Donne al muro

Prendo un articolo di Davide Frattini dal Corriere.

ebraismo, donne, muro del pianto, gerusalemme, haredim, preghiera, uomini“Ci è voluto il tweet di Sarah Silverman per dare popolarità globale a una battaglia che va avanti da ventiquattro anni e per far capire a Benjamin Netanyahu che era tempo di trovare un compromesso. A metà febbraio la comica americana ha condiviso in 140 caratteri con i suoi 4 milioni di lettori l’orgoglio familiare per l’arresto della sorella Susan e della nipote Hallel. Tutt’e due colpevoli – secondo i rabbini ultraortodossi e pure la Corte Suprema israeliana, sentenza del 2003 – di voler pregare al Muro del Pianto come fanno gli uomini e come alle donne è proibito. Il primo ministro ha allora incaricato Natan Sharansky, eroe della dissidenza sovietica, di trovare una soluzione per queste dissidenti religiose. Che chiedono di presentarsi davanti alle pietre più sacre per l’ebraismo con indosso i tallit (lo scialle da preghiera), i tefillin (scatolette di cuoio legate con le cinghie, contengono versetti sacri) e di poter recitare la Torah ad alta voce (t’fila in ebraico vuol dire preghiera). Sono le quattro «T» simbolo della protesta che i rabbini haredim leggono come una sola parola: tradimento dell’ortodossia. Da quando Anat Hoffman ha fondato il movimento nel 1988, il primo di ogni mese secondo il calendario ebraico si ritrovano a Gerusalemme e l’appuntamento è fissato anche per stamattina. Arrivano al Muro del Pianto, entrano nell’area destinata alle donne – non mettono in discussione la separazione – ma si comportano come gli uomini. Gli agenti di solito intervengono per arrestarle e Yossi Parienti (il capo della polizia nella città) ha già annunciato che oggi la manifestazione verrà impedita: «Quando cominciano a pregare indossando gli scialli, sfidano le decisioni dei giudici». Sharansky propone di allargare la zona per i riti, di aprire all’ingresso gratuito la parte di scavi archeologici vicino all’arco di Robinson. La soluzione è sostenuta da Shmuel Rabinowitz, il rabbino incaricato di vegliare sul Muro Occidentale e gli altri luoghi sacri, ed è stata accettata con perplessità dalle leader del gruppo. «Sharansky promette che i lavori termineranno in un anno e mezzo – commenta Hoffman al quotidiano Haaretz -. Il rischio è che ne passino dieci per l’opposizione degli archeologi, dei giordani, dei musulmani. Stiamo parlando di intervenire nel sito religioso più delicato e spinoso al mondo. Verremo arrestate fino ad allora?». Il progetto prevede di toccare il ponte dei Mugrabi che porta alla Spianata delle Moschee. «Quando nel 2004 gli israeliani volevano ripararlo perché rischiava di crollare per la neve, gli islamici hanno protestato ovunque». Netanyahu vuole risolvere la disputa anche perché ha generato una frattura con gli ebrei americani. Le Donne del Muro ricevono l’appoggio dei movimenti riformisti e conservativi, le congregazioni sono molto diffuse negli Stati Uniti ed esasperano gli ultraortodossi con decisioni come quella di permettere alle donne di venir ordinate rabbino. Tra loro la sorella di Sarah Silverman, che vive a Gerusalemme e che ha spiegato ad Haaretz le ragioni delle femministe: «Da un punto di vista teologico mi oppongo al monopolio ultraortodosso sull’ebraismo. Per convinzioni democratiche sono contraria all’idea che un gruppo di cittadini spadroneggi sugli altri». Anche chi ha conquistato quelle pietre antiche adesso vuole espugnarle agli ultraortodossi. Yitzhak Yifat è il soldato più popolare della storia di Israele per la foto scattata da David Rubinger che lo ritrae a occhi in su davanti al Muro: è il 1967, la parte est di Gerusalemme è appena stata presa ai giordani durante la guerra dei Sei giorni. «Non abbiamo combattuto perché il Muro diventasse proprietà esclusiva di pochi».”

Mi viene un’unica battuta tratta da un raccontino di Carlo Fiore: cosa penseranno i detentori del potere religioso, di ogni religione, quando scopriranno che Lei è donna?

