Maggiore età digitale: utopia sufficiente?

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Seguo alcuni autori su Substack, anche se il tempo per leggere tutto è poco. Su Il mattinale europeo è stata pubblicata “un’analisi firmata da Camille Lamotte dedicata alla maggiore età digitale, dopo che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato di voler agire contro la dipendenza provocata sui giovani da TikTok e altri social network”.“Per il ritorno a scuola, l’Unione europea ha suonato la carica contro i social network. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si è detta favorevole al loro divieto per i bambini lo scorso 24 settembre, durante una conferenza a New York organizzata dall’Australia, primo paese al mondo a introdurre una misura del genere. Obiettivo dell’Ue: “Costruire un’Europa più sicura per i nostri bambini”, coinvolgendo genitori e attori del digitale in un dibattito preliminare. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha rincarato la dose, accusando i giganti del web di alimentare odio, disinformazione e radicalizzazione politica. Ma il timido progetto di maggiore età digitale all’interno dell’Ue reggerà di fronte alla battaglia ideologica a colpi di miliardi di dollari e acquisizioni da parte di Stati Uniti, Cina o Israele per il controllo assoluto degli algoritmi?
“Cyberbullismo, istigazione all’autolesionismo, predatori online e algoritmi che creano dipendenza…”. Ursula von der Leyen ha ricordato i gravi rischi corsi dai minori online. L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnalava un netto aumento della dipendenza (11 per cento degli adolescenti nel 2022 contro il 7 per cento quattro anni prima), oltre all’esposizione a contenuti inappropriati (pornografia, cyberbullismo, disinformazione). “Molti Stati membri ritengono che, per quanto riguarda l’accesso ai social network, sia giunto il momento di fissare una maggiore età digitale. E devo dirvi che, come madre di sette figli e nonna di cinque nipoti, sono d’accordo”.
La presidente della Commissione dovrà cercare di agganciare una serie di vagoni europei sparsi. Diversi Stati membri stanno già lavorando separatamente a progetti di regolamentazione dei social per i più giovani. Come in Francia, dove Macron si è impegnato all’inizio di giugno a vietare i social ai minori di 15 anni, se non si arriverà “entro pochi mesi” a una soluzione a livello europeo. Un rapporto parlamentare francese su TikTok aveva raccomandato il divieto, accompagnato da un “coprifuoco digitale” per i 15-18enni.
Il presidente francese ha ipotizzato un sistema di riconoscimento facciale o controlli della carta d’identità per determinare l’età degli utenti. Anche in Germania, alcuni deputati chiedono da oltre un anno una posizione più dura verso TikTok, incluso un possibile divieto generale. La Grecia, sostenuta da Francia e Spagna, ha infine proposto a giugno di fissare una maggiore età digitale per tutta l’Ue, al di sotto della quale i bambini non potrebbero accedere ai social senza il consenso dei genitori. La Danimarca, che presiede fino a fine anno il Consiglio dell’Ue, sostiene questa iniziativa.
Nel loro mirino ci sono social come X, Facebook o Instagram… ma soprattutto TikTok, con i suoi 200 milioni di utenti europei mensili (ovvero 1 cittadino su 3), principalmente giovani. Lanciata nel 2017, questa app offre contenuti video personalizzati grazie a un algoritmo potente che classifica i video in base agli interessi degli utenti. Già nel 2022, Macron aveva lanciato l’allarme durante un incontro con professionisti della salute mentale dei giovani: “Il primo perturbatore (psicologico), la piattaforma più efficace tra bambini e adolescenti, è TikTok. Dietro c’è una vera dipendenza”.
