e, dunque, funzionale alle esigenze – e alle paure – delle maggioranze rivelando, così, un volto preoccupato e spesso ripiegato. E’ proprio quest’ultimo volto che è emerso con più evidenza nell’ultimo decennio, segnato da un confronto con l’islam che tanto ha influito nel ridefinire il volto del diritto della libertà religiosa europea ed italiana e nel rimettere in discussione il cammino di concretizzazione del diritto di libertà religiosa così come delineato dal costituzionalismo del secondo dopoguerra.

Lei parla di paradigma cattolico, che cosa intende con questo concetto ‘L’Italia, è una Nazione-Stato più che uno Stato-Nazione’?

La coesione civile è stata affidata più alla condivisione di una cultura – e di una religione – comuni che al ruolo espressamente attribuito alle istituzioni politiche, ai circuiti classici della decisione politica. Si tratta di una realtà che ogni giorno risalta con evidenza. L’essere Nazione-Stato ha i suoi pregi (uno stato tendenzialmente “modesto” e non monopolista del dibattito sociale e delle identità civiche) ma anche i suoi limiti, in particolare quando le sfide del pluralismo esigono proprio dalla politica risposte chiare in ordine alla protezione ed alla concretizzazione dei diritti posti alla base del patto costituzionale. Il modello italiano di libertà religiosa, inoltre, si è costruito in relazione alla Chiesa cattolica e, dunque, confrontandosi con una presenza istituzionale del tutto peculiare. Ora, questo modello, di cui nel libro cerco di illustrare i caratteri di confessionalità, bilateralità e tendenza all’accomodamento gerarchico, deve armonizzarsi con un principio di laicità che, pur nato proprio dall’incontro tra Costituzione e cattolicesimo, viene declinato come principio giuridico quale garanzia di un pluralismo ad ampio spettro. Pluralismo la cui piena e necessaria metabolizzazione richiede coraggio non solo da parte delle pubbliche autorità ma anche della stessa Chiesa cattolica.

Le sfide del futuro. Pluralismo religioso e culturale. Quale libertà religiosa per il XXI secolo per dare compimento ad un percorso interrotto?

Il cammino si riprenderà riattribuendo al diritto di libertà religiosa la centralità che gli è stata assegnata dalla Costituzione e dalla Corte costituzionale nel momento in cui ha individuato proprio nella laicità un principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Si tratta, innanzitutto, di riappropriarsi del significato “autentico” di una laicità costituzionale troppo spesso condizionata dai due “opposti estremi” della laicità “anticlericale” e della cosiddetta sana laicità. Rimettere al centro il diritto di libertà religiosa equivale, in realtà, in un’epoca così drammaticamente condizionata da gravi problematiche economiche, ricordarsi della centralità della persona, con le sue profonde esigenze identitarie che nell’età dei “diritti sostanziali” interpellano con urgenza tutta la società. Si tratta, dunque, di una libertà “costosa”, come tutti i diritti, ma il cui prezzo rappresenta una garanzia basilare di pace e convivenza civile. Continuare a dimenticarlo (quando il parlamento italiano si deciderà a dotare il nostro Paese di una legislazione organica in materia superando quel che resta della normativa sui “culti ammessi” del 1929-1930?) ha, in realtà, costi ancora più alti.

“Sia circonciso tra voi ogni maschio”

Cosa deve fare un medico se si presenta una coppia che chiede di circoncidere il figlio? Ferdinando Fava è Antropologo all’Università di Padova e su Popoli ha risposto alla domanda, facendo riferimento alla sentenza di un tribunale tedesco.

