In alcune classi, talvolta, faccio un gioco che si chiama testa, cuore e mano. Lo utilizzo per cercare di comprendere che l’intelligenza di una persona può essere molteplice e avere molti luoghi di residenza, e che ciascuno di noi può coltivare molti talenti e che alla domanda “dimmi un po’, tu cosa sei capace di fare?” ci sono tante belle risposte da poter dare e che “so ascoltare”, “so amare”, “so ricamare”, “so zappare”, “so costruire ponti”, “so insegnare”, “so leggere” ecc ecc sono risposte bellissime. Ecco, ogni volta che faccio quel gioco mi vieni in mente Pierluigi. Mi viene in mente la testa: quando ancora andavo al Liceo a inizi anni ‘90 e a bordo di una sgangherata auto, in compagnia di altri amici, raggiungevo Zugliano per ascoltare persone che arrivavano da tutto il mondo e il convegno non era ancora il convegno che è diventato poi (penso la prima volta in vita mia in cui abbia sentito ‘benvenuta e benvenuto a ciascuna e ciascuno di voi’, un doppio saluto che suonava strano allora). Mi viene in mente il cuore: quello capace di generare forza e durezza con i potenti (coloro che hanno in mano le leve), sensibilità e ascolto con il mio cuore addolorato di una grigia domenica mattina dopo messa nella tua sacrestia. Mi viene in mente la mano: quella capace di creare un luogo di accoglienza, di relazioni, di impegno. Ti sono profondamente debitore don Pierluigi e, nel dolore, ho il cuore colmo di gioia per tutte le esperienze che mi hai fatto vivere e le persone che mi hai fatto conoscere, per quanto mi hai fatto crescere, per la speranza che sempre ti ha animato e che spinge chiunque abbia incrociato il tuo cammino a continuare l’impegno per l’accoglienza, la giustizia e la pace. Mandi Pierluigi
È più di un mese e mezzo che non aggiorno il blog. Mi sono preso una pausa in occasione della settimana santa e del periodo pasquale, mi sono tuffato in impegni di lavoro e in relazioni amicali e famigliari, sono stato a Rimini a un convegno della Erickson sugli adolescenti, ho concluso un corso di friulano (volevo imparare a scriverlo correttamente), sono stato a Roma per una formazione di due giorni organizzata da Libera sulla violenza di genere, e tante altre cose che non sto qui a scrivere.
Ma oggi, anche se adesso la mezzanotte è passata, ci tenevo a scrivere qualcosa. Quest’anno nelle classi quarte abbiamo lavorato sul tema della Mafia e sull’importanza di fare memoria, di condividere memorie. Studentesse e studenti hanno “adottato” una vittima innocente di mafia e hanno provato a raccontarne la storia in prima persona. E poi l’hanno letta in classe. Storie di donne, di bambini, di ragazze, di poliziotti, di giornalisti, di passanti, di carabinieri, di famigliari, di testimoni… Ci siamo emozionati.
Per non far torto a nessuno, però, qui voglio pubblicare parte del lavoro di una scuola lontana dalla nostra realtà, ma molto vicina a quella dei fatti del 23 maggio 1992: il lavoro della Classe III B dell”Istituto Comprensivo “G. Marconi” di Palermo, che ho letto qui. Con la storia di una donna desidero fare memoria anche di Antonio, Giovanni, Rocco e Vito.
Francesca Morvillo. 17:58 Francesca Morvillo; abbiamo parlato di questa donna a scuola oggi. Era la moglie di Giovanni Falcone, l’hanno descritta come una donna coraggiosa, intelligente, insomma una donna che ha lasciato il segno. Ma io fino a ora non ne avevo mai sentito parlare. Sapevo che Falcone aveva una moglie, ma non sapevo chi fosse, come si chiamasse, che aspetto avesse. Finalmente la campanella suonò, e noi ritornammo a casa. Il pranzo fu silenzioso come non mai. Mia madre non mi chiese niente su com’era andata la scuola e nessuno parlava. O forse ero io che non ascoltavo. I miei pensieri erano rivolti solo a Francesca. Finito di pranzare, decisi di fare subito il compito che ci avevano assegnato su di lei. Presi un foglio dal quaderno e cercai di buttare giù qualche idea, ma niente! Passai una mezz’ora davanti a quel foglio bianco a girarmi la penna tra le mani. Niente. La mia mente era vuota. -Intanto quando è nata? – mi chiesi. -14 dicembre 1945. – mi rispose una voce. Mi girai verso la porta, credendo fosse mia madre. Non c’era nessuno. Feci spallucce e riportai lo sguardo al foglio. -E poi è morta nel? – mi chiesi di nuovo ad alta voce. -23 maggio 1992. – Mi girai di nuovo verso la porta, ma non trovai nessuno. C’ero solo io. -D’accordo deliro. È quello che succede quando vai troppo a scuola. – cercai di sdrammatizzare per poi rimettermi a scrivere. Poi riguardai il testo, leggendolo ad alta voce. -“Francesca Morvillo, nata il 14 dicembre 1945 e morta il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci, era la moglie di Giovanni Falcone.” E adesso… credo basti. – mi dissi fra me e me, così feci per posare la penna, ma sentii la stessa voce di prima ridere. -Lo sai che Francesca Morvillo non era solo “la moglie di Falcone”? – mi disse. Rimasi pietrificata. -Troppo studio, sto impazzendo. – la voce rise di nuovo. Era una risata dolce, cristallina. -Tu sai chi è Francesca Morvillo? – mi chiese. Annuii. -La moglie di Falcone? – risposi. -E poi? – il silenzio. La voce rise di nuovo. -Beh, intanto era una donna, un magistrato, una moglie, una vittima della mafia ed ero io.- ero nel bel mezzo di una crisi di nervi. Mi girai di nuovo verso la porta, ma non trovai nessuno. Guardando verso il letto invece trovai una donna, una meravigliosa donna dai capelli biondi e corti, vestita con una giacca color avorio e dei pantaloni larghi dello stesso colore, seduta comodamente sul mio letto. -Vedo cose. Magari dormire quattro ore stanotte non è stata una buona idea… – la donna rise di nuovo. Cercai di non dare troppo peso a quella strana presenza e decisi di fare qualche ricerca fotografica su internet. Guardai un pò di foto di Francesca e poi mi venne un flash. Guardai la foto, poi la donna seduta sul mio letto, poi di nuovo la foto, poi ancora la donna. Continuai così finché non m iniziò a girare la testa. -Sono confusa. – la donna, dopo un istante di silenzio mi sorrise. -E comunque la mia tesina si chiamava “Stato di diritto e misure di sicurezza”. – mi disse, come se mi avesse letto nel pensiero. -Si grazie. Era proprio quello che mi serviva. – dissi, scrivendo la nuova informazione sul foglio davanti a me, le quali righe stavano iniziando a riempirsi. -Francesca Morvillo che lavori ha fatto? – mi chiesi in mente per non farmi sentire da quella donna. -Sono stata Giudice del Tribunale di Agrigento, sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale per minorenni di Palermo, Consigliere di Corte d’Appello di Palermo e parte della Commissione per il concorso d’accesso alla Magistratura. – mi rispose la donna, o meglio Francesca, sorridendo. -… Non ho capito niente ma ok, ha fatto tanti lavori. – mi stupii di me stessa per aver parlato con una figura creata dalla mia testa. -Ma non sei – cioè non è stata anche insegnante? – lei ci pensò un attimo. -Si, facoltà di Medicina e Chirurgia dell’ateneo palermitano. Ero insegnante di legislativa nella scuola di specializzazione in Pediatria. E ti prego dammi del “tu” non sopporto più il “lei”. – rispose. -In quanto a Falcone, vi sposaste nel? – non ci pensò un attimo che subito mi rispose. -Maggio 1986, ci sposammo in privato. C’erano solo i testimoni e il sindaco. Mi ricordo ancora tutto in ogni minimo dettaglio.- le si illuminarono gli occhi mentre parlava di tutto quello che era accaduto al matrimonio. Mi raccontò anche del sindaco Orlando, che aveva celebrato le nozze. La pagina piano piano si riempiva sempre di più. -Tu avresti voluto avere un bambino? – le chiesi. Lei abbassò lo sguardo. -Io avrei voluto, ma sapevo che non potevamo. Eravamo troppo impegnati nel nostro lavoro. E poi Giovanni lo diceva “non voglio orfani” perché lui lo sapeva che alla fine si sarebbero liberati di lui. Anzi, di noi. – mi spiegò. Era un tasto dolente, lo capivo. -Com’era la vita sotto scorta? – le chiesi. Si fermò un attimo per pensare. -Orribile. L’unica parola che mi viene in mente, ma era necessario per la nostra sicurezza. Ci siamo persi tante cose della vita, la nostra non era mica una vita come quella di tutti gli altri. Non potevamo andare in luoghi pubblici, tranne il posto di lavoro. Dovevamo sempre spostarci in auto blindate e a prova di proiettile, non potevamo andare al ristorante o a fare una passeggiata sulla spiaggia di Mondello, in piazza, o semplicemente per le vie delle strade per incontrare amici. Non posso dire di avere avuto altri amici oltre la mia famiglia, ma Giovanni… lui aveva Paolo. – sembrava volesse dire altro, ma era come se le parole le rimanessero intrappolate in gola. Rimasi in silenzio per un pò, poi presi fiato. -Francesca, perché non sei scappata? Intendo, sapevi che era molto pericoloso continuare a stare con Giovanni, ma non sei andata via. Eppure lui te lo diceva “vai via, scappa, salvati” ma tu non l’hai ascoltato e a Capaci… – mi fermai. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, il sorriso che aveva tenuto per tutta la conversazione era svanito, lasciando il posto a un flebile e malinconico sorrisetto. -Io ero consapevole dei gravissimi pericoli a cui Giovanni andava incontro, a cui entrambi andavamo incontro, ma non l’avrei lasciato mai da solo. Ho scelto di stare con lui, di sposarlo, di aiutarlo e incoraggiarlo sempre perché lo amavo e sapevo che ne aveva bisogno. E ho deciso io che se fosse morto, sarei morta con lui. In fondo “finché morte non vi separi” giusto? – annuii. Le parole di Francesca erano molto profonde, mi sentii quasi bloccata. -Francesca… cosa è successo esattamente nel ritorno da Roma a Capaci. Era la A29 Palermo – Trapani giusto? E su questo sito dice che “alle ore 17:58, Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 1000 kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada” è così che è successo? E dice anche che “la prima auto, la Croma marrone, fu investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo. La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza.” E senti questo “Francesca Morvillo, ancora viva dopo l’esplosione, viene trasportata prima all’ospedale Cervello e poi trasferita al Civico, nel reparto di neurochirurgia, dove però muore intorno alle 23 a causa delle gravi lesioni interne riportate.” Quindi è questo che è successo? – Quando incontrai il suo sguardo, mi resi conto di quello che avevo detto e me ne pentii. La sua espressione era seria, o per meglio dire vuota. Feci per scusarmi ma lei mi precedette. -Si è successo proprio quello. Non mi ricordo molto del momento in cui la strada saltò in aria, i miei ricordi sono sfocati. Ricordo solo di avere avuto Giovanni accanto, poi un leggero sibilo e all’improvviso un potente tuono e un forte mal di testa. Dopo di quello non ho più sentito niente. Girava tutto, mi fischiavano le orecchie e vedevo sfocato… poi non sentii più niente. Era come fossi…morta. Ma non fu così; dopo non so neanche io quanto iniziai a sentire delle voci, c’erano persone accanto a me, ne sentivo la presenza. Parlavano di Capaci e di Giovanni. “è morto il Giudice” dicevano. Era morto. Giovanni era morto. Erano morti tutti, li avevano uccisi tutti. Ce l’avevano fatta. Ci avevano eliminati. Quella stessa notte alle 23. – il silenzio. Scrissi le ultime parole. -E poi? Alle 23 sei… hai capito no? Francesca? – nessuna risposta. Forse avevo detto troppo. Mi girai verso il letto. Vuoto. Non c’era nessuno, era come sparita nel nulla così com’era arrivata. Guardai l’orologio; 17:58. Sospirai, un pò delusa, ma contenta di avere almeno potuto parlare con una donna come lei. Me ne sentivo quasi orgogliosa, anche se sapevo non avrei potuto parlarne con nessuno, o mi avrebbero preso per pazza. -Merenda! – chiamò mia madre dalla cucina. Mi alzai posando la penna sulla scrivania e mettendo il foglio ormai pieno al sicuro in un raccoglitore. -Grazie Francesca. – mormorai. Francesca Morvillo. Una donna con i fiocchi e i controfiocchi.
Meno di tre settimane fa inviavo alle mie classi più grandi (quarte e quinte) l’intervista del giornalista friulano Giovanni Taormina all’ex-reggente ‘ndranghetista Luigi Bonaventura. Questa mattina, all’ingresso della sede Rai di Udine, gli è stata recapitata una busta con due proiettili all’interno. Se ci fosse bisogno di un ulteriore segnale che la mafia è presente anche qui…
Riprendo la notizia con cui Amnesty presenta il rapporto sulla pena di morte nel mondo per il 2018.
“Nel nostro rapporto globale sulla pena di morte registriamo, per il 2018, un dato positivo: l’anno appena passato è stato quello con il più basso numero di esecuzioni in almeno un decennio, con una diminuzione globale di quasi un terzo rispetto all’anno precedente. Il rapporto prende in esame le esecuzioni in tutto il mondo con l’eccezione della Cina, dove si ritiene siano state migliaia ma il dato rimane un segreto di stato. “La drastica diminuzione delle esecuzioni dimostra che persino gli stati più riluttanti stanno iniziando a cambiare idea e a rendersi conto che la pena di morte non è la risposta”, ha dichiarato Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International.