Nel podcast GDIY, a giugno 2024, Macron si era espresso contro il divieto di TikTok – una misura che era stata sostenuta dalla sua lista durante le elezioni europee – ma a favore di “una ricerca accademica libera che possa davvero dire cosa si nasconde sotto il cofano” degli algoritmi delle piattaforme. “Non è vero che in un solo paese si riuscirà a bandire questi social che, nonostante tutto, permettono di informarsi e scambiare contenuti”, aveva detto il capo di Stato francese, lui stesso affezionato alla comunicazione su TikTok. “Invece, bisognerebbe riumanizzarli e domarli, metterli nelle nostre mani”. Ovvero rafforzare la gestione dei dati personali e, soprattutto, revisionare lo status di host che permette ai social di sfuggire alla giustizia.
Nello stesso anno, la questione dei social assumeva già una piega più politica. La piattaforma, allora baluardo essenziale per la campagna elettorale dei giovani alle europee, è stata usata dai candidati di estrema destra come Jordan Bardella, l’account più seguito del Parlamento europeo. Ursula von der Leyen, in lizza come principale candidata del Partito Popolare Europeo di centro-destra, aveva rifiutato di usare TikTok, per coerenza. Dal 2023, la Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue hanno vietato la piattaforma sui dispositivi dei funzionari europei usati a fini professionali. Commentando la decisione del presidente Biden di firmare un progetto di legge che avrebbe potuto vietare TikTok, von der Leyen aveva usato queste parole: “Non è escluso. Conosciamo perfettamente il pericolo”.
Minacce di ingerenze cinesi, elezioni in Romania nel 2024 e inondazione di contenuti digitali di estrema destra… Bruxelles ha fatto pressione sulla piattaforma. La Commissione ha aperto un’indagine ufficiale per timore di danni alla salute mentale dei minori – la seconda indagine su TikTok nell’ambito del Digital Services Act (DSA). Il gruppo, già sotto altre procedure, rischia una multa e un controllo rafforzato fino all’attuazione di misure correttive.
Certo, la protezione dei minori online – regolamentata dal DSA entrato in vigore nel 2023 e applicabile dal febbraio 2024 – obbliga già i fornitori a garantire riservatezza, sicurezza e protezione per i bambini. Il DSA vieta la pubblicità mirata basata sul profiling dei dati personali dei minori. Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) rende lecito il trattamento dei dati personali di un minore a partire dai 16 anni, lasciando agli Stati membri la libertà di fissare un’età compresa tra 13 e 16 anni. Ma questa forbice di maggiore età digitale2 piuttosto ampia – 13 anni in Belgio, nei Paesi nordici, nel Regno Unito, in Irlanda e Spagna, 15 in Francia, 16 in Germania e Paesi Bassi – crea un mosaico normativo invece che un mercato digitale unificato per la tutela dell’infanzia.
La “minaccia” francese di un’azione unilaterale a giugno mira quindi a introdurre un nuovo limite d’età, ma anche ad accelerare l’attuazione di soluzioni concrete per la verifica dell’età. Parallelamente, il governo australiano – attualmente il più severo – ha però ammesso che “nessun paese al mondo ha ancora risolto questo problema”. Eppure, secondo uno studio inedito sul ruolo dei social tra 2000 bambini, pubblicato il 25 settembre, l’Arcom (Autorità francese per la regolamentazione della comunicazione audiovisiva) evidenzia che il 22 per cento si iscrive prima dei 10 anni e il 62 per cento mente sull’età, con una prima iscrizione media a 12 anni. La famosa maggioranza digitale, pietra angolare ideale per iniziare a regolamentare i contenuti in Europa, sarebbe dunque un miraggio tecnico prima ancora di trovare un accordo?
Non solo. Vittima della sua lentezza nel cambiare rotta, il colosso europeo viene anche travolto da un’attualità sempre più galoppante. Mentre i Ventisette faticano a mettersi in ordine di marcia sulla sovranità digitale, su un altro pianeta politico, gli Usa di Trump finalizzano a marce forzate la nazionalizzazione di TikTok, avviata grazie al braccio di ferro con la Cina reso possibile da un Biden tentato da un divieto puro e semplice. Lo scorso 25 settembre, Donald Trump ha firmato il decreto che permette a TikTok di continuare a operare negli Stati Uniti, autorizzando un gruppo di investitori guidato da americani ad acquistare l’app da ByteDance, la società cinese – accordo che richiede ancora l’approvazione della Cina.