Il canto di Ofir

Prendo questo articolo di Davide Frattini dal Corriere. Suggerisco di leggere anche alcuni degli oltre 80 commenti presenti sul giornale: c’è chi si lamenta di Israele, c’è chi informa che Israele è anche e soprattutto altro, c’è chi si meraviglia che gli articoli su questioni ben più importanti non abbiano che pochi commenti… Buona lettura.

b-sisterhood-thevoice-012713.jpg.jpg“Ofir porta l’abito nero e giallo con la gonna che copre le ginocchia e le maniche che nascondono i gomiti. Osserva le regole della sua famiglia e del villaggio religioso dove vive, il moshav Nir Galim sulla costa verso sud. Non è bastato ai rabbini che dirigono la sua scuola: Ofir ha cantato da sola in pubblico – davanti a milioni di israeliani – perché ha voluto partecipare al concorso televisivo The Voice , versione locale dello show americano. È stata punita, sospesa per due settimane, i genitori hanno accettato il castigo, non l’hanno tenuta a casa. Ofir Ben-Shetreet è andata avanti, si è presentata ai giudici dello spettacolo che definiscono la sua voce «angelica» e tra loro ha scelto come mentore il «diavolo»: Aviv Geffen, il simbolo della Tel Aviv libertaria e trasgressiva. La rockstar l’ha sfidata a lasciarsi guidare da lui, lei ha intuito che può aiutarla a sviluppare il suo talento di diciassettenne.

Zvi Arnon, il rabbino del villaggio, giustifica la decisione della scuola (che sta ad Ashdod, metropoli portuale poco lontana), la sospensione è arrivata dopo le proteste dei genitori di altri allievi. «Per me Ofir resta – ha commentato in un’intervista al Canale 7 – una giovane con una forte moralità, molti nel villaggio la difendono. Ma nessun leader religioso può permettere che una donna canti davanti agli uomini». La regola del kol isha è tra le più contestate dai laici, viene applicata alle cerimonie di Stato o militari, dove spesso i soldati ortodossi lasciano la sala per non ascoltare le donne cantare. Un anno fa la Giornata della Gioventù aveva spaccato la cittadina di Kfar Sava, quando i movimenti religiosi avevano preteso che nessuna ragazza si esibisse.

«Io canto fin da quando sono bambina – racconta Ofir – e sento il bisogno di realizzare il mio talento. La Torah vuole che siamo felici e invita ad ascoltare la musica per esserlo. Credo sia possibile conciliare le regole con questi insegnamenti, per questo ho scelto di partecipare allo show». Rabbini moderati come Aaron Leibowitz sentono in lei «la voce di una generazione che sta cambiando. Non ha rinunciato alla religione, sta cercando la sua strada attraverso le definizioni classiche di giudaismo. Questi giovani – uso una metafora musicale – stanno attuando un remix». Lo psicanalista Carlo Strenger invita sul quotidiano Haaretz il presidente americano Barack Obama a seguire l’accoppiata Ofir-Aviv Geffen per scoprire «un’Israele normale»: «Le elezioni di fine gennaio sono state presentate come una guerra tra tribù, gli ultraortodossi contro i laici. Dobbiamo capire che siamo una società multiculturale di immigrati che deve imparare la tolleranza per sopravvivere».

Quale ortodossia?

Prendo dal Corriere.

sposa_promessa_rece_mini.jpgMinuta, graziosa e ancora frastornata per il successo inaspettato. Hadas Yaron, 22enne di Tel Aviv, ha vinto la Coppa Volpi all’ultima mostra di Venezia e ora arriva a Roma per accompagnare l’uscita del film-sorpresa che ha convinto giuria, pubblico e critica della Laguna: «La sposa promessa» di Rama Buhrstein (attualmente nelle sale, distribuito dalla Lucky Red). Una pellicola che racconta, in maniera semplice e oggettiva, i principi della comunità ebrea ultra ortodossa chassidica di cui fa parte la stessa regista. Una comunità chiusa a a qualsiasi forma di modernità, niente tv, niente cinema. E anche le donne, immerse in una cultura così patriarcale, vivono secondo rigidi precetti di separazione dei sessi e i loro matrimoni spesso vengono combinati. «Anche Shira, la protagonista del film, fa parte di questo mondo e il suo futuro sarà scelto dalla famiglia. E per me, da laica, era difficile entrare in questa prospettiva. Ho chiesto alla regista di darmi i compiti a casa, di indicarmi dei libri da studiare. Lei però mi ha detto solo di leggere attentamente la sceneggiatura e di non riempirmi la testa di queste cose. Dovevo solo leggere la sceneggiatura e cercare di provare le stesse sensazioni di Shira».

