Maggiore età digitale: utopia sufficiente?

Immagine creata con Gemini®

Seguo alcuni autori su Substack, anche se il tempo per leggere tutto è poco. Su Il mattinale europeo è stata pubblicata “un’analisi firmata da Camille Lamotte dedicata alla maggiore età digitale, dopo che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato di voler agire contro la dipendenza provocata sui giovani da TikTok e altri social network”.“Per il ritorno a scuola, l’Unione europea ha suonato la carica contro i social network. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si è detta favorevole al loro divieto per i bambini lo scorso 24 settembre, durante una conferenza a New York organizzata dall’Australia, primo paese al mondo a introdurre una misura del genere. Obiettivo dell’Ue: “Costruire un’Europa più sicura per i nostri bambini”, coinvolgendo genitori e attori del digitale in un dibattito preliminare. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha rincarato la dose, accusando i giganti del web di alimentare odio, disinformazione e radicalizzazione politica. Ma il timido progetto di maggiore età digitale all’interno dell’Ue reggerà di fronte alla battaglia ideologica a colpi di miliardi di dollari e acquisizioni da parte di Stati Uniti, Cina o Israele per il controllo assoluto degli algoritmi?
“Cyberbullismo, istigazione all’autolesionismo, predatori online e algoritmi che creano dipendenza…”. Ursula von der Leyen ha ricordato i gravi rischi corsi dai minori online. L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnalava un netto aumento della dipendenza (11 per cento degli adolescenti nel 2022 contro il 7 per cento quattro anni prima), oltre all’esposizione a contenuti inappropriati (pornografia, cyberbullismo, disinformazione). “Molti Stati membri ritengono che, per quanto riguarda l’accesso ai social network, sia giunto il momento di fissare una maggiore età digitale. E devo dirvi che, come madre di sette figli e nonna di cinque nipoti, sono d’accordo”.
La presidente della Commissione dovrà cercare di agganciare una serie di vagoni europei sparsi. Diversi Stati membri stanno già lavorando separatamente a progetti di regolamentazione dei social per i più giovani. Come in Francia, dove Macron si è impegnato all’inizio di giugno a vietare i social ai minori di 15 anni, se non si arriverà “entro pochi mesi” a una soluzione a livello europeo. Un rapporto parlamentare francese su TikTok aveva raccomandato il divieto, accompagnato da un “coprifuoco digitale” per i 15-18enni.
Il presidente francese ha ipotizzato un sistema di riconoscimento facciale o controlli della carta d’identità per determinare l’età degli utenti. Anche in Germania, alcuni deputati chiedono da oltre un anno una posizione più dura verso TikTok, incluso un possibile divieto generale. La Grecia, sostenuta da Francia e Spagna, ha infine proposto a giugno di fissare una maggiore età digitale per tutta l’Ue, al di sotto della quale i bambini non potrebbero accedere ai social senza il consenso dei genitori. La Danimarca, che presiede fino a fine anno il Consiglio dell’Ue, sostiene questa iniziativa.
Nel loro mirino ci sono social come X, Facebook o Instagram… ma soprattutto TikTok, con i suoi 200 milioni di utenti europei mensili (ovvero 1 cittadino su 3), principalmente giovani. Lanciata nel 2017, questa app offre contenuti video personalizzati grazie a un algoritmo potente che classifica i video in base agli interessi degli utenti. Già nel 2022, Macron aveva lanciato l’allarme durante un incontro con professionisti della salute mentale dei giovani: “Il primo perturbatore (psicologico), la piattaforma più efficace tra bambini e adolescenti, è TikTok. Dietro c’è una vera dipendenza”.
Nel podcast GDIY, a giugno 2024, Macron si era espresso contro il divieto di TikTok – una misura che era stata sostenuta dalla sua lista durante le elezioni europee – ma a favore di “una ricerca accademica libera che possa davvero dire cosa si nasconde sotto il cofano” degli algoritmi delle piattaforme. “Non è vero che in un solo paese si riuscirà a bandire questi social che, nonostante tutto, permettono di informarsi e scambiare contenuti”, aveva detto il capo di Stato francese, lui stesso affezionato alla comunicazione su TikTok. “Invece, bisognerebbe riumanizzarli e domarli, metterli nelle nostre mani”. Ovvero rafforzare la gestione dei dati personali e, soprattutto, revisionare lo status di host che permette ai social di sfuggire alla giustizia.
Nello stesso anno, la questione dei social assumeva già una piega più politica. La piattaforma, allora baluardo essenziale per la campagna elettorale dei giovani alle europee, è stata usata dai candidati di estrema destra come Jordan Bardella, l’account più seguito del Parlamento europeo. Ursula von der Leyen, in lizza come principale candidata del Partito Popolare Europeo di centro-destra, aveva rifiutato di usare TikTok, per coerenza. Dal 2023, la Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue hanno vietato la piattaforma sui dispositivi dei funzionari europei usati a fini professionali. Commentando la decisione del presidente Biden di firmare un progetto di legge che avrebbe potuto vietare TikTok, von der Leyen aveva usato queste parole: “Non è escluso. Conosciamo perfettamente il pericolo”.
Minacce di ingerenze cinesi, elezioni in Romania nel 2024 e inondazione di contenuti digitali di estrema destra… Bruxelles ha fatto pressione sulla piattaforma. La Commissione ha aperto un’indagine ufficiale per timore di danni alla salute mentale dei minori – la seconda indagine su TikTok nell’ambito del Digital Services Act (DSA). Il gruppo, già sotto altre procedure, rischia una multa e un controllo rafforzato fino all’attuazione di misure correttive.
Certo, la protezione dei minori online – regolamentata dal DSA entrato in vigore nel 2023 e applicabile dal febbraio 2024 – obbliga già i fornitori a garantire riservatezza, sicurezza e protezione per i bambini. Il DSA vieta la pubblicità mirata basata sul profiling dei dati personali dei minori. Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) rende lecito il trattamento dei dati personali di un minore a partire dai 16 anni, lasciando agli Stati membri la libertà di fissare un’età compresa tra 13 e 16 anni. Ma questa forbice di maggiore età digitale2 piuttosto ampia – 13 anni in Belgio, nei Paesi nordici, nel Regno Unito, in Irlanda e Spagna, 15 in Francia, 16 in Germania e Paesi Bassi – crea un mosaico normativo invece che un mercato digitale unificato per la tutela dell’infanzia.
La “minaccia” francese di un’azione unilaterale a giugno mira quindi a introdurre un nuovo limite d’età, ma anche ad accelerare l’attuazione di soluzioni concrete per la verifica dell’età. Parallelamente, il governo australiano – attualmente il più severo – ha però ammesso che “nessun paese al mondo ha ancora risolto questo problema”. Eppure, secondo uno studio inedito sul ruolo dei social tra 2000 bambini, pubblicato il 25 settembre, l’Arcom (Autorità francese per la regolamentazione della comunicazione audiovisiva) evidenzia che il 22 per cento si iscrive prima dei 10 anni e il 62 per cento mente sull’età, con una prima iscrizione media a 12 anni. La famosa maggioranza digitale, pietra angolare ideale per iniziare a regolamentare i contenuti in Europa, sarebbe dunque un miraggio tecnico prima ancora di trovare un accordo?
Non solo. Vittima della sua lentezza nel cambiare rotta, il colosso europeo viene anche travolto da un’attualità sempre più galoppante. Mentre i Ventisette faticano a mettersi in ordine di marcia sulla sovranità digitale, su un altro pianeta politico, gli Usa di Trump finalizzano a marce forzate la nazionalizzazione di TikTok, avviata grazie al braccio di ferro con la Cina reso possibile da un Biden tentato da un divieto puro e semplice. Lo scorso 25 settembre, Donald Trump ha firmato il decreto che permette a TikTok di continuare a operare negli Stati Uniti, autorizzando un gruppo di investitori guidato da americani ad acquistare l’app da ByteDance, la società cinese – accordo che richiede ancora l’approvazione della Cina.
Il colpo di forza permette a Trump di accontentare un elettorato giovane molto legato alla piattaforma – il 43 per cento degli adulti americani sotto i 30 anni ottiene regolarmente notizie da TikTok, più che da qualsiasi altra app di social, secondo un rapporto del Pew Research Center – aprendo al contempo la strada a un controllo ideologicamente orientato (filone MAGA) dell’algoritmo. I nuovi proprietari di TikTok, tra cui il cofondatore di Oracle Larry Ellison e Rupert Murdoch, hanno interessi commerciali e/o politici legati a Trump. La loro influenza sulla piattaforma non sarà neutrale. Dopo Twitter, Facebook e Instagram, anche TikTok – piattaforma sociale di primo piano con 170 milioni di utenti – cade così sotto il controllo del presidente americano, che ora domina i principali social.
Sulle orme della piattaforma Douyin – versione esclusivamente cinese di TikTok, la più censurata al mondo – il potere americano conta di sfruttare il ruolo fondamentale dei social nella sua battaglia ideologica interna. Grazie a uno strumento che combina localizzazione e social, l’ICE annuncia di poter presto tracciare in tempo reale i movimenti di centinaia di milioni di persone tramite il telefono… senza mandato.
Tra strumento utile per un autoritarismo sfacciato e strumento di guerra culturale, i social rischiano di allargare il divario delle realtà parallele. La risposta europea a un futuro alla Minority Report può davvero ridursi a una maggiore età digitale?”