PENA DI MORTE 2018: UNA BUONA NOTIZIA Complessivamente i dati del 2018 mostrano che la pena di morte è stabilmente in declino e che in varie parti del mondo vengono prese iniziative per porre fine a questa punizione crudele e inumana. Ad esempio, a giugno il Burkina Faso ha adottato un nuovo codice penale abolizionista. Rispettivamente a febbraio e a luglio, Gambia e Malaysia hanno annunciato una moratoria ufficiale sulle esecuzioni. Negli Usa, a ottobre, la legge sulla pena di morte dello stato di Washington è stata dichiarata incostituzionale. A dicembre, nel corso dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 121 stati (un numero senza precedenti) hanno votato a favore di una moratoria globale sulla pena di morte, cui si sono opposti solo 35 stati. “Lentamente ma stabilmente, assistiamo alla crescita di un consenso globale verso la fine dell’uso della pena di morte. La campagna mondiale di Amnesty International per fermare le esecuzioni va avanti da oltre 40 anni, ma con più di 19.000 detenuti nei bracci della morte la battaglia è lungi dall’essere finita”, ha sottolineato Naidoo “Nonostante passi indietro da parte di alcuni stati, il numero delle esecuzioni portate a termine da parecchi dei più accaniti utilizzatori della pena di morte è significativamente diminuito. Si tratta di un’auspicabile indizio che sarà solo questione di tempo e poi questa crudele punizione sarà consegnata alla storia, dove deve appartenere”, ha commentato Naidoo.
PENA DI MORTE 2018: GLI STATI DOVE SONO AUMENTATE LE ESECUZIONI Nel nostro rapporto, però, non vi sono solo buone notizie. Le esecuzioni sono aumentate in Bielorussia, Giappone, Singapore, Sud Sudan e Usa. La Thailandia ha eseguito la prima condanna a morte dal 2009 mentre il presidente dello Sri Lanka ha annunciato la ripresa delle esecuzioni dopo oltre 40 anni, pubblicando un bando per l’assunzione dei boia. “Le notizie positive del 2018 sono state rovinate da un piccolo numero di stati che è vergognosamente determinato ad andare controcorrente”, ha sottolineato Naidoo. “Giappone, Singapore e Sud Sudan hanno fatto registrare un livello di esecuzioni che non si vedeva da anni e la Thailandia ha ripreso a eseguire condanne a morte dopo quasi un decennio. Ma questi stati ora costituiscono una minoranza in calo. A tutti gli stati che ancora ricorrono alla pena di morte, lancio la sfida: siate coraggiosi e poniate fine a questa abominevole sanzione”, ha proseguito Naidoo.
PENA DI MORTE 2018: IL CASO NOURA HUSSEIN Noura Hussein è una giovane sudanese condannata a morte nel maggio 2018 per aver ucciso l’uomo che era stata costretta a sposare mentre cercava di stuprarla. Dopo uno scandalo mondiale, grazie anche a una nostra campagna, la condanna è stata commutata in cinque anni di carcere. “Fu uno shock assoluto quando il giudice mi disse che ero stata condannata a morte. Non avevo fatto nulla per meritare di morire. Non potevo credere a che livello d’ingiustizia fossimo arrivati, soprattutto contro le donne. Non avevo mai pensato di poter essere messa a morte fino a quel momento. La prima cosa cui pensai fu ‘Cosa provano le persone quando vengono messe a morte? Cosa fanno?’. La mia vicenda era decisamente drammatica in quel momento, la mia famiglia mi aveva ripudiato. Affrontavo quello shock completamente da sola”, ha raccontato Noura Hussein ad Amnesty International.
PENA DI MORTE 2018: LA VERGOGNA DI IRAQ ED EGITTO Siamo preoccupati per il notevole aumento delle condanne a morte emesse in alcuni stati nel corso del 2018. In Iraq il numero è quadruplicato da almeno 65 nel 2017 ad almeno 271 nel 2018. In Egitto il totale è cresciuto di oltre il 75 per cento, da almeno 402 nel 2017 ad almeno 717 nel 2018, a causa dell’attitudine delle autorità egiziane di emettere condanne a morte in massa al termine di processi gravemente iniqui, basati su “confessioni” estorte con la tortura e nel corso di interrogatori di polizia irregolari.
Pubblico quello che sono riuscito a ricavare dalla registrazione dell’intervento di Ciro Troiano lo scorso febbraio a Trieste. L’audio non era buono e l’ultima parte dell’intervento non sono riuscito a decifrarla… Ciro Troiano è criminologo, responsabile dell’Osservatorio Nazionale Zoomafia della LAV. Ogni anno redige un rapporto sulle zoomafie. Qui la presentazione del Rapporto 2018.
Rapporto zoomafia 2018
“Una piccola premessa: la cultura della criminalità organizzata la si vive anche nelle piccole cose, sulle parole dette e non dette, sull’esserci ma non il mostrarsi, sul far capire chi è ma non dirlo. Io mi occupo di animali da circa 30 anni e ora proverò a fare una breve descrizione della presenza degli animali nella cultura mafiosa. La prima funzione è una funzione economica: stiamo parlando di associazioni per delinquere che hanno il loro motore principale nei soldi. La mafia nasce nelle campagne, controllava i pascoli, la macellazione clandestina, i campieri. Alcuni studiosi individuano nel controllo del mercato della carne e del bestiame uno degli introiti con cui Cosa Nostra è passata a Palermo. Si aggiungano poi le scommesse clandestine e i traffici internazionali di animali (spesso accompagnati da traffici di stupefacenti). C’è poi una funzione simbolica: questa gente è gente di nulla, non ha storia, non ha passato, non ha dignità e ha bisogno di crearsi delle vere e proprie mitologie personali. Il camorrista Raffaele Brancaccio, soprannominato Bambù, a Napoli, si circondava di leoni, di pantere che rappresentavano le virtù di bellezza, potenza, forza che lui non aveva e non poteva avere. Altrove ci sono altre simbologie: nel veneziano c’è la Madonna del pescatore di frodo. Una funzione di controllo sociale: le corse clandestine di cavalli si fanno in territori dove bloccano le strade (addirittura a Napoli si facevano a 150 metri in linea d’aria dalla Procura della Repubblica, il sabato pomeriggio sempre alla stessa ora), i combattimenti fra cani si fanno su una spiaggia con centinaia di persone. Chi è che comanda in quell’immagine che si forma nella mente delle persone? La Procura? Le forze dell’ordine? La democrazia? Il controllo sociale non lo impongo sempre con la forza o con le bombe, ma attirando le simpatie della gente. Chi partecipa e assiste a tutto questo, sa di partecipare in toto a un evento delittuoso? Non sa che con la sua presenza rafforza l’intento criminale? C’è poi una funzione pedagogica: ragazzini, spesso neppure imputabili vista l’età, vengono coinvolti nell’allevamento di cani da combattimento o mantenimento di cavalli da corsa.
Venendo al nord-est dobbiamo focalizzarci sul traffico di cuccioli: è una zona di passaggio, c’è la frontiera. C’è anche traffico di fauna selvatica, esotica, di cani da combattimento, di animali da allevamento, scommesse clandestine… Del traffico di cuccioli si trova traccia anche nel rapporto della Dia. Perché? Si tratta di un traffico che ogni settimana fa arrivare dall’ex Yugoslavia e dell’Ungheria circa 2.000 cuccioli. La stragrande maggioranza trova collocamento in Italia, altri proseguono verso la Francia e la Spagna. Il giro d’affari è enorme: dipende sempre dalle razze, ma si calcola che un cucciolo di cane viene acquistato in Ungheria, Slovacchia o Slovenia a 20 €, massimo 30 €, chi lo compra in Italia lo paga 800-900-1200 €. Abbiamo trovato assegni di 50.000-60.000 €. Dal 2001 esiste una legge che prevede il delitto di traffico internazionale di animali e ci sono associazioni a cui si può applicare il 416bis: è successo, ad esempio, a Tolmezzo. Sono associazioni che hanno la capacità di creare forti legami con pubblici ufficiali: nei paesi di origine sono i veterinari che rilasciano false dichiarazioni e certificazioni sulla nascita, qui i veterinari pubblici o privati che svolgono attività di certificazione sull’età degli animali e che fanno un falso documentale. […] E’ chiaro che una macchina che con 20 cuccioli vale 20.000 € attira le attenzioni delle forze dell’ordine. Sul combattimento tra cani c’è stata un’inchiesta della Procura di Venezia. Nei primi anni 2000 c’era stato a Gorizia il sequestro di un allevamento di cani da combattimento: una delle persone coinvolte era un certo Giugliano, denunciato per maltrattamento di animali. Che ci faceva a Gorizia? […] C’è stato poi il caso delle bande di pescatori abusivi che lavoravano con strumenti che devastavano il fondo e lo facevano in zone inquinate, mettendo in commercio quintali e quintali di vongole inquinate. Vendevano soprattutto a Reggio Calabria, Bari e Napoli. Ed erano malavitosi incalliti, capaci di inseguimento sui barchini, speronamenti con la Guardia di Finanza, pestaggi di pubblici ufficiali, rapimento di un guardiapesca. E avevano delle strutture, mezzi, legami con la pubblica amministrazione, usavano violenza: insomma era criminalità organizzata. […]”
25 anni fa la Camorra uccise don Peppe Diana . “Nel 1991, il giorno di Natale, don Peppe Diana aveva diffuso uno scritto, letto in tutte le chiese della zona, intitolato “Per amore del mio popolo”. Era un manifesto che annunciava, a voce alta, l’impegno contro la criminalità organizzata, definita una forma di terrorismo che provava a diventare componente endemica della società. Parole ed impegno che gli sono costati cari. Il 19 marzo del 1994, giorno anche suo onomastico, Don Peppe Diana venne freddato nella sacrestia della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, mentre stava per celebrare la messa. Il parroco morì all’istante, colpito da cinque proiettili: due alla testa, uno al volto, uno alla mano e uno al collo” (da Rainews24).
Con queste parole lo ricorda don Luigi Ciotti: “25 anni. Non c’è stato un giorno, in questo quarto di secolo, in cui non abbiamo sentito la presenza di don Peppe Diana attraverso l’impegno di chi, con tenacia e spesso coraggio – essendo un impegno, ahinoi, ancora troppo controcorrente – cerca non solo di “seguire” il Vangelo ma di viverlo, di tradurlo in scelte, atti e comportamenti, dentro e fuori dalla Chiesa. Ma se c’è stato un giorno in cui don Diana lo abbiamo sentito non solo presente, ma vivo, è stato il 21 marzo del 2014 nella Chiesa di San Gregorio a Roma, alla vigilia della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si svolse quell’anno a Latina. Quel giorno, a San Gregorio, Papa Francesco incontrò un migliaio di famigliari delle vittime, tra cui quelli di don Diana e don Pino Puglisi. E al momento della benedizione, appoggiai con commozione sulle spalle del Papa la stola di don Peppe. Francesco parlò ai famigliari con grande trasporto, ringraziandoli per la loro quotidiana testimonianza, per la scelta difficile di non chiudersi ma di trasformare vuoti tanto strazianti in impegno per la giustizia. E poi si rivolse a quelli che definì i “grandi assenti”, gli uomini e le donne della mafia, esortandoli “in ginocchio”, a una conversione: il potere e il denaro che accumulate è sporco di sangue, sottolineò, e non potrete portarlo nell’altra vita. Don Peppe quel giorno era vivo nelle parole e nello slancio di un Papa che incarnava la Chiesa che Peppe aveva sognato e per la quale aveva messo in gioco la sua vita, una Chiesa che non si limita appunto a predicare il Vangelo ma lo vive, facendone un concreto strumento di liberazione e di giustizia a partire da questa Terra. Ecco perché oggi, a 25 anni dal suo assassinio, è essenziale non limitarsi a ricordare: bisogna fare del ricordo un pungolo di coscienza, una memoria viva. E un grande stimolo ci viene, in questo frangente in cui la sacra parola “popolo” rischia di diventare un concetto ambiguo, strumentale, una foglia di fico alla sete di potere dei “populisti”, proprio il documento “Per amore del mio popolo non tacerò”, che don Peppe scrisse e pubblicò insieme ai sacerdoti della Foranìa di Casal di Principe nel Natale del 1991, pochi mesi prima delle stragi di mafia, di quella storia di immane violenza che la mattina del 19 marzo 1994 uccise il corpo ma non lo spirito di quel giovane, scomodo prete che si apprestava a celebrare la Messa. Colpisce, di quel testo, la profezia e la profondità di sguardo. Don Peppe non si limita a denunciare il male, ma ne mette in luce il legame con un più generale vuoto di coscienza e di civiltà. C’è la descrizione puntuale della mafia camorristica, il suo evolversi già come mafia imprenditoriale, mafia non solo delle armi, ma della tangente e dell’appalto. Ci sono le responsabilità politiche, i vuoti amministrativi e istituzionali, la burocrazia, il clientelismo, il dilagare della corruzione. C’è l’invito alla Chiesa a “farsi più tagliente e meno neutrale”, più coerente con “la prima beatitudine del Vangelo che è la povertà”, in quanto “distacco dal superfluo, da ogni ambiguo compromesso e privilegio”. Ci sono insomma le indicazioni essenziali per costruire comunità in cui tutti contribuiscano alla libertà e dignità di ciascuno. Per ricordare don Diana è allora importante meditare sulle sue parole, ma occorre anche trasformare la meditazione in azione, occorre fare del suo messaggio il nostro impegno, la nostra credibile testimonianza di vita.” (Famiglia Cristiana 17/03/2019, reperito su Libera).
Ricordo un vecchio cartone animato dal titolo “Siamo fatti così”. Sostanzialmente spiegava com’è fatto il corpo umano. Mi è tornato in mente dopo aver ascoltato Arianna Zottarel, ricercatrice universitaria e autrice del libro “La mafia del Brenta. La storia di Felice Maniero e del Veneto che si credeva innocente”. Nel suo intervento del 2 febbraio scorso a Trieste ha parlato della mafia del Brenta e soprattutto della considerazione sociale intorno a tale vicenda. Trovo utili le sue parole in preparazione all’incontro di domani mattina tra gli studenti delle scuole di Udine e don Luigi Ciotti di Libera.