Il colpo di forza permette a Trump di accontentare un elettorato giovane molto legato alla piattaforma – il 43 per cento degli adulti americani sotto i 30 anni ottiene regolarmente notizie da TikTok, più che da qualsiasi altra app di social, secondo un rapporto del Pew Research Center – aprendo al contempo la strada a un controllo ideologicamente orientato (filone MAGA) dell’algoritmo. I nuovi proprietari di TikTok, tra cui il cofondatore di Oracle Larry Ellison e Rupert Murdoch, hanno interessi commerciali e/o politici legati a Trump. La loro influenza sulla piattaforma non sarà neutrale. Dopo Twitter, Facebook e Instagram, anche TikTok – piattaforma sociale di primo piano con 170 milioni di utenti – cade così sotto il controllo del presidente americano, che ora domina i principali social.
Sulle orme della piattaforma Douyin – versione esclusivamente cinese di TikTok, la più censurata al mondo – il potere americano conta di sfruttare il ruolo fondamentale dei social nella sua battaglia ideologica interna. Grazie a uno strumento che combina localizzazione e social, l’ICE annuncia di poter presto tracciare in tempo reale i movimenti di centinaia di milioni di persone tramite il telefono… senza mandato.
Tra strumento utile per un autoritarismo sfacciato e strumento di guerra culturale, i social rischiano di allargare il divario delle realtà parallele. La risposta europea a un futuro alla Minority Report può davvero ridursi a una maggiore età digitale?”

Russia loves Africa

Fonte: profilo Instagram dell’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

A inizio marzo, il voto all’undicesima sessione d’emergenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) sulla risoluzione sull’aggressione russa dell’Ucraina ha registrato che solo 5 paesi – Siria, Eritrea, Bielorussia e Corea del Nord oltre ovviamente alla Russia – si sono schierati apertamente con Mosca votando contro la risoluzione. 141 sono stati i favorevoli e 35 gli astenuti. Oltre a Cina e India, sono stati numerosi gli stati africani ad astenersi: perché? Mi soffermo su due di essi attraverso due articoli, uno sul Mali (a firma di Enzo Nucci, corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana e curatore di una rubrica su Confronti) e uno sul Sudan (a firma di Marco Cochi per il mensile Nigrizia). Inoltre torno su Kirill I, patriarca di Mosca molto legato a Putin, e sul suo ruolo proprio in Africa (articolo di Rocco Bellantone, sempre su Nigrizia).

VIA I FRANCESI, AVANTI I RUSSI

2 Febbraio 2022
di Enzo Nucci.
In Mali il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura legati al governo di Mosca. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse e vendita di armi.
Via l’esercito francese, avanti i mercenari russi della compagnia privata Wagner. Benvenuti in Mali. Il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura (ma legati a triplo filo al governo di Mosca) nel Paese africano, considerato strategico per fermare alla fonte una parte importante dei flussi migratori clandestini diretti verso l’Europa. Duecento di loro sono accampati a Segou, 200 chilometri a nord est della capitale Bamako, sul fiume Niger.
Il governo maliano a dicembre si è limitato a spiegare la presenza degli addestratori russi come un contributo al rafforzamento delle capacità operative delle Forze di difesa e sicurezza. E a gennaio l’esecutivo ha chiesto a Parigi di rivedere gli accordi militari firmati nel 2013 quando la Francia (guidata allora dal socialista François Hollande) lanciò l’operazione di contrasto al terrorismo islamista, estesa successivamente agli altri Paesi del Sahel (Ciad, Niger, Burkina Faso, Mauritania). Da allora molte cose sono cambiate.
L’intervento armato si è dimostrato fallimentare e oneroso dal punto di vista economico, di costi umani e ricavi politici. Tanto che si parla apertamente di un “nuovo Afghanistan” per il presidente Emmanuel Macron che si accinge a sottoporsi al test delle imminenti elezioni presidenziali. Ma il Mali resta una ferita purulenta anche per il suo eventuale successore.