Gemma n° 2705

“Nel 2019 sono andata a Parigi. E’ stato un viaggio indimenticabile non solo per la bellezza della capitale ma anche perché è una delle mie città preferite dato che mi piace la lingua e ci sono tantissime cose da visitare. I posti che ho visitato che mi sono piaciuti di più sono stati la Torre Eiffel, in cui siamo saliti solo io e mio padre, da cui la vista era mozzafiato e la sera era illuminata. Il Louvre è stato molto interessante anche se ero piccola.
Il posto più bello è stato andare a Disneyland Paris in cui mi sono divertita un sacco e mi ricordo ancora il viaggio in treno che abbiamo fatto per andarci dato che era fuori Parigi.
L’unica cosa è che non ho potuto visitare la Cattedrale di Notre Dame e mi è dispiaciuto però mi sono divertita moltissimo. Oltre a questo ci sono ovviamente molte altre cose da visitare e per me sarebbe un sogno poter vivere a Parigi”.
(E. classe prima).

Gemma n° 2488

“Questa foto l’ho fatta circa due anni fa a Lione, in Francia, quando ci sono andato con la mia famiglia. Nello specifico questa è la foto di una delle miniature esposte al museo del cinema e delle miniature presente nella città. Ho scelto questa foto più che altro in ricordo sia dell’esperienza, sia del fatto che ci sono andato con la famiglia praticamente al completo” (F. classe quarta).

Gemma n° 2439

“Questa è in assoluto la mia prima gemma di religione e per quanto possa sembrare facile trovare qualcosa di profondamente rappresentativo per sé, mi sono trovata in difficoltà.
In difficoltà perché per la prima volta mi sono chiesta cosa potesse rappresentarmi al meglio , e da quella riflessione sono nate tantissime idee, tutte pronte a raccontare qualcosa di me: dalle mie passioni, a momenti a persone per me importanti… tutto era chiaro nella mia testa, le idee nitide e ben allineate pronte a risplendere proprio come una gemma, ma a questo punto mi sono ricordata che, mi trovo in un ambiente nuovo e lì le idee tornano a correre all’impazzata per la mia testa.
Mi sono resa conto che, nonostante siano passati diversi mesi dal mio arrivo, non sono riuscita a trasmettere molto di me, del mio carattere, del mio modo di essere. La mia paura di risultare inappropriata, noiosa o deludente mi ha portata a chiudermi un pochettino, ma anche questo, se ci penso fa parte di me.
Fa parte di me l’essere pensierosa, silenziosa e distaccata, ma non per questo me ne faccio una colpa. Fa parte di me e basta.
Quindi per questa mia prima e purtroppo ultima gemma ho deciso di raccontarmi attraverso una parte indelebile di me: i miei tatuaggi.
Sul mio corpo da neo diciannovenne sono presenti 3 tatuaggi, 3 momenti della mia vita vissuta fino a presente. Le mie 3 filosofie del passato, presente e futuro.

Il primo tatuaggio l’ho fatto a 17 anni sulla clavicola sinistra, dal lato del cuore.
Avevo appena finito il percorso di latino, un mondo che mi ha affascinata proprio perché non lo riuscivo a capire a causa della sua complessità. La frase che ho scelto di incidermi sulla pelle è stata proprio «ad maiora» verso il meglio. Allora ero molto diversa da come mi vedete adesso, ero molto più insicura e meno determinata. Ancora non ero riuscita a crearmi uno spazietto nel mondo. Mi sentivo strana e fuori posto, come tutti gli adolescenti a quell’età. Ma qualcosa in me, ha voluto riprendere le redini, riprendere il controllo della mia vita e andare verso qualcosa di meglio.
«Ad maiora» perché non mi sono mai bastata, non mi sono mai piaciuta e tuttora faccio difficoltà a riconoscermi nel riflesso dello specchio, nonostante i cambiamenti e i miglioramenti (i primi di una lunga serie a venire). Per la prima volta sono riuscita a provare a me stessa di essere forte e determinata e questo è diventato un mio bellissimo punto di forza.
Ho lavato molto non solo sul mio aspetto estetico, ma anche sul mio carattere, per creare la versione migliore di me stessa. E nonostante ci abbia lavorato, ammetto che caratterialmente non sono facile da capire o da sostenere, proprio per gli innumerevoli problemi invisibili che si generano automaticamente nella mia testa e che a volte prendono il controllo.
«Ad maiora» perché racchiude il desiderio di non essere mai come ora, ma di trovare sempre nuovi stimoli per migliorare.

Il secondo tatuaggio, l’ho fatto sul costato destro, perché la simmetria è sempre stata un mio punto debole. Si tratta sempre di una frase, ma questa volta in francese, tratta da una poesia. L’ho fatto dopo essere tornata da una delle esperienze che più mi ha cambiata e aperto gli occhi sul mondo: l’anno all’estero in Francia.
Là ho avuto modo di conoscere una realtà totalmente differente, ho incontrato delle persone fantastiche che hanno contribuito a creare delle memorie uniche e inimitabili.
Questa citazione racchiude un sacco di ricordi, significati e di speranza: nous allons fleurir (fioriremo). É tratta da una poesia di Jules Laforgue, «triste triste», titolo molto allegro, mi sono davvero superata in questo. Come suggerisce il titolo, il tono della poesia é malinconico e estremamente grigio, ma proprio in mezzo a tutto quel grigiore, si apre uno spiraglio luminoso dato da questa frase. Come un sole in mezzo alle nuvole di pioggia, «nous allons fleurir» ha il compito di ricordarmi che nonostante le difficoltà, nonostante gli ostacoli sul mio percorso, se ho la forza e la volontà di superarli, alla fine riuscirò a fiorire. Ma come lo auguro a me stessa, lo auguro a tutte le persone che mi circondano, perché nessuno merita di appassire sotto il peso di una giornata tempestosa. Per fiorire, oltre alla forza, ci vogliono tempo e un sacco di pazienza e determinazione, per riuscire a coltivarsi e a coltivare ciò che ci circonda nel modo migliore possibile.
Ognuno di noi, è un bocciolo di fiore diverso, c’è chi è più delicato, chi più tenace, chi sboccia prima e chi dopo, ma tutti siamo pronti a fiorire i nostri migliori colori.

L’ultimo tatuaggio di cui voglio parlarvi, è la sintesi del mio presente, ciò che sono e ciò che voglio ricordare.
È sempre legato all’esperienza all’estero, un pezzo del mio presente che ricordo con affetto e molta felicità. L’idea mi é venuta da una frase  del nonno ospitante, un uomo molto fragile, ma sempre sorridente, saggio e spiritoso, che prima della mia partenza per tornare in Italia, mi disse delle bellissime parole: lui era riuscito a leggere i miei silenzi per trarne qualcosa di bello, delle memorie preziose che custodisce tuttora. Aveva visto il mio potenziale, la mia voglia di crescere e di sperimentare. Aveva visto che sono fragile come lui, che la mia sensibilità e le mie insicurezze talvolta prendono il sopravvento creando delle tempeste che distruggono le mie casette di carta pesta, e proprio per questa mia fragilità anche lui mi ha donato una gemma di saggezza, dandomi delle certezze. Per tutto ci vuole tempo: per crescere, per imparare, per cadere e per rialzarsi, ma non dobbiamo affrontare tutto questo da soli: ci sono delle persone che ci accompagnano e che ci aiutano a ricostruire quelle casette di carta pesta oramai disintegrate dalla potenza della tempesta. Quelle persone, non sono delle persone qualunque, sono dei «funghi». Che strana cosa che mi disse quel giorno il nonno Dardinier: siamo dei funghi, tutte le persone che incontriamo e che ci aiutano, ci sopportano e che fanno il tifo per noi sono dei funghi che si legano a noi. E per quanto ci possiamo allontanare e perdere di vista, per quanta distanza ci sarà, le radici ci terranno uniti e ci terranno in contatto.

Questa è stata la mia prima e purtroppo ultima gemma di religione, non sarà perfetta, ma l’ho scritta io. Le parole che sono qui presenti sono una parte imperfetta di una imperfetta me.
Sono una ragazza che sbaglia senza paura di sbagliare, che ha delle insicurezze che prima o poi metterà a tacere, che ha delle passioni… ma che soprattutto ha delle persone che fanno il tifo per lei…. Sono un fungo che presto fiorirà verso il meglio. Grazie per l’ascolto.”
(G. classe quinta).

Gemma n° 2184

“Ho deciso di portare questa cartella come mia gemma, per me è molto importante. Voglio andare in Francia per imparare davvero bene il francese. Questa cartella mostra anche la mia voglia di svilupparmi e imparare le lingue perché questo è il mio obiettivo” (V. classe seconda).

