Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.
“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani. Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani. Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra. La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire. La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo. Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita. Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere. Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.
È più di un mese e mezzo che non aggiorno il blog. Mi sono preso una pausa in occasione della settimana santa e del periodo pasquale, mi sono tuffato in impegni di lavoro e in relazioni amicali e famigliari, sono stato a Rimini a un convegno della Erickson sugli adolescenti, ho concluso un corso di friulano (volevo imparare a scriverlo correttamente), sono stato a Roma per una formazione di due giorni organizzata da Libera sulla violenza di genere, e tante altre cose che non sto qui a scrivere.
Ma oggi, anche se adesso la mezzanotte è passata, ci tenevo a scrivere qualcosa. Quest’anno nelle classi quarte abbiamo lavorato sul tema della Mafia e sull’importanza di fare memoria, di condividere memorie. Studentesse e studenti hanno “adottato” una vittima innocente di mafia e hanno provato a raccontarne la storia in prima persona. E poi l’hanno letta in classe. Storie di donne, di bambini, di ragazze, di poliziotti, di giornalisti, di passanti, di carabinieri, di famigliari, di testimoni… Ci siamo emozionati.
Per non far torto a nessuno, però, qui voglio pubblicare parte del lavoro di una scuola lontana dalla nostra realtà, ma molto vicina a quella dei fatti del 23 maggio 1992: il lavoro della Classe III B dell”Istituto Comprensivo “G. Marconi” di Palermo, che ho letto qui. Con la storia di una donna desidero fare memoria anche di Antonio, Giovanni, Rocco e Vito.
Francesca Morvillo. 17:58 Francesca Morvillo; abbiamo parlato di questa donna a scuola oggi. Era la moglie di Giovanni Falcone, l’hanno descritta come una donna coraggiosa, intelligente, insomma una donna che ha lasciato il segno. Ma io fino a ora non ne avevo mai sentito parlare. Sapevo che Falcone aveva una moglie, ma non sapevo chi fosse, come si chiamasse, che aspetto avesse. Finalmente la campanella suonò, e noi ritornammo a casa. Il pranzo fu silenzioso come non mai. Mia madre non mi chiese niente su com’era andata la scuola e nessuno parlava. O forse ero io che non ascoltavo. I miei pensieri erano rivolti solo a Francesca. Finito di pranzare, decisi di fare subito il compito che ci avevano assegnato su di lei. Presi un foglio dal quaderno e cercai di buttare giù qualche idea, ma niente! Passai una mezz’ora davanti a quel foglio bianco a girarmi la penna tra le mani. Niente. La mia mente era vuota. -Intanto quando è nata? – mi chiesi. -14 dicembre 1945. – mi rispose una voce. Mi girai verso la porta, credendo fosse mia madre. Non c’era nessuno. Feci spallucce e riportai lo sguardo al foglio. -E poi è morta nel? – mi chiesi di nuovo ad alta voce. -23 maggio 1992. – Mi girai di nuovo verso la porta, ma non trovai nessuno. C’ero solo io. -D’accordo deliro. È quello che succede quando vai troppo a scuola. – cercai di sdrammatizzare per poi rimettermi a scrivere. Poi riguardai il testo, leggendolo ad alta voce. -“Francesca Morvillo, nata il 14 dicembre 1945 e morta il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci, era la moglie di Giovanni Falcone.” E adesso… credo basti. – mi dissi fra me e me, così feci per posare la penna, ma sentii la stessa voce di prima ridere. -Lo sai che Francesca Morvillo non era solo “la moglie di Falcone”? – mi disse. Rimasi pietrificata. -Troppo studio, sto impazzendo. – la voce rise di nuovo. Era una risata dolce, cristallina. -Tu sai chi è Francesca Morvillo? – mi chiese. Annuii. -La moglie di Falcone? – risposi. -E poi? – il silenzio. La voce rise di nuovo. -Beh, intanto era una donna, un magistrato, una moglie, una vittima della mafia ed ero io.- ero nel bel mezzo di una crisi di nervi. Mi girai di nuovo verso la porta, ma non trovai nessuno. Guardando verso il letto invece trovai una donna, una meravigliosa donna dai capelli biondi e corti, vestita con una giacca color avorio e dei pantaloni larghi dello stesso colore, seduta comodamente sul mio letto. -Vedo cose. Magari dormire quattro ore stanotte non è stata una buona idea… – la donna rise di nuovo. Cercai di non dare troppo peso a quella strana presenza e decisi di fare qualche ricerca fotografica su internet. Guardai un pò di foto di Francesca e poi mi venne un flash. Guardai la foto, poi la donna seduta sul mio letto, poi di nuovo la foto, poi ancora la donna. Continuai così finché non m iniziò a girare la testa. -Sono confusa. – la donna, dopo un istante di silenzio mi sorrise. -E comunque la mia tesina si chiamava “Stato di diritto e misure di sicurezza”. – mi disse, come se mi avesse letto nel pensiero. -Si grazie. Era proprio quello che mi serviva. – dissi, scrivendo la nuova informazione sul foglio davanti a me, le quali righe stavano iniziando a riempirsi. -Francesca Morvillo che lavori ha fatto? – mi chiesi in mente per non farmi sentire da quella donna. -Sono stata Giudice del Tribunale di Agrigento, sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale per minorenni di Palermo, Consigliere di Corte d’Appello di Palermo e parte della Commissione per il concorso d’accesso alla Magistratura. – mi rispose la donna, o meglio Francesca, sorridendo. -… Non ho capito niente ma ok, ha fatto tanti lavori. – mi stupii di me stessa per aver parlato con una figura creata dalla mia testa. -Ma non sei – cioè non è stata anche insegnante? – lei ci pensò un attimo. -Si, facoltà di Medicina e Chirurgia dell’ateneo palermitano. Ero insegnante di legislativa nella scuola di specializzazione in Pediatria. E ti prego dammi del “tu” non sopporto più il “lei”. – rispose. -In quanto a Falcone, vi sposaste nel? – non ci pensò un attimo che subito mi rispose. -Maggio 1986, ci sposammo in privato. C’erano solo i testimoni e il sindaco. Mi ricordo ancora tutto in ogni minimo dettaglio.