Il Mali (in 9 anni di presenza militare) si è rivelato lo Stato africano con l’opinione pubblica più antifrancese tra i Paesi francofoni, tanto che un colpo di Stato militare (forse ispirato da Mosca) ha sparigliato le carte. I gruppi terroristici islamisti non hanno preso il potere ma hanno allargato la loro influenza tra la gente, rendendo instabili istituzioni già profondamente fragili. Non è certo un grande risultato.
Sul Mali (guidato dalla giunta golpista) si sono anche abbattute le sanzioni economiche della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) perché il governo di transizione ha deciso di rimandare le elezioni per un periodo variabile dai sei mesi ai cinque anni. Il dato politico è il ritorno in grande stile della Russia sulla scena africana. Gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse (estrazioni di minerali) e vendita di armi sono gli obiettivi principali.
La strategia fu spiegata da Putin nel summit russo-africano tenutosi a Sochi (sul Mar Nero) nell’ottobre 2019. Il presidente ribadì la sua volontà di offrire aiuti e contratti commerciali “senza condizioni politiche o di altro genere”, al contrario di quanto fanno i Paesi occidentali. E anzi affermò che la Russia sarebbe stata la migliore soluzione a cui far ricorso per resistere alle indebite intromissioni nella sovranità nazionale esercitate da europei, statunitensi e cinesi.
La presenza dei paramilitari della Wagner (fondata da un veterano delle forze speciali dell’esercito russo e da un ricco uomo d’affari legato a Putin) si conta già in 23 nazioni africane. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma in realtà svolgono training agli eserciti, forniscono scorte armate agli uomini di governo, conducono guerre informatiche, svolgono operazioni contro i ribelli nelle zone minerarie per facilitare contratti con compagnie russe, spesso connesse proprio agli azionisti della Wagner.
I mercenari sbarcarono per la prima volta in Africa nel 2013 quando in Sudan (guidato allora dal dittatore islamista Omar al-Bashir) furono utilizzati per reprimere manifestazioni di piazza. Da allora è stata una escalation in tutto il continente, ultimamente anche nella ricca regione mineraria di Cabo Delgado (Mozambico) dove operano terroristi islamisti, autori di numerosi attacchi. Mentre in Libia sostengono Khalifa Haftar con grande preoccupazione degli Stati Uniti.
I mercenari esordirono nel 2014 in Crimea a fianco dell’esercito russo che aveva occupato la penisola. Oggi conterebbero su almeno diecimila uomini contrattualizzati. Un escamotage che consente a Putin di avere le mani libere, non dover rendere conto a nessuno delle operazioni di questi “privati” che sono responsabili di abusi e crimini contro prigionieri e civili inermi. Ma Mosca ufficialmente ignora tutto questo.

RUSSIA IN AFRICA. IL SUDAN È UNA MINIERA D’ORO

09 Marzo 2022
di Marco Cochi.
La recente visita a Mosca di “Hemetti”, vicepresidente del Consiglio sovrano sudanese, ha allarmato molti paesi, tra cui Stati Uniti ed Egitto. Spaventa il progetto di una base navale del Cremlino sul Mar Rosso. E si vuole porre un freno al contrabbando di centinaia di tonnellate di oro illegale che dal Sudan finiscono nei forzieri russi.
Molti paesi africani stanno mostrando una buona dose di cautela nel rivedere le loro relazioni con la Russia per proteggere i loro interessi nazionali. Lo dimostra l’astensione di ben 17 nazioni del continente, oltre al veto dell’Eritrea, nell’approvazione della risoluzione votata, lo scorso 2 marzo, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per condannare l’invasione russa dell’Ucraina.