Russia loves Africa

Fonte: profilo Instagram dell’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

A inizio marzo, il voto all’undicesima sessione d’emergenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) sulla risoluzione sull’aggressione russa dell’Ucraina ha registrato che solo 5 paesi – Siria, Eritrea, Bielorussia e Corea del Nord oltre ovviamente alla Russia – si sono schierati apertamente con Mosca votando contro la risoluzione. 141 sono stati i favorevoli e 35 gli astenuti. Oltre a Cina e India, sono stati numerosi gli stati africani ad astenersi: perché? Mi soffermo su due di essi attraverso due articoli, uno sul Mali (a firma di Enzo Nucci, corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana e curatore di una rubrica su Confronti) e uno sul Sudan (a firma di Marco Cochi per il mensile Nigrizia). Inoltre torno su Kirill I, patriarca di Mosca molto legato a Putin, e sul suo ruolo proprio in Africa (articolo di Rocco Bellantone, sempre su Nigrizia).

VIA I FRANCESI, AVANTI I RUSSI

2 Febbraio 2022
di Enzo Nucci.
In Mali il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura legati al governo di Mosca. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse e vendita di armi.
Via l’esercito francese, avanti i mercenari russi della compagnia privata Wagner. Benvenuti in Mali. Il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura (ma legati a triplo filo al governo di Mosca) nel Paese africano, considerato strategico per fermare alla fonte una parte importante dei flussi migratori clandestini diretti verso l’Europa. Duecento di loro sono accampati a Segou, 200 chilometri a nord est della capitale Bamako, sul fiume Niger.
Il governo maliano a dicembre si è limitato a spiegare la presenza degli addestratori russi come un contributo al rafforzamento delle capacità operative delle Forze di difesa e sicurezza. E a gennaio l’esecutivo ha chiesto a Parigi di rivedere gli accordi militari firmati nel 2013 quando la Francia (guidata allora dal socialista François Hollande) lanciò l’operazione di contrasto al terrorismo islamista, estesa successivamente agli altri Paesi del Sahel (Ciad, Niger, Burkina Faso, Mauritania). Da allora molte cose sono cambiate.
L’intervento armato si è dimostrato fallimentare e oneroso dal punto di vista economico, di costi umani e ricavi politici. Tanto che si parla apertamente di un “nuovo Afghanistan” per il presidente Emmanuel Macron che si accinge a sottoporsi al test delle imminenti elezioni presidenziali. Ma il Mali resta una ferita purulenta anche per il suo eventuale successore.
Il Mali (in 9 anni di presenza militare) si è rivelato lo Stato africano con l’opinione pubblica più antifrancese tra i Paesi francofoni, tanto che un colpo di Stato militare (forse ispirato da Mosca) ha sparigliato le carte. I gruppi terroristici islamisti non hanno preso il potere ma hanno allargato la loro influenza tra la gente, rendendo instabili istituzioni già profondamente fragili. Non è certo un grande risultato.
Sul Mali (guidato dalla giunta golpista) si sono anche abbattute le sanzioni economiche della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) perché il governo di transizione ha deciso di rimandare le elezioni per un periodo variabile dai sei mesi ai cinque anni. Il dato politico è il ritorno in grande stile della Russia sulla scena africana. Gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse (estrazioni di minerali) e vendita di armi sono gli obiettivi principali.
La strategia fu spiegata da Putin nel summit russo-africano tenutosi a Sochi (sul Mar Nero) nell’ottobre 2019. Il presidente ribadì la sua volontà di offrire aiuti e contratti commerciali “senza condizioni politiche o di altro genere”, al contrario di quanto fanno i Paesi occidentali. E anzi affermò che la Russia sarebbe stata la migliore soluzione a cui far ricorso per resistere alle indebite intromissioni nella sovranità nazionale esercitate da europei, statunitensi e cinesi.
La presenza dei paramilitari della Wagner (fondata da un veterano delle forze speciali dell’esercito russo e da un ricco uomo d’affari legato a Putin) si conta già in 23 nazioni africane. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma in realtà svolgono training agli eserciti, forniscono scorte armate agli uomini di governo, conducono guerre informatiche, svolgono operazioni contro i ribelli nelle zone minerarie per facilitare contratti con compagnie russe, spesso connesse proprio agli azionisti della Wagner.
I mercenari sbarcarono per la prima volta in Africa nel 2013 quando in Sudan (guidato allora dal dittatore islamista Omar al-Bashir) furono utilizzati per reprimere manifestazioni di piazza. Da allora è stata una escalation in tutto il continente, ultimamente anche nella ricca regione mineraria di Cabo Delgado (Mozambico) dove operano terroristi islamisti, autori di numerosi attacchi. Mentre in Libia sostengono Khalifa Haftar con grande preoccupazione degli Stati Uniti.
I mercenari esordirono nel 2014 in Crimea a fianco dell’esercito russo che aveva occupato la penisola. Oggi conterebbero su almeno diecimila uomini contrattualizzati. Un escamotage che consente a Putin di avere le mani libere, non dover rendere conto a nessuno delle operazioni di questi “privati” che sono responsabili di abusi e crimini contro prigionieri e civili inermi. Ma Mosca ufficialmente ignora tutto questo.

RUSSIA IN AFRICA. IL SUDAN È UNA MINIERA D’ORO

09 Marzo 2022
di Marco Cochi.
La recente visita a Mosca di “Hemetti”, vicepresidente del Consiglio sovrano sudanese, ha allarmato molti paesi, tra cui Stati Uniti ed Egitto. Spaventa il progetto di una base navale del Cremlino sul Mar Rosso. E si vuole porre un freno al contrabbando di centinaia di tonnellate di oro illegale che dal Sudan finiscono nei forzieri russi.
Molti paesi africani stanno mostrando una buona dose di cautela nel rivedere le loro relazioni con la Russia per proteggere i loro interessi nazionali. Lo dimostra l’astensione di ben 17 nazioni del continente, oltre al veto dell’Eritrea, nell’approvazione della risoluzione votata, lo scorso 2 marzo, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per condannare l’invasione russa dell’Ucraina.
Una cautela che trae origine dal fatto che negli ultimi anni il Cremlino ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. Un chiaro esempio è l’invio, a partire dal 2018, dei mercenari russi del Gruppo Wagner, oltre che in Libia, per aiutare i leader locali di Centrafrica, Mozambico e Sudan a mantenere saldo il loro potere e silenziare la dissidenza interna. E non a caso i tre paesi figurano tra gli stati africani astenuti.
A partire dallo scorso 6 gennaio, l’impegno militare della compagnia privata russa sta interessando anche il Mali, dove i paramilitari sono stati dispiegati nella città di Timbuctu. Ufficialmente, le unità della Wagner sono impegnate nell’addestramento delle Forze armate maliane e nel contrasto delle milizie jihadiste legate ad al-Qaida e al gruppo Stato islamico.
Altro aspetto saliente è da ricercare nei dati del SIPRI, che indicano Mosca come il principale fornitore di armi all’Africa, dove tra il 2015 e il 2019 ha esportato il 49% dell’equipaggiamento militare del continente, più del doppio di Cina e Stati Uniti. Per questo, è improbabile che molti leader africani aderiscano al moltiplicarsi degli appelli in corso per condannare l’aggressione della Russia in Ucraina.
Tra i paesi africani che non nascondono il loro sostegno a Mosca c’è il Sudan. Con il Cremlino, il terzo più grande paese dell’Africa intrattiene una partnership così consolidata che il 23 febbraio il vicepresidente del Consiglio sovrano di Khartoum, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemetti ha iniziato una visita a Mosca, durante la quale, poi, l’armata russa ha invaso l’Ucraina.
Dagalo è anche a capo delle Rapid support forces (Forze di supporto rapido – Rsf), un’unità irregolare al soldo di Khartoum, che durante la guerra in Darfur si rese responsabile di indicibili violenze e crimini di guerra contro gli appartenenti alle etnie non arabe fur, maasalit e zaghawa. Violenze che continuano ancora oggi.
Di recente, è emerso che le Rsf hanno avuto legami con la Wagner e anche se non ci sono statistiche ufficiali sul numero e sul luogo in cui si trovano i contractor russi in Sudan, alcune stime indicano la presenza di 300 effettivi, impegnati in attività congiunte e programmi di addestramento con la milizia di Dagalo. Nel paese, si è diffuso il sospetto che alcuni oppositori politici favorevoli a un ritorno del governo civile siano recentemente scomparsi per mano dei mercenari russi.
Nel 2017, l’interesse iniziale della Wagner nei confronti del Sudan è stato cercare i giacimenti di oro presenti nelle aree remote del paese, così cospicui che potrebbero rendere Khartoum in pochi anni il terzo produttore dell’Africa.
Secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico Telegraph, negli ultimi anni la Russia ha contrabbandato centinaia di tonnellate di oro illegale dal Sudan, nell’ambito del piano di costruire la “fortezza Russia” e difendersi dalle previste sanzioni legate all’invasione in Ucraina.
Il Cremlino ha più che quadruplicato la quantità di oro detenuto nella banca centrale dal 2010, creando un “forziere di guerra” attraverso un mix di importazioni estere e vaste riserve auree nazionali, diventando il terzo produttore mondiale del prezioso metallo e arrivando, nel giugno 2020, a detenere più oro che dollari.
Mentre le statistiche ufficiali suggeriscono che il Sudan esporta scarsissime quantità di oro in Russia, un dirigente di una delle più grandi società aurifere sudanesi ha dichiarato al Telegraph che il Cremlino è il più grande attore straniero nell’enorme settore minerario del paese. Secondo la fonte, rimasta anonima, ogni anno circa 30 tonnellate d’oro vengono trasportate dal Sudan in Russia, sebbene sia impossibile valutare la reale portata dell’operazione.
Secondo Sim Tack, cofondatore di Force Analysis, una società di consulenza con sede in Belgio specializzata nella mappatura dei conflitti, alcune società russe come M-Invest, che ha una filiale locale chiamata Meroe Gold, hanno iniziato a operare in Sudan dopo che l’ex dittatore Omar El-Bashir ha incontrato Vladmir Putin nel 2017, offrendogli concessioni minerarie e permettendogli di costruire una base navale nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. 
Una struttura in grado di ospitare fino a 300 persone, civili e militari, e 4 navi da guerra. Secondo il progetto, Mosca avrà il diritto di trasportare, attraverso porti e aeroporti sudanesi, armi, munizioni e attrezzature destinate al funzionamento della sua base. Questo sito sarà il primo del suo genere per Mosca in Africa, e il secondo al mondo, dopo quello di Tartus, in Siria.
La base servirà a coprire due dei grandi interessi russi nella regione africana. Il primo è l’export bellico, per creare dipendenza e influenza attraverso questo mercato nei paesi del continente. Il secondo è che Mosca potrà avere un peso sull’asse Mar Rosso, Suez, Corno d’Africa che connette Mediterraneo e Oceano Indiano, considerato strategico per il commercio internazionale.
Una promessa che nella sua recente visita a Mosca, il generale Dagalo ha rinnovato proprio mentre le truppe dell’Armata russa si preparavano a invadere l’Ucraina. Secondo Hemetti, la proposta russa per lo sviluppo della base navale in Sudan sarebbe all’attenzione del ministro della difesa di Khartoum, di conseguenza non direttamente sotto la sua capacità decisionale.
Secondo gli Stati Uniti, invece, l’approvazione sarebbe imminente perché la missione del generale Dagalo a Mosca avrebbe avuto come principale oggetto proprio la discussione in merito alla definizione dell’accordo per la base navale.
L’assenso di Hemetti alla costruzione della base russa ha provocato la dura reazione delle autorità egiziane, che hanno chiesto al potente generale sudanese di fornire chiarimenti sulle dichiarazioni riguardanti la base. I funzionari del Cairo hanno affermato «di opporsi alla creazione di qualsiasi base straniera vicino ai confini e alle aree di influenza del paese».
Sarà però difficile che Khartoum receda dai suoi propositi, mentre cerca aiuti economici, dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso per intero un pacchetto di aiuti da 700 milioni di dollari, in seguito al colpo di stato del 25 ottobre.