- le si illuminarono gli occhi mentre parlava di tutto quello che era accaduto al matrimonio. Mi raccontò anche del sindaco Orlando, che aveva celebrato le nozze. La pagina piano piano si riempiva sempre di più. -Tu avresti voluto avere un bambino? – le chiesi. Lei abbassò lo sguardo. -Io avrei voluto, ma sapevo che non potevamo. Eravamo troppo impegnati nel nostro lavoro. E poi Giovanni lo diceva “non voglio orfani” perché lui lo sapeva che alla fine si sarebbero liberati di lui. Anzi, di noi. – mi spiegò. Era un tasto dolente, lo capivo. -Com’era la vita sotto scorta? – le chiesi. Si fermò un attimo per pensare. -Orribile. L’unica parola che mi viene in mente, ma era necessario per la nostra sicurezza. Ci siamo persi tante cose della vita, la nostra non era mica una vita come quella di tutti gli altri. Non potevamo andare in luoghi pubblici, tranne il posto di lavoro. Dovevamo sempre spostarci in auto blindate e a prova di proiettile, non potevamo andare al ristorante o a fare una passeggiata sulla spiaggia di Mondello, in piazza, o semplicemente per le vie delle strade per incontrare amici. Non posso dire di avere avuto altri amici oltre la mia famiglia, ma Giovanni… lui aveva Paolo. – sembrava volesse dire altro, ma era come se le parole le rimanessero intrappolate in gola. Rimasi in silenzio per un pò, poi presi fiato. -Francesca, perché non sei scappata? Intendo, sapevi che era molto pericoloso continuare a stare con Giovanni, ma non sei andata via. Eppure lui te lo diceva “vai via, scappa, salvati” ma tu non l’hai ascoltato e a Capaci… – mi fermai. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, il sorriso che aveva tenuto per tutta la conversazione era svanito, lasciando il posto a un flebile e malinconico sorrisetto. -Io ero consapevole dei gravissimi pericoli a cui Giovanni andava incontro, a cui entrambi andavamo incontro, ma non l’avrei lasciato mai da solo. Ho scelto di stare con lui, di sposarlo, di aiutarlo e incoraggiarlo sempre perché lo amavo e sapevo che ne aveva bisogno. E ho deciso io che se fosse morto, sarei morta con lui. In fondo “finché morte non vi separi” giusto? – annuii. Le parole di Francesca erano molto profonde, mi sentii quasi bloccata. -Francesca… cosa è successo esattamente nel ritorno da Roma a Capaci. Era la A29 Palermo – Trapani giusto? E su questo sito dice che “alle ore 17:58, Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 1000 kg di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada” è così che è successo? E dice anche che “la prima auto, la Croma marrone, fu investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo. La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio, proiettando violentemente Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza.” E senti questo “Francesca Morvillo, ancora viva dopo l’esplosione, viene trasportata prima all’ospedale Cervello e poi trasferita al Civico, nel reparto di neurochirurgia, dove però muore intorno alle 23 a causa delle gravi lesioni interne riportate.” Quindi è questo che è successo? – Quando incontrai il suo sguardo, mi resi conto di quello che avevo detto e me ne pentii. La sua espressione era seria, o per meglio dire vuota. Feci per scusarmi ma lei mi precedette. -Si è successo proprio quello. Non mi ricordo molto del momento in cui la strada saltò in aria, i miei ricordi sono sfocati. Ricordo solo di avere avuto Giovanni accanto, poi un leggero sibilo e all’improvviso un potente tuono e un forte mal di testa. Dopo di quello non ho più sentito niente. Girava tutto, mi fischiavano le orecchie e vedevo sfocato… poi non sentii più niente. Era come fossi…morta. Ma non fu così; dopo non so neanche io quanto iniziai a sentire delle voci, c’erano persone accanto a me, ne sentivo la presenza. Parlavano di Capaci e di Giovanni. “è morto il Giudice” dicevano. Era morto. Giovanni era morto. Erano morti tutti, li avevano uccisi tutti. Ce l’avevano fatta. Ci avevano eliminati. Quella stessa notte alle 23. – il silenzio. Scrissi le ultime parole. -E poi? Alle 23 sei… hai capito no? Francesca? – nessuna risposta. Forse avevo detto troppo. Mi girai verso il letto. Vuoto. Non c’era nessuno, era come sparita nel nulla così com’era arrivata. Guardai l’orologio; 17:58. Sospirai, un pò delusa, ma contenta di avere almeno potuto parlare con una donna come lei. Me ne sentivo quasi orgogliosa, anche se sapevo non avrei potuto parlarne con nessuno, o mi avrebbero preso per pazza. -Merenda! – chiamò mia madre dalla cucina. Mi alzai posando la penna sulla scrivania e mettendo il foglio ormai pieno al sicuro in un raccoglitore. -Grazie Francesca. – mormorai. Francesca Morvillo. Una donna con i fiocchi e i controfiocchi.
Non è un tema sul quale è facile approfondire le cose in classe, un po’ perché piuttosto specifico, un po’ perché c’è un po’ di confusione anche tra gli studiosi. Ho trovato un articolo di due anni fa, ma aggiornato di recente (ieri!), sulla questione delle voci autorevoli all’interno del mondo islamico. La fonte è il sito Oasis e l’autore è Michele Brignone.
“Si afferma spesso che nell’Islam non esiste un’autorità religiosa. In realtà, le figure che svolgono questo ruolo sono numerose, ma sono scarsamente istituzionalizzate e soprattutto non sono organizzate gerarchicamente. Lo dimostrano anche i molti termini che sono usati per definire gli specialisti di religione (ulema, imam, shaykh…). Questa guida prova a fare un po’ di chiarezza.