“Il punto da cui sono partita è stato quello di vedere la mafia del Brenta come un fenomeno che porta con sé tutta una storia di negazionismo, minimizzazione e sottovalutazione del fenomeno mafioso in Veneto. Questi processi su più fronti in realtà hanno sempre interessato il Veneto, così come altre regioni del nord-Italia, non sempre per complicità ma anche per problemi dovuti alla scarsa conoscenza del fenomeno o per le poche grandi operazioni della Magistratura che non hanno scosso il territorio veneto come hanno fatto in altre realtà. E quando pure lo hanno fatto, l’atteggiamento spontaneo è stato quello, un po’, di un’autocensura sociale e spesso anche giornalistica, di una minimizzazione da parte delle Istituzioni proprio perché c’era questo atteggiamento di voler tutelare l’immagine del territorio: un Veneto del turismo, un Veneto dell’impresa, un Veneto che sicuramente non si voleva associare alla parola mafia. Invece, nonostante risulti quasi sempre fanalino di coda in tema di criminalità organizzata, in realtà il Veneto è stato una regione a non tradizionale presenza mafiosa in cui è cresciuta e si è sviluppata una mafia autoctona. Questa storia si è anche andata velocemente dimenticando e non si è costruita molta teoria come è stato per le altre organizzazioni. La mafia del Brenta ha operato soprattutto a Padova, nelle provincie di Padova e di Venezia, dalla metà degli anni ‘70 alla metà degli anni ‘90, ed è un’organizzazione che ha dei connotati molto diversi da quelli che conosciamo delle altre organizzazioni tradizionali, proprio perché è stata influenzata dagli aspetti politici, economici, sociali, culturali e criminali di quegli anni. Parliamo pertanto di un nuovo insediamento mafioso: non è il risultato di un processo di esportazione o di colonizzazione. Le caratteristiche sono diverse, a partire dalla sua struttura organizzativa: mentre Cosa Nostra e ‘Ndrangheta hanno struttura unitaria, verticistica e gerarchizzata e la Camorra tende ad avere una struttura più ad arcipelago e polverizzata, la mafia del Brenta non ha dei modelli da tramandare, non ha un’eredità né una storia. Nasce per delinquere e ha assunto la forma organizzativa più congeniale ai suoi scopi: un network, una rete, egocentrata sulla figura di Felice Maniero, leader del gruppo. Ciò le permetteva di essere molto flessibile, molto veloce e di far entrare nella rete diverse abilità criminali che consentivano di mantenere l’autonomia, fondamentale in una realtà che vedeva presenti più cellule criminali sul territorio. Beneficiando del capitale sociale prodotto da questa rete, si è creata una grande zona grigia ed è emerso il grande potere corruttivo di questa organizzazione: medici, imprenditori, esponenti delle forze dell’ordine si sono messi a servizio dell’organizzazione permettendole di godere di ottima salute e di proseguire nei propri progetti criminali. Penso che senza questa forza corruttiva, senza questa fitta rete di corruzione, l’organizzazione sarebbe rimasta in uno stato embrionale: dei rapinatori organizzati aspiranti mafiosi, più che mafiosi in senso stretto. E’ poi sicuramente importante valutare il contesto per capire l’organizzazione. Nei 15 anni di vita si sono passate 3 pagine fondamentali:
da metà a fine anni ‘70: criminalità minore con ristretto gruppo di aderenti dediti soprattutto alla rapina e all’organizzazione del gioco d’azzardo clandestino. Va considerata più come una pagina di banditismo
1980-1984: criminalità emergente, aumento della quantità, formazione di un capitale economico molto importante proveniente da varie attività illecite
1984-1994: criminalità consolidata e solida, riconosciuta, aumentata nel suo network sia a livello quantitativo ma anche qualitativo; diversificazione delle attività (dal traffico di stupefacenti al traffico d’armi)
La storia della mafia del Brenta ci mostra anche la storia del successo della Magistratura proprio perché non è facile imputare un’organizzazione di 416 bis in una regione di non tradizionale presenza mafiosa, a maggior ragione quando si tratta poi di una mafia autoctona. Per i giudici questa era sicuramente un’organizzazione mafiosa, autoctona e autonoma nei suoi comportamenti, nella sua vocazione criminale e anche nella sua composizione. “Mafiosi dell’ultima ora” così si definiva Felice Maniero parlando di se stesso e della sua organizzazione: mafioso perché sicuramente capace di avvalersi della forza di intimidazione e di assoggettamento, di omertà, e di un capillare controllo del territorio; mafioso perché capace di instaurare rapporti di dipendenza personale, di usare la violenza come suprema regolazione dei conflitti, di stringere alcuni legami con la politica (meno in Italia e più all’estero). Eppure, spesso, quando si parla di mafia del Brenta, la si chiama “mala”; spesso si pensa che sia un’opinione pensare che questa sia mafia, invece c’è una sentenza di cassazione che determina questo. E’ molto importante porre questo accento perché per molto tempo, negando l’esistenza di una mafia, si è negato tutto un apparato che esisteva e che non si è andati a guardare, così come si sono negate anche le vittime innocenti, a partire da Cristina Pavesi, studentessa universitaria di 22 anni uccisa durante una rapina. Per molto tempo, non riconoscendo questa organizzazione come mafiosa, non si sono riconosciute neanche le vittime. E’ pertanto importante sottolineare questo aspetto per fare memoria, ma anche per altri due motivi: 1. l’organizzazione si è posta come agente di trasformazione sociale nella sua regione, cambiando le dinamiche, modificando gli assetti e aprendo una stagione di interessi importanti mafiosi verso il nord-est (si sono verificati dei vuoti e quando c’è un vuoto nel mondo del crimine viene immediatamente riempito); 2. nonostante l’organizzazione sia finita da tanti anni, esiste ancora un forte conflitto culturale che emerge proprio dalla percezione del fenomeno. Nei luoghi più significativi della mafia del Brenta emerge una stanchezza di voler sentire sempre il nome del luogo affiancato alla parola mafia (ad esempio Campolongo Maggiore); si cerca un po’ di dimenticare anche se sono state fatte moltissime attività. Nel resto d’Italia c’è una percezione completamente diversa, una narrazione costruita sul carisma di Felice Maniero, su molti luoghi comuni che hanno creato un cono d’ombra sulla vera organizzazione: non si parla di omicidi, non si parla di sequestri, non si parla di traffico di stupefacenti, ma delle grandi evasioni o delle grandi rapine. Ad esempio, l’anno scorso, ad Ercolano, in provincia di Napoli, il volto di Maniero è diventato il logo per un ostello, chiamato Hostello Felice. Fa capire quanto nel resto d’Italia non si abbia idea di quanto stiamo parlando. Ritengo pertanto fondamentale continuare a parlarne, non tanto concentrandoci sul carisma di Felice Maniero o sui lati folcloristici, ma cercando di capire quali sono state le variabili che hanno potuto far nascere e crescere così velocemente un’organizzazione tale nel Veneto che si credeva innocente. E ci può aiutare a capire come anche altre mafie autoctone si sviluppano e si sono sviluppate in Italia.”
“E’ fondamentale capire come si iniziano a raccontare le mafie e come si inizia a raccontare quello che c’è attorno. Il racconto dell’economia, il racconto del tessuto sociale ci permettono di capire quali sono gli agganci che queste organizzazioni poi hanno. In Lombardia, in Piemonte e in Emilia Romagna sono caduti molto luoghi comuni: se abbiamo l’immagine di un mafioso che arriva e infetta un tessuto sano stiamo già facendo un’operazione di disinformazione perché di tessuti sani non ce ne sono più. Non è un caso se nelle inchieste di Milano e di Bologna si usa il termine “colonizzazione”, intendendo non quella di carattere militare ma quella di carattere economico: è la capacità che le organizzazioni criminali hanno, in questo tempo di crisi, di attirare persone che normalmente non si sarebbero rivolte a un mafioso, ma sarebbero andate in banca o dal patronato o dalle forze dell’ordine. Quando cambia questo tipo di racconto, allora c’è l’inizio di un possibile contrasto anche a livello sociale; se invece continuiamo a raccontarcela come il virus che infetta un tessuto sano, non cambiamo. Credo che oggi, in questo territorio, sia questo il passaggio da fare”. In questi termini, alla fine della mattinata del 2 febbraio a Trieste, si è espresso Lorenzo Frigerio, che poi ha continuato: “L’utilizzo del termine “colonizzazione economica”, usato per la prima volta dai magistrati di Milano e poi dalla Procura Nazionale a proposito di “Crimine infinito”, ha un ulteriore evoluzione nell’inchiesta Aemilia, in cui si parla di “colonizzazione delle menti”. E’ l’idea che, soprattutto in una fase di crisi e in un ambiente contraddistinto da un certo tenore di vita, dove il concetto della fatica e della piccola impresa non basta più a tenere il passo del mercato, il denaro, proveniente da contesti che so essere illeciti, sia indispensabile perché i circuiti normali si sono chiusi. Lì sta il salto di qualità. Il Triveneto sta subendo lo stesso processo che Veneto, Lombardia, Emilia, Liguria hanno vissuto in precedenza: svegliarsi e scoprirsi non diversi dagli altri. Quelli che erano i tradizionali anticorpi sono stati persi per strada.”
E’ quindi intervenuta Fabiana Martini di Articolo 21 sul ruolo del giornalismo in questo periodo storico: “siamo in una fase abbastanza singolare, più che altro perché gli attacchi all’informazione e ai giornalisti arrivano proprio dai vertici delle Istituzioni. Pur sapendo che spesso c’è anche una responsabilità del giornalista che non fa fino in fondo il proprio lavoro e quindi contribuisce a delegittimare la professione, va detto che se si fa il cane da guardia “correttamente” il ruolo è accettato in un contesto democratico; delegittimare l’informazione significa delegittimare la democrazia. Il potere non contrastato è la fine della democrazia. Facendo autocritica dobbiamo anche ammettere che esistono colleghi che si limitano a porre il microfono davanti al potente o al rappresentante di turno senza fare le domande giuste: anche questo significa non fare fino in fondo il proprio lavoro. L’atteggiamento di ostilità e la delegittimazione a cui assistiamo quotidianamente, non solo qui (si pensi agli Stati Uniti, all’Ungheria…), ci fa dire che siamo in un momento difficile e singolare”.
Il Sostituto Distrettuale Antimafia di Trieste Antonio Miggiani ha risposto a una domanda del pubblico in merito a trasparenza e onestà: “Non penso che la popolazione del Friuli Venezia Giulia sia molto più coraggiosa o meno coraggiosa della popolazione siciliana, ma è diversa la percezione. Un siciliano si rende conto del pericolo, il friulano no. In Sicilia nessuno va a fare una denuncia ai carabinieri, mentre qua qualche denuncia c’è. Questa differenza strutturale ha fatto sì che le nostre mafie agiscono in modo diverso al nord. Come detto, sono mafie imprenditrici che si presentano con un aspetto borghese, normale. Il coraggio… sono ben pochi che ce l’hanno. Di fronte a un criminale è normale avere paura. Un altro aspetto è il finanziamento bancario: le mafie hanno rapporti continui con gli istituti bancari. Se questi ultimi perdono la loro autorevolezza, è ovvio che la mafia viene fuori; il fatto stesso che il nostro sistema bancario da sistema pubblico è diventato privato ha comportato, ad esempio, la scomparsa della figura del pubblico ufficiale all’interno del rapporto. Il Direttore di Banca che si fa dare una tangente per rilasciare un mutuo, non commette reato come se fosse anche pubblico ufficiale. Il sistema bancario è pertanto uno snodo delicatissimo all’interno del quale andrebbero pensate delle forme di reato attualmente inesistenti. Se in questo settore vengono meno la trasparenza e l’onestà, le mafie hanno facile gioco nel portare avanti i loro progetti di espansione economica e di potere”.
Sul rapporto tra magistratura e giornalismo si è infine concentrato l’intervento del Sostituto Procuratore di Venezia Lucia D’Alessandro: “voglio intervenire in merito alla colonizzazione da parte dei sodalizi tradizionali di matrice mafiosa nel nord-est. In particolare vorrei porre l’accento sul rapporto tra informazione e percezione: se non c’è una giusta informazione, corretta ed esaustiva, non possiamo pretendere che la popolazione sia attenta. E’ molto importante che si crei una interlocuzione schietta, serena, costruttiva tra le procure e l’informazione; devo ammettere che se l’informazione non viene in qualche modo soccorsa, agevolata dalle forze dell’ordine, dalle procure, nell’adeguatezza dell’informazione che si accinge a rendere, rischia di incorrere nell’errore e nel dispiacere di fornire notizie, se non false, almeno fuorvianti e scorrette. E’ auspicabile un dialogo asciutto, che consenta di veicolare informazioni non coperte da segreto istruttorio e che pertanto diano il via a una corretta percezione, da parte della popolazione, del fenomeno mafioso che si è combattuto o che si sta continuando a combattere. Il rischio, altrimenti, è quello di avere una percezione fuorviata che è peggio di nessuna percezione”.
