Siamo fatti così. Ma così come?


Ricordo un vecchio cartone animato dal titolo “Siamo fatti così”. Sostanzialmente spiegava com’è fatto il corpo umano. Mi è tornato in mente dopo aver ascoltato Arianna Zottarel, ricercatrice universitaria e autrice del libro “La mafia del Brenta. La storia di Felice Maniero e del Veneto che si credeva innocente”. Nel suo intervento del 2 febbraio scorso a Trieste ha parlato della mafia del Brenta e soprattutto della considerazione sociale intorno a tale vicenda. Trovo utili le sue parole in preparazione all’incontro di domani mattina tra gli studenti delle scuole di Udine e don Luigi Ciotti di Libera.

“Il punto da cui sono partita è stato quello di vedere la mafia del Brenta come un fenomeno che porta con sé tutta una storia di negazionismo, minimizzazione e sottovalutazione del fenomeno mafioso in Veneto. Questi processi su più fronti in realtà hanno sempre interessato il Veneto, così come altre regioni del nord-Italia, non sempre per complicità ma anche per problemi dovuti alla scarsa conoscenza del fenomeno o per le poche grandi operazioni della Magistratura che non hanno scosso il territorio veneto come hanno fatto in altre realtà. E quando pure lo hanno fatto, l’atteggiamento spontaneo è stato quello, un po’, di un’autocensura sociale e spesso anche giornalistica, di una minimizzazione da parte delle Istituzioni proprio perché c’era questo atteggiamento di voler tutelare l’immagine del territorio: un Veneto del turismo, un Veneto dell’impresa, un Veneto che sicuramente non si voleva associare alla parola mafia. Invece, nonostante risulti quasi sempre fanalino di coda in tema di criminalità organizzata, in realtà il Veneto è stato una regione a non tradizionale presenza mafiosa in cui è cresciuta e si è sviluppata una mafia autoctona. Questa storia si è anche andata velocemente dimenticando e non si è costruita molta teoria come è stato per le altre organizzazioni.
La mafia del Brenta ha operato soprattutto a Padova, nelle provincie di Padova e di Venezia, dalla metà degli anni ‘70 alla metà degli anni ‘90, ed è un’organizzazione che ha dei connotati molto diversi da quelli che conosciamo delle altre organizzazioni tradizionali, proprio perché è stata influenzata dagli aspetti politici, economici, sociali, culturali e criminali di quegli anni. Parliamo pertanto di un nuovo insediamento mafioso: non è il risultato di un processo di esportazione o di colonizzazione. Le caratteristiche sono diverse, a partire dalla sua struttura organizzativa: mentre Cosa Nostra e ‘Ndrangheta hanno struttura unitaria, verticistica e gerarchizzata e la Camorra tende ad avere una struttura più ad arcipelago e polverizzata, la mafia del Brenta non ha dei modelli da tramandare, non ha un’eredità né una storia. Nasce per delinquere e ha assunto la forma organizzativa più congeniale ai suoi scopi: un network, una rete, egocentrata sulla figura di Felice Maniero, leader del gruppo. Ciò le permetteva di essere molto flessibile, molto veloce e di far entrare nella rete diverse abilità criminali che consentivano di mantenere l’autonomia, fondamentale in una realtà che vedeva presenti più cellule criminali sul territorio. Beneficiando del capitale sociale prodotto da questa rete, si è creata una grande zona grigia ed è emerso il grande potere corruttivo di questa organizzazione: medici, imprenditori, esponenti delle forze dell’ordine si sono messi a servizio dell’organizzazione permettendole di godere di ottima salute e di proseguire nei propri progetti criminali. Penso che senza questa forza corruttiva, senza questa fitta rete di corruzione, l’organizzazione sarebbe rimasta in uno stato embrionale: dei rapinatori organizzati aspiranti mafiosi, più che mafiosi in senso stretto.
E’ poi sicuramente importante valutare il contesto per capire l’organizzazione. Nei 15 anni di vita si sono passate 3 pagine fondamentali:

  • da metà a fine anni ‘70: criminalità minore con ristretto gruppo di aderenti dediti soprattutto alla rapina e all’organizzazione del gioco d’azzardo clandestino. Va considerata più come una pagina di banditismo
  • 1980-1984: criminalità emergente, aumento della quantità, formazione di un capitale economico molto importante proveniente da varie attività illecite
  • 1984-1994: criminalità consolidata e solida, riconosciuta, aumentata nel suo network sia a livello quantitativo ma anche qualitativo; diversificazione delle attività (dal traffico di stupefacenti al traffico d’armi)

La storia della mafia del Brenta ci mostra anche la storia del successo della Magistratura proprio perché non è facile imputare un’organizzazione di 416 bis in una regione di non tradizionale presenza mafiosa, a maggior ragione quando si tratta poi di una mafia autoctona. Per i giudici questa era sicuramente un’organizzazione mafiosa, autoctona e autonoma nei suoi comportamenti, nella sua vocazione criminale e anche nella sua composizione. “Mafiosi dell’ultima ora” così si definiva Felice Maniero parlando di se stesso e della sua organizzazione: mafioso perché sicuramente capace di avvalersi della forza di intimidazione e di assoggettamento, di omertà, e di un capillare controllo del territorio; mafioso perché capace di instaurare rapporti di dipendenza personale, di usare la violenza come suprema regolazione dei conflitti, di stringere alcuni legami con la politica (meno in Italia e più all’estero). Eppure, spesso, quando si parla di mafia del Brenta, la si chiama “mala”; spesso si pensa che sia un’opinione pensare che questa sia mafia, invece c’è una sentenza di cassazione che determina questo. E’ molto importante porre questo accento perché per molto tempo, negando l’esistenza di una mafia, si è negato tutto un apparato che esisteva e che non si è andati a guardare, così come si sono negate anche le vittime innocenti, a partire da Cristina Pavesi, studentessa universitaria di 22 anni uccisa durante una rapina. Per molto tempo, non riconoscendo questa organizzazione come mafiosa, non si sono riconosciute neanche le vittime. E’ pertanto importante sottolineare questo aspetto per fare memoria, ma anche per altri due motivi:
1. l’organizzazione si è posta come agente di trasformazione sociale nella sua regione, cambiando le dinamiche, modificando gli assetti e aprendo una stagione di interessi importanti mafiosi verso il nord-est (si sono verificati dei vuoti e quando c’è un vuoto nel mondo del crimine viene immediatamente riempito);
2. nonostante l’organizzazione sia finita da tanti anni, esiste ancora un forte conflitto culturale che emerge proprio dalla percezione del fenomeno. Nei luoghi più significativi della mafia del Brenta emerge una stanchezza di voler sentire sempre il nome del luogo affiancato alla parola mafia (ad esempio Campolongo Maggiore); si cerca un po’ di dimenticare anche se sono state fatte moltissime attività. Nel resto d’Italia c’è una percezione completamente diversa, una narrazione costruita sul carisma di Felice Maniero, su molti luoghi comuni che hanno creato un cono d’ombra sulla vera organizzazione: non si parla di omicidi, non si parla di sequestri, non si parla di traffico di stupefacenti, ma delle grandi evasioni o delle grandi rapine. Ad esempio, l’anno scorso, ad Ercolano, in provincia di Napoli, il volto di Maniero è diventato il logo per un ostello, chiamato Hostello Felice. Fa capire quanto nel resto d’Italia non si abbia idea di quanto stiamo parlando.
Ritengo pertanto fondamentale continuare a parlarne, non tanto concentrandoci sul carisma di Felice Maniero o sui lati folcloristici, ma cercando di capire quali sono state le variabili che hanno potuto far nascere e crescere così velocemente un’organizzazione tale nel Veneto che si credeva innocente. E ci può aiutare a capire come anche altre mafie autoctone si sviluppano e si sono sviluppate in Italia.”

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