Imām letteralmente “guida”, è il capo della comunità islamica. Storicamente è il termine più antico impiegato dai musulmani per designare i primi successori di Muhammad, insieme ad amīr al-mu’minīn (“comandante dei credenti”), titolo di cui si fregia ancor oggi il re del Marocco. In ambito sunnita questo termine è diventato sinonimo di califfo, che ha finito per prevalere nell’uso. Secondo la definizione classica del giurista Abū l-Hasan al-Māwardī (m. 1058) “l’imamato è istituito per supplire alla profezia nella salvaguardia della religione e nella gestione degli affari terreni”. L’imām deve dunque preservare il messaggio religioso rivelato a Muhammad e sovrintendere all’amministrazione della comunità. Tra i compiti che i giuristi sunniti gli assegnano vi sono l’amministrazione della giustizia, la fortificazione dei confini, la conduzione del jihad contro gli oppositori dell’Islam, la raccolta del bottino e la designazione di governatori per le province. In teoria, per assumere legittimamente la funzione di imām occorre essere investiti dalla comunità tramite i suoi rappresentanti, poiché nessuno può vantare un diritto intrinseco all’imamato. Il candidato inoltre non può avere difetti fisici, deve essere giusto, possedere le competenze necessarie all’interpretazione della legge, avere capacità di governo, essere dotato di forza e coraggio per condurre il jihad, nonché appartenere tribù dei Quraysh, dalla quale proveniva anche Muhammad. In realtà molto spesso i giuristi hanno dovuto derogare a uno o più di questi criteri. Per questo i musulmani considerano che dopo l’epoca dei primi quattro califfi, detti “ben guidati”, e con poche altre eccezioni, l’imamato abbia finito per degenerare, trasformandosi in un mero potere monarchico (mulk). Inoltre, a partire dal X secolo il potere effettivo non è stato più esercitato dall’imām, ma da sultani ed emiri (comandanti militari). Anche per questo l’autorità, nel mondo sunnita, finisce per trasferirsi dalla figura del califfo/imām alla comunità nel suo insieme, e in particolare ai detentori del sapere religioso, gli ‘ulamā’. Peraltro, è probabile che i primi imām/califfi avessero prerogative più ampie e religiosamente connotate rispetto alla teorizzazione degli ‘ulamā’, che ragionano sul modello del califfato abbaside (VIII-XIII secolo). In senso più generale, imām è per i sunniti anche chiunque guidi la preghiera. Il termine è inoltre utilizzato come titolo onorifico per alcuni ‘ulamā’ particolarmente autorevoli, per esempio i fondatori delle quattro scuole giuridiche riconosciute. Diversa la situazione tra gli sciiti, per i quali l’imām non è soltanto la guida temporale della comunità, ma detiene anche un carisma religioso, che ne fa l’interprete vivente e infallibile della rivelazione, assumendo spesso una dimensione metafisica (“Imām di luce”). Secondo gli sciiti inoltre l’imamato non viene conferito per nomina, ma è una prerogativa dei discendenti di Muhammad, a partire dal cugino e genero ‘Alī. A sua volta lo sciismo è suddiviso in diverse correnti, ciascuna con una propria catena di imām. Secondo gli sciiti duodecimani (Iran, Iraq, Libano, Bahrein, Arabia Saudita), che rappresentano la corrente maggioritaria, a Muhammad succedono dodici imām. L’ultimo di essi si sarebbe occultato nell’874 d.C. e tornerà alla fine della storia per ristabilire la giustizia. Secondo gli sciiti ismailiti, il settimo imam, da loro identificato in Ismā‘īl Ibn Ja‘far, inaugura un nuovo ciclo profetico che trascende le religioni storiche. Secondo gli zayditi, oggi diffusi soprattutto in Yemen, l’imām non è infallibile e può essere scelto tra qualsiasi discendente di ‘Alī tramite i suoi due figli Hasan o Husayn.
Califfo
Califfo letteralmente “successore, vicario”, è sinonimo di imām come capo della comunità in ambito sunnita. Nei versetti coranici in cui ricorre il termine (2,20 e 38,26), califfo (in arabo khalīfa) è riferito ad Adamo e a David, in entrambi i casi come vicari di Dio sulla terra. Alcuni tra i primi califfi intesero in questo senso la loro funzione. Tuttavia secondo gli ‘ulamā’ il termine è da intendere esclusivamente nel senso di khalīfat rasūl Allāh, “vicario dell’inviato di Dio” (e non “vicario di Dio”), cioè come guida temporale della comunità, senza particolare carisma religioso. In epoca moderna il califfato ha finito per designare il progetto politico di uno Stato islamico universale, fondato sull’applicazione della sharī‘a.
‘Ālim
‘Ālim (pl. ‘Ulamā’) letteralmente “colui che sa”, dotto. Il termine indica gli studiosi e gli esperti delle scienze religiose: teologia, esegesi coranica, hadīth (detti profetici) e soprattutto diritto (fiqh). È questo sapere, unito alla pietà personale, a conferire agli ‘ulamā’ una particolare autorevolezza come guardiani e interpreti della tradizione religiosa. Un detto di Muhammad ne fa gli “eredi dei profeti”. Non sono però un corpo istituzionalizzato, benché storicamente mostrino una forte identità di gruppo. Nei primi secoli dell’Islam si organizzarono indipendentemente dal potere politico, anche se molti di essi assunsero incarichi ufficiali a corte o nell’amministrazione. Tuttavia il loro prestigio dipendeva anche dalla distanza critica che riuscivano a mantenere rispetto ai governanti. Nell’Impero ottomano furono integrati all’interno dell’amministrazione e dotati di una struttura gerarchica, al vertice della quale si trovava lo Shaykh al-Islam (in turco Şeyhülislam), che aveva il compito di presiedere all’amministrazione religiosa dell’Impero. L’incorporazione degli ‘ulamā’ e la loro organizzazione amministrativa all’interno delle strutture statali permane anche in molti Stati musulmani moderni e contemporanei. Sempre in epoca moderna l’autorità degli ‘ulamā’ è stata messa in discussione dalla presenza di nuovi intellettuali musulmani, sia di orientamento islamista che modernista, che ai dotti hanno spesso rimproverato l’eccessiva vicinanza al potere politico e l’incapacità rinnovare il sapere tradizionale per adattarlo alle esigenze della vita moderna. Tuttavia, per quanto trasformato, il ruolo degli ‘ulamā’ non è venuto meno. Negli ultimi decenni molti di loro hanno dato vita a nuove associazioni e istituzioni, spesso di carattere transnazionale, come l’Unione mondiali degli Ulema musulmani (fondata e presieduta dallo shaykh Yousef al-Qaradawi), o il Consiglio dei saggi musulmani (presieduto dallo shaykh Ahmad al-Tayyeb, grande imam di al-Azhar).
Shaykh
Shaykh letteralmente significa “vecchio”, “anziano” ed è il titolo con cui nel mondo arabo si designano le autorità tribali. Nell’ambito della spiritualità sufi, lo shaykh è il maestro di una via mistica. Chi svolge questo ruolo è talvolta chiamato anche murshid (guida). Storicamente, molti ‘ulamā’ erano anche shaykh sufi, ciò che contribuiva ad accrescere il loro prestigio religioso e sociale. Nell’Islam di lingua persiana, l’equivalente dello shaykh è il pīr. Più in generale shaykh è anche il titolo con cui ci si rivolge a uno ‘ālim, in particolare se esso ricopre un ruolo istituzionale, come lo Shaykh al-Azhar, guida dell’importante centro d’insegnamento del Cairo, o, nell’Impero ottomano lo Şeyhülislam (si veda sopra la voce ‘ālim).
Faqīh
Faqīh è un ‘ālim esperto di fiqh, cioè di diritto. Il faqīh particolarmente versato nella sua scienza può essere mujtahid, cioè praticare l’ijtihād, lo sforzo interpretativo basato sul ragionamento personale con cui, in assenza in una norma esplicita contenuta nel Corano o nella tradizione profetica, il giurista esprime un parere o emette un giudizio. Il giurista che invece si attiene al parere di un altro dotto senza ricorrere al ragionamento personale è un muqallid, cioè uno che pratica il taqlīd, l’imitazione.