Ho seguito con molta attenzione la mezz’ora con cui la giornalista Luana De Francisco ha presentato la situazione del Friuli Venezia Giulia. L’ha introdotta Lorenzo Frigerio: “E’ autrice, insieme a Ugo Dinello e Giampiero Rossi, del libro Mafie a nord-est, del 2015, Rizzoli. Nell’introduzione del libro si legge: “Sono tanti i segnali di una progressiva penetrazione mafiosa nel nord-est che non può più essere trascurata né brandita dalla politica soltanto come strumento nel gioco delle parti. Li abbiamo voluti riunire e raccontare nelle pagine che seguono, nell’intento di offrire a tutti, finalmente, gli strumenti e potersi fare un’opinione.”” Quindi ha preso la parola la giornalista:
“Sono qui in quanto giornalista e quindi voglio ribadire ancora una volta l’importanza del ruolo della nostra professione; non siamo certamente degli oracoli, ma intermediari che hanno la funzione di raccontare. Io mi occupo di cronaca giudiziaria, non sono un’esperta di mafia, ma mi ci sono inciampata. Ho necessità indispensabile di attingere alle carte, ai documenti, alle fonti certe. Accanto poi ci sono le storie da raccontare, quelle della gente, dei testimoni. Nel nostro territorio questo è molto poco presente: le informazioni circolano molto poco proprio perché la mafia non è un fenomeno roboante, non ci sono manifestazioni pirotecniche. Un collaboratore di giustizia, qui a Trieste, ha dichiarato che già 10, 15, 20 anni fa, quando la ‘ndrina Iona salì con tutti i suoi sodali, la parola d’ordine era quella di non farsi notare, di non dare nell’occhio, “la gente non deve sapere che ci siamo”. Da qui la difficoltà per noi giornalisti di raccontare queste cose. In merito alla questione che i giornali ne scrivono poco o non ne scrivono affatto, vorrei dire che non è proprio così: se quel libro c’è è anche perché parte da una raccolta di articoli pubblicati, solo che poi un quotidiano vive di notizie, per cui un giorno dai la notizia, quello successivo la riprendi perché ci sono le reazioni, ma il terzo giorno è già vecchia la notizia. La forza di un libro, invece, è che resta lì, fa meditare e può far scattare la molla del senso civico. Aggiungo anche che è vero che ogni giorno raccontiamo qualcosa, e anche se non riguarda specificatamente mafiosi, camorristi e ndranghetisti, è comunque prezioso ai fini della descrizione della cornice in cui viviamo. Tutto quello che scriviamo serve a rappresentare il territorio nel quale sono germinati elementi mafiosi: saper riconoscere lo stato di salute o lo stato di crisi di un territorio è molto importante. Ad esempio, ogni anno raccontiamo di quante sono state le segnalazioni all’Ufficio Finanziario della Banca d’Italia di operazioni sospette, il numero di fallimenti, di sequestri di droga o di armi…: tutto questo contribuisce a descrivere i numeri di un territorio che si configura come terra ideale per le colonizzazioni mafiose. Mi sono accorta tra ieri e oggi che quando si faceva riferimento a storie di 4 o 5 anni fa, c’era molto stupore, segno che queste storie non sono granché conosciute, per cui vale la pena raccontarle. Visto che si è parlato di droga, si è parlato di sud America e si è parlato della scarsa percezione che il territorio ha del problema e vista la scarsa volontà di sapere determinate cose da parte dei cittadini (perché non interessa, perché non fa notizia; spesso indigna di più una ciclabile sconnessa rispetto alla condanna per bancarotta fraudolenta di un imprenditore) ho pensato di accennare prima di tutto alla vicenda di Paolo il Friulano, così chiamato dai camorristi coi quali entrò in affari. Siamo a metà degli anni ‘90, Udine centro. Il suo vero nome era Luciano De Sario, un emigrante di ritorno, partito da bambino insieme alla famiglia palmarina per l’Argentina. In sud America aveva intessuto tutta una serie di rapporti, conoscenze e amicizie e si era sposato con Fadia, una donna venezuelana. A neanche 50 anni decide di tornare in Friuli e torna pieno di soldi; apre un’azienda a Lauzacco, paese alla periferia sud di Udine. Si occupa di import-export di grossi macchinari per il settore edile ed estrattivo, in particolare in e dalla Colombia. Era sostanzialmente diventato il punto di intermediazione tra il cartello di Cali e la camorra di Pasquale Centore (ex funzionari di banca, ex sindaco di San Nicola la Strada). Da questo momento comincia a vivere da nababbo e la gente che vive accanto a lui non si pone nessuna domanda, anzi, si apre la corsa a farsi invitare a casa sua, nell’attico di Palazzo Moretti (oggi confiscato e dato in uso ai servizi sociali del Comune di Udine). Chi ci entrò narra di tappeti in oro zecchino, pezzi di antiquariato… Le macchine erano di lusso, gli ambienti frequentati erano tra i più esclusivi. La domanda “come può un piccolo imprenditore permettersi tutto questo?” però non scattava. Succedeva che dentro quei macchinari transitavano ogni settimana 50 kg di cocaina. A stupire è il fatto che nessuno, né allora, né quando scoppiò lo scandalo, né successivamente, lo abbia mai condannato, anzi: ci si continua, tuttora, a fare vanto di averlo conosciuto, di aver avuto rapporti con “uno che ci sapeva fare”. Poi è stato processato all’interno di un’inchiesta partita dal sud Italia (va detto che anche a questo è legata la scarsa percezione del fenomeno mafioso: poche le inchieste che partivano dal territorio e rimanevano sul territorio). Viene anche da chiedersi: ma tutti questi soldi che guadagnava, dove li metteva? In banca. E’ provato che versasse somme tra 100 e 200 milioni di lire in contanti: non scattava alcun sospetto. L’inchiesta si è poi chiusa con il patteggiamento a 4 anno e 8 mesi, poi ridotti in appello per l’incensuratezza e per il comportamento processuale collaborativo. Ricordo anche un’altra inchiesta partita da degli accertamenti della Guardia di Finanza di Udine su movimenti bancari di alcuni Istituti di Credito: sono risultati sospetti dei trasferimenti di denaro piuttosto numerosi da Vibo Valentia. L’inchiesta si è trasferita poi per competenza territoriale a Cosenza e ha perso per strada gli elementi friulani che avevano dato il via alle indagini per l’impossibilità di dimostrarne il coinvolgimento; è comunque culminata nel 2015 in un processo che decapitato i Mancuso. Vi sono anche inchieste che partono dal Sud, come quella che portò a scoprire un affiliato degli Emmanuello (si stava indagando sulla latitanza di Emmanuello di Gela) insieme a degli imprenditori edili trasferitisi da Gela al pordenonese: qui si aggiudicavano appalti funzionali a lavare denaro e a generare compensi per mantenere la latitanza dorata di Emmanuello. Raccontare queste cose è tremendamente difficile se non si trova un interlocutore disponibile a raccontartele. Se il giornalista ha un barlume di notizia, comunque deve farla uscire perché suo dovere è raccontare i fatti; se non c’è collaborazione, fondata sul rapporto di fiducia reciproco tra giornalista e magistratura e sul rispetto dei ruoli, ci sarà uno svantaggio per entrambe le parti. In merito al voto di scambio, è in corso un’inchiesta della DDA di Trieste che ipotizza un accordo pre elettorale sulle elezioni amministrative di Lignano del 2012. Un amministratore uscente, di origini napoletane, avrebbe preso accordo con 400 persone del napoletano per avere il loro voto di preferenza in cambio di residenza facili; il tutto con il favore del capo dei vigili urbani di Lignano. Un’altra inchiesta ha riguardato la ricostituzione di una ‘ndrina nel monfalconese per mano di Giuseppe Iona. Ci sono gli interessi della camorra su Monfalcone e su Fincantieri con il fenomeno dei trasfertisti napoletani. Insomma, i fatti non mancano; solo che o non si possono raccontare o sono finiti in breve nel dimenticatoio.”
Lucia D’Alessandro, sostituto Procuratore della Repubblica di Venezia, è intervenuta, meno di un mese fa, agli Stati generali di Libera contro le mafie. Molto numerosi sono gli spunti di riflessione emergenti dalla sua fotografia del nord-est italiano.
“Il Veneto non può certo essere considerata un’isola felice, neppure per il passato: mi riferisco all’esperienza drammatica e violenta della mala del Brenta. Di recente si sta assistendo a una nuova riorganizzazione, a una sorta di rigenerazione di tale fenomeno. Ieri don Ciotti ha parlato di una reiterazione nei nostri discorsi da 150 anni del fenomeno mafioso. Giovanni Falcone diceva che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Tutto ciò è vero, ma va detto che la mafia si evolve senza che si estinguano tutte le sue specifiche caratteristiche: soltanto alcune si estinguono e quindi il fenomeno mafioso purtroppo non muore, anzi, si evolve. Oggi assistiamo a un profondo dinamismo evolutivo, un adattamento costante, continuo, intelligente, efficace, alle caratteristiche peculiari del territorio che la mafia intende colonizzare. Così assistiamo ai locali, che altro non sono che una propaggine, una clonazione, una replicazione, filiali vere e proprie delle mafie tradizionalmente nate, vissute e viventi nei territori tipici di provenienza (ndrangheta, camorra, cosa nostra, sacra corona unita e camorra barese). Le tradizionali mafie tendono oggi a deterritorializzarsi, a globalizzarsi: perdono quel sistema di orizzontalità sul quale si erano sempre basate (operazioni “Crimine-Infinito”, “Alba chiara”, “Minotauro”) a favore di una configurazione proteiforme, multiforme e globale. Abbiamo vere e proprie partnership tra mafie tradizionali del territorio e quelle colonizzatrici, tra mafie locali e mafie straniere, vere e proprie mafie miste e anche fenomeni di transnazionalità (la ndrangheta leader internazionale del narcotraffico). Qui la mafia assume sempre più un volto imprenditoriale: non è immateriale, ma è liquida, osmotica rispetto al tessuto economico, sociale e politico delle regioni più ricche. Il distretto veneto costituisce un terreno particolarmente appetibile, molto aggredibile dagli interessi delle mafie tradizionali che in maniera molto subdola, surrettizia, sotterranea (mafia invisibile o mafia silente) si insinuano nel tessuto economico, sociale, politico e anche culturale. Lo colonizzano andando a captare le caratteristiche socio-ambientali e andando a subentrare in maniera furba e brillante, in un sistema di economia legale, a quelle aziende sottoposte a pressioni e a depauperazioni. I fenomeni di crisi economica vengono sfruttati dalle tradizionali organizzazioni di tipo mafioso per penetrare il tessuto in difficoltà delle aziende locali lecite subentrando ad esse. E’ un subentro che viene per certi versi sfruttato dai destinatari di questa aggressione, che vanno distinti in due macro categorie: coloro che la subiscono e coloro che vi colludono. Il concetto di metodo mafioso sta subendo delle evoluzioni: non si estrinseca necessariamente attraverso attività delittuose di tipo aggressivo, violento, con il sangue, con le estorsioni, con le usure e con gli incendi. Una certa parte di estrinsecazione attraverso una manovalanza di tipo gangsteristico continua anche al nord, ma accanto assistiamo sempre più a una penetrazione osmotica del territorio soprattutto economico. E’ una mafia imprenditrice che sfrutta le imprese legali per cercare di riciclare i propri proventi ottenuti con le attività delittuose tipiche delle regioni meridionali: un reinvestimento ammantato di apparente liceità. In Veneto stanno penetrando sotto forma di una vera e propria colonizzazione le organizzazioni mafiose tradizionali, in particolare la ‘ndrangheta. Cosa si intende per Locali? Si tratta di vere e proprie gemmazioni, proliferazioni, propaggini, filiali della cosiddetta casa madre, Crimine o Provincia che dir si voglia, localizzata in Calabria. La Provincia in pratica decentra, delocalizza, deterritorializza la propria attività mafiosa in questi Locali al nord. La caratteristica saliente di questi locali è l’acquisizione di una autonomia organizzativa e gestionale pur nel rispetto del legame molto forte e pregnante con la provincia o crimine di cui conservano il Dna e da cui mutuano il know how operativo ed esecutivo. Si tratta quindi di un’autonomia parziale: il legame con la casa madre resta indissolubile per un duplice motivo. E’ utile per il reclutamento di manodopera in grado di gestire e guidare i membri stanziatisi al nord o nativi del nord. Ed è utile per l’assistenza, sia legale, sia per l’eventuale necessità di dover nascondere qualche latitante. Nel momento in cui assistiamo a una mutazione genetica della mafia, pur nella manutenzione del suo Dna proprio, dobbiamo trovare sempre nuovi strumenti di contrasto, anch’essi in grado di evolversi. Ad esempio è necessario colpire il patrimonio delle mafie. Il mafioso tipico è avvezzo ad essere catturato; il vero punto debole è il patrimonio, non tanto la privazione delle libertà personali. La confisca dei beni è molto importante. Un altro esempio riguarda l’evoluzione comunicativa e l’adozione di nuove strategie dal punto di vista tecnico. Quando vengono svolte attività di intercettazione, i sospettati al telefono fischiettano e in macchina canticchiano: dobbiamo dotarci di strumenti in grado di captare le conversazioni che tengono avvalendosi delle moderne tecnologie, dei social, di whatsapp, di skype… I trojan horse dobbiamo poterli utilizzare… Passando a quanto è stato, non potendo concentrarmi sulla contemporaneità, non si può dimenticare che oltre alla mala del Brenta, nell’ultimo decennio si sono raggiunti dei risultati. Va detto che in Veneto si assiste alla presenza di una pluralità di mafie: mafie endogene, mafie allogene, di tipo misto, straniere (moldave ad esempio, con un processo arrivato in Cassazione). Questo è il dato. Altro è il tasso di percezione del fenomeno mafioso; il 47,3% della popolazione del Triveneto considera la mafia un fenomeno marginale nel proprio territorio e solo il 17% ne percepisce la pericolosità sociale. Questo anche perché in questi territori la mafia uccide sempre meno, utilizza il sangue e gli incendi sempre meno: utilizza il metodo dell’insinuazione nelle attività cardine del territorio. Ad esempio, il territorio veneziano è caratterizzato da importanti reti e infrastrutture con una serie di porti e aeroporti molto rilevanti accanto a una rete economico-finanziaria poderosa. Questo sono tutti obiettivi per le mafie, che, avvalendosi di tanti importanti snodi, aggrediscono il territorio andando a captare anche il sistema politico. Ovviamente porti e aeroporti significano anche possibilità di intrecci con le mafie estere (sud America, Olanda, Spagna…). A questo proposito è evidente quanto siano importanti gli strumenti di cooperazione internazionale (Eurojust) e la figura di un procuratore europeo. La Mala del Brenta si sta riorganizzando, si sta rigenerando; alcuni degli esponenti storici stanno uscendo dal carcere e, vuoi per vendetta, vuoi per vocazione a delinquere, si stanno organizzando. Abbiamo già avvisaglie in questo senso. Nell’ultimo biennio ricordo poi una brillante operazione in merito al cosiddetto tesoretto di Felice Maniero: 17 mln di euro. A proposito degli ex componenti della Mala del Brenta posso fare un cenno a un’operazione interforze contro il narcotraffico per sostanze provenienti dall’Olanda e dai paesi balcanici (cocaina, oppiacei, marijuana, hashish); si è scoperta una partnership tra una frangia chioggiotta e una frangia di origine siciliana legata ai calabresi. Un ultimo cenno al fenomeno della tratta: colonizzazione dei nostri territori da parte della mafia albanese e sodalizi nigeriani. La prima agisce soprattutto con figure maschili molto forti, aggressivi e violenti verso le donne che vengono sfruttate sessualmente e fisicamente; i secondi vedono figure femminili nelle posizioni apicali dell’organizzazione, ex vittime che diventano carnefici e aguzzine di altre donne attraverso anche meccanismi magico-esoterici e minacce di tipo rituale. A proposito di questo voglio ricordare il progetto N.A.Ve., Network Antitratta per il Veneto. Spesso mafia e migrazione si intrecciano nel senso che sodalizi di stampo mafioso sfruttano il fenomeno migratorio per i proprio fini.”
