Tra De profundis e Mercoledì

Quando si parla di tradizioni il mio pensiero va sempre al 1° novembre: da bambino il pomeriggio (da poco diventato più breve con il cambio d’ora) lo passavo in visita ai cimiteri (Palmanova, Bagnaria e Campolonghetto di solito) e a qualche parente (di quelli che si vedevano meno) e la sera rosario in latino a casa dei nonni insieme a zii e cugini. I due ricordi più vividi sono le risate trattenute a stento per quella lingua oscura di cui non capivamo niente (in particolare il De Profundis) e il crepitio del fuoco che cucinava le castagne. Poi presto a casa perché il giorno dopo c’era scuola. Helloween non c’era, è arrivato molto dopo. Oggi però, da papà di una bimba che si vestirà da Mercoledì Addams e di un bimbo che sarà uno scheletro, ci faccio i conti e la scelta che cerchiamo di portare avanti Sara ed io è quella di tenere insieme le due cose: l’elemento nuovo e la tradizione.
In questo post notturno voglio dare una colonna sonora a questo intento e mi affido ad un autore poco conosciuto ai più: Pédro Kouyaté. Lui è un griot, un poeta e cantore maliano con il ruolo di conservare la tradizione orale degli avi. Nel 2024 ha pubblicato l’album Following e a giugno 2025 ha rilasciato una bellissima intervista a Nadia Addezio di Confronti: vi si parla di memoria, tradizione, cultura, amore, blues, antropologia, nomi, morte, vita, bambini, esilio. Eccola.

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“Musicista, cantante, autore, compositore, attore, produttore, musicoterapista. Sono molteplici le anime e professioni che qualificano Pédro Kouyaté, classe 1972. Cresciuto in Mali, incarna la figura del griot – figura centrale nella cultura dell’Africa occidentale, custode della memoria collettiva e narratore musicale – e si forma nell’ambiente musicale della Symmetric Orchestra di Toumani Diabaté, leggenda della kora. Parallelamente, si laurea in socio-antropologia a Bamako, unendo l’approccio accademico alla sua vocazione artistica. Dopo un’importante collaborazione con il bluesman Boubacar Traoré, che lo porta a esibirsi in Africa, Europa e Stati Uniti, si stabilisce a Parigi nel 2006 e fonda il proprio gruppo, Pédro Kouyaté & Band.
Nella capitale francese si afferma come interprete e divulgatore della tradizione musicale africana, con esibizioni al Musée de la Musique della Philharmonie de Paris e collaborazioni con nomi del calibro di Archie Shepp e Jean Philippe Ryckiel. Negli ultimi anni, Kouyaté ha spinto la sua ricerca musicale verso nuove direzioni, mescolando sonorità tradizionali con elementi elettronici. Il suo nuovo progetto, Following, prodotto dall’etichetta discografica Quai Son Records, rappresenta un omaggio agli antenati e un’ulteriore tappa nella sua incessante esplorazione artistica.

Il cognome Kouyaté appartiene a un’antica stirpe di griot dell’epoca Mandinka. La sua discendenza ha segnato il suo destino di musicista e paroliere?
Quando si nasce in una famiglia griot, la madre fin dal concepimento è educata a portare in grembo il futuro nascituro con l’idea che quel neonato sarà un griot. Segue i consigli dei medici tradizionali, compie abluzioni rituali e parla alla luna. Ciò significa che sei preparato sin dal principio della tua vita alla tua funzione.

Lei ha collaborato con il leggendario Toumani Diabaté e la Symmetric Orchestra. Che impatto ha avuto sulla sua crescita artistica?
Toumani è l’equivalente dei grandi filosofi che hanno lavorato in modo empirico. Con lui puoi incrociare Martin Scorsese. Nel cortile di Toumani, puoi incontrare il musicista statunitense Taj Mahal. È stata una fortuna essere il suo compagno di viaggio. Toumani ha notato subito qualcosa in me: ha visto che il mio interesse era diverso da quello dei miei amici, che ero attratto dalla musica e dalla lettura. Toumani mi ha insegnato tutto, proprio come Michelangelo e Leonardo da Vinci trasmettevano il loro sapere ai loro allievi. Ci sono i grandi maestri e ci sono i discepoli, e io credo molto in questa relazione di subordinazione. Mi ha insegnato tutto sulla musica: come respirare, come sentirla. È stato la mia prima grande scuola, nonché il mio padre spirituale, poiché ero orfano di padre. Insomma, da lui ho imparato tutto. Indimenticabile.