circoncisione (copia).jpg“È lecito per un medico circoncidere un bambino per motivi religiosi su richiesta dei suoi genitori? Secondo un tribunale tedesco, questa pratica contiene alcuni elementi per la configurazione di un reato, ma poiché la giurisprudenza al riguardo non è uniforme, se il medico accettasse commetterebbe un inevitabile errore di diritto, proprio per questa mancanza di omogeneità. Egli agirebbe dunque non solo senza intenzionalità dolosa, ma neppure per negligenza o superficialità. Così si conclude la sentenza pronunciata il 7 maggio 2012 dal tribunale regionale di Colonia, resa pubblica il 26 giugno successivo, e che è immediatamente rimbalzata, in parte deformata, nel circuito mediatico scatenando reazioni molto contrastanti e dai toni molto duri. Perché questa sentenza e questa risonanza? I fatti cui si riferisce risalgono al novembre 2010. I giudici del tribunale respingevano il ricorso della procura contro l’assoluzione, in primo grado, di un medico incriminato di avere arrecato lesioni personali a un bambino di quattro anni, nella sentenza indicato come «K1» (per tutelarne la minore età), circoncidendolo nel proprio ambulatorio. I genitori del bambino, a distanza di due giorni dall’intervento, erano dovuti ricorrere al pronto soccorso del dipartimento pediatrico dell’ospedale universitario della città per arginare un’inarrestabile emorragia. Il perito esterno cui i giudici si erano rivolti confermava che il medico aveva agito correttamente secondo gli standard sanitari correnti (l’anestesia locale, la sutura di quattro punti e la visita domiciliare la sera stessa del giorno dell’intervento) ma asseriva anche che la circoncisione, almeno in Europa centrale, non è assolutamente necessaria come cura profilattica. I giudici respingevano l’appello confermando il giudizio di assoluzione del tribunale di primo grado.

Il dispositivo della sentenza è proprio ciò che è all’origine del dibattito che ne è seguito, multiforme e dai toni molto aspri. Ci sembra utile ripercorrerlo brevemente. La corte stabiliva che il bisturi usato con perizia dal medico incriminato non poteva essere considerato uno strumento pericoloso (come sostenuto invece dalla procura), ma riconosceva ciononostante che al bambino era stata certo arrecata una lesione personale. Secondo il tribunale, l’adeguatezza sociale della circoncisione per motivi religiosi, anche se operata in modo corretto da un medico su un bambino incapace di dare il proprio consenso e quindi solo grazie a quello dei suoi genitori, non la assicura dal non presentare elementi di reato. Detto diversamente, per la circoncisione non si prospetta apparentemente il problema della sua corrispondenza a un’ipotesi di reato, perché essa «va da sé» cioè è «socialmente invisibile, generalmente accettata e storicamente approvata e quindi non soggetta allo stigma formale della legge». Questo, però, non implica che la sua conformità alla aspettativa sociale la preservi dalla presenza di possibili elementi di reato: per il tribunale questa conformità dice proprio l’impossibilità di formulare un giudizio di disapprovazione legale. L’azione del medico inoltre, secondo il tribunale, non può essere giustificata dal consenso: il bimbo di quattro anni non ha la maturità per darlo, e quello dei genitori non giustifica la lesione personale che ne consegue. Il diritto all’educazione dei figli concerne quelle misure prese nel loro migliore interesse e questo non può risolversi in una lesione personale permanente.

Pertanto per il tribunale, a questo punto facendo appello alla letteratura accademica, la circoncisione di un bambino non capace di consenso non è una pratica che promuove il suo più grande interesse, che sia quello di evitare la sua esclusione dalla sua stessa comunità religiosa o di adempiere il diritto costituzionale dei genitori alla sua educazione. Questo diritto fondamentale è, infatti, secondo la corte, ristretto da quello altrettanto fondamentale del bambino alla propria integrità fisica e all’autodeterminazione. I diritti civili e politici non sono limitabili dall’esercizio della libertà religiosa: vi sarebbe dunque una fondamentale «barriera costituzionale» al diritto all’educazione dei genitori. Nel giudizio di proporzionalità cui ricorrere quando questi due diritti fondamentali vengono a collidere, la violazione irrimediabile dell’integrità fisica del bambino dovuta alla circoncisione implicata per la sua educazione religiosa, non è commisurata a questo fine anche se necessaria. Essa, infatti, cambia il suo corpo in modo irreversibile e irreparabile: cambiamento che potrebbe in seguito essere contrario agli interessi stessi del bambino, al suo decidersi indipendente, più avanti negli anni, circa la propria appartenenza religiosa. Il diritto fondamentale dei genitori, secondo i giudici, non sarebbe inaccettabilmente meno leso nel chiedere loro di aspettare il momento in cui il figlio possa decidere da se stesso l’assunzione di un segno visibile della propria affiliazione alla religione, in questo caso, musulmana. Il tribunale confermava così l’assoluzione del medico, senza colpa, per avere commesso allora un inevitabile errore sulla legge penale.