UN CONFLITTO POCO “ORTODOSSO”

11 Marzo 2022
di Rocco Bellantone.
A fine 2021, oltre cento sacerdoti in servizio nel continente hanno lasciato il patriarcato di Alessandria (Egitto) per passare a quello di Mosca. Artefice della manovra il patriarca russo Kirill I, fedelissimo di Putin, in rotta con Tawadros II di Alessandria
Centodue sacerdoti in servizio in 8 paesi africani passati dal patriarcato greco-ortodosso di Alessandria a quello russo. Con questo cambio di casacca di massa, annunciato a Mosca nel Sinodo di fine 2021 e di cui ha dato notizia Asia News, agenzia di informazione dei missionari del Pontificio istituto missioni estere (Pime), il patriarcato russo ha creato ufficialmente un proprio esarcato in Africa. Dodici in totale le bandierine fissate nelle due diocesi dell’Africa settentrionale e meridionale: Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Ciad, Camerun, Nigeria, Libia, Centrafrica e Seicelle. Incarico di guida assegnato al vescovo russo di Erevan in Armenia, Leonid (Gorbačev).
Con una sola mossa, l’artefice di questa manovra, il patriarca di Mosca Kirill I, ha centrato due obiettivi: ha scippato sostegno internazionale alla Chiesa autocefala di Ucraina, frutto dello scisma ortodosso del 2018 (innescato nel 2014 dall’occupazione russa della Crimea) e riconosciuta dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartomoleo I; e ha assestato un duro colpo all’autorevolezza in Africa del patriarca di Alessandria, Tawadros II, che nell’agosto scorso, sull’isola turca d’Imbros, aveva teso la mano al metropolita autocefalo di Kiev Epiphany, segnando il definitivo punto di rottura con la Chiesa russa, già maturato nel 2019.
In passato compagni di studi all’università sovietica di Odessa, Kirill I e Tawadros II sono dunque ormai ai ferri corti. Nella sua campagna di conversione in Africa, il patriarca di Mosca sa di poter contare sull’appoggio incondizionato del Cremlino. Kirill I fa parte, infatti, della cerchia dei fedelissimi del presidente russo Vladimir Putin. Ha rapporti molto stretti con oligarchi e manager delle più influenti aziende del paese, compreso il gigante petrolifero Gazprom. Una fedeltà riconosciutagli dal governo, che nel 2019 ha sborsato circa 43 milioni di dollari per ristrutturare la sua residenza nell’ex palazzo imperiale di San Pietroburgo.
Da anni la Chiesa di Mosca coltiva contatti in Africa. Ultime terre di conquista, come segnalato in un report di Africa Intelligence, sono stati Tanzania, Kenya, Uganda, Zambia e Sudafrica. Tra le parrocchie sfilate ad Alessandria c’è quella di Sergio di Radonež a Johannesburg (Sudafrica), guidata dall’arciprete Daniel Lugovoy. Altro fronte caldo è il Madagascar, dove l’ambasciatore russo Andrey Andreev sta raccogliendo fondi per affidare una nuova chiesa a sacerdoti legati a Mosca.
I centodue transfughi di fine anno sono il risultato di un pressing diplomatico istruito in occasione di un precedente sinodo che si era tenuto a Mosca il 23 e 24 settembre. Da allora l’uomo di Kirill I in Africa, il vescovo Leonid – scelto non a caso per questo ruolo dopo aver rappresentato il patriarcato russo ad Alessandria tra il 2004 e il 2013 – non si è mai fermato. A metà novembre è stato a Dar es Salaam, dove ha incontrato i metropoliti Dimitrios di Irinoupolis, referente per la Tanzania orientale, e Jeronymos di Mwanza, per la Tanzania occidentale. Nella sua visita è stato accompagnato dall’ambasciatore russo in Tanzania, Yuri Popov, che in questo paese cura in particolare gli interessi della compagnia di stato Rosatom nei locali giacimenti di uranio.
Il blitz di Leonid era stato anticipato, qualche settimana prima, da un tour di visite di Tawadros II, volato prima a Kampala (Uganda) per un incontro con il presidente Yoweri Museveni, poi in Tanzania insieme all’ambasciatore egiziano Mohamed Gaber Abulwafa e al console onorario greco William Ferentinos – dove a capo di un codazzo di imprenditori greci ha incontrato anche il vicepresidente Filippo Mpango –, infine a Johannesburg per un colloquio con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa.
La regione dei Grandi Laghi è lo scacchiere in cui la posta in palio tra le due Chiese è la più alta. Tra fine luglio e inizio settembre le morti prima del metropolita Nikoforos di Kinshasa, poi del suo omologo di Kampala Jonah Lwanga, hanno aperto una delicata partita per la loro successione. Chi riuscirà ad accaparrarsi quelle poltrone, infatti, avrà accesso a uno dei più ampi bacini di fedeli ortodossi di tutto il continente.
Mosca ci tiene moltissimo. I governi di Rwanda e Uganda sono tra i principali acquirenti africani di armi di fabbricazione russa, mentre in Rd Congo è sempre più attivo il gruppo Alrosa, specializzato in estrazione di diamanti. Sono business in forte crescita, che il Cremlino vuole tutelare garantendosi una leadership religiosa nella regione. Se in Africa meridionale Zimbabwe, Angola e Mozambico restano sotto il controllo del patriarcato di Alessandria, che in quest’area conta sull’arcivescovo cipriota Seraphim, la sfida è aperta in Repubblica Centrafricana. La piccola comunità ortodossa del paese è passata recentemente sotto la sfera d’influenza russa. E nella capitale Bangui è in fase di costruzione il settimo centro russo per la scienza e la cultura, sotto lo sguardo vigile della compagnia di sicurezza privata Wagner. Segno, anche questo, che quella in corso non è solo una campagna religiosa.

Radici cristiane, ma le foglie?

Un post piuttosto lungo e che affronta temi stimolanti che portano ad approfondite riflessioni. La fonte originale è Le Figaro, ripreso in Italia da Il Foglio. L’ho scovato grazie a una segnalazione di Oasis Center.

“Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica le radici cristiane delle nazioni europee. Una riflessione che l’autore aveva esposto in Situation de la France (2015). Da parte sua, nel suo nuovo saggio L’Europe est-elle chrétienne? Olivier Roy esamina la questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. La giornalista del Figaro Eugenie Bastié li ha fatti sedere per una discussione.
Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa?
Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario. Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 60 e 70 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito.
Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.

Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 60. Perché?
O. R. Fino agli anni 50, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 60 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con l’Humanae  vitae, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato come “pagana”.
P. M. E’ vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. E’ qualcosa di inedito. Va pure detto che la chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica.
O. R. Certamente la chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatore domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “princìpi non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione Benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione.

Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione?
P. M. Col concilio, la chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. E’ questo in particolare il caso dello stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione.
O. R. Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.