Da questa esperienza, di fatto, è iniziata la sua carriera europea.
La mia carriera europea inizia con Boubacar Traoré, uno dei più grandi bluesman del Mali e del mondo. Mi aveva notato quando ero con Toumani. Mi ha preso sotto la sua ala e insieme abbiamo fatto sei volte il giro del mondo. Così, decisi di trasferirmi in Europa per imparare. Frequentai scuole di musica, studiai le origini del jazz. Imparare divenne quasi un’ossessione per me, una necessità vitale. Studiai i canti che venivano intonati nei campi di grano. Da lì provengono i Negro Spirituals. Da quell’esperienza di duro lavoro, le persone iniziarono a suonare musica, a cantare. È in quei momenti che il blues ha preso vita, ed è stato Boubacar Traoré a insegnarmelo. Con lui ho viaggiato per l’Italia, specialmente nel Nord, e ho avuto l’occasione di osservare come gli artisti che praticano musica tradizionale lavorano e provano. Ho scoperto il fado, i canti popolari italiani, la musica classica. Ho imparato moltissimo. È stata davvero una fortuna immensa.

La sua musica fonde tradizione ed elettronica, un ponte tra mondi ed epoche diverse. Da dove nasce questa spinta alla sperimentazione?
Perché per me la vita è mescolanza. È come il giorno, che si avvale della mattina, del pomeriggio e della notte. Ho quindi scelto di mantenere salde le mie radici e di offrire agli altri una cartolina del mio Paese. Non posso fare musica senza invitare gli altri a farne parte. Amo questa apertura. E poi vengo dal Mali, che è un Paese multietnico. Io stesso sono il frutto di un incrocio: mia madre era fulani, mio padre mandinka. Io sono “meticcio”.

Come integra la sua formazione in socio-antropologia nella sua musica?
Basta guardare il mio ultimo album: ho invitato persone come il trombettista franco-svizzero Erik Truffaz, il cantautore afroamericano Big Daddy Wilson, il musicista francese Arthur H. Il mio interesse si esprime, dunque, invitando persone di background musicali e culturali differenti a condividere il loro amore per la mia terra. L’Africa è amata, ma spesso noi africani crediamo che il resto del mondo ci consideri “esotici” quando non “inferiori”. La mia prospettiva, quindi, si basa sull’accoglienza di culture diverse. Grazie all’antropologia ho avuto un alibi e un’opportunità straordinaria per lasciare il mio Paese, conoscere altre persone e scoprire come vivono. Tuttavia, l’antropologia è anche una scelta, che si riduce nel voler avere l’incontro con l’altro.

Quali artisti hanno influenzato maggiormente il suo percorso?
Luciano Pavarotti, Miles Davis, Aretha Franklin, Ry Cooder, Ahmad Jamal, Yusef Lateef. Tutte persone che hanno avuto il coraggio di aprire nuove strade e che hanno aperto la musica al cambiamento. Il pianista e compositore Bill Evans, per esempio, ha inserito la musica classica nel jazz. Poi ancora: James Brown, Prince, fino ad arrivare a Michael Jackson e Thelonious Monk. Come per me, per questi artisti la musica tradizionale è stata alla base della loro creazione artistica.

Quando ha capito che blues e jazz sarebbero stati i capisaldi del suo linguaggio artistico?
Se penso alle mie origini, l’essere umano è sempre partito alla ricerca di migliori “risorse vitali”. Ciò dettato anche dalla peculiare posizione geografica in cui si trova il continente africano tutto. Il Mali, in particolare, si trova in una zona del pianeta dove l’acqua è scarsa e la siccità è una realtà. Tale penuria spinge a spostarsi e intraprendere un viaggio, che è l’esilio: una necessità per sopravvivere, più che una scelta. E cos’è questo se non il blues? Tu lasci il tuo Paese, ma il tuo Paese non abbandona te. L’esilio è universale. Siamo sempre stranieri in qualche parte del mondo che non sia casa nostra. E il blues non è mai lontano dalla storia dell’umanità.