Shira ha 18 anni ed è promessa sposa ad un giovane della sua stessa età: un matrimonio combinato che però le fa battere il cuore. Il suo sogno d’amore, però, va in frantumi quando durante la festa del Purim la sorella maggiore Esther, muore di parto mettendo al mondo il suo primogenito. Poco dopo a Yochay, il marito di Esther, viene proposto di unirsi ad una vedova belga. Per evitare che l’uomo lasci Tel Aviv e porti con sé il suo unico nipote, la mamma propone un’unione tra la giovane Shira e Yochay. Shira dovrà dunque scegliere se ascoltare il suo cuore o seguire la volontà della famiglia. «Shira è una ragazzina che durante il film diventa donna. In questo senso mi sento anche io molto vicina perché sono in un’età di passaggio- racconta Hadas – Tra noi, però, c’è una grande differenza: quello che Shira vive nel film, le emozioni travolgenti, la storia d’amore e il matrimonio sono tutte cose che lei vede e sperimenta per la prima volta. Un esempio banale: lei non ha mai visto nemmeno un film d’amore e non sa cosa voglia dire innamorarsi. Io ho visto la mia prima commedia a nove anni… ».

La forza straordinaria del film è che a prima vista sembra non contestare in alcun modo i precetti religiosi, anche quando impongono a una ragazzina di sacrificare il suo futuro e i suoi sentimenti. Eppure, dietro questo sguardo di accettazione, i silenzi, le esitazioni e i comportamenti dei protagonisti compongono un ritratto meno schematico e semplicistico. Insinuano dubbi, insomma, su ciò che sia veramente giusto. E questo è merito della regista – nata a New York e diventata molto religiosa solo dopo il diploma – che usa il cinema proprio per far conoscere la comunità ultra ortodossa al mondo. «Conoscere Rama è stato conoscere l’intera comunità – dice Hadas – Tutti i venerdì sera durante la lavorazione del film andavamo a cena a casa sua, abbiamo assistito di persona a tutte le cerimonie che si vedono nel film: un matrimonio, una circoncisione e abbiamo parlato con un importante rabbino di Gerusalemme. Tutto quello che si vede nel film noi lo abbiamo vissuto per cercare di calarci nei nostri personaggi e nella storia».

Ma lei Hadas, giovane e laica, cosa ne pensa di questo mondo di femmine remissive in una società che non tiene conto dell’evolvere dei tempi?la-sposa-promessa.jpg

«Chi guarda da fuori la comunità chassidica pensa che le donne siano messe in un angolo, che non abbiano diritto di parola. Ma quello che ho imparato dalla regista Rama e dalle altre ortodosse che ho conosciuto sul set è che queste donne sono molto forti, prendono decisioni e scelgono».

In effetti le donne hanno un ruolo predominante come madri (quindi anche trasmettitrici dell’ortodossia) e consigliere. Ma, va ricordato, il matrimonio è quasi un obbligo e spesso è combinato dalla famiglia. Inoltre, le donne non possono studiare la Torah nelle yeshivah (scuole religiose) e dall’infanzia fino all’età adulta, vivono completamente separate dagli uomini proprio perché è vietato ogni contatto fisico prima delle nozze. «Grazie a questo film ho scoperto che esiste una grande comunità di ultra ortodossi a Tel Aviv di cui io non sapevo quasi nulla – ammette la protagonista – Vivono in centro, in una zona molto frequentata, piena zeppa di centri commerciali, negozi e locali. Dopo le riprese, un giorno stavo passeggiando per la strada principale con indosso i vestiti di tutti i giorni e ho incontrato la figlia della regista, una ragazzina molto bella che fa parte della comunità. Lei mi aveva conosciuto solo con gli abiti di scena, simili a quelli che portava lei. Ci siamo salutate, ma l’incontro è stato davvero strano e interessante. Adesso che so dell’esistenza di questa comunità ci farò molto più caso e la guarderò con occhi diversi».