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La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta?
P. M. Francamente, almeno nel nostro paese, i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica.  Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica migratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico.
O. R. Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.

Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905? [La legge di separazione tra Stato e Chiese, ndr]
P. M. Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri princìpi, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria.
O. R. L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione.  La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in “modalità lubavitch”, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione.

Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente…
O. R. I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della  République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipi. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam.
P. M. Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna. Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.”

Dietro il velo

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Un articolo molto interessante di Marco Palillo, pubblicato poche ore fa su L’Huffington Post. Argomenti? Francia, laicità, Europa, femminismo, velo islamico, donne, islam…
La ministra socialista francese della Famiglia, Laurence Rossignol ha recentemente rilasciato una dichiarazione fortemente provocatoria sul velo indossato dalle donne islamiche “Ci sono donne che lo scelgono come c’erano negri americani favorevoli allo schiavismo”. Il parallelo fra velo e schiavismo dei neri è molto interessante e rivela inconsciamente alcuni nodi irrisolti del dibattito europeo su multiculturalismo e identità religiose.
La questione del velo in Francia ha infatti più a che fare con la storia nazionale della Repubblica francese – incluso il periodo colonialista e la tragedia dell’Algeria – che con i recenti attacchi terroristici di Parigi. Già nel 2004 il tema fu affrontato in un tumultuoso dibattito sulla controversa legge che proibiva il velo nelle scuole. Anche allora il movimento femminista francese si divise in maniera significativa: da un lato, alcune donne identificarono quella battaglia con gli ideali di laïcité repubblicana, dall’altro alcuni gruppi femministi, condannarono fortemente la legge bollandola come islamofoba e sessista. Fra questi, la più celebre è senza dubbio Christine Delphy, leader storica del femminismo materialista, cofondatrice con Simone de Beauvoir della rivista “Nouvelles Questions Feministes”. Delphy in un articolo pubblicato dal Guardian definì il divieto del velo come parte di una più ampia strategia anti-Islam iniziata in Francia 40 anni prima e accusò le femministe favorevoli al divieto di farsi strumentalizzare, come già accaduto per esempio durante la guerra in Afghanistan, da chi utilizza i diritti delle donne per sostenere altre battaglie. Secondo Delphy “se le donne musulmane sono un’oppressa minoranza, andrebbero abbracciate, capite, non attaccate o private di un diritto fondamentale, come quello all’istruzione”.
La Delphy ha ragione quando smaschera l’ipocrisia di una battaglia ideologica che si sta facendo sul corpo delle donne (sia islamiche che non islamiche) ma che nasconde altri fini. Innanzitutto, l’esigenza di riempire un vuoto politico prodotto dall’incapacità delle classi dirigenti occidentali di affrontare le complessità prodotte dalla globalizzazione e dalle migrazioni internazionali. In questo quadro di grande ipocrisia, incapacità e malafede, le donne islamiche sono rimaste schiacciate fra due sistemi patriarcali che vogliono utilizzarle ognuno a proprio piacimento: da un lato, il mondo islamico fondamentalista, che le tratta come esseri inferiori, a volte come merci; dall’altro l’occidente che vuole utilizzarle per fare una battaglia contro i maschi islamici, cacciandoli via dalla fortezza Europa.
Insomma, dai fatti di Colonia in poi, è evidente che nello scontro fra islam-occidente, le donne, le loro libertà, i loro corpi, non contano proprio nulla. Se contassero qualcosa, le donne islamiche non verrebbero costantemente rappresentate come delle povere vittime, senza capacità di discernimento o scelta, e dunque sempre assolte, assistite o compatite.
Pensiamo al caso più paradossale delle giovani islamiche che si sono unite al Califfato. Queste ragazze vengono raccontate dalla stampa come delle povere indifese circuite da Imam, ovviamente maschi, finite nelle mani di crudeli mariti in Siria che le segregano. Eppure la cronaca ci insegna che non è così, nella maggior parte dei casi si tratta di donne educate, occidentali, che decidono di unirsi all’ISIS, come i loro commilitoni maschi, prendendo aerei e viaggiando di nascosto raggiungendo spesso da sole il confine siriano dalla Turchia. Musulmane sono anche le soldatesse curde che ai terroristi dell’ISIS sparano con i kalashnikov o le attivista yazide, che stanno cercando di liberare le loro sorelle divenute schiave sessuali dopo la presa del Sinjar.
Insomma la ministra Rossignol, nella sua dichiarazione impacciata rivela due grande verità:
il femminismo europeo (specie quello della sinistra tradizionale) non ha fatto pace con l’autonomia e la soggettività delle donne islamiche, anzi tende a negarle ogni volta che può;
il pensiero femminile europeo non è stato influenzato adeguatamente dal femminismo intersezionale di matrice americana che mette in rilievo come non esista un’unica voce femminile valida per tutte le donne, ma che le differenze prodotte dall’intersezione del genere con i molteplici aspetti che compongono l’identità (classe sociale, etnia, la religione, l’orientamento sessuale) presuppongano più femminismi e il riconoscimento delle differenze non solo tra maschile e femminile, ma anche tra diversi gruppi di donne.
Ecco perché il paragone con gli schiavi afroamericani della Rossignol è assai rivelatorio. Le donne musulmane vengono dipinte comunque come esseri inferiori, costantemente vittime, sia dai loro difensori che dai loro nemici. Soggetti senza voce, a cui le donne occidentali, rivendicando il proprio privilegio, devono sostituirsi (per il loro bene, s’intende) anche quando si tratta di scelte come l’abbigliamento personale e la fede religiosa. In pratica, vogliamo liberare le donne musulmane, sostituendo i maschi islamici (padri, mariti) che parlano e decidono per loro, con altre donne (questa volta occidentali) che però continuano a parlare e a decidere a loro posto. Facendo così si rischia di vanificare l’operazione – questa sì veramente libertaria e rivoluzionaria – di cambiamento sociale portata avanti dalla stragrande maggioranza di giovani islamiche europee, che si sentono pienamente parte della cultura occidentale, aderendo in toto negli stili di vita, costumi, e valori, ma che non vogliono rinunciare alla propria identità etnica-religiosa, di cui il velo è un chiaro simbolo storico-culturale.
Lo racconta bene Amara Majeed, studentessa in neuroscienze alla prestigiosa Brown University, in una lettera aperta alla ministra Rossignol pubblicata da Bustle. Quando a quattordici anni decise di indossare lo hijab, la domanda più frequente fu “sono stati i tuoi genitori a importelo?”. La Majeed raccontando la sua scelta personale, frutto di una libera scelta senza costrizioni, afferma che “il velo le copre la testa non il cervello”. E forse questa rivendicazione di auto-determinazione femminile che spaventa più di ogni altra cosa? Per questo motivo, Amara ha lanciato un esperimento sociale, The Hijab Project, in cui invita le donne di tutte le fedi e razze, a indossare il copricapo islamico per un giorno, raccontando poi l’esperienza sul suo blog. Il progetto che ha riscosso grande attenzione dai media occidentali, dalla BBC a Good Morning America, mira a promuovere l’empowerment delle donne islamiche, facendo capire alle donne occidentali cosa si provi a vivere con il velo. Per Majeed indossare il hijab è una scelta femminista, di ribellione rispetto a un mondo che mercifica e sessualizza costantemente le donne, dalle copertine dei giornali alle molestie sessuali. In questo, sorprendentemente, Amara Majeed riecheggia la ministra francese Rossignol che in un’intervista al Corriere, paragona il velo agli abusi di chirurgia estetica. Chi scrive ovviamente non è d’accordo con nessuna delle due, essendo assolutamente favorevole tanto al velo quanto alle labbra a canotto se frutto di consapevole scelta; allo stesso tempo ritengo però che questo dibattito interculturale tra donne sia una grande ricchezza, perché il tema del velo riapre questioni irrisolte che danno ancora fastidio: il riconoscimento delle soggettività femminili, la libertà di scelta delle donne e l’autodeterminazione sul proprio corpo.
Sia Rossignol che Majeed infatti si interrogano su un sistema simbolico – il velo e la chirurgia estetica – creato dal potere maschile, dalle sue regole e dei suoi canoni estetici, anche se in due culture differenti. Ecco, che allora se da un lato il dibattito sul velo va fatto con le donne musulmane e non al posto loro, non bisogna dimenticare che questo dibattito non è neutro perché avviene comunque all’interno dello scontro fra due sistemi patriarcali, quello occidentale e quello islamico. Essere femministe o femministi, oggi, significa non fare sconti a nessuno dei due, ma soprattutto non farsi strumentalizzare da nessuno dei due.
Le femministe occidentali non devono farsi portavoce delle donne islamiche, soprattutto quando le uniche che frequentano sono le proprie colf. Ecco che la pletora di articoli in stile “io ti salverò”, intrisi di paternalismo e buonismo, non è più accettabile. In questo senso, sono più oneste le commentatrici di destra, alla Fallaci, che vedendo nell’Islam un nemico, vedono le donne islamiche alla stregua dei maschi un avversario da battere. Inoltre, le femministe occidentali, che come me non credono nello scontro fra civiltà, ma semmai fra patriarcati, non possono essere così ingenue da non problematizzare il proprio privilegio che le rende così distanti – quasi aliene – rispetto alle donne musulmane, nonostante la biologia e l’anatomia.
Dall’altra parte, le femministe islamiche non possono però chiederci di non vedere le crudeltà e la violenza inflitte nelle comunità islamiche nei confronti delle donne, delle minoranze religiose, o degli omosessuali. La laicità è un valore irrinunciabile per l’Europa, conquistato con grande fatica e molti sacrifici: non siamo perciò disposti a nessuna forma di indulgenza motivata su basi culturali o religiose verso quelle pratiche che limitino le libertà o il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge. Inoltre, le nostre amiche e sorelle islamiche devono avere il coraggio – molte già lo fanno a dire il vero – di aprire una discussione franca su questo con i loro uomini, sfidandone il potere se serve. Noi dobbiamo sostenerle, ma non possiamo e non dobbiamo sostituirci a loro.
Su questi basi si può aprire una vera discussione paritaria fra donne (e uomini) di diverse culture, religioni, classi sociali, che superi lo scontro di civiltà, gli stereotipi, le caricature, per regalarci un vero incontro fra civiltà, non basato sulla stucchevole retorica buonista che non porta da nessuna parte, ma su un mutuo riconoscimento della differenze all’interno di una più ampia politica delle identità.”