Una cautela che trae origine dal fatto che negli ultimi anni il Cremlino ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. Un chiaro esempio è l’invio, a partire dal 2018, dei mercenari russi del Gruppo Wagner, oltre che in Libia, per aiutare i leader locali di Centrafrica, Mozambico e Sudan a mantenere saldo il loro potere e silenziare la dissidenza interna. E non a caso i tre paesi figurano tra gli stati africani astenuti.
A partire dallo scorso 6 gennaio, l’impegno militare della compagnia privata russa sta interessando anche il Mali, dove i paramilitari sono stati dispiegati nella città di Timbuctu. Ufficialmente, le unità della Wagner sono impegnate nell’addestramento delle Forze armate maliane e nel contrasto delle milizie jihadiste legate ad al-Qaida e al gruppo Stato islamico.
Altro aspetto saliente è da ricercare nei dati del SIPRI, che indicano Mosca come il principale fornitore di armi all’Africa, dove tra il 2015 e il 2019 ha esportato il 49% dell’equipaggiamento militare del continente, più del doppio di Cina e Stati Uniti. Per questo, è improbabile che molti leader africani aderiscano al moltiplicarsi degli appelli in corso per condannare l’aggressione della Russia in Ucraina.
Tra i paesi africani che non nascondono il loro sostegno a Mosca c’è il Sudan. Con il Cremlino, il terzo più grande paese dell’Africa intrattiene una partnership così consolidata che il 23 febbraio il vicepresidente del Consiglio sovrano di Khartoum, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemetti ha iniziato una visita a Mosca, durante la quale, poi, l’armata russa ha invaso l’Ucraina.
Dagalo è anche a capo delle Rapid support forces (Forze di supporto rapido – Rsf), un’unità irregolare al soldo di Khartoum, che durante la guerra in Darfur si rese responsabile di indicibili violenze e crimini di guerra contro gli appartenenti alle etnie non arabe fur, maasalit e zaghawa. Violenze che continuano ancora oggi.
Di recente, è emerso che le Rsf hanno avuto legami con la Wagner e anche se non ci sono statistiche ufficiali sul numero e sul luogo in cui si trovano i contractor russi in Sudan, alcune stime indicano la presenza di 300 effettivi, impegnati in attività congiunte e programmi di addestramento con la milizia di Dagalo. Nel paese, si è diffuso il sospetto che alcuni oppositori politici favorevoli a un ritorno del governo civile siano recentemente scomparsi per mano dei mercenari russi.
Nel 2017, l’interesse iniziale della Wagner nei confronti del Sudan è stato cercare i giacimenti di oro presenti nelle aree remote del paese, così cospicui che potrebbero rendere Khartoum in pochi anni il terzo produttore dell’Africa.
Secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico Telegraph, negli ultimi anni la Russia ha contrabbandato centinaia di tonnellate di oro illegale dal Sudan, nell’ambito del piano di costruire la “fortezza Russia” e difendersi dalle previste sanzioni legate all’invasione in Ucraina.
Il Cremlino ha più che quadruplicato la quantità di oro detenuto nella banca centrale dal 2010, creando un “forziere di guerra” attraverso un mix di importazioni estere e vaste riserve auree nazionali, diventando il terzo produttore mondiale del prezioso metallo e arrivando, nel giugno 2020, a detenere più oro che dollari.
Mentre le statistiche ufficiali suggeriscono che il Sudan esporta scarsissime quantità di oro in Russia, un dirigente di una delle più grandi società aurifere sudanesi ha dichiarato al Telegraph che il Cremlino è il più grande attore straniero nell’enorme settore minerario del paese. Secondo la fonte, rimasta anonima, ogni anno circa 30 tonnellate d’oro vengono trasportate dal Sudan in Russia, sebbene sia impossibile valutare la reale portata dell’operazione.
Secondo Sim Tack, cofondatore di Force Analysis, una società di consulenza con sede in Belgio specializzata nella mappatura dei conflitti, alcune società russe come M-Invest, che ha una filiale locale chiamata Meroe Gold, hanno iniziato a operare in Sudan dopo che l’ex dittatore Omar El-Bashir ha incontrato Vladmir Putin nel 2017, offrendogli concessioni minerarie e permettendogli di costruire una base navale nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. 