Qādī
Qādī è il giudice. In epoca premoderna, il qādī era colui che applicava la legge religiosa e doveva perciò essere un ‘ālim. In quanto funzionario ufficiale, il qādī era in teoria un delegato del califfo, detentore originario di tutti i poteri della comunità musulmana. Al vertice della struttura giurisdizionale dello Stato si trovava il Qādī al-qudāt (“il giudice dei giudici”), che presiedeva all’amministrazione della giustizia. Con la fine del califfato abbaside e la frammentazione politica della comunità musulmana, ogni regno o sultanato si dotò del suo Qādī al-qudāt, istituzione che fu ripresa anche dall’Impero ottomano. In epoca moderna, con il ridimensionamento della giurisdizione religiosa a vantaggio di tribunali civili, anche le funzioni dei qādī religiosi si sono molto ridotte.
Muftī
Muftī è un ‘ālim abilitato e emettere fatwe, cioè pareri giuridici su particolari punti di diritto. I muftī più autorevoli hanno avuto un ruolo importante nella formazione del diritto islamico, perché le raccolte delle loro fatwe sono state utilizzate come manuali di diritto. Secondo la dottrina classica, per poter esercitare la funzione di muftī occorre essere dotati di integrità personale e della scienza necessaria a praticare l’ijtihād, cioè la capacità di raggiungere una soluzione a un particolare problema giuridico esercitando il ragionamento personale. Già a partire dal settimo secolo i muftī sono stati integrati nella struttura dello Stato, che provvedeva a designare i giuristi abilitati a svolgere tale compito. Anche nell’Impero ottomano, la funzione di muftī fu istituzionalizzata e attribuita alle più alte cariche della struttura religiosa. In epoca moderna e contemporanea, molti Stati dispongono di un muftī ufficiale. In questi casi molto spesso il muftī non si limita a fornire pareri giuridici, ma è il più alto dignitario religioso dello Stato. Un fenomeno recente è quello dell’emissione di fatwe da parte di istituzioni indipendenti dagli Stati, come il Consiglio Europeo per la Fatwa, o da parte di siti internet specializzati.
Ministro degli Awqāf
Ministro degli Awqāf si tratta di una figura nata in epoca moderna, quando gli Awqāf, cioè le fondazioni pie, sono stati incamerati dagli Stati, che hanno così assunto l’amministrazione di una vasta rete di moschee e centri di insegnamento precedente autonomi. Il Ministro degli Awqāf funge perciò da Ministro degli Affari Religiosi. Più che di un’autorità vera e propria, è un alto funzionario, che tuttavia presiede al funzionamento di una consistente struttura di enti e personale religioso.
Khatīb
Khatīb nell’Arabia pre-islamica era colui che nella tribù parlava con autorità. Con l’avvento dell’Islam è rimasta una figura che si rivolge autorevolmente ai musulmani. È infatti colui che pronuncia la khutba (sermone), durante la preghiera comunitaria del venerdì e in altre occasioni particolari, per esempio durante il mese di Ramadan.
Dāʿī
Dāʿī letteralmente è “colui che invita” (alla fede), il predicatore. Storicamente è riferito ai maggiori propagandisti di gruppi musulmani dissidenti, in particolare in ambito sciita. Tra gli ismailiti, i Dāʿī erano i rappresentanti dell’imām e formavano una vera e propria gerarchia religiosa. È dalla predicazione di alcuni di loro che sono nati diversi movimenti e sette, come, in Medio Oriente, i drusi e gli alawiti (anticamente noti come nusayrī). In tempi più recenti il termine dā‘ī (o l’equivalente dā‘iyya) è utilizzato in senso più generale, anche in ambito sunnita, per indicare i predicatori che, attraverso televisioni satellitari e nuovi media, stanno dando vita a un nuovo internazionalismo islamico. Alcuni di questi predicatori sono anche ‘ulamā’, ma spesso le due figure non coincidono, segno che il sapere religioso tradizionale non è più l’unica fonte di autorità. Tra i primi e più noti protagonisti di questa nuova forma di comunicazione religiosa c’è lo shaykh Yousef al-Qaradawi. Oggi questi predicatori si sono moltiplicati e sono diventati estremamente popolari.
Mullah
Mullah termine derivato dall’arabo mawlā (“signore, tutore”), nel mondo turco-iraniano è l’equivalente dello ‘ālim, ma può avere un senso anche più generale e indicare qualsiasi figura detentrice di un sapere o di un carisma religioso (per esempio il famoso mistico Rūmī è noto come Mawlā-nā, “nostro mawlā”). Nella gerarchia religiosa sciita indica un dotto di basso rango, privo cioè della qualifica di mujtahid (interprete).
Marjaʿ al-taqlīd
Marjaʿ al-taqlīd (“fonte dell’imitazione”): in ambito sciita duodecimano è un dotto che per, virtù e sapienza rappresenta un modello da emulare. La figura del Marjaʿ al-taqlīd si è affermata in epoca relativamente recente (metà del XIX secolo), ma affonda le sue radici nella disputa sulla pratica dell’ijtihād (lo sforzo interpretativo) e sul ruolo del mujtahid (il giurista abilitato a praticare l’ijtihād). Tale disputa ha origine al momento dell’occultamento del dodicesimo imām, nel IX secolo, quando per i fedeli si pose il problema di come praticare la fede in assenza della guida suprema, che era anche l’interprete vivente della rivelazione. Secondo alcuni i contenuti della sharī‘a sono definiti dalle tradizioni degli imām. Secondo altri invece le norme della sharī‘a possono essere ricavate anche attraverso sforzo interpretativo di alcuni ‘ulamā’ particolarmente qualificati, i quali vanno così a colmare almeno parzialmente il vuoto lasciato dall’imām. Nell’Ottocento l’istituzionalizzazione della Marja‘iyya inaugura l’obbligo, per i comuni fedeli, di seguire gli insegnamenti di un mujtahid, imitandone la condotta. I mujtahid ricevono il titolo di Āyatollāh (letteralmente “segno di Dio”). Per circa un secolo, la dignità del Marjaʿal-taqlīd si concentra in un’unica persona, il più eminente dei mujtahid. Alla morte dell’Ayatollah Burūjirdī nel 1961 la Marja‘iyya si frammenta in diverse personalità, legate ognuna a un particolare centro di insegnamento (Qom, Najaf, Mashhad, Teheran), mentre anche mujtahid minori vengono riconosciuti come marja‘. Inoltre, con l’ascesa di Khomeini e la rivoluzione iraniana, la marja’iyya assume una chiara dimensione politica, tanto che nella Repubblica Islamica d’Iran viene creata la figura della Guida Suprema. Da questo momento i vari marja‘ di distinguono anche per la posizione che assumono rispetto alla svolta khomeinista e alla dottrina della wilāyat al-faqīh, secondo la quale, in assenza dell’imām, il giurista (faqīh) avoca a sé le prerogative politiche della guida, anticipando così il tempo escatologico.”