Oggi è la volta di Antonio Miggiani, Sostituto Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Trieste. Non si è dilungato molto nel suo intervento di sabato 2 febbraio a Contromafie, ma ha comunque offerto degli interessanti spunti di riflessione, soprattutto per la situazione del Friuli Venezia Giulia e toccando i temi della corruzione e dell’omertà.
“La Procura di Trieste ha competenza per l’intero Friuli Venezia Giulia. Il Friuli Venezia Giulia era un’isola felice fino a qualche anno fa, ma purtroppo, ormai, la situazione è radicalmente cambiata: senz’altro ci sono delle pesanti infiltrazioni da parte di mafia siciliana, camorra e ‘ndrangheta. E’ una mafia che agisce con caratteristiche molto diverse rispetto alla mafia omologa che agisce in territori di mafia come le nostre regioni del sud. E’ una mafia imprenditrice, non è la mafia sanguinaria della Sicilia o della Calabria; non si registrano omicidi di mafia, però è imprenditrice perché i denari che vengono acquisiti attraverso le attività illecite di associazione mafiosa (finalizzata a realizzare un dominio economico) vengono utilizzati al nord. […] All’interno delle attività la mafia fa delle scelte preferenziali: investimento immobiliare, gestione di esercizi pubblici, pizzerie, ristorazione, settore turistico e alberghiero. La mafia interviene quindi in una regione come il Friuli Venezia Giulia, una regione che era sana fino a qualche tempo fa, dove vi era una imprenditoria corretta, dalla notevole ricchezza, e interviene per fare business. E’ un’infiltrazione decisamente pericolosa. Siamo in una situazione di crisi economica generalizzata e gli unici soggetti che hanno possibilità economica sono proprio i mafiosi! E i loro soldi da dove vengono? O dal business delle estorsioni, che per fortuna non riguardano il nostro territorio, o da quello degli stupefacenti, gestito dalla ‘ndrangheta a livello internazionale. Questi profitti enormi vengono investiti in attività economiche lecite. Come agisce la mafia? Attraverso il principio del minimo mezzo. La mafia uccide solo in ultima istanza. Essa vuole raggiungere un determinato obiettivo; se delle persone o delle forze le si oppongono, la prima cosa che fa la mafia è cercare di rabbonirle corrompendole, cerca di portarle dalla sua parte con l’uso del denaro. Se questo non riesce e se l’obiettivo è strategico per l’organizzazione mafiosa, allora si fa il salto di qualità e si va al delitto. La mafia punta a creare un sistema corruttivo. Purtroppo noi sappiamo che in Italia esiste una grande corruzione ed esiste una piccola corruzione; purtroppo sul tema non c’è stata l’attenzione necessaria e registro con soddisfazione la nuova legge entrata in vigore il 31 gennaio, la numero 3 del 2019, la cosiddetta “spazzacorrotti”. Intanto ha messo fine ad una caratteristica solo italiana, che cioè esisteva una amnistia permanente che era la prescrizione. Inoltre ora la polizia giudiziaria può agire come agente provocatore, può fingersi agente corruttore per provare un reato. In più vi è anche l’inasprimento di alcune fattispecie di reato. L’acquisizione della prova di reato è spesso problematica perché la corruzione crea un regime di omertà che è molto difficile scalfire; nel nostro ordinamento giuridico non viene colpito solo il pubblico amministratore ma anche il privato, entrambi rispondono del reato, e ciò crea un interesse comune a non dire nulla. E il reato di corruzione è un reato seriale: il pubblico amministratore corrotto non si fa corrompere una sola volta, ma lo fa diventare sistema di vita. A sua volta il corruttore nel privato ha interesse ad avere determinati benefici o determinate corsie preferenziali nello svolgimento della sua attività economica. Ciò crea un muro di omertà in tutto simile a quello creato dalle mafie. L’unica differenza potrebbe essere che l’omertà mafiosa dei classici territori mafiosi è di tipo passivo, nel senso che la popolazione subisce la mafia, tutti sanno chi è il mafioso e tutti lo temono, mentre nel nostro territorio noi non sappiamo chi sono i mafiosi e non percepiamo il pericolo e ci rendiamo partecipi di una omertà interessata di tipo attivo. Se poi denunciassimo ci troveremmo coinvolti nel procedimento. Ma ecco la novità della nuova legge: se il corruttore o il corrotto fa denuncia entro quattro mesi dal fatto, senza che sia intervenuta l’iscrizione al registro del reato, non viene punito. […] Desidero anche sottolineare che la polizia giudiziaria non è addestrata per perseguire il reato di corruzione, prodromico all’associazione per delinquere di tipo mafioso. E’ una mancanza che va colmata.”
Questa mattina il quotidiano locale Messaggero Veneto ha dato molto rilievo al blitz svoltosi ieri in Veneto ai danni della camorra. La notizia è apparsa in prima pagina e all’interno del giornale sono state dedicate all’argomento 4 pagine. Mentre leggevo gli articoli, mi sono tornate alla mente le parole di Carlo Pieroni, Capocentro della Direzione Investigativa Antimafia di Padova, che a Trieste, sabato 2 febbraio, a Contromafie, così si esprimeva: “Quando intervengo in situazioni come queste, tutti si aspettano che il rappresentante delle Forze dell’Ordine parli della criminalità organizzata nel Triveneto andando dettagliatamente a raccontare quello che sta succedendo. Ma è una cosa che non si può fare. Parlerò però di come le mafie fanno infiltrazione”. Chissà se nella sua mente c’era tutto quello che sta succedendo in questi giorni…
Ecco come ha proseguito il suo intervento: “L’infiltrazione delle mafie a nord est non è diversa da quella che fanno in Germania, in Australia o in altre parti del mondo o in altre parti d’Italia. Le mafie si infiltrano dove ci sono attività economiche redditizie che danno la possibilità di riciclare gli enormi capitali prodotti illecitamente. Quando operavo in Puglia, Campania e Calabria mi chiedevo come mai qui al nord non si capissero alcune cose della criminalità organizzata: qualsiasi attività investigativa legata al 416 bis (associazione di tipo mafioso) trovava difficoltà di comprensione al nord. Non si capiva bene cosa fosse l’attività criminale organizzata. Il nord est è la sesta zona più ricca d’Europa, qui sono presenti le aziende produttive e quindi si attraggono gli investimenti. Qui sono presenti delle famiglie legate ad alcune regioni del sud Italia che fanno un’apparente attività economica legale con la quale riciclano capitali sporchi. La mafia al nord si manifesta in modo diverso; anche qui esistono le locali, le ‘ndrine… Il fatto che la struttura “militare” non si scopra, non si evidenzi, è perché non c’è bisogno di usare la forza militare per andare a imporre il potere. Il classico modo è questo: l’imprenditore in difficoltà con i canali finanziari consueti si presenta o si fa presentare (da commercialisti, da amici) o semplicemente si rivolge a una finanziaria che gli presta del denaro. A questo punto però gli vengono imposte delle condizioni che non necessariamente sono quelle dell’usura o dell’estorsione. Tutto questo, in un ambiente di economia sana, crea una concorrenza sleale; è evidente che un’impresa regolare che paga le tasse, che prende finanziamenti da enti autorizzati a darli, che rispetta le regole, si trova sostanzialmente fuori mercato. Per combattere tutto ciò è necessario credere che esiste la criminalità organizzata e che è influente. Uno dei rischi è vedere i fatti come singoli eventi. In molte regioni meridionali la mafia ha trovato spazio perché molte strutture dello Stato non sono efficienti; nel corso degli anni si è creato uno Stato alternativo per avere ciò che normalmente ad un cittadino spetta di diritto. Al nord c’è efficienza, ma dentro l’efficienza si rischia di perdere di vista l’insieme delle cose: ognuno fa bene il proprio lavoro senza capire qual è il tutto e quindi il valore di quello che fa. Il mafioso vive il territorio, fa sempre la parte dello “stupido”, di quello che non sa niente, che chiede, che occupa i posti meno visibili, ma in realtà ha l’occhio attento e sveglio e riesce a capire e a capitalizzare a favore dell’associazione a cui appartiene. Volendo parlare di camorra, proiettata al nord e all’estero, possiamo parlare dei cosiddetti “magliari”, mercanti del tessile che si muovono su furgoncini e ai mercati vendono calzini, scarpe false ecc ecc. I magliari agivano anche a Washington, a San Francisco con la vendita porta a porta. Questo per dire che non esiste una grande criminalità organizzata e una piccola criminalità organizzata. La criminalità organizzata è criminalità organizzata e si infiltra in tutti i settori: riciclaggio, banche, traffico di sostanze stupefacenti, agricoltura col caporalato… La cosiddetta area grigia si trova proprio tra quelle persone che investono i soldi. Quello che dobbiamo fare è essere attenti, capire il quotidiano, segnalare quello che appare strano. Dobbiamo capire di essere cittadini parte di un sistema: se faccio una cosa, essa ha un risvolto grandissimo, soprattutto se ho un ruolo pubblico. E non posso dire di non capire o di non vedere, anche se non faccio parte di un’associazione di impegno sociale. Vale per i cittadini e vale per le istituzioni.”
Un interessante articolo scritto da Sara Manisera su Avvenire una settimana fa. Ci descrive una prospettiva di speranza che arriva dai giovani iracheni.