Una struttura in grado di ospitare fino a 300 persone, civili e militari, e 4 navi da guerra. Secondo il progetto, Mosca avrà il diritto di trasportare, attraverso porti e aeroporti sudanesi, armi, munizioni e attrezzature destinate al funzionamento della sua base. Questo sito sarà il primo del suo genere per Mosca in Africa, e il secondo al mondo, dopo quello di Tartus, in Siria.
La base servirà a coprire due dei grandi interessi russi nella regione africana. Il primo è l’export bellico, per creare dipendenza e influenza attraverso questo mercato nei paesi del continente. Il secondo è che Mosca potrà avere un peso sull’asse Mar Rosso, Suez, Corno d’Africa che connette Mediterraneo e Oceano Indiano, considerato strategico per il commercio internazionale.
Una promessa che nella sua recente visita a Mosca, il generale Dagalo ha rinnovato proprio mentre le truppe dell’Armata russa si preparavano a invadere l’Ucraina. Secondo Hemetti, la proposta russa per lo sviluppo della base navale in Sudan sarebbe all’attenzione del ministro della difesa di Khartoum, di conseguenza non direttamente sotto la sua capacità decisionale.
Secondo gli Stati Uniti, invece, l’approvazione sarebbe imminente perché la missione del generale Dagalo a Mosca avrebbe avuto come principale oggetto proprio la discussione in merito alla definizione dell’accordo per la base navale.
L’assenso di Hemetti alla costruzione della base russa ha provocato la dura reazione delle autorità egiziane, che hanno chiesto al potente generale sudanese di fornire chiarimenti sulle dichiarazioni riguardanti la base. I funzionari del Cairo hanno affermato «di opporsi alla creazione di qualsiasi base straniera vicino ai confini e alle aree di influenza del paese».
Sarà però difficile che Khartoum receda dai suoi propositi, mentre cerca aiuti economici, dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso per intero un pacchetto di aiuti da 700 milioni di dollari, in seguito al colpo di stato del 25 ottobre.

UN CONFLITTO POCO “ORTODOSSO”

11 Marzo 2022
di Rocco Bellantone.
A fine 2021, oltre cento sacerdoti in servizio nel continente hanno lasciato il patriarcato di Alessandria (Egitto) per passare a quello di Mosca. Artefice della manovra il patriarca russo Kirill I, fedelissimo di Putin, in rotta con Tawadros II di Alessandria
Centodue sacerdoti in servizio in 8 paesi africani passati dal patriarcato greco-ortodosso di Alessandria a quello russo. Con questo cambio di casacca di massa, annunciato a Mosca nel Sinodo di fine 2021 e di cui ha dato notizia Asia News, agenzia di informazione dei missionari del Pontificio istituto missioni estere (Pime), il patriarcato russo ha creato ufficialmente un proprio esarcato in Africa. Dodici in totale le bandierine fissate nelle due diocesi dell’Africa settentrionale e meridionale: Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Ciad, Camerun, Nigeria, Libia, Centrafrica e Seicelle. Incarico di guida assegnato al vescovo russo di Erevan in Armenia, Leonid (Gorbačev).
Con una sola mossa, l’artefice di questa manovra, il patriarca di Mosca Kirill I, ha centrato due obiettivi: ha scippato sostegno internazionale alla Chiesa autocefala di Ucraina, frutto dello scisma ortodosso del 2018 (innescato nel 2014 dall’occupazione russa della Crimea) e riconosciuta dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartomoleo I; e ha assestato un duro colpo all’autorevolezza in Africa del patriarca di Alessandria, Tawadros II, che nell’agosto scorso, sull’isola turca d’Imbros, aveva teso la mano al metropolita autocefalo di Kiev Epiphany, segnando il definitivo punto di rottura con la Chiesa russa, già maturato nel 2019.