Continuo il mio reportage degli Stati Generali di Libera, svoltisi ai primi di febbraio a Trieste. Penso che possano anche essere utili come preparazione alla giornata del 21 marzo, la XXIV Giornata della Memoria e dell’Impegno che ricorda di tutte le vittime innocenti delle mafie: si terrà a Padova. Oggi riporto l’intervento di Maurizio Dianese, giornalista e autore del libro “Doppio gioco criminale. La vera storia del bandito Felice Maniero”, da pochi mesi nelle librerie. Un intervento di 10 minuti, molto chiaro e diretto, per certi versi scomodo, e che ha anche dato il là a una risposta piccata, di cui darò resoconto in un prossimo post.
“La banda di Felice Maniero va studiata per due motivi: il principale è che c’è stata una sottovalutazione della banda stessa, la più numerosa (oltre quattrocento fedelissimi, in tutto un migliaio di persone), la più ricca e la più feroce. Una sottovalutazione che è durata dal 1986 al 1995; c’è stato un unico magistrato, Francesco Saverio Pavone, che ha perseguito la mala del Brenta ed è spesso stato sbeffeggiato dai suoi colleghi. Ora sta succedendo la stessa identica cosa con la criminalità proveniente dal sud, con il radicamento di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Faccio solo un esempio: la Procura di Venezia ha chiuso un’inchiesta molto importante sul Veneto orientale 7 anni fa, ha passato le carte al Gip, che per motivi suoi, che io non discuto, lavora un giorno alla settimana; l’inchiesta è ferma. Stiamo parlando di un’organizzazione criminale, molto importante, che si è insediata al punto di far parte integrante della vita dei cittadini. E’ vent’anni che solo i giornali scrivono che qui ci sono infiltrazioni mafiose ed è vent’anni che i magistrati fanno finta di niente, quando addirittura non negano questa evidenza. Il mio amico ed ex procuratore capo, Vittorio Borraccetti, quando è andato in pensione, mi ha detto “Avevi ragione tu” in merito a quando ci siamo scontrati pubblicamente sul Veneto orientale e io dicevo “ minimo dagli anni ‘80 c’è presenza di camorra”. Siamo nel 2000 e passa e ancora pensate che questo non lavorino? Faccio un esempio: Eraclea Mare è stata costruita completamente dai Casalesi di Eraclea. Vuol dire che tutte le imprese che hanno lavorato alla costruzione delle seconde case a Eraclea Mare sono dei casalesi. Sempre a Eraclea hanno addirittura una ditta che, in qualche modo, centralizza gli acquisti… Tornando a Felice Maniero: lui ha inventato tutto quello che c’era da inventare per la criminalità organizzata. Per esempio, ha inventato il meccanismo del franchising: non andava a fare rapine ogni giorno, aveva 400 uomini che facevano rapine, divisi in batterie di 4-5 persone e lui era la centrale operativa. Tutti dovevano avvertirlo e lui smistava. Ha inventato la centrale operativa delle rapine. Ha inventato anche il monopolio dello spaccio della droga: nel Veneto non era mai successo. Si è dimostrato geniale anche quando ha aperto la strada verso il Friuli e la ex-Yugoslavia: importava ed esportava armi e droga. A Portogruaro c’erano due personaggi del clan Ricciardi perché terra di frontiera; nel 1989, al crollo del muro di Berlino, hanno scoperto che in Russia c’era grande richiesta di beni di lusso e quindi loro vi portavano Ferrari, capi firmati attraverso la frontiera… Ma lo potevano fare grazie alla strada aperta da Felice Maniero. La storia di Felice Maniero va studiata nei dettagli, altrimenti non si capisce quello che sta succedendo adesso. Semplificando e sbagliando, noi diciamo che senza Felice Maniero la mafia avrebbe avuto qualche difficoltà a insediarsi in questo modo, mentre lui ha aperto l’autostrada… Invece, c’è stato uno scambio quasi alla pari: lui ha imparato un sacco di cose dalla mafia siciliana, ma le ha messe a frutto del Veneto. Studiare quello che è successo dall’80 al ‘95 è importante per poi aprire la strada allo studio di quel che succede adesso; la banda è stata smantellata grazie alle rivelazioni di Felice Maniero (a parte il fatto nel ‘94 Pavone e il sottoscritto avevamo scritto tutto: lui non fa altro che confermare nei verbali quello che era già stato scritto). Dal ‘95 in poi c’è un vuoto che viene riempito in vari modi (bande dei nigeriani, degli albanesi) e in alcuni casi troviamo una commistione tra vecchia mala del Brenta e nuova criminalità organizzata proveniente dal sud, nel Veneto orientale in particolare. Il plenipotenziario di Maniero, Silvano Maritan, aveva un contatto con la camorra e andava a Napoli a comprare la cocaina. Quindi Maniero fa sì che il Veneto diventi uno dei punti principali di reinvestimento dei proventi della malavita organizzata proveniente dal sud. Dal lago di Garda fino a Chioggia, passando per Jesolo fino a Caorle e passando poi in Friuli Venezia Giulia, noi abbiamo insediamenti camorristi e della ‘ndrangheta praticamente ovunque. Io avrei bisogno di una mano da Libera perché da un anno sto cercando di mettere in piedi nella ex villa di Felice Maniero un Centro Studi e Documentazione sulla malavita organizzata del passato e su quella del futuro ed è un anno che aspetto un sì o un no dal sindaco di Campolongo Maggiore. Il fatto che non si studino queste cose determina dei guasti incredibili. Faccio un ultimo esempio: il turismo organizzato a Venezia, quello che arriva in pullman e che arriva al Tronchetto, è dal 1980 nelle mani della malavita organizzata che fa riferimento a Felice Maniero. E lo è dal 1980 a stamattina: sono lì, ogni giorno, sono lì che lavorano, del tutto indisturbati. Nessuno è mai andato a tentare di rompere il meccanismo. C’è stata una bella inchiesta di 7-8 anni fa di Stefano Cellotto, conclusasi con condanne e sequestri. In appello la condanna si è polverizzata perché la magistratura non solo sottovaluta, ma non riesce a capire quello che sta succedendo da noi.”
Per chi volesse approfondire la vicenda del Tronchetto suggerisco questo articolo di Stefano Ciancio, con un’intervista proprio a Maurizio Dianese.