La cronaca di questi giorni impone una riflessione più ampia. Il film racconta una minoranza ma è anche un esempio di convivenza, sottolinea principi e valori che a prima vista si contraddicono e poi trovano una sintesi. E’ questa la chiave del dialogo tra Israele e Palestina? «Non so, mi piacerebbe poter avere la risposta. Quello che è accaduto sul set è che persone diverse, laiche e religiose, hanno lavorato insieme e si sono rispettate a vicenda. Nessuno ha cercato di indottrinare gli altri. Abbiamo capito che ci trovavamo di fronte esseri umani come noi e c’è stato un dialogo profondo» ricorda Hadas. «Forse è questo il segreto: riuscire a dialogare e a rispettare gli altri, a guardarli sempre come semplici esseri umani, al di là della loro religione o in altri casi la fazione politica o il paese d’origine. Se questo succedesse ovunque, se noi guardassimo il prossimo come un essere umano degno del nostro rispetto, forse riusciremo cambiare le cose per davvero. Almeno è quello che spero».

Sette settimane: quasi due mesi?

L’altroieri avevo una riunione con alcuni colleghi. Una di loro mi ha raccontato di un articolonumero7.jpg di Repubblica che mi ha fatto sorridere. Il riferimento era la frase del generale israeliano Eyal Eisenberg sulla durata della battaglia nella striscia di Gaza: “Un periodo di combattimento di sette settimane”. L’articolo di Repubblica afferma che la battaglia durerà quasi due mesi. Ecco in poche righe un esemplificazione delle ragioni secondo cui è importante conoscere le religioni e la cultura religiosa. Sette settimane non sono semplicemente meno di due mesi. Posto qui sotto un articolo di Marco Mostallino pubblicato su Lettera43 (di cui non capisco il punto di vista secondo il quale Levitico e Deuteronomio siano testi ignorati dai cristiani: personalmente ho fatto pure un esame su di essi…).

“Il 50esimo giorno nella Bibbia è quello del giubileo, della festa, della vittoria. Arriva dopo «sette settimane» di sacrifici e patimenti: esattamente il tempo che il comandante delle truppe israeliane sul confine di Gaza, il general Eyal Eisenberg, ha annunciato come possibile durata dell’offensiva di terra contro Hamas. Certo, la previsione di 49 giorni di conflitto è basata anche su fattori militari e geografici, sulla stima della possibile resistenza delle truppe nemiche e sull’efficienza delle proprie. Ma la coincidenza con i testi religiosi è troppo netta e precisa per essere casuale: i riferimenti alle sacre scritture ebraiche e alla cabala non sono rari nella strategia delle Forza armate israeliane.

Nel Levitico, uno dei libri della Bibbia trascurati dai cristiani, ma preziosi per gli ebrei, si legge che la preparazione all’anno giubilare dura «sette settimane di anni», ovvero 49 anni, mentre il 50esimo sarà l’anno della festa. Il testo parla di «settimane di anni»; lo stato maggiore israeliano, invece, intende le settimane come noi le conosciamo, eppure il riferimento è evidente e voluto. I versetti 8-10 del capitolo 25 recitano: «Dichiarate santo il 50esimo anno e proclamate la liberazione nel Paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia». Per i credenti, per gli antichi ebrei privati della terra promessa, è questo il volere di Dio: la conquista o riconquista della patria, la «liberazione del Paese». Non stupirebbe sentir parlare i generali israeliani di un’offensiva militare messa in campo al fine di permettere ai propri cittadini di «tornare nella loro proprietà», la terra che a giudizio di Israele i palestinesi occupano illegalmente. Si tratta dei concetti del Levitico, il momento centrale della festa religiosa, e coincidono con i piani di battaglia del moderno esercito di Gerusalemme.

Anche nel Deuteronomio, un altro dei testi biblici ignorati dai cristiani, si legge (capitolo 16) la seguente prescrizione: «Conterai sette settimane; da quando si metterà la falce nella messe comincerai a contare sette settimane: poi celebrerai la festa delle settimane per il Signore tuo Dio, offrendo nella misura della tua generosità e in ragione di ciò in cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto». Ritornano, quindi, le sette settimane di fatica, di sofferenza, per celebrare al 50esimo giorno il raccolto, la vittoria, la lode a Dio che «non dimentica il suo popolo».