In passato compagni di studi all’università sovietica di Odessa, Kirill I e Tawadros II sono dunque ormai ai ferri corti. Nella sua campagna di conversione in Africa, il patriarca di Mosca sa di poter contare sull’appoggio incondizionato del Cremlino. Kirill I fa parte, infatti, della cerchia dei fedelissimi del presidente russo Vladimir Putin. Ha rapporti molto stretti con oligarchi e manager delle più influenti aziende del paese, compreso il gigante petrolifero Gazprom. Una fedeltà riconosciutagli dal governo, che nel 2019 ha sborsato circa 43 milioni di dollari per ristrutturare la sua residenza nell’ex palazzo imperiale di San Pietroburgo.
Da anni la Chiesa di Mosca coltiva contatti in Africa. Ultime terre di conquista, come segnalato in un report di Africa Intelligence, sono stati Tanzania, Kenya, Uganda, Zambia e Sudafrica. Tra le parrocchie sfilate ad Alessandria c’è quella di Sergio di Radonež a Johannesburg (Sudafrica), guidata dall’arciprete Daniel Lugovoy. Altro fronte caldo è il Madagascar, dove l’ambasciatore russo Andrey Andreev sta raccogliendo fondi per affidare una nuova chiesa a sacerdoti legati a Mosca.
I centodue transfughi di fine anno sono il risultato di un pressing diplomatico istruito in occasione di un precedente sinodo che si era tenuto a Mosca il 23 e 24 settembre. Da allora l’uomo di Kirill I in Africa, il vescovo Leonid – scelto non a caso per questo ruolo dopo aver rappresentato il patriarcato russo ad Alessandria tra il 2004 e il 2013 – non si è mai fermato. A metà novembre è stato a Dar es Salaam, dove ha incontrato i metropoliti Dimitrios di Irinoupolis, referente per la Tanzania orientale, e Jeronymos di Mwanza, per la Tanzania occidentale. Nella sua visita è stato accompagnato dall’ambasciatore russo in Tanzania, Yuri Popov, che in questo paese cura in particolare gli interessi della compagnia di stato Rosatom nei locali giacimenti di uranio.
Il blitz di Leonid era stato anticipato, qualche settimana prima, da un tour di visite di Tawadros II, volato prima a Kampala (Uganda) per un incontro con il presidente Yoweri Museveni, poi in Tanzania insieme all’ambasciatore egiziano Mohamed Gaber Abulwafa e al console onorario greco William Ferentinos – dove a capo di un codazzo di imprenditori greci ha incontrato anche il vicepresidente Filippo Mpango –, infine a Johannesburg per un colloquio con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa.
La regione dei Grandi Laghi è lo scacchiere in cui la posta in palio tra le due Chiese è la più alta. Tra fine luglio e inizio settembre le morti prima del metropolita Nikoforos di Kinshasa, poi del suo omologo di Kampala Jonah Lwanga, hanno aperto una delicata partita per la loro successione. Chi riuscirà ad accaparrarsi quelle poltrone, infatti, avrà accesso a uno dei più ampi bacini di fedeli ortodossi di tutto il continente.
Mosca ci tiene moltissimo. I governi di Rwanda e Uganda sono tra i principali acquirenti africani di armi di fabbricazione russa, mentre in Rd Congo è sempre più attivo il gruppo Alrosa, specializzato in estrazione di diamanti. Sono business in forte crescita, che il Cremlino vuole tutelare garantendosi una leadership religiosa nella regione. Se in Africa meridionale Zimbabwe, Angola e Mozambico restano sotto il controllo del patriarcato di Alessandria, che in quest’area conta sull’arcivescovo cipriota Seraphim, la sfida è aperta in Repubblica Centrafricana. La piccola comunità ortodossa del paese è passata recentemente sotto la sfera d’influenza russa. E nella capitale Bangui è in fase di costruzione il settimo centro russo per la scienza e la cultura, sotto lo sguardo vigile della compagnia di sicurezza privata Wagner. Segno, anche questo, che quella in corso non è solo una campagna religiosa.