Venerdì e sabato ho partecipato a Trieste a “Contromafiecorruzione Nord Est”, gli stati generali di Libera (domenica, giornata conclusiva, non ho potuto). In questi giorni vorrei riprendere qui sul blog alcuni dei contenuti presentati, giovandomi del supporto di alcuni articoli usciti sulla stampa e delle registrazioni audio che ho effettuato. Parto dalla plenaria di venerdì, tenutasi nell’Aula Magna dell’Università di Trieste; solitamente i saluti sono delle fasi di rito, ma di certo non lo sono stati quelli del Procuratore Capo di Trieste Carlo Mastelloni. Così lo cita, sul Messaggero Veneto di oggi, Luana De Francisco: “Avervi qui è un onore, ma anche un onere, perché è ora che i cittadini prendano atto che la loro regione, se non è occupata militarmente, è però pienamente infiltrata”. Il territorio della nostra regione, ha detto Mastelloni, “è aggredibile dal punto di vista turistico. Località come Grado, Lignano, Bibione, Caorle, nonché località di montagna come Sappada e Tarvisio sono oggetto di attenzioni. Ma chi vigila è in ambasce in primo luogo per motivi di organico”. Il Procuratore, a questo punto, ha lamentato la mancanza di numero sufficienti tra le forze dell’ordine: “questo della mancanza di personale è uno dei punti essenziali per affrontare con efficacia il fenomeno del rimpinguamento delle file mafiose in questa terra piena di ricchezze”. Ritengo importante sottolineare l’utilizzo del termine rimpinguamento: a fronte di chi dice che la mafia non sia presente in regione, il Procuratore della Repubblica utilizza una parola che fa riferimento all’aumento di qualcosa che esiste già…
Mastelloni ha fatto quindi riferimento ad alcuni ambiti di
interesse delle mafie. Uno di essi è l’acquisizione della cocaina dal
Sudamerica attraverso ndranghetisti calabresi, i primi a stabilire contatti con
Bolivia, Perù e altri paesi. Un altro ambito è professionale: “Abbiamo
arrestato odontoiatri collusi con elementi calabresi che hanno in progetto,
verosimilmente, di accaparrarsi i grandi studi professionali creando una sorta
di super agenzia da mettere in vendita sul mercato. Ciò significa che una parte
della borghesia, una minima parte della borghesia, è collusa e si presta in
nome del denaro, oppure perché minacciata, a fare da prestanome o da signorile
e insospettabile deposito di armamenti”.
Un altro fenomeno gravissimo a cui ha fatto riferimento il Procuratore è stato
quello delle false residenze, utili a “costruire piccole carriere politiche
idonee a costruire piani regolatori viziati da interessi retrostanti di
carattere personalistico e mafioso (il caso di Lignano Sabbiadoro).
Infine, Mastelloni ha riportato alcuni numeri: “dal 2014
risultano iscritti 18 fascicoli del 416 bis… negli anni precedenti solo 2”. A
suffragare quanto detto dal Procuratore riporto un servizio di Trieste
Prima (sulla velocità della mafia rispetto alla magistratura) e uno
di Il
Paîs (sulla penetrazione del clan dei Casalesi).
Carlo Alberto Redi è “professore ordinario di Zoologia presso l’università di Pavia e professore a contratto presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori. Accademico dei Lincei e socio onorario della società genetica del Cile” (fonte wikipedia). In un breve articolo comparso su La Lettura del 22 gennaio si interroga sul rapporto tra biologia ed etica. Inizia così: “Il Dna è divenuto l’icona della nostra era: dopo il secolo della chimica (Ottocento) e della fisica (Novecento), siamo ora nel millennio delle scienze della vita…”. Molte sono le discipline coinvolte dai cambiamenti e dalla scoperte in ambito biologico, argomenta: “dalla filosofia all’antropologia, dall’economia alla giurisprudenza”. Inizio e fine vita, brevetti sul vivente, esperimenti sulle cellule… sono tutte questioni biopolitiche e “gli avanzamenti del sapere lasciano intravedere applicazioni in grado di trasformare la stessa percezione di che cosa sia oggi «umano». Paure e aspettative si mischiano in continuazione, tra desiderio di progresso e timore di cosa esso ci possa riservare. La via suggerita da Redi è quella della conoscenza. Scrive ancora: “Informarsi sui progressi della biologia diviene parte integrante della nostra cultura”. Certo non è semplice e neppure immediato, ma è necessario se si vuole essere “cittadini capaci di scegliere, in autonomia, che cosa si ritiene lecito applicare delle tante innovazioni prodotte dalla ricerca biologica”. Questa, secondo lo studioso lombardo, la via per giungere ad un “armonioso vivere sociale” in cui sono combattute le ingiustizie e si promuove “la fioritura di nuovi diritti civili”, nella direzione di una “cittadinanza scientifica”, ancora lontana da venire. Certo ci sarà qualcuno che si interrogherà se la ricerca non vada regolata ex ante piuttosto che ex post, soprattutto da parte di chi ha il potere di farlo; ed è proprio qui che si focalizza la giustificata preoccupazione di Redi: “vi è una generale ignoranza del sapere biologico da parte della classe dirigente (decisori politici, magistrati, operatori dei media)”. Che ruolo possono avere in tutto questo studiosi e accademici? Ecco la conclusione del professore: “Ai biologi il compito di partecipare con il proprio sapere alla necessaria comune riflessione con i filosofi per indirizzare l’elaborazione delle norme da parte degli uomini del diritto”.
“Ho portato il libro I segreti di Gray mountain di John Grisham non tanto per il contenuto quanto per la professione della protagonista. Lei, giovane avvocato, è costretta a trasferirsi a causa della crisi del 2008 da New York ai monti Appalachi, dove lavora gratis come assistente legale. Io vorrei diventare avvocato o giudice per garantire anche chi non può permettersi un avvocato: sono persone che vanno tutelate. Per me la giustizia è alla base di tutto; non so come mi sia nata questa mia passione. Farei di tutto per raggiungere l’obiettivo. Mi pongo però una domanda quando sento di alcuni giudici corrotti: come fanno dopo tanti studi e preparazione?”. Questa la gemma di E. (classe terza). Amo i libri di Grisham, ne ho letti parecchi. Riporto da uno di essi, L’ultimo giurato, una citazione che mi sta molto a cuore: “Questi due capisaldi del diritto, la presunzione d’innocenza e la prova oltre ogni ragionevole dubbio, erano fattori di garanzia per tutti, giurati inclusi, sanciti da quegli uomini depositari di saggezza che avevano scritto la nostra Costituzione e la Carta dei diritti.”