Il dibattito che la sentenza ha scatenato è apparso subito composito, sviluppandosi su piani interpretativi molteplici e correlati: quello giuridico, quello religioso, quello socio-culturale e politico. Ma non poteva essere diversamente. Nella sentenza, infatti, si cristallizzano le tensioni chiave che segnano il divenire oggi delle nostre democrazie liberali e i cui tentativi di soluzione, a loro volta, contribuiscono a costruirne la coesione e l’identità: la tensione e l’articolazione tra i diritti universali (umani, civili e politici) e quelli particolari (religiosi e culturali), tra il diritto del singolo, quello del suo gruppo culturale e della società più ampia in cui sono situati, la natura e i limiti dell’intervento dello Stato sull’educazione dei figli nella privacy famigliare. E tutto questo in una congiuntura storica nella quale i giudici, bisogna notarlo, proprio per l’oggetto, il dispositivo della sentenza e il contesto politico e geografico, si espongono all’accusa, tanto superficiale quanto politicamente strumentale, di islamofobia, di antisemitismo, o più in generale d’intolleranza alla religione di matrice razionalistica e liberale.

La sentenza tenta di definire una posizione terza non riconducibile alla separazione rigida e riduttiva che pone in tensione la legge dello Stato da una parte e le pratiche culturali e religiose dei suoi cittadini dall’altra. Essa appare molto più articolata delle caricature che di essa sono state fatte in molte delle sue critiche roventi. Non è nostro obiettivo valutare se essa riesca a salvare tutti i diritti in gioco e se l’argine che pone, la priorità dell’integrità fisica del bambino, sia giuridicamente fondato. Ma certo è che essa, mettendo in primo piano la circoncisione maschile religiosa, non solo ci invita ad approfondire il senso di una pratica che agli orecchi europei suona ancora scontata, innocua o salutistica, sopratutto nella sua versione medicalizzata routinaria, ma anche – e da qui allargando il cerchio dell’analisi -, a sollevare il problema dell’equità di genere rispetto alla facile criminalizzazione della sola circoncisione religioso-culturale femminile o ancora, estendendo l’ascolto e lo sguardo, ad analizzare l’iscrizione corporea del rapporto tra individuo e società come esso si configura proprio nella sempre più diffusa e invadente chirurgia estetica genitale. Insomma, è l’occasione per interrogarci oggi sulle pratiche di manipolazione dei corpi. Anche attraverso queste, il «corpo sociale» ormai globalizzato mantiene le sue molteplici gerarchie e pone in essere i propri confini, inscrivendoli nel corpo individuale proprio perché corpo sessuato. Quest’ultimo è portatore, infatti, rispetto al primo, di un’irriducibile ambiguità: fonte rassicurante della riproduzione del corpo sociale, esso è anche la costante minaccia del suo disfacimento. L’iscrizione corporea ordina il corpo sessuato al corpo sociale, ma di quest’ultimo ne dissimula così la radicale precarietà e dipendenza. Queste pratiche del corpo sono dunque «fatti ambivalenti»: sono fatti sicuramente religiosi e culturali, i cui rituali cristallizzano ideologie e dotano gli individui d’istruzioni per agire circa la personalità, i rapporti di genere, la cosmologia, lo status sociale, ma sono anche «fatti» irriducibilmente fisio-anatomici, modifiche irreversibili, che non possono non interpellare la riflessione etica e l’impalcatura giuridica, trovando nei diritti umani quel possibile fondamento condiviso, tanto universale quanto precario e problematico.”