Gemma n° 381

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Ho appena passato tre mesi di studio in Francia, un’esperienza significativa che mi ha segnata sotto vari aspetti. Ho deciso di portare questa gemma perché è quello che sento veramente importante in questo momento.” Così A. (classe quarta) ha presentato la propria gemma, che è consistita in un montaggio video di alcune foto della sua esperienza.
La prima canzone scelta da A. come colonna sonora del video è stata “Buon viaggio” di Cesare Cremonini. “Coraggio, lasciare tutto indietro e andare, partire per ricominciare…”. Non avrei fatto la stessa scelta di A. durante il mio quarto anno di liceo; da un lato sarei stato un ufo in quegli anni (non si usava), dall’altro non sarebbe proprio stato nelle mie corde. Ma ho visto l’entusiasmo di A. al ritorno e ho letto la sua contentezza nelle mail inviate durante la sua esperienza in Francia… “per quanta strada ancora c’è da fare amerai il finale”.

Su Parigi 2

Pubblico in pdf ancora alcuni articoli che ho trovato navigando in rete in questi giorni: sono molto vari, spesso in contraddizione tra loro (basta vederne la provenienza). Il tutto per continuare ad alimentare e approfondire la discussione affrontata in classe.

Le colpe dell’Islam e le nostre – La Stampa
La globalità del nuovo islamismo – La Stampa
Io non sono Charlie – La Stampa
Pensiero critico per andare contro gli estremismi – La Stampa
La vera satira non può limitarsi – La Stampa
Ma c’è un confine che va rispettato La Stampa
Come evitare lo scontro di civiltà dopo la strage di Parigi -Limes
Ma Islam vuol dire pace _ Vito Mancuso
La deriva violenta della umma coranica nel mondo – Il Foglio
Un calcio all’estremismo – Il Sole 24 ORE
Ecco come Al-Qaeda ha addestrato e globalizzato la jihad dallo Yemen – Il Sole 24 ORE
Chi dà la colpa all’Islam aiuta i terroristi – L’Espresso
Io sono Charlie (e stupida). Ho sbagliato_ è scontro di civiltà – Il Giornale
Da al Qaida allo Stato Islamico, ovvero_ il jihad dall’élite al popolo – Limes

Su Parigi

Pubblico in pdf alcuni articoli che ho trovato navigando in rete stamattina, tenendomi ben lontano dalle dichiarazioni degli esponenti politici e dagli scontri di social network e talkshow.

Attacco di Parigi, colpita la libertà di espressione – Avvenire
Condanna senza remore dagli islamici moderati – Avvenire
Il cuore dell’occidente – Repubblica
L’anima e la ragione – Il Sole 24 ORE
Noi Europei – L’Espresso
Noi musulmani dobbiamo reagire – Corriere
Non siamo come loro, è la nostra forza – La Stampa
Quelle voci lasciate sole anche da noi
Un attacco allo stile di vita fondato sulla tolleranza – Il Sole 24 ORE
Appello Organizzazioni Musulmane francesi – Internazionale
Una Guerra ai nostri Valori – La Stampa

Gemme n° 28

FranciaLa gemma che ha portato questa mattina A. (classe terza) è una mail, “una cosa a cui tengo molto, la risposta di accettazione della mia richiesta di soggiorno-studio all’estero, in Francia: il prossimo anno, infatti, andrò là 3 mesi a studiare. Non è tantissimo ma è importante e ci saranno senz’altro delle difficoltà. Non dico di aver paura di essere dimenticata dagli amici, ma un po’ di essere sostituita (la mia migliore amica troverà un’altra spalla? Il mio moroso, sempre se ce l’avrò, mi aspetterà? La mia compagna di banco riempirà quel vuoto?). Penso sia vera la frase che dici che si piange quando si va e si piange quando si torna; i miei genitori mi hanno detto che basta che non pianga quando sono là. Poi ho scritto una cosa sulle scelte: siamo continuamente costretti a scegliere tra più alternative, tra bene e male, e chiedo al prof di leggerla per me sulle note di “Hall of fame”…

Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni ora ci troviamo davanti a decisioni da prendere, e ogni volta non sappiamo da che parte incominciare: ci domandiamo se agire d’ istinto, o ragionarci su; se sia meglio pensare di testa nostra o chiedere un consiglio; e se sia più opportuno riferirsi ai genitori che ci conoscono dal nostro primo istante di vita, ai nonni che sono “vecchi e saggi”, o agli amici che condividono i nostri interessi. Così finiamo spesso per lanciare una moneta, se non altro, per poter dare la colpa alla sorte e non a noi stessi in caso di insoddisfazione.
La nostra intera esistenza è continuamente condizionata da scelte.
A partire da quelle giornaliere “ Come mi vesto oggi?”, “Cosa mangio a colazione?”, “Vicino a chi mi siedo in autobus?”, “Mi offro in matematica?”, “Torno subito a casa o mi fermo in centro con gli amici?”, “In TV guardo Dottor House o Gossip Girl?”. E poi ci sono quelle scelte “grandi”, che ti condizionano la vita, come la scelta della scuola superiore, dell’ università, di un lavoro, di un marito, di una famiglia, di una casa.
Una volta ho letto che “ Avere la possibilità di scelta ci rende infelici e insoddisfatti: quando scegliamo una cosa ci sentiamo tristi perché pensiamo che stiamo rinunciando ad un’altra opportunità, e ciò ci rende insoddisfatti di quello che abbiamo scelto”, ed è vero, perché ottenere qualcosa per perderne un’ altra non potrà mai essere piacevole. Il segreto quindi rimane solo quello di capire cosa non si è disposti a perdere.
Prendere una decisione è sempre molto difficile, soprattutto per quanto riguarda le relazioni! Pensa, anche se può essere un esempio un po’ stupido, a quando la tua migliore amica non va d’ accordo con il tuo ragazzo: sei costretto a schierarti, per forza. Ed è orribile, soprattutto perché in ogni caso farai soffrire qualcuno, ma prima di tutti a soffrire sarai tu.
La maggiore difficoltà quando si tratta di una scelta, è data dal fatto che non sempre Amore e Ragione la pensano allo stesso modo; anzi: quasi mai. Provare a farli conciliare è come pretendere che un ghiacciolo non si sciolga nel deserto. Inoltre, le scelte più facili sono raramente quelle più giuste: sta a noi assumerci la responsabilità delle nostre decisioni.”

Riporto una frase di Bob Marley e la scena finale de “La leggenda del pianista sull’oceano” con lo splendido monologo finale di Novecento (dal libro “Novecento” di Alessandro Baricco): “Quando sei davanti a due decisioni, lancia in aria una moneta. Non perché farà la scelta giusta al posto tuo, ma perché, nell’esatto momento in cui essa è in aria, saprai improvvisamente in cosa stai sperando di più.” (Bob Marley)

L’Europa di Morin

Un’intervista molto agile presa da un blog del Corriere della Sera che si occupa di Francia. Ma si parla anche di Europa, di Mediterraneo, di Germania, di Mali. L’intervistato è Edgar Morin.

“A vent’anni Edgar Nahoum entrò nella Resistenza contro i nazisti e il regime di Vichy allora trionfanti, con il nome di battaglia di «Morin». Oggi che di anni ne ha 91, Edgar Morin esorta di nuovo alla lotta e ad avere il coraggio di perseguire l’improbabile: cioè, ai giorni nostri, battersi per una Europa unita. Con Mauro Ceruti, Morin ha scritto «La nostra Europa» (Raffaello Cortina Editore), un libro che ha l’ambizione di rispondere alle domande: «Cosa possiamo sperare? Cosa dobbiamo fare?». Nel suo studio di direttore di ricerca emerito del Cnrs a Parigi, il grande sociologo e filosofo della sinistra francese offre uno sguardo autorevole — e paradossalmente ottimista — sull’Europa di oggi.

Nel 1942 lei voleva sconfiggere Hitler. Oggi vuole una federazione europea. Stesso grado g1220978204_g1207957988_g1207594221_morin2.jpgdi improbabilità?