In una delle mie classi (una quinta) non ero ancora riuscito a spiegare questa nuova iniziativa delle gemme. L’ho fatto stamattina: finisco la descrizione, mostro un esempio e A. mi chiede “Prof! E se io avessi la gemma già qui?”. Eccola:
“Ho visto questo video pochi giorni fa e mi ha profondamente colpito ed emozionato. Ho voluto condividerlo con la classe perché penso sia importante poter permettere a una persona di potersene andare con dignità” ha concluso A. Ne abbiamo parlato molto brevemente in aula, lo commento qui con poche parole: pietà, pietà per la persona, per se stessi, per la condizione umana, profondamente umana.
“In alcuni Paesi del mondo islamico l’estremismo religioso sta assumendo una connotazione fortemente esclusiva, repressiva e violenta. I fatti di cronaca sono sotto gli occhi di tutti: dal rapimento di centinaia di ragazze, perpetrato dai famigerati ribelli Boko Haram in Nigeria alle aberranti malefatte del neonato Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) che ha confiscato case e beni dei cristiani di Mosul, costringendoli all’esilio. Per non parlare del caso di Meriam Yehya Ibrahim, la cristiana condannata a morte per impiccagione in Sudan con l’accusa di apostasia, poi prosciolta ma che di fatto non ha ancora potuto lasciare il Paese. Di fronte a questa ondata di fondamentalismo, non v’è dubbio che il consesso delle nazioni dovrebbe interrogarsi sul perché di una flagrante violazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. D’altronde, non è un caso se allora furono pochissimi i Paesi a maggioranza musulmana che parteciparono all’elaborazione e alla firma di tale dichiarazione. Molti entrarono nell’Onu successivamente e diedero un’adesione solo di principio alla Dichiarazione stessa, senza ratificare e firmare l’insieme degli accordi e dei protocolli. Nell’ultimo trentennio, alcuni organismi islamici – Avvenire ne ha scritto a più riprese – hanno formulato specifiche dichiarazioni che si rifanno alla visione occidentale, pur mantenendo nella loro essenza un approccio teocratico. Il problema di fondo è che nel mondo musulmano la concezione dei diritti umani è fortemente condizionata dalla propria specifica identità culturale e religiosa. Basta leggere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’islam adottata nel 1981 dal Consiglio islamico d’Europa, come anche la Dichiarazione del Cairo del 1990 elaborata dall’Oci (Organizzazione della Conferenza islamica) per rendersi conto del forte influsso della componente teologica e del costante richiamo al dettato della sharia. Solo nella Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994 è possibile individuare un’impronta giuridica in qualche modo più laica, attribuibile alla necessità di allinearsi, sul piano formale, agli standard internazionali dei diritti umani. Prendendo in esame queste Carte islamiche sorge, però, qualche dubbio sul fatto che esse possano essere considerate, dal punto di vista giuridico, veri documenti di codificazione finalizzati al rispetto dei diritti umani. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di Carte con una forte connotazione declamatoria che non prevedono, ad esempio, l’istituzione di meccanismi di controllo effettivo sull’operato dei singoli Stati. È possibile allora ricondurre alla ragionevolezza l’islam integralista? Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, affermava che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se facciamo un raffronto con la storia europea, cioè con il XIII-XIV secolo, scopriremo che il Vecchio Continente doveva ancora vedere la riforma protestante e la riforma cattolica. Secondo Shari’ati, per superare il Medio Evo islamico (sebbene il Medio Evo cristiano non sia stato un’epoca buia), i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pari cinque, sei secoli, arrivando di colpo alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam – scriveva l’intellettuale iraniano – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale». Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco in Inghilterra nel giugno del 1977 (anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dello Scià) indicano chiaramente il percorso che occorre seguire. In questi anni, i Paesi Occidentali hanno fatto poco o niente per aiutare la società civile musulmana a uscire dall’immobilismo e sostenere politicamente e finanziariamente l’intelligentia islamica moderata. Una sfida che, visti i tempi, non può essere disattesa.”
Una delle cose che mi bloccano nella lettura di un blog è la lunghezza dei post. Se superano uno o due colpi di scroll è molto difficile che vada avanti, a meno che l’argomento non sia estremamente avvincente. Ecco perché mi sforzo di farli piuttosto brevi. Ma quando ripubblico un articolo esterno non posso decidere la lunghezza. Certo, potrei mettere semplicemente il link al pezzo senza stare a ricopiarlo: sarebbe persino più veloce per me. Ma temo che prima o poi quel link possa diventare cieco, e che l’articolo venga spostato o tolto dall’autore.
Oggi pubblico un articolo estremamente ricco dal punto di vista dei contenuti. Potremmo farci sopra uno o più anni di lezione… E’ un’intervista di Franco Marcoaldi a Paolo Ricca, pastore valdese, curatore delle opere di Lutero per l’editrice Claudiana, teologo finissimo e di grande apertura mentale. Proprio a causa della lunghezza del testo mi sono permesso di fare una cosa che detesto quando vedo fatta sui libri: ho evidenziato in grassetto dei passaggi chiave. Buona lettura.
«Per un agnostico, o un ateo, affidarsi al “giudizio di Dio” e dunque alla sua Legge, può suonare come la definitiva resa di ogni possibile giudizio critico individuale. Paolo Ricca, pastore valdese, curatore delle opere di Lutero per l’editrice Claudiana, teologo finissimo e di grande apertura mentale, la pensa esattamente all’opposto: proprio la Legge di Dio offre la massima libertà all’essere umano. “Il discernimento del bene e del male è possibile là dove si sa che cosa siano il bene e il male. Nella visione biblica questa capacità l’uomo non ce l’ha. E quindi anche il suo discernimento è offuscato. Perciò è necessaria la parola di Dio”. Ma nella modernità occidentale, diciamo da Montaigne in avanti, l’uomo presume, a torto o a ragione, di disporre di quella capacità. Cosa la spinge, nel 2012, a cercarla ancora nella parola di Dio?
“Almeno due buone ragioni. La prima ha a che fare con Kant, il grande maestro critico della modernità, e con la sua idea di imperativo categorico. Ovvero con la rinuncia della singola persona a decidere che cosa può “imperare” nella sua propria coscienza. Seconda ragione: l’evidenza di ciò che accade intorno a noi, ogni giorno. Le pare che l’umanità nel suo insieme, e non parlo dell’arbitrio del singolo individuo, sia in grado di organizzare un sistema di leggi volte al bene comune?”. Però esistono tradizioni di pensiero, penso ad esempio al confucianesimo, in cui il fondamento etico-sociale della legge ha una base tutta mondana.