“Li dovreste vedere questi giovani iracheni. Già di buon mattino, sono in fibrillazione. Corrono avanti e indietro senza fermarsi. Si parlano con i walkie-talkie per coordinarsi. Appendono striscioni, spostano tavoli, consegnano le cartellette agli ospiti. Distribuiscono borracce riutilizzabili per non consumare plastica. Sorridono, scattano selfie e usano i social media come ogni ragazzo della loro età. Hanno tra i diciassette e i trent’anni e fanno parte di numerose organizzazioni della società civile irachena, impegnate nella tutela delle libertà sindacali e d’espressione, dell’ambiente, dei diritti delle donne, dei lavoratori e degli studenti. Tra di loro ci sono sindacaliste, ambientalisti, artisti, musicisti e cantanti, operatori di pace che lavorano sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti tra le comunità. E soprattutto volontari. Tantissimi volontari. Tutti indaffarati per la prima conferenza organizzata a Baghdad dall’IraqiCivil Society SolidarityInitiative (Icssi). «È una grande responsabilità essere qui, perché significa far parte del cambiamento», spiega, visibilmente emozionato, Mustafà Mauyad Alhindi, «Non è facile dimenticare», afferma, sospirando, questo ragazzo ventiquattrenne, «Le persone sono state lacerate da questi anni di conflitto ma vogliamo migliorare il nostro paese e la nostra società dopo tutte le ferite del passato». Accanto a Mustafà c’è un’altra attivista poco più che ventenne. Irachena di Baghdad, madre sciita e padre sunnita, laureata in ingegneria informatica, Tabarak Wamedh Rasheed lavora per l’ong italiana ‘Un Ponte Per’. «In questi anni, siamo stati in grado di collegare la società civile irachena con quella internazionale ma abbiamo ancora molti problemi da risolvere, come l’inquinamento, la violenza tra le comunità e le continue violazioni dei diritti delle donne irachene », racconta Tabarak, senza mai accennare una smorfia di frustrazione, «Crediamo che le proteste pacifiche siano un fattore essenziale per conquistare i nostri diritti, soprattutto la libertà di espressione ». Dal 2016, Tabarak fa parte anche della segreteria dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (Icssi), l’iniziativa internazionale di solidarietà, nata dai movimenti che avevano organizzato nel 2003 le grandi manifestazioni contro la guerra in Iraq, e che hanno poi voluto accompagnare la nascente società civile nelle sue lotte per un altro Iraq. È la prima volta che la società civile irachena organizza una conferenza di queste dimensioni a Baghdad. Più di 140 rappresentanti iracheni dei sindacati e delle associazioni locali, tra cui il Forum Sociale iracheno, il Forum Sociale del Kurdistan, i Forum sociali locali di undici città dell’Iraq e quattro consigli per la coesione sociale hanno partecipato a questa incredibile iniziativa dal basso. E sono più di cinquanta i delegati internazionali giunti a Baghdad da quindici paesi per discutere insieme agli attivisti locali le sfide future della società civile irachena. «In questi anni, abbiamo assistito alla nascita di un movimento di giovani attivisti, provenienti da zone colpite dalla guerra. Ti aspetteresti che siano disillusi, invece hanno molta speranza, vengono ascoltati dalle istituzioni e soprattutto si divertono mentre lavorano per cambiare il Paese», spiega Martina Pignatti Morano, responsabile dei progetti di Peacebuilding di Un Ponte Per. «Queste ragazze e ragazzi ci hanno insegnato che sanno organizzarsi in diverse città in un processo unitario come il Forum Sociale Iracheno. Si sono ispirati al Forum Sociale Mondiale, nato in Brasile nel 2001, e l’hanno trasformato in qualcosa che ha senso per l’Iraq e che stimola il volontariato e l’attivismo dei più giovani. A volte rischiano di essere arrestati, altre vengono ricevuti dai Ministri per esporre le loro proposte. In ogni caso non mollano», aggiunge Martina. A Baghdad la primavera sembra essere arrivata in anticipo. Il cielo è limpido e il sole tiepido di fine gennaio riscalda i volti dei partecipanti seduti nel giardino dell’Associazione degli ingegneri iracheni, nel distretto di Karrada, un quartiere commerciale e etnicamente misto di Baghdad, lungo la sponda orientale del fiume Tigri. Per quattro giorni, gli attivisti da tutto l’Iraq, di diversi gruppi etnici e confessionali, hanno discusso dei problemi del loro paese, proponendo strategie e progetti per il futuro, in un clima di entusiasmo e di convivialità. All’esterno la città appare convulsa e vivace. Auto di grossa cilindrata e vecchi taxi gialli occupano tutte le corsie in modo disordinato. Antiche case di primo Novecento sono nascoste da palme inaridite. I T-wall – grandi mura di cemento armato, lasciti dell’occupazione americana – cominciano lentamente a essere smantellati. Si respira un’aria di fermento civile e culturale nella capitale. Non solo a Baghdad. Le recenti proteste di quest’estate nel sud dell’Iraq da Bassora a Nassiriya, passando per Amarah, Kut, Karbala e Najaf, per rivendicare diritti e servizi sociali, come l’accesso all’acqua, all’elettricità e al lavoro, dimostrano ancora una volta la resilienza del popolo iracheno. E dei suoi giovani. Laureati ma costretti a lasciare il paese per l’assenza di opportunità lavorative e per la corruzione endemica tra i politici. Quasi la metà della popolazione irachena ha meno di 19 anni e la disoccupazione tra i 15-24 anni si attesta al 24%, secondo gli ultimi dati del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp). Una condizione che obbliga molti di loro a emigrare o affidarsi alle milizie che offrono un impiego retribuito alternativo. Abdallah Khalel, ventitré anni, ha fatto parte per due anni delle Unità di mobilitazione popolare, le milizie armate più conosciute come Al-Hashd Al-Sha’abi, nate nel 2014 in risposta al rapido avanzamento territoriale di Daesh, l’autoproclamato Stato islamico. Oggi, Abdallah è diventato membro di Sport Against Violence, un’associazione che da anni utilizza lo sport come strumento per prevenire la violenza e l’estremismo e che lo scorso novembre ha organizzato la quarta Mezza Maratona per la Pace di Baghdad. «Il risultato di cui sono più fiero è la partecipazione delle donne. Più di 1.300 persone sono venute alla maratona e 400 erano donne», racconta quasi incredulo, «ma dobbiamo fare meglio e di più», dice ammiccando. Sono stupendi e contagiosi questi ragazzi. E quanti sentimenti si portano dentro. Certo non è facile essere attivisti in Iraq. Le proteste popolari a Bassora e nelle altre città sono state violentemente represse dalla polizia e numerosi manifestanti, giornalisti, avvocati e difensori dei diritti umani sono stati sottoposti a detenzione arbitraria, torture e uccisioni sommarie da parte delle forze di sicurezza irachene e delle milizie, come documenta il rapporto del Ceasefire Centre for Civilian Rights e del Minority Rights Group International, pubblicato lo scorso dicembre. Sebbene la costituzione irachena del 2005, riconosca il ruolo della società civile e garantisca la libertà d’espressione, non vi è una legge specifica che protegga i difensori dei diritti umani. Un altro Iraq, però è possibile. Anzi, già esiste.”
Il 6 febbraio 1992 si concludeva a Milano l’esperienza terrena di David Maria Turoldo, teologo, poeta, profeta friulano. La scorsa settimana, nel giorno dell’anniversario, l’Aula Magna del mio liceo ha ospitato l’Associazione culturale Padre David Maria Turoldo.
La Dirigente Gabriella Zanocco ha salutato così i presenti: “Come scuola ci sentiamo veramente e sinceramente onorati per aver potuto offrire a voi l’occasione di vivere questo incontro. Non siamo di fronte ad una conferenza tradizionale o a quelle a cui siamo tradizionalmente abituati, dove si dicono delle cose che hanno una ricaduta più o meno interessante, più o meno didattica. Il tema di questa conferenza che si incentra su un uomo particolare vuole portare tutti noi e tutti voi a una riflessione profonda, a ragionare cosa significhi l’umanità e vivere profondamente l’umanità. Sono parole che hanno un loro peso forte e io credo che oggi, in questo momento storico abbiano un peso maggiore che in altri momenti. Che cos’è l’umanità? Cosa significa? Quando andavo a scuola mi hanno insegnato che le parole accentate sono parole astratte. Umanità è una parola accentata, ma non c’è niente di più concreto, se noi guardiamo al significato di questo termine e lo rapportiamo alla storia in generale, non soltanto alla storia di oggi, ma a tutto l’arco storico dell’umanità stessa. Allora una riflessione su padre Turoldo fatta oggi, anniversario della sua morte, credo che debba essere fatta e debba essere fatta soprattutto con i ragazzi, con l’umanità del futuro, con l’umanità che viene chiamata a essere direttiva nel futuro. Dove ci portano certe scelte e quali valori devono essere per noi irrinunciabili? Grazie per le riflessioni che verranno fatte oggi ma soprattutto grazie per le riflessioni che dovremo noi tutti fare domani”.
La Direttrice del Comitato Scientifico dell’Associazione, Raffaella Beano, ha introdotto quindi la figura di padre Davide e la visione di un filmato. Ha quindi invitato a prendere la parola Ermes Ronchi, friulano, anche lui teologo dell’ordine dei Servi di Maria e amico di padre Davide.
“Sono molto emozionato di essere davanti a tanti bei volti, a tanti begli occhi perché è in questa bellezza che riposa la speranza di noi che abbiamo già navigato. Quando padre David arrivava nella mia casa natia a Racchiuso di solito era sera e arrivava sempre con degli amici, mai da solo: aveva un bisogno fisico di avere degli amici attorno. Arrivava e iniziava dal fondo del lungo cortile che porta alla casa – era già sera, i contadini vanno a letto presto, le luci spente, ma a lui non importava: quando arrivava in un posto diceva “Adesso, chi andiamo a tirar giù dal letto?” – a dire “Mariute, atu alc di mangjâ?”. Scendevano il papà e la mamma; il papà scendeva in cantina a prendere un salame perché era quello che lui desiderava e poi lui lo preparava, preparava le fette, tagliava la cipolla, il salame con l’aceto, il salam cun l’asêt, il fast-food contadino, era il nostro McDonald’s. Quando c’era urgenza, fretta, fame e voglia di stare insieme con semplicità il papà correva con i boccali del merlot dalla cantina. Ogni incontro con lui era un evento, diventava un evento di cui poi si parlava a lungo perché uscivi arricchito da ogni incontro con lui… E’ stato uno degli uomini dell’Italia di quegli anni che più è ricordato. Perché? Perché era un poeta ed un profeta, questa la sua forza: la poesia e la profezia. Apparteneva alla gente di questa nostra terra, ma aveva le finestre aperte ai grandi venti della storia. Ben radicato, amava il suo Friuli, ma aperto a tutti i movimenti. Nella sua chiesa di Fontanelle arrivava gente da tutta Europa ed era diventato il laboratorio liturgico più importante del mondo in quell’epoca del post Concilio. Non solo dall’Europa, ma da tutti i movimenti popolari, dall’America Latina, che allora gemeva sotto le dittature militari, arrivava gente perseguitata, arrivavano profughi e lui li accoglieva. La sua casa era un crogiolo di storia e di futuro. A incontrarlo ti colpiva subito, da un lato la sua forza contadina, le grandi mani, la sua imponenza e irruenza da antico guerriero vichingo (Turoldo è un nome vichingo, un nome normanno che dice e tradisce la sua origine e anche la sua fisicità), dall’altro i suoi occhi che si commuovevano, occhi infantili e chiari, contrasto tra quella voce profonda, da cattedrale o da deserto, e l’invincibile sorriso degli occhi azzurri. Figlio di questa nostra terra friulana, scriveva, “dove gli occhi di tutti diventano azzurri a forza di guardare”. Il suo nome da ragazzo era Bepo, Bepo rôs, rosso, il soprannome che gli davano i compagni per i capelli rossi, che poi con l’età sono diventati di un biondo meno inquietante. Io conservo di lui trent’anni di amicizia, trent’anni in cui è stato il mio riferimento, l’amico. Ho subito da parte sua una seduzione di lungo corso e che continua dopo tanti anni dalla morte con la brezza dell’amicizia e il vento impetuoso che scuote ancora, brezza e uragano insieme; lui era così, era dolce e combattivo. Aveva un grandissimo amore per la vita che mi colpiva sempre, era amore per l’uomo, per gli amici, per la festa, l’incantamento che provava davanti alla natura, ad un fiore sul muro, la gioia concreta del buon vino bevuto con gli amici. Ricordo le partite a scopone scientifico la domenica sera a Fontanelle, finite tutte le celebrazioni, con gli amici; erano quattro amici, sempre coppie fisse, e le risate e i pugni battuti sul tavolo per una giocata sbagliata e poi le notti a ragionare insieme di poesia e di Dio. Mi ha insegnato ad amare con la stessa intensità il cielo e la terra, questa era la sua grande caratteristica. E, come diceva la Dirigente prima, la caratteristica di Turoldo si trova nelle sue parole: “Guardate che il criterio fondamentale per decidere le vostre scelte, è questo: scegliete sempre l’umano contro il disumano”. Questo è importantissimo soprattutto oggi, in cui viene avanti il disumano ragionevole: si ammantano scelte disumane di ragionevolezza, si truccano di bene comune o di difesa del bene comune scelte disumane. Su questo è necessario per tutti noi vegliare. Che cosa lo fa essere così vivo? La poesia e la profezia, e poi questa insurrezione di libertà; ci ha contagiato di libertà, di sogni e della passione per Dio. Il mondo, per lui, si divideva non tanto fra poveri e ricchi, no, c’era qualcosa di più profondo… lui diceva “Il mondo si divide tra i sottomessi, i sotans, e i ribelli per amore”, così si chiamavano gli uomini della resistenza a Milano. Ecco, lui era, con tutto se stesso, un ribelle per amore. Aveva quella doppia beatitudine segreta, non scritta nel Vangelo, ma scritta dal dito di Dio nella vita di tanti… aveva due beatitudini: quella degli uomini liberi – beati gli uomini liberi e le donne libere, beato l’uomo e felice la donna che ha sentieri nel cuore, strade di libertà – e quella degli oppositori – beato chi sa opporsi al mare, beati coloro che hanno il coraggio dell’opposizione all’ingiustizia, all’indifferenza, allo spirito di sconfitta. Credo che questa opposizione all’ingiustizia sia estremamente importante; se vedi una situazione di ingiustizia e non ti schieri, allora tu ti metti dalla parte dell’oppressore, non ci sono alternative. Lui si opponeva per ubbidienza all’umano, e per ubbidienza alla parola di Dio. Si opponeva a tutto ciò che umilia, emargina, crocifigge, sottomette, ciò che chiude; si opponeva con la parola, con la radio, coi giornali, con i libri. In difesa dei poveri la sua voce diventava un ruggito, il ruggito di un leone. Sapendo che la caratteristica dei profeti, la garanzia della profezia è la persecuzione, lui è anche stato perseguitato. In lui c’era una sorta di spiritualità friulana, se così si può dire che consisteva in questo:
la terra: “la terra è l’immagine di mia madre” oppure “mia madre è l’immagine di questa mia terra”. “Guardavo da ragazzo il volto della Madonna addolorata e il volto di mia madre e non sapevo distinguere l’una dall’altra, si confondevano”. Tre unità fuse tra loro: la terra, la madre, la Madonna;
la gente: la sua spiritualità era quella della gente lavoratrice, povera e di cuore, gente di emigrazioni, ma anche un popolo cantore. Davide amava le villotte, quest canti popolari teneri e forti che terminano però sempre in maggiore, in speranza;
il paese: l’eredità friulana di Davide non è la città o la cittadine, ma sempre il paese, luogo di relazioni, di legami, di radici antiche. Coderno è stato l’elemento fondante della sua spiritualità friulana;
l’essenzialità: poca polvere. Quando io dovevo cominciare a predicare mio papà mi diceva “Pocjis e che si tocjin”, poche parole e concrete. E lui era così: essenziale e concreto. Tutti i profeti hanno un linguaggio franco diretto, un linguaggio che non gira attorno alle cose, che tocca anche le parole degli argomenti più difficili;
il senso di libertà: il senso di libertà e di autonomia che la nostra gente custodisce dai secoli del Patriarcato, senso di diffidenza istintiva davanti a ogni potente, davanti a ogni arroganza
Ecco, se noi potessimo cogliere ancora qualcosa di tutto questo penso che il vero conformarsi, il vero suffragio, lui scrive… “è conformare le nostre azioni ai forti esempi”. Lui è un forte esempio cui conformare le nostre azioni”.
A questo è seguita la visione di alcuni spezzoni del film “Gli ultimi” commentati da padre Ermes (sarà oggetto di un altro post…).