Ci racconti il suo ultimo disco, Following, partendo dalla nona traccia, Sahara Blues.
Sahara Blues è un brano eseguito con Arthur H. dove affrontiamo i temi dell’ambiente e dell’ecologia, tematiche che toccano molto da vicino il Mali. Ma non solo: se il deserto è un luogo particolarmente ostile alla vita della fauna e della flora, oggi impera un “deserto umano” poiché il Mali è assediato dai jihadisti. Oggi nel Sahara ci sono povertà intellettuale e armi. Sahara Blues vuole essere un richiamo alla memoria culturale. Del resto la funzione del griot è ripetere e raccontare la Storia affinché non venga mai dimenticata. La storia, il passato, l’ecologia sono una chiave per comprendere le nostre terre e per mettere ordine, nelle nostre terre come nelle nostre menti.

Come è nato Following e cosa l’ha spinta a renderlo un omaggio agli antenati?
Ero in isolamento durante la pandemia da Covid-19 nella mia camera buia quando ho pensato: «Dove sono gli antenati? Cosa sta succedendo? Non abbiamo rispettato la vita e siamo stati colpiti in questo modo». Del resto, in tutti i libri sacri si parla di un tempo in cui gli uomini si perderanno. Se passeranno accanto all’amore senza riconoscerlo, se ignoreranno l’essenziale. Se il virtuale diventerà più importante del reale. E mi sono detto: «Wow! Ringrazio gli antenati per avercelo detto!». Quei messaggi sono rimasti nei canti che loro intonavano, quando subivano i colpi di frusta nei campi di grano, quando una persona resa schiava veniva portata via costretta ad abbandonare il suo villaggio e lavorare in campi che non erano i suoi. Pur non dimenticando mai da dove veniva. A quel tempi, venivano ripetute tutte le storie, le leggende, i nomi delle famiglie del villaggio di origine. Questo è rimasto vivo. E lì ho capito: Following significa “ciò che segue”. Questo disco vuole essere la continuazione dei nostri antenati e di ciò che viviamo oggi. L’urgenza di rendere omaggio agli antenati nasce dal fatto che io, come detto, sono un griot. I griot devono restituire, tramandare, recitare e perpetuare il passato, come si fa con i riti religiosi. Se una persona è virtuosa, sono i griot a doverlo raccontare. Sono la radiografia della società. Following è dedicato al Mali, ma anche a tutti i Paesi del mondo: non bisogna dimenticare la propria cultura, la propria famiglia, il nome di battesimo, il nome di famiglia. Perché anche il nome e cognome non sono casuali. Rispondendo alla prima domanda di questa intervista, o siamo attesi o abbiamo scelto di arrivare su questo pianeta. Non bisogna mai dimenticare il passato perché è tutto lì. Ogni popolo ha una storia. E la storia esiste per permetterci di risvegliarci e ritrovare il desiderio di vivere.

In Mabo, dedicata all’attore Mabô Kouyaté scomparso nel 2019, lei esplora il tema della morte. Qual è la sua visione?
Nel nostro Paese i defunti non muoiono per davvero: sono tra le nostre mura, scorrono nel nostro sangue, abitano nel nostro ventre, nei nostri sogni, nella nostra rabbia. Si muore due volte: la prima, quando si lascia questa vita; la seconda, quando l’ultima persona sulla Terra dimentica il tuo nome. I morti devono essere rispettati, perché dall’alto ci osservano.

A quali delle sue canzoni è più legato?
È difficile scegliere una sola canzone, come se avessi dieci figli e dovessi indicarne uno solo. Amo tutte le mie canzoni. Sa perché? Perché quando compongo, non impongo la mia volontà al cuore. È l’album che detta le sue regole. Non controllo il processo, non amo chi vuole controllare tutto. Bisogna lasciar andare, aspettare che la magia si crei da sola. Una volta che si stabilisce, è come una perla, una successione di armonie perfette. Amo ogni pezzo, ma vorrei che almeno le persone ricordassero il nome dell’album: Following.