“Sì, ma l’aspetto più sorprendente del discorso biblico è che la Legge viene dopo l’Esodo. Ovvero, Dio prima libera il suo popolo e soltanto dopo gli dà la legge, fondata dunque sulla libertà raggiunta, che impedirà di tornare a uno stato di schiavitù. Lei porta l’esempio del confucianesimo, per dimostrare che non è necessario Dio per avere una legge. Ma Dio, che peraltro non è mai “necessario”, ci indica la strada per dare alla legge il suo vero significato: non come sottrazione di libertà, ma come suo massimo dispiegamento. Io penso che dobbiamo liberarci da questa idea secondo cui Dio deve esserci. Bonhoeffer parla di “un Dio che c’è, non c’è”, proprio per riaffermare che Dio non è necessario. Che Dio è libertà, non necessità. La rivelazione della Bibbia è tale proprio per questo. Rivelare, togliere il velo, vuol dire aiutare l’uomo a capire ciò che non vede: Israele ha creduto in un Dio liberatore, prima che in un Dio giudice e legislatore. È un messaggio formidabile. Certo, sempre se uno ci crede!”. Per chi è cresciuto tra le braccia della Chiesa cattolica la prima parola che viene in mente pensando alla religione, non è certo “liberazione”. Semmai il trittico dostoevskjiano “mistero, miracolo, autorità”.
“Lo capisco. Ma Dio non è la Chiesa. Sono due piani del discorso che vanno tenuti accuratamente separati”. Veniamo al Dio legislatore e dunque ai dieci comandamenti. Lei li trova ancora utili per il nostro tempo?
“Assolutamente sì. Pensi al primo comandamento, che impone di distinguere tra gli idoli e Dio. Più attuale di così! Oppure, pensi al comandamento del riposo applicato a una società come la nostra, in cui il tempo libero è ancor più schiavizzato di quello del lavoro. Purtroppo, nella cultura religiosa italiana i dieci comandamenti sono poco predicati. Alcuni sono stati addirittura stravolti: per esempio, quello sul riposo è diventato “santifica le feste”, una definizione del tutto impropria. Obbedendo a una tendenza gnosticizzante del cattolicesimo romano, l’Antico Testamento è stato messo progressivamente da parte, a esclusivo vantaggio del Vangelo. Il che spiega varie cose anche sul fronte morale. Perché il discorso sulla centralità dell’amore va bene, ma quando si arriva al comandamento “non rubare”, le cose si fanno un po’ più complicate”. Ha appena accennato al nuovo comandamento di Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso. Gesù, però, oltre a obbedire, trasgredisce la legge.
“Certo, perché non c’è libertà senza trasgressione bisogna trasgredire alcune leggi degli uomini in nome della legge di Dio, nella quale si manifesta appieno la nostra libertà”. Mi faccia un esempio.
“Gesù viene condannato a morte per due motivi: come trasgressore della legge sabato e come distruttore del tempio. E perché trasgredisce la legge del sabato? Perché i teologi avevano costruito attorno a quel comandamento una serie di norme assolutamente fuori luogo. Del tipo: nel giorno del riposo puoi fare al massimo dieci passi. Così, se l’uomo caduto a terra è lontano da te dodici passi, non puoi aiutarlo. Ma mille altri sono i casi in cui è giusto trasgredire le leggi umane, in nome di una superiore legge divina. Pensi all’obiezione di coscienza: non prendo in mano il fucile per ammazzare il prossimo, anche se lo Stato me lo impone”. Capisco cosa intende dire. Però intravedo anche il rischio opposto: ogni legge dello Stato laico può essere messa in forse sulla base di una legge superiore. Pensi all’aborto.
“Ma non c’è nessuna legge divina che vieta l’aborto. Quella è una legge della Chiesa, che naturalmente ha il suo peso e il suo valore. Però nella Bibbia non si parla di aborto. Di nuovo, bisogna saper distinguere tra legge divina, legge ecclesiastica e legge civile”. Qual è il luogo simbolico per eccellenza in cui si manifesta il giudizio di Dio?
“La croce di Gesù, e questo è il paradosso dei paradossi: ovvero, il giudizio di Dio viene “giudicato” nell’uomo, e nell’uomo messo in croce. “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, dice Gesù. È il momento della lacerazione completa dell’idea stessa di Dio. Paolo definisce la croce “pazzia” per i greci, i laici, e “scandalo” per i giudei, per i religiosi come me. La verità è che se si va alla radice del discorso cristiano, il giudizio di Dio ci conduce a un’afasia totale. Perché si assiste al capovolgimento completo tra un Dio giudicante e un Dio giudicato”. Il primo a portare Dio “in tribunale” è Giobbe, quando verifica sulla propria pelle che l’idea secondo cui se fai il bene ti ritorna il bene, non è così automatica.
“Il suo è il grido di disperazione dell’innocente che soffre ingiustamente. E protesta. La risposta di Dio, in verità non tanto chiara, lo metterà a tacere. Ancora non si dà quel rovesciamento in cui il Dio giudicante viene giudicato. Anche se già nell’Antico Testamento si affaccia l’idea secondo cui il giudizio di Dio si associa alla misericordia e non alla giustizia retributiva. E questo ci porta dritti al Nuovo Testamento, alla vita di Gesù, alla sua passione, quintessenza dell’ingiustizia: un processo farsa, la condanna, la flagellazione, la condanna a morte. Gesù subisce, ma non partecipa. Dice a un certo punto: potrei chiamare dodici legioni di angeli, ma non lo faccio. Non mi metto sullo stesso piano di Pilato, di Erode. Ed ecco il salto ulteriore, sul piano della fede. Non soltanto io non rispondo al tuo male con la stessa moneta, ma prendo su di me la tua colpa. E muoio non soltanto per la tua malvagità, ma perché ti perdono. Ora tutto questo è straordinario. Il paradosso è che le ragioni per cui uno crede o non crede, potrebbero essere le stesse. E rimandano sempre alla figura della croce. Ecco perché non posso prendermela con gli atei. Loro dicono: come posso credere a un Dio messo in croce? E io obietto: gli credo proprio perché è stato messo sulla croce“. Le ripropongo la domanda iniziale, rovesciata. Non c’è il rischio che affidandosi al giudizio di Dio si verifichi una deresponsabilizzazione dell’individuo?
“Se intende un atteggiamento fatalista nei confronti di tutto ciò che accade, come se tutto fosse sempre e comunque frutto della volontà di Dio, allora sì, c’è questo rischio. Ma cito ancora Bonhoeffer quando dice: non tutto quello che accade è volontà di Dio, mentre in tutto ciò che accade c’è un sentiero che porta a Dio. Siamo partiti dalla parola discernimento. Ebbene, io credo che Dio, inteso come libertà d’amare, sia innanzitutto luce. E questa luce illumina il nostro cammino, aiutando o addirittura determinando il nostro discernimento. In fin dei conti, è la luce che ci consente di vedere. E discernimento vuol dire capacità di vedere, quindi capacità di giudicare, dopo aver visto. Non alla cieca”.»