Venerdì 1 febbraio, come ho già avuto modo di scrivere, ero a Trieste per partecipare a ControMafie, gli Stati generali di Libera. Durante la plenaria di apertura c’è stato l’intervento di don Luigi Ciotti, che ho registrato. Questo pomeriggio mi sono messo a riascoltarlo per farne un pezzo da mettere qui. Quanta fatica! E mi è tornato in mente che ho faticato molto anche mentre ero nell’Aula Magna dell’Università… Ecco, rettore Fermeglia, al giorno d’oggi, un’amplificazione migliore, l’Università giuliana la meriterebbe. Per questo motivo non riesco a riportare per intero l’intervento di don Ciotti, ho cercato di fare del mio meglio…
“Io vorrei partire da una domanda cui tutti siamo chiamati a rispondere: come mai dopo 150 anni parliamo di mafia? … I giornalisti hanno subito chiesto come mai a Trieste.
Innanzitutto perché quando nasce Libera, il primo incontro pubblico è stato fatto a Trieste. Paolo Rumiz ha moderato l’incontro, c’era Caselli, c’ero io e soprattutto c’era una persona eccezionale per questa città, don Mario Vatta.
Abbiamo un debito di riconoscenza, un atto di responsabilità con chi è stato assassinato, con chi non c’è più, con chi è rimasto solo, con le famiglie. Già allora eravamo arrivati per tuo zio (dice rivolto a Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina) e torniamo perché i nomi di chi non c’è più non basta dirli con la bocca, dobbiamo sentirli un pochettino qui dentro, altrimenti diventa la retorica della memoria. Noi non vogliamo la retorica della memoria, non possiamo permettercelo, non dobbiamo farlo. E non possiamo dimenticare a nordest un ragazzo di Trento, meraviglioso anche lui, Antonio Micalizzi, giovane giornalista che a Strasburgo ha perso la vita. Le speranze di chi non c’è più devono camminare sulle nostre gambe; noi dobbiamo impegnarci per fare in modo che la memoria sia viva. Noi dobbiamo esser vivi, più degni, più coraggiosi per costruire intorno a noi vita, perché vinca davvero la vita e la morte sia sconfitta.
Ma mi piacerebbe che da questa sala ci si ponesse ancora dei dubbi, perché i dubbi sono più sani delle certezze: quando incontro qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, mi preoccupo. Anzi, se trovate qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, a nome mio e di Giancarlo Caselli, salutatecelo personalmente e cambiate strada. Siamo tutti piccoli. Abbiamo il dovere di continuare a leggere la realtà: l’Italia e la maggior parte degli italiani si sono fermati alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Sono passati 26 anni! E voi (rivolto ai magistrati e alle forze dell’ordine) ci testimoniate come le mafie siano profondamente cambiate. Siamo venuti nel nordest per far emergere le cose belle e positive di questa terra, ricordando anche le parole del papa sull’ecologia integrale: disastri ambientali e disastri sociali non sono due crisi diverse, ma un’unica crisi socio-ambientale.
Allora, 5 anni del rapporto della direzione nazionale antimafia, le antenne dei nostri presidi sui territori, la società civile: quello che emerge impone a tutti noi, anche a chi è già impegnato il morso del più, uno scatto in più. Il problema non sono i migranti, il problema sono i mafiosi nel nostro paese! La commissione antimafia, con voto unanime, scrive che “le organizzazioni mafiose italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni assumendo forme organizzative nuove e modelli di azione sempre più multiformi e complessi”. Cito alcune caratteristiche:
progressivo allargamento del raggio d’azione: non c’è regione d’Italia che possa dichiararsi esente
profili organizzativi: presidi reticolari
più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale e nei mercati: lì è possibile situare il consolidamento del potere delle mafie
promozione di relazioni con attori della cosiddetta area grigia (al confine tra sfera legale e illegale). Non è un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma una commistione tra le due aree. Si tratta di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito.
Tocca a noi cogliere quello che ci viene consegnato dagli organi competenti, metterlo insieme alle nostre conoscenze e alle nostre forze per assumerci di più la nostra parte di responsabilità. Abbiamo il dovere di guardare alle cose positive, ma anche di prendere coscienza che le mafie si rigenerano. Molta gente oggi ha scelto la neutralità: non è possibile scegliere la neutralità. Abbiamo il dovere umile, umile, umile di schierarci. Un abbraccio ai genitori dei ragazzi morti di droga in questa regione: l’onda lunga dell’assenza di futuro per molti giovani comincia a farsi sentire. L’eroina è tornata più di prima, più di vent’anni fa. La droga resta uno degli zoccoli delle organizzazioni criminali mafiose. Abbiamo leggi che ci vengono invidiate, peccato che vi siano piccole virgole o singole parole in grado di stravolgerne l’efficacia. Abbiamo bisogno di chiarezza: azioni chiare, parole autentiche, misurate ma ferme e inequivocabili, capaci di esprimere a un tempo il dolore, la compassione, la condanna, ma sempre anche la speranza. Tutto ciò anche contro i mormoranti, coloro che mormorano per i corridoi… Non dimentichiamoci che gli altri sono i termometri della nostra umanità, compresi quanti vengono da lontano. Non facciamo della legalità un mito: essa è il mezzo, la via per raggiungere quell’obiettivo che si chiama giustizia. La legalità non è il fine. Essa va saldata fortemente alla responsabilità. Leggere nel Rapporto Censis che l’Italia è il fanalino di coda nell’istruzione e nella formazione ci fa sobbalzare sulla sedia. La cultura deve svegliare le coscienze. La legalità senza civiltà, senza educazione, senza cultura, senza lavoro si svuota. Le mafie sono parassiti e traggono forza dai vuoti sociali, dai vuoti culturali. La corruzione è una mano che strozza in guanti bianchi. Siamo chiamati a studiare, a documentarci per attuare un’etica incarnata che inizi dalle piccole cose della quotidianità: cittadini attenti al bene comune e alla responsabilità. Un’ultima parola per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto un gruppo di lavoro sulla corruzione e sulle mafie. La Chiesa deve parlare chiaro senza reticenze, non limitarsi a predicare il Vangelo, ma viverlo nella sua ricerca di verità e nel suo impegno contro le ingiustizie, le prepotenze, gli abusi di potere. In questi anni il papa, dopo aver incontrato un migliaio di parenti delle vittime, è andato sulla piana di Sibari e senza mezzi termini ha gridato che le mafie sono adorazione del male e disprezzo del bene comune e ha detto con forza che tutto questo va combattuto, allontanato, ma ha anche detto che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi non sono in comunione con Dio e ha usato un termine molto chiaro: “sono scomunicati”.
La speranza per il domani poggia sulla resistenza dell’oggi. Le leggi devono tutelare i diritti, non i poteri; devono promuovere la giustizia sociale, non le disuguaglianze o le discriminazioni. La speranza è un diritto ma anche l’orizzonte di una politica seriamente impegnata nella promozione del bene comune; se la politica non fa questo tradisce la sua essenza, non è politica. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizione del potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, perché è da 150 anni che noi continuiamo a parlare di mafie.”
“Che emozione! Che emozione, la mia Trieste… vedervi qui
riuniti, è veramente un’emozione grandissima… parlare di mafie in maniera
obiettiva, consapevole, e di essere anche io qui, personalmente. Il dolore c’è,
ci accompagna quotidianamente, un dolore che non sparisce… impari solamente a
conviverci, un dolore che non svanirà finché non ci verrà restituita la verità.”
Così ha esordito Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina, vittima della strage di
via d’Amelio in quanto membro della scorta di Paolo Borsellino. Era presente
insieme alle due sorelle di Eddie, Oriana ed Edna, alla plenaria di apertura di
Contromafie.
“Io devo dire grazie in particolare al mio papà spirituale,
don Luigi (Ciotti, ndr). L’ho incontrato la prima volta nel 2005 o 2006 alla
Giornata della Memoria delle vittime di mafia, la prima a cui ho partecipato
con la mamma e la zia, e devo dire che è stato veramente liberatorio. Per la
prima volta ho pianto, ho pianto davanti a tutti senza vergognarmi e devo dire
che mi sono sentita a casa, anche se a chilometri e chilometri dalla vera casa…
tutti gli abbracci e l’affetto che ho ricevuti. Soprattutto sono entrata a far
parte della famiglia di Libera che accoglie tutti noi, famigliari delle vittime
innocenti delle mafie e del dovere; in questi anni ci hanno accompagnati con
umiltà, discrezione e tanto affetto, nonché con tantissima pazienza. Ringrazio
tutti i ragazzi di Libera, in particolare quelli del Presidio Eddie Cosina di
Trieste.
Manca un ragazzo qui, tra noi. Manca Eddie. Aveva
trent’anni, ha fatto semplicemente il suo dovere. Ha detto di no due volte alla
vita, prendendo il posto del suo collega, sia partendo da Trieste, sia quel
giorno del 19 luglio a Palermo, quando era arrivato il suo sostituto e gli
disse che avrebbe fatto lui il suo turno così che potesse riposarsi. Io vi
voglio lasciare con il messaggio di portare avanti quei valori per cui i nostri
ragazzi hanno perso la vita per noi, quei valori che molto spesso la società di
oggi ci porta a mettere in secondo piano e a sottovalutare, ma devono essere la
base del vivere civile. Quindi, innanzitutto, il senso del dovere, avere il
coraggio di fare il proprio dovere e mettere al primo posto il prossimo,
piuttosto che noi stessi.
Sono felice anche di essere in un luogo speciale come
questo, l’Università: ho detto in più occasioni che quello che desidero, che
auspico per la nostra Italia e non solo, visto che il fenomeno mafioso non è
una questione meramente italiana, è una sana e buona rivoluzione culturale, che
parta dal basso, dai nostri ragazzi, quindi avendo anche il coraggio di parlare
nelle scuole di mafie, di legalità. Si parla certe volte anche a sproposito di
questi argomenti, bisogna trovare il senso giusto delle parole. E bisogna avere
anche il coraggio di dare un nome e un cognome a persone che ci fanno evocare
pezzi di storia che invece noi tendiamo a dimenticare.
Quindi, con orgoglio, sono Silvia Stener, nipote di Eddie Walter Max Cosina,
agente di scorta del giudice Paolo Borsellino”.
Lo scrittore spagnolo Marcos Chicot immagina, in un pezzo pubblicato domenica 3 settembre su La Lettura, il ritorno di Socrate ai giorni d’oggi. Un brano divertente e ricco di spunti di riflessione.