«Abbastanza. Ma tutta la storia umana ci indica che l’evoluzione accade quando gli eventi non seguono la traiettoria probabile. Il caso più clamoroso è quello della Grecia».

Cioè?

«L’impero persiano provò per due volte a schiacciare le piccole città greche, Atene in testa. Nella Prima guerra persiana gli ateniesi sconfissero l’esercito invasore a Maratona. E nella Seconda ci fu la sorpresa di Salamina, dove la flotta greca distrusse quella persiana. Chi l’avrebbe mai detto?».

L’improbabile ha prevalso anche nella Seconda guerra mondiale?

«Senza dubbio. Quando ho fatto la scelta di combattere nella Resistenza (nel 1942 Morin entrò come luogotenente nelle forze della Francia libera, ndr), i nazisti dominavano l’Europa ed erano sul punto di sconfiggere l’Urss. Niente indicava che potessero essere battuti. Fu una scommessa, per fortuna ci andò bene. Già l’Europa metanazionale del 1945 è figlia dell’improbabile».

Per questo lei e Ceruti avete scelto proprio questo momento per scrivere un libro europeista?

«Sono i giorni della crisi profonda ma, come diceva Hölderlin, “là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”. Bisogna credere in un nuovo, improbabile sussulto, perché le ragioni non mancano».

Non c’è leader europeo, a parte David Cameron, che a parole non sostenga la prospettiva di un’unione politica.

«I fatti non seguono perché nessuno ha il coraggio di accettare una cessione di sovranità a beneficio di tutti. Tutto è più difficile perché ci sono molte forze centrifughe. Guardate l’intervento in Mali, dove la Francia di fatto è sola a difendere interessi di tutta l’Europa».

Ma è proprio la Francia a essere accusata di frenare sull’integrazione politica. Berlino parla spesso di federazione, e Parigi non risponde.

«Angela Merkel evoca l’unione ma non vuole una politica di rilancio dell’economia. È la Francia a preoccuparsi di una politica economica comune, che non serva solo gli interessi di Berlino. L’impressione mia e di molti qui in Francia è che la Germania proponga un’unione ma a condizione di controllarla, perché nel frattempo la cancelliera Merkel impone ovunque il suo rigore».

L’avvento di Hollande all’Eliseo ha suscitato non poche speranze nell’Europa del Sud. Oggi quello slancio sembra essersi fermato, la Francia appare impegnata soprattutto ad affrontare i suoi notevoli problemi interni.

«Il rapporto della Francia con l’Europa del Sud è interessante e controverso. Negli anni Ottanta i premier socialisti di Portogallo, Spagna e Italia chiedevano al presidente Mitterrand di volgersi verso il Mediterraneo, di guardare di più a Sud. Lui a mio avviso non capì l’importanza di quella offerta di alleanza, era ossessionato dall’asse franco-tedesco, dal suo rapporto privilegiato con Helmut Kohl. Quello fu il primo errore».

E poi?

«Nicolas Sarkozy appena diventato presidente propose un’Unione del Mediterraneo. Un’idea priva di contenuto, davvero troppo campata per aria».

Perché per rinascere l’Europa deve guardare a Sud?

«Perché nel Mediterraneo stanno i problemi e le opportunità. A cominciare dal conflitto israelo-palestinese, sorta di cancro che estende le sue metastasi ovunque, che fortifica in Europa tutto quel che è antislamico e antiarabo e rafforza nei Paesi arabi i sentimenti contrari all’Occidente e alla civiltà giudaico-cristiana. Siamo davanti a un processo infernale, e senza svalutare ciò che è europeo, bisogna rigenerare quel che è mediterraneo».

Il Mediterraneo oggi è il luogo delle minacce, della guerra in Siria, delle Primavere arabe che sembrano tradire le speranze.

«Appunto, è qui che si gioca il futuro. Non parlo di misure concrete, ma il nostro ruolo è di rafforzare una sensibilità. Possiamo almeno provare a riportare in vita quel sentimento affettivo di una identità comune legata a un mare che mi piace definire “materno”».

Non è una visione sentimentale ma poco realistica?

«Al contrario. Anni fa ho scritto un testo che si intitolava appunto Togliere e ridare mito al Mediterraneo. Il nostro mare non è solo armonia, Apollo e Partenone; è un luogo di conflitti. Ma è comunque qui che sono nati i monoteismi e il pensiero laico. È il luogo di una costruzione storica inaudita».

Guardando a Sud, François Hollande ha mandato l’esercito francese in Mali. Lei è d’accordo con questo intervento?

«Sì, lo approvo. Anche se arriva troppo tardi e troppo presto. Tardi, perché si è lasciato che gli islamisti si impadronissero del Nord. Presto, perché gli alleati europei hanno seguito la Francia in modo solo simbolico, e anche perché adesso i tuareg e gli islamisti sono esposti alla vendetta dei maliani. È un’avventura storica e, come sempre in questi casi, i rischi sono molto alti, le conseguenze negative secondarie possono essere più importanti dei successi nel raggiungere gli obiettivi principali. Guardiamo la Libia: la decisione di intervenire era comprensibile, viste le minacce su Bengasi e considerato il regime di Gheddafi; ma adesso ci troviamo con un’enorme quantità di armi che sono finite ai jihadisti di tutta la regione, Mali compreso. Siamo nel vortice delle scommesse storiche, molto pericolose, è vero. Ma io penso che, a un certo punto, dei rischi vadano presi».

Prima delle elezioni presidenziali francesi lei ha firmato, con Michel Rocard e altri, il manifesto «Roosevelt 2012» per spronare la sinistra alle riforme, e ha sostenuto la candidatura di François Hollande. Che cosa pensa delle sue difficoltà attuali, tra tasse, fughe dei capitali all’estero e caso Depardieu?

«La Francia nemica dei ricchi, degli imprenditori e del mercato è un’immagine caricaturale, alimentata dall’opposizione sconfitta. Al contrario, molti a sinistra criticano Hollande perché non conduce una politica abbastanza di sinistra. Io non ero d’accordo con la tassa del 75%, perché la ritenevo inutile e controproducente: i ricchi possono benissimo evitarla espatriando. Soprattutto, Hollande non ha ancora fatto quel che ci aspettiamo da lui, una politica rooseveltiana basata sul rilancio delle energie rinnovabili e sull’ecologia intesa in senso largo. Invece l’energia e l’ecologia potrebbero essere il cuore della nuova integrazione europea».

È deluso da Hollande?

«No, lo critico ma ha un grande merito: Hollande ha combattuto e fermato il dogma politico del rigore che stava massacrando i greci e gli spagnoli. L’Europa può ripartire da qui».”

Quanti Islam?

Riporto due notizie che sembrano provenire da pianeti lontanissimi.

Da La Stampa

“Dopo diciannove ore consecutive di seduta, iniziata ieri a mezzogiorno e protrattasi per l’intera notte, l’Assemblea Costituente egiziana dominata dai Fratelli Musulmani e dai salafiti ha adottato la bozza della nuova Costituzione, che dovrebbe rimodellare le istituzioni del Paese in modo che riflettano i cambiamenti intervenuti nell’era post-Hosni Mubarak, grazie all’avvento anche nel Paese nord-africano della Primavera Araba: nell’annunciare l’approvazione dei 234 articoli del provvedimento il presidente dell’organismo, Hossam el-Ghiriani, ha precisato che è avvenuta all’unanimità, malgrado i lavori fossero stati boicottati dalle forze di opposizione laiche e liberali, oltre che dalla minoranza copta, soprattutto a causa del mantenimento della contestata norma in base alla quale la sharia, la legge coranica, costituisce la principale fonte giuridica.

corano.jpgOra il testo sarà trasmesso al neo-presidente della Repubblica, l’islamista Mohamed Morsi, affinché lo ratifichi entro domani. Il documento sarà poi sottoposto a referendum popolare confermativo nel giro di due settimane, vale a dire per la metà di dicembre. In proposito Morsi, intervenendo a tarda sera alla televisione nazionale, ha puntualizzato che i poteri quasi illimitati che lui stesso si era attribuito il 22 novembre con un contestatissimo decreto, non a caso definito ufficialmente “Dichiarazione Costituzionale”, sono legati esclusivamente a una «fase eccezionale», e che cesseranno di essere validi «non appena il popolo avrà votato sulla Costituzione», perché nell’Egitto contemporaneo «non c’è alcuno spazio per la dittatura»: con buona pace dei tanti che vedono invece nella mossa del capo dello Stato un ritorno all’autoritarismo di Mubarak. Quest’ultimo peraltro rimase al potere per quasi tre decenni, mentre la Costituzione testé approvata prevede un massimo di due mandati presidenziali ciascuno, per un totale di otto anni, oltre a imporre una serie di meccanismi di controllo sulle prerogative delle Forze Armate; sebbene, anche in tal caso, per i contestatori si tratti di misure più che altro di mera facciata.”

Da Le monde des religions

“«Le Coran ne fait aucune référence explicite à l’homosexualité» : c’est fort de cet argument que Ludovic-Mohamed Zahed, a décidé d’ouvrir, vendredi 30 novembre, une mosquée dite «inclusive» : les femmes, voilées ou non, ne seront pas séparées des hommes; des couples homosexuels pourront se marier religieusement… «Il s’agit d’ouvrir un lieu de culte où tou-tes seraient accueilli-es comme des frères et des sœurs humains avant tout, quels que soient leur sexe, leur identité de genre ou leur ethnicité», écrit-t-il sur LeNouvelObs.com.