C’è il rischio che l’eredità culturale dei griot vada perduta?
Non perderemo mai la cultura, non c’è alcun rischio. Questo perché esistono i griot, custodi della memoria collettiva, che ripetono e tramandano la cultura ogni giorno: nei matrimoni, persino durante le cerimonie funebri, i griot cantano. Finché ci sarà amore, ci saranno bambini. E finché ci saranno i bambini, ci saranno i griot. Tutto ruota intorno all’amore.”

Russia loves Africa

Fonte: profilo Instagram dell’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

A inizio marzo, il voto all’undicesima sessione d’emergenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) sulla risoluzione sull’aggressione russa dell’Ucraina ha registrato che solo 5 paesi – Siria, Eritrea, Bielorussia e Corea del Nord oltre ovviamente alla Russia – si sono schierati apertamente con Mosca votando contro la risoluzione. 141 sono stati i favorevoli e 35 gli astenuti. Oltre a Cina e India, sono stati numerosi gli stati africani ad astenersi: perché? Mi soffermo su due di essi attraverso due articoli, uno sul Mali (a firma di Enzo Nucci, corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana e curatore di una rubrica su Confronti) e uno sul Sudan (a firma di Marco Cochi per il mensile Nigrizia). Inoltre torno su Kirill I, patriarca di Mosca molto legato a Putin, e sul suo ruolo proprio in Africa (articolo di Rocco Bellantone, sempre su Nigrizia).

VIA I FRANCESI, AVANTI I RUSSI

2 Febbraio 2022
di Enzo Nucci.
In Mali il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura legati al governo di Mosca. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse e vendita di armi.
Via l’esercito francese, avanti i mercenari russi della compagnia privata Wagner. Benvenuti in Mali. Il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura (ma legati a triplo filo al governo di Mosca) nel Paese africano, considerato strategico per fermare alla fonte una parte importante dei flussi migratori clandestini diretti verso l’Europa. Duecento di loro sono accampati a Segou, 200 chilometri a nord est della capitale Bamako, sul fiume Niger.
Il governo maliano a dicembre si è limitato a spiegare la presenza degli addestratori russi come un contributo al rafforzamento delle capacità operative delle Forze di difesa e sicurezza. E a gennaio l’esecutivo ha chiesto a Parigi di rivedere gli accordi militari firmati nel 2013 quando la Francia (guidata allora dal socialista François Hollande) lanciò l’operazione di contrasto al terrorismo islamista, estesa successivamente agli altri Paesi del Sahel (Ciad, Niger, Burkina Faso, Mauritania). Da allora molte cose sono cambiate.
L’intervento armato si è dimostrato fallimentare e oneroso dal punto di vista economico, di costi umani e ricavi politici. Tanto che si parla apertamente di un “nuovo Afghanistan” per il presidente Emmanuel Macron che si accinge a sottoporsi al test delle imminenti elezioni presidenziali. Ma il Mali resta una ferita purulenta anche per il suo eventuale successore.
Il Mali (in 9 anni di presenza militare) si è rivelato lo Stato africano con l’opinione pubblica più antifrancese tra i Paesi francofoni, tanto che un colpo di Stato militare (forse ispirato da Mosca) ha sparigliato le carte. I gruppi terroristici islamisti non hanno preso il potere ma hanno allargato la loro influenza tra la gente, rendendo instabili istituzioni già profondamente fragili. Non è certo un grande risultato.
Sul Mali (guidato dalla giunta golpista) si sono anche abbattute le sanzioni economiche della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) perché il governo di transizione ha deciso di rimandare le elezioni per un periodo variabile dai sei mesi ai cinque anni. Il dato politico è il ritorno in grande stile della Russia sulla scena africana. Gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse (estrazioni di minerali) e vendita di armi sono gli obiettivi principali.
La strategia fu spiegata da Putin nel summit russo-africano tenutosi a Sochi (sul Mar Nero) nell’ottobre 2019. Il presidente ribadì la sua volontà di offrire aiuti e contratti commerciali “senza condizioni politiche o di altro genere”, al contrario di quanto fanno i Paesi occidentali. E anzi affermò che la Russia sarebbe stata la migliore soluzione a cui far ricorso per resistere alle indebite intromissioni nella sovranità nazionale esercitate da europei, statunitensi e cinesi.
La presenza dei paramilitari della Wagner (fondata da un veterano delle forze speciali