“Nei suoi primi giorni nel XXI secolo, probabilmente Socrate si incamminerebbe a piedi scalzi verso una biblioteca, in cui si rinchiuderebbe per un po’ in modo da aggiornarsi su quanto avvenuto dopo la sua morte nel 399 a.C. Vestito con la sua abituale tunica austera, forse sorriderebbe soddisfatto nello scoprire che oggi consideriamo l’Epoca Classica (499-323 a.C.) il periodo più straordinario nella storia dell’umanità. In effetti ha dell’incredibile che in così pochi anni, quasi avessero ricevuto un’illuminazione improvvisa, i Greci abbiano creato tanti elementi che oggi sono la base della nostra civiltà. Riassumendo: 1) la medicina giunse al rango di scienza per mano di Ippocrate; 2) in architettura furono eretti alcuni capolavori universali dell’ingegneria come il Partenone; 3) apparvero il teatro e i grandi drammaturghi; 4) Mirone e Fidia reinventarono in modo definitivo il modo di fare scultura; 5) infine, in fatto di politica, i Greci sorpresero il mondo sviluppando una forma di governo fino ad allora ignota: la democrazia. Ora, in quella biblioteca Socrate si acciglierebbe nel leggere che denominiamo «presocratici» i filosofi che lo hanno preceduto, facendo di lui una pietra miliare, il confine che segna un prima e un dopo nella storia del pensiero e, pertanto, dell’umanità. Secondo Platone, l’oracolo di Delfi affermò che Socrate era il più saggio tra gli uomini. La reazione di questi anziché gonfiarsi d’orgoglio come avrebbe fatto qualsiasi mortale consistette nel rifiutare con umiltà il significato letterale di quelle parole, domandandosi come avrebbe potuto essere il più saggio se sapeva solo… di non sapere. L’ammissione della propria ignoranza, al pari della ricerca incessante della conoscenza, lo trasformarono nel paradigma del filosofo. E, come se non bastasse, la sua dialettica rigorosa lo innalzò al ruolo di padre del Razionalismo. Inoltre, aver scelto come elementi principali di riflessione il bene e il male, la virtù e la felicità, ce lo fa considerare il padre della filosofia etica. Infine, essere stato il primo a porre l’uomo al centro dell’attenzione lo rende il padre dell’Umanesimo. Sopraffatto da tanti riconoscimenti, Socrate chiuderebbe i libri e abbandonerebbe la biblioteca per interessarsi alla nostra società. Ci guarderebbe in prospettiva, accarezzandosi irrequieto la barba folta, sorpreso che molte delle conquiste della sua epoca siano scomparse per tanti anni e siano state riscoperte solo di recente, facendo somigliare il nostro mondo al suo: la democrazia, perduta per due millenni fino alla Rivoluzione francese; lo sviluppo di arti e scienze dell’antichità classica, il cui recupero dà il nome al Rinascimento; o lo stesso Umanesimo socratico, riportato alla luce da grandi maestri come Petrarca e Leonardo. «Saranno consapevoli gli abitanti del mondo di oggi che tutto potrebbe andare perduto di nuovo?», si domanderebbe. Aggiornatosi sul passato e sul presente, Socrate si porrebbe gli stessi obiettivi della sua prima vita: dialogare con i concittadini sulle nozioni di base – il bene, la virtù o la giustizia come concetti universali, al di sopra degli interessi particolari. E tornerebbe a impegnarsi nella formazione dei futuri dirigenti, sognando di risvegliare in loro l’idea di giustizia e di fare in modo che non perdano la strada proprio una volta raggiunto il potere. Il filosofo non frequenterebbe più l’agorà come una volta, ma si adatterebbe ai tempi e condurrebbe un programma tv in prima serata (e chi non metterebbe sotto contratto un personaggio così famoso?). In base alle sue linee guida, la trasmissione avrebbe un carattere divulgativo, cui si unirebbe una sezione di interviste tanto a cittadini comuni quanto a personaggi di rilievo della società. Le puntate di maggior successo sarebbero di certo i dibattiti con i politici. Tuttavia Socrate non tarderebbe a scoprire che l’uomo di governo più importante della sua epoca, l’ateniese Pericle, sarebbe un’eccezione oggi come lo era tra i politici dell’Epoca Classica. Non solo perché, nei tre decenni in cui fu alla testa dell’Assemblea della sua polis, l’impero di Atene raggiunse l’apogeo, ma anche perché – allora come oggi – la norma erano i demagoghi, intenti solo a istigare le masse per ottenere un appoggio che soddisfacesse le loro ambizioni di potere, spesso con conseguenze disastrose. «Pericle era l’unico politico che convinceva il popolo con la verità», ricorderebbe nostalgico il filosofo. «E l’unico il cui patrimonio non sia aumentato di una dracma in tutti i suoi anni di governo», aggiungerebbe rattristato, leggendo le ultime notizie sulla corruzione. Lascerebbe cadere i giornali e rifletterebbe sulla somiglianza tra la democrazia ateniese e quelle attuali. La divisione del popolo incoraggiata dai politici, i problemi economici, le famiglie rovinate… dietro tutto ciò vedrebbe l’eterno problema di questo sistema di governo: l’incapacità o il disinteresse della classe dirigente. Ricorderebbe ciò che disse il suo amico Euripide quando lasciò Atene disgustato: «La democrazia è la dittatura dei demagoghi». In ogni caso, Socrate si rallegrerebbe di essere tornato a una società democratica con libertà di espressione e facilità di accesso all’istruzione. Da questo punto di vista, molti Paesi gli sembrerebbero forse al livello della sua vecchia patria ateniese o persino superiori. Lo deluderebbe tuttavia constatare che l’informazione non implica la conoscenza. Resterebbe affascinato dai progressi nella medicina, dal dominio sulla natura, l’energia, la genetica… eppure le domande che porrebbe nel suo programma sulle diverse questioni etiche o sulle conseguenze a lungo termine metterebbero spesso in imbarazzo gli interlocutori. Potrebbe colpirlo l’intreccio fra la tecnologia e la vita quotidiana, ma se si presentasse con il suo abbigliamento sobrio nel reparto delle novità elettroniche di un qualsiasi centro commerciale, allargherebbe le braccia e proclamerebbe allegro, come faceva nel mezzo del mercato di Atene: «Quante cose di cui non ho bisogno!». Dopodiché inviterebbe nella sua trasmissione imprenditori, rettori di università e ministri dell’Istruzione, e dialogando con loro metterebbe il dito nella piaga del sistema: il fatto che gli uomini siano concepiti sempre più come unità di produzione e consumo. Sottolineerebbe preoccupato che la riflessione e il dubbio sono minacciati ogni giorno di più, tanto che ne viene rimosso l’insegnamento dai piani di studio. Come uomo di cultura, potrebbe mettere a disagio i suoi interlocutori usando le parole azzeccate di Francisco de Quevedo: «Un popolo idiota è la sicurezza del tiranno». E, con lo sguardo rivolto ai telespettatori, ci direbbe che la società non ha soltanto un bisogno disperato della filosofia, ma anche di cittadini che difendano e promuovano il pensiero critico. Nessun politico vorrebbe essere ospite della trasmissione, ma il magnetismo del conduttore ne farebbe il programma con l’audience più alta e finirebbero tutti seduti accanto a lui davanti alla telecamera. Politici in vista sarebbero dissezionati e smascherati dalla sua ironia acuta e agile e dalle sue domande in apparenza ingenue. Socrate dimostrerebbe di volta in volta che un idolo è solo una persona comune rivestita dell’ammirazione altrui. Ammirazione di cui rimuoverebbe gli strati, lasciando agli interlocutori un senso di vulnerabilità e risentimento. Le sue interviste risulterebbero esemplari, dimostrando con grande chiarezza che al potere non arriva chi ne sa fare l’uso migliore, bensì chi è più abile nel conquistarlo. E, al tempo stesso, nei suoi dialoghi televisivi proverebbe che per raggiungere il potere si richiedono capacità opposte a quelle necessarie per un suo buon esercizio: in sostanza, ambizione e mancanza di scrupoli. Ma il filosofo non si limiterebbe a parlare con i suoi interlocutori nel programma. Ci guarderebbe attraverso la telecamera («Oh, popolo greco-romano…») e ci rammenterebbe che una delle forme più insidiose di sottomissione è il silenzio, questo grande complice. Socrate non agì mai mosso da interessi propri e non lo farebbe nemmeno ora. Il suo unico obiettivo è stato e sarebbe la ricerca della conoscenza e del comportamento giusto. Per toglierlo di mezzo si indagherebbe sul suo passato a caccia di panni sporchi, ma si troverebbero soltanto un marito fedele alla giovane moglie, padre di tre figli, e un soldato che difese con grande valore la propria patria nella lunga guerra che mise a confronto Atene e Sparta. Tutto ciò vorrebbe dire che Socrate stavolta vincerebbe la sua battaglia contro i sofisti e i demagoghi? Il suo ritorno porterebbe alla sognata rigenerazione della democrazia? Temo che, come in passato, la somma di scomodità, incomprensione e risentimento che si creerebbero intorno al filosofo porterebbero alle stesse conseguenze. Anche stavolta, Socrate sarebbe assassinato.”
“La prima volta che ho visto questo video mi sono quasi commossa; si pensa che coloro che per strada ci fermano per elemosinare qualcosa non siano sempre persone giuste e leali e che noi siamo comunque meglio di loro. Il filmato secondo me vuol anche dire di non avere pregiudizi e di non dare giudizi affrettati. E’ importante riuscire a distinguere le persone buone da quelle cattive.” Questa è stata la gemma di S. (classe terza). Ricordo questa vecchia storiella: “Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il giorno.
“Forse da quando si può distinguere con facilità un cane da una pecora?”. “No”, disse il rabbino. “Quando si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?”. “No”, ripeté il rabbino.
“Ma quand’è, allora?”, domandarono gli allievi. Il rabbino rispose: “E’ quando guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci un fratello o una sorella. Fino a quel punto, è ancora notte nel tuo cuore.”
“Ho portato il libro I segreti di Gray mountain di John Grisham non tanto per il contenuto quanto per la professione della protagonista. Lei, giovane avvocato, è costretta a trasferirsi a causa della crisi del 2008 da New York ai monti Appalachi, dove lavora gratis come assistente legale. Io vorrei diventare avvocato o giudice per garantire anche chi non può permettersi un avvocato: sono persone che vanno tutelate. Per me la giustizia è alla base di tutto; non so come mi sia nata questa mia passione. Farei di tutto per raggiungere l’obiettivo. Mi pongo però una domanda quando sento di alcuni giudici corrotti: come fanno dopo tanti studi e preparazione?”. Questa la gemma di E. (classe terza). Amo i libri di Grisham, ne ho letti parecchi. Riporto da uno di essi, L’ultimo giurato, una citazione che mi sta molto a cuore: “Questi due capisaldi del diritto, la presunzione d’innocenza e la prova oltre ogni ragionevole dubbio, erano fattori di garanzia per tutti, giurati inclusi, sanciti da quegli uomini depositari di saggezza che avevano scritto la nostra Costituzione e la Carta dei diritti.”
Pubblico spesso riflessioni, idee, pensieri molto differenti tra loro, ma che trovo utili per suscitare altre riflessioni, idee, pensieri. L’articolo che segue lo metto come stimolo a me stesso; cerco nelle parole di Enzo Bianchi la spinta verso qualcosa che faccio fatica a ritrovare in me, la fiducia generalizzata nelle istituzioni politiche. Mentre avverto un’immediata sintonia con quanto il priore di Bose scrive collegandolo alla mia esperienza professionale, sento un’enorme difficoltà nel provare passione e fiducia politiche che un tempo sentivo forti in me. Ecco allora questo articolo pubblicato il 2 gennaio su La Repubblica come auspicio.
“Molti leggono la crisi attuale come crisi di fiducia in campo finanziario, economico e politico ma, più in profondità, a livello culturale ed etico. È la diagnosi che emerge anche dall’indagine “Gli italiani e lo stato” condotta da Demos per Repubblica e commentata da Diamanti su queste pagine. Ritengo perciò che, all’apertura di un nuovo anno, valga la pena riflettere ancora sulla fiducia: sentimento, atteggiamento ed esperienza che appare decisiva nell’esistenza di ogni persona così come nella vita sociale della polis. Non possiamo vivere senza porre la fiducia in qualcuno né senza ricevere fiducia da qualcuno, dagli altri. Ognuno di noi è nato perché sentiva questa spinta ad avere fiducia nella vita, in chi lo portava in grembo, in chi lo poteva accogliere. E ciascuno è venuto al mondo proprio grazie alla fiducia originaria posta nei genitori o in chi ci ha accompagnato nella nascita. Parimenti le nostre storie d’amore sono possibili solo quando uno sa mettere la fiducia in un altro, in un’altra e da questi riceverla. La fiducia è la realtà che rende possibile il vivere e il vivere in relazione: nell’amicizia, nell’amore, nel rapporto maestro-discepolo, nella relazione medico-paziente… Se una persona non riesce a fidarsi di nessuno, è condannata all’isolamento, imprigionata in una situazione mortifera. È proprio la fiducia che può creare il legame sociale e generare la comunità: a livello politico la mancanza di fiducia genera una stanchezza nella democrazia e quindi ne mina la credibilità, aprendo lo spazio alla barbarie. Se la fiducia oggi difetta lo si deve in particolare a un triplice disincanto, sul piano economico, politico e identitario. Il senso del vivere insieme è compromesso dalla logica del mercato che privilegia l’interesse particolare e nega l’istanza di solidarietà; la vita politica offre il triste spettacolo di uno scollamento rispetto ai cittadini e di una autoreferenzialità elettiva che genera diffidenza e inaffidabilità; l’identità collettiva è smarrita e regredisce in un appiattimento su comunanze di tipo tribale. Dobbiamo allora porci una domanda: come mai siamo precipitati in questa situazione in cui si afferma che è meglio diffidare, diffidare sempre, diffidare di chiunque? Quali sono i fattori che hanno minato la fiducia che si era creata sulle macerie della seconda guerra mondiale? Quella fiducia sociale che ci aveva dato la possibilità di una convivenza capace di assumere un progetto comune e di condividere una speranza? Tra i fattori decisivi va annoverata l’illegalità crescente che si è espansa come un’epidemia, dalla quale nessun potere e gruppo sociale è restato immune. L’illegalità macroscopica, quasi sempre impunita, ha autorizzato un’illegalità quotidiana e minuta, che sembra rispondere al “così fan tutti”. Questa illegalità ha minato il senso di sicurezza e il bisogno di protezione dei cittadini, immettendo in loro una sfiducia e tentandoli, seducendoli fino a condurli a non darsi pena della collettività, a scambiare l’etica con il “fare i moralisti”, a lasciar correre… Insieme ai fattori ricordati di autoreferenzialità e di mancanza di senso del bene comune e del servizio alla polis, l’illegalità ha reso inaffidabili molti soggetti politici e le stesse istituzioni di rappresentanza democratica. I cittadini si sentono sempre più lontani dalla politica e finiscono per non partecipare più all’edificazione della polis che sembra invece sequestrata dai partiti, da forze o gruppi di potere sovente nascosti e dunque viene valutata come non possibile, ormai preda dei corrotti. Qualcuno sostiene che viviamo già nell’epoca della post-democrazia e, a causa di questa debolezza della politica, si affermano il populismo, il sorgere del “salvatore” di turno, la smobilitazione dei corpi sociali, il conformismo e la degradazione dell’etica incapace di competere con illusioni che catturano le masse. La consapevolezza di essere cittadini di una polis comune ha ceduto il passo alla rassegnazione di essere consumatori in un mercato dopato, in cui la libera concorrenza è divenuta corsa alla sopraffazione, al dominio del più forte o del più furbo. E in questo precipitare della qualità della convivenza politica, vanno in frantumi e sono calpestate la solidarietà, l’attenzione ai deboli e alle vittime della storia. Così i cittadini-consumatori continuano a credere ad annunci e promesse dei soggetti politici, nonostante non se ne vedano le condizioni e tanto meno i segnali di attuazione. Paure e illusioni sono fabbricate un giorno, esasperate quello successivo e dimenticate o mutate il giorno dopo ancora. Le persone sono sempre meno capaci di critica, il dibattito ragionato viene considerato una perdita di tempo e sostituito da urla tra sordi, l’incalzare di sondaggi di ogni tipo e qualità ha rimpiazzato il faticoso delinearsi di una “opinione pubblica”: così si passa d’inganno in inganno, perdendo sempre più il contatto con la realtà. Fino a quando? Sì perché, come ci insegna la storia, a un certo momento sopraggiunge un punto di rottura in cui all’incapacità di indignarsi e di impegnarsi segue la reazione irrazionale di chi si nutre di violenza. Allora, che fare? Si tratta ora più che mai di rischiare la fiducia a partire dalle nostre relazioni personali, di ribadire la necessità della fiducia come fondamento della vita sociale. “Camminando si apre cammino”, così avendo fiducia si fa crescere la fiducia. I dati dell’inchiesta commentata da Diamanti dovrebbero suonare per tutti come un allarme: l’assuefazione alla sfiducia nelle istituzioni, negli altri, nel futuro non fa che asfaltare la strada alla barbarie e alla violenza. Sta a noi aprire un percorso diverso, resistendo, mettendo fiducia in noi stessi, esercitandoci con convinzione ad avere fiducia negli altri e a non tradire la loro, a partire da chi ci sta accanto. Il primo passo per amare gli altri come se stessi consiste proprio nell’avere fiducia negli altri almeno come in se stessi. La fiducia va cercata alla sorgente: nelle modalità dei nostri rapporti con noi stessi, con gli altri, con il futuro, con la storia, con il fatto stesso di vivere. Sì, la fiducia nella vita è ancora possibile, è un dovere e una promessa di cui siamo debitori verso gli altri e verso noi stessi.”