Selon lui, le mot arabe qui désigne l’époux ou l’épouse dans le Coran, «zawjan», est n’est ni féminin ni masculin, deux hommes ou deux femmes pourraient donc se marier. D’ailleurs, les musulmans ne considèreraient pas le mariage comme un sacrement, comme les catholique, mais simplement «un contrat social entre deux individus consentants, devant deux témoins au moins, célébré en communauté», celles et ceux qui les reconnaissent en tant que couple. Enfin, tranche le jeune homme, «l’interprétation univoque et dogmatique de certains versets du Coran [qui légitimeraient l’homophobie et la misogynie] ne fait plus l’unanimité.»

Cette argumentation peut sembler partiale voire inexacte: de nombreux hadiths — des paroles attribuées au prophète Mahomet — paraissent condamner l’homosexualité; le Coran comporte un récit analogue au mythe de Sodome et Gomorrhe, etc… Mais pour l’imam de Bordeaux, Tareq Oubroux, nulle interprétation ne fait autorité. «Aucun texte univoque, authentique, ne fait mention d’une quelconque sanction contre les homosexuels, affirme-t-il avant de nuancer. Éthiquement parlant, le Coran n’admet pas l’homosexualité. Mais le passage de cette condamnation morale à une condamnation juridique n’existe pas.»

Quoi qu’il en soit, l’islam sunnite ne reconnaissant aucun clergé, Ludovic-Mohamed Zahed peut tout à fait ouvrir une mosquée sans l’aval du Conseil français du culte musulman ou d’un autre autorité. Des établissements similaires existent d’ailleurs aux Etats-Unis ou au Canada. La semaine dernière, selon le quotidien Métro, une imam de la mosquée de Los Angeles, Ani Zonneveld, devait à Paris pour célébrer le mariage de deux femmes — «deux Françaises de confession musulmane», précisait Ludovic-Mohamed Zahed. Cette union était organisée à l’initiative de la Confederation of Associations LGBT, European or Muslims (Calem) qui regroupe des musulmans du monde entier.”

La Francia ferma le proteste

Altro articolo interessante preso da Il sussidiario.

“Mentre nel resto del mondo le proteste per il film Innocence of Muslims pian piano sembrano placarsi,drapeau-france.jpg in Francia un’iniziativa del premier Jean-Marc Ayrault rischia di rinfocolare la tensione. E’ stato disposto il divieto, infatti, di protestare, a Parigi, contro il film ritenuto dai fedeli islamici blasfemo. «È stata presentata una richiesta di manifestazione, ma sarà seguita da un divieto», ha dichiarato Ayrault, facendo presente che la Repubblica non alcuna intenzione di lasciarsi intimidire. Così, mentre il settimanale satirico francese Charlie Hebdo ha pubblicato oggi diverse vignette su Maometto e per precauzione, venerdì, saranno chiuse decine di scuole e ambasciate in una ventina di paesi islamici, Ayrault ha ribadito che in Francia è «garantita la libertà d’espressione, compresa la libertà di satira». Chi si sente offeso dal film o dalle vignette, ha concluso, potrà rivolgersi ai tribunali. Khaled Fouad Allam, islamologo e profondo conoscitore dei recenti fenomeni relativi al mondo musulmano (ha appena pubblicato Avere vent’anni a Tunisi e al Cairo. Letture delle rivolte arabe, Marsilio), ci spiega come interpretare la decisione francese.

Che idea si è fatto, anzitutto, della vicenda legata al film e alle successive sommosse?

Da una parte, non possiamo non registrare come il film rappresenti un’offesa per popoli musulmani e per l’Islam, che reputano Maometto persona sacra e inviolabile; d’altro canto, le manifestazioni non sono nient’altro che il frutto di una strategia politica di alcuni movimenti e gruppi radicali che, nel contesto delle primavere arabe, cercano di sfruttare l’occasione per esacerbare i rapporti tra le parti. E’ la prima volta, del resto, che i gruppi in causa si trovano al potere. E sono costretti a confrontarsi con la democrazia, con minoranze, diritti, e diverse religioni.

Chi, in particolare, trae vantaggio dalla situazione?

Siamo in una fase di incognite rispetto al futuro dei Paesi islamici che devono decidere la forma di governo e le istituzioni che assumeranno nei prossimi anni; in un tale scenario di incertezza, i salafiti cercano di creare scompiglio per contare, nel futuro delle società islamiche, il più possibile.

Che impressione le suscita la decisione della Francia?

Forse, sarebbe l’ora che si iniziasse a distinguere, a livello concettuale, la sana laicità dall’esasperazione degli effetti della secolarizzazione. D’altro canto, è pur vero che la Francia moderna si è costituita contro la sua stessa identità religiosa. Sta di fatto che Parigi, fino a pochi decenni fa una delle “capitali” del mondo arabo in occidente, non è più in grado di governare il rapporto tra identità e religione dei suoi abitanti, perché intrappolata in una visione ideologica del concetto di laicità tipicamente francese; tale visione afferma, in sostanza, che la religione deve essere relegata unicamente nella sfera privata. Ovvero, a casa propria. Se questo concetto, di per sé sbagliato, era tuttavia sostenibile a livello pratico fino a trent’anni fa, oggi non lo è più.

Perché?

Il mondo è cambiato, e sotto impulso della globalizzazione la Francia ha al suo interno diverse popolazioni che, ormai, fanno integralmente parte del Paese. Ci sono milioni di persone con la cittadinanza francese che si professano islamici, ma anche buddisti, animisti, indù e via dicendo.

Tornando alla manifestazione: cosa si sarebbe dovuto fare?

La satira è nata nel periodo della Rivoluzione francese, proprio in Francia, dove nessuno mette in discussione la libertà d’espressione. I suoi contenuti possono rattristare un’intera popolazione, ma questo fa parte della stessa democrazia. Ora, se viene accettato un tale principio, coerenza vorrebbe che si accettasse anche il risvolto della medaglia. Che si consentisse, cioè, a chi è contrario, di poter manifestare il proprio pensiero.

Quindi?

Si doveva permettere a chi voleva protestare di farlo. Ovviamente, mettendo in piedi le dovute misure di sicurezza, e consentendo di manifestare unicamente a chi intendeva farlo pacificamente. Vietare la manifestazione, oltretutto, fa il gioco dei salafiti; consente loro di giustificare, in seno alla comunità islamica, l’odio contro l’occidente. Questi episodi, infine, creano sacche di emarginazione e incomunicabilità dentro la nazione.”

Satira o blasfemia?

Nel triennio stiamo approfondendo quello che sta succedendo in questi giorni nel mondo islamico. Ecco un articolo su quanto ho segnalato stamattina in alcune classi, magari per riflettere insieme se possa o debba esserci un limite tra umorismo, satira e blasfemia, se tale limite possa essere uguale o diverso a seconda delle religioni, se ci debba essere un rapporto tra laicità dello stato e rispetto delle religioni o, più largamente, delle opinioni, ecc ecc

islam,vignette,proteste,maometto,francia“Mentre ancora il mondo islamico è in subbuglio per il film che attaccava la figura del Profeta Maometto, la situazione potrebbe tornare a incendiarsi. Il settimanale satirico francese Charlie Hebdo infatti ha pubblicato alcune vignette satiriche con soggetto proprio Maometto. Non è la prima volta che succede e anche allora ci furono proteste. Questa volta è intervenuto però anche il primo ministro francese chiedendo a tutti, con riferimento al giornale, senso di responsabilità nell’evitare di provocare i credenti di fede islamica. La replica del direttore del giornale è stata esplicita: le vignette sconvolgeranno solo chi vuole farsi sconvolgere, ha detto. Intanto il sito web della rivista è offline, oscurato da questa mattina all’alba. Si pensa a un attacco da parte di hacker islamici: la polizia francese è stata messa a difesa della sede del giornale che in passato per un episodio analogo fu attaccata e data alle fiamme da estremisti islamici. E’ intervenuto anche l’imam della moschea più importante di Parigi per chiedere ai musulmani di non reagire e di comportarsi in modo sensato, allo stesso tempo si è dichiarato stupito e intristito per quanto pubblicato dal giornale: “Questa pubblicazione rischia di aumentare l’oltraggio percepito nel mondo musulmano, dopo il caso del film islamofobo realizzato negli Usa, ma io mi appello affinché i fedeli non versino benzina sul fuoco” ha detto. Intervento anche del presidente del Consiglio francese di culto musulmano dicendo che la pubblicazione di queste vignette sono un insulto nei confronti del profeta dell’Islam (si vede ritratto in atteggiamenti sessualmente espliciti): condanna per un nuovo atto islamofobico, ma allo stesso tempo ha chiesto ai musulmani francesi di non cedere a quella che ha definito una provocazione. Proprio ieri Al Qaeda ha invitato gli islamici di tutto il mondo a riprendere gli attacchi contro le ambasciate occidentali, che la settimana scorsa hanno causato diversi morti tra cui l’ambasciatore americano in Libia. Folle di migliaia di persone hanno scatenato attacchi dalla Tunisia all’Indonesia.”