Il numero sette, d’altronde, è ricorrente e importante nella Bibbia: dai sette giorni della creazione fino al dettato evangelico di «perdonare 70 volte sette», le scritture sacre sono piene di eventi e precetti importanti sottolineati con questo numero. Così come le campagne militari delle forze armate israeliane: nel 1967 le truppe di Tel Aviv combatterono e vinsero la Guerra dei sei giorni, programmata a tavolino per questa durata precisa, così da sorprendere i comandanti di Siria ed Egitto, ma anche per ricalcare lo schema della Creazione biblica, dove per sei giorni Dio costruisce un mondo, per poi potere riposare e gioire nel settimo giorno. Potenza della fede o delle armi? Oppure, ancora, si tratta di richiami magici di una religione che convive con l’esoterismo, separata da una frontiera assai incerta e penetrabile? Al di là di quella che possa essere la durata reale della guerra con Hamas, quando comunica agli israeliani di prepararsi a «sette settimane di combattimento», il generale usa un linguaggio simbolico ben compreso nel proprio senso profondo dalla popolazione civile. Credenti o non credenti, i cittadini del moderno Stato di Israele sono cresciuti dentro la cultura ebraica e ne colgono e utilizzano simboli e riferimenti: così sanno che, almeno negli intenti, si tratta di una guerra che potrebbe essere in qualche modo decisiva.

Sette è un numero considerato perfetto, sacro ma anche magico, potente ed esoterico, nato dalla somma o fusione dell’elemento umano (numero quattro) dell’esistenza e di quello divino (il tre). È un numero che ha tra i propri molteplici significatici cabalistici quello della «forza»: la forza umana delle armi insieme con l’aiuto di Dio possono condurre le forze armate israeliane a una vittoria altrimenti impossibile, almeno nell’auspicio dei generali che scelgono le strategie militari. Del resto, i militari di ogni epoca e ogni parte del mondo sono stati spesso legati alla scaramanzia.

Lo stato maggiore israeliano aggiunge alla tradizione l’appello al divino, anche nelle parole. Così i poderosi carri armati prodotti in Israele sono chiamati «Merkavà», un termine che nella Bibbia indica il carro di fuoco che il profeta Ezechiele vede correre nel cielo lanciando saette e fiamme.

Ezechiele, poi, viveva, insieme con il suo popolo, negli anni dell’esilio di Babilonia, in attesa di tornare alla terra promessa, la Palestina dove oggi israeliani e Hamas si scambiano missili e bombe.

Insomma, gli alti comandi israeliani vedono l’attuale campagna militare come una prosecuzione della «guerra santa» che l’antico popolo ebraico dovette combattere contro i «malvagi» Filistei (in arabo moderno i palestinesi sono chiamati «filistin») e contro Amalek, dal nome delle genti che abitavano la Palestina biblica, diventato pian piano sinonimo di male assoluto, di demonio.

Curiosamente, infine, anche la postura dei comandanti dei carri armati israeliani, ritti con il busto fuori dalla torretta blindata, richiama la posizione di Mosè il quale, durante la guerra contro Amalek, su una collina, dritto in piedi, tiene alte le braccia al cielo per chiedere l’aiuto divino: e, racconta la Bibbia, quando Mosè teneva le braccia alte, gli ebrei avevano la meglio in combattimento, per poi rischiare di essere sopraffatti se il loro capo, stanco, lasciava cadere le braccia lungo i fianchi per riposare. La storia è ricca di simili esempi: le sette settimane dell’esercito israeliano a Gaza sono una sorta di amuleto, come la scritta in hoc signo vinces che l’imperatore romano Costantino fece apporre, insieme con la croce, nelle bandiere del suo esercito che a ponte Milvio avrebbe poi sconfitto Massenzio. E come il gioco del solitario con le carte cui Napoleone, uno dei più grandi strateghi della storia, pare si affidasse prima di ogni battaglia per cercare il contatto con quelle forze occulte, divine o naturali, che potevano guidarlo alla vittoria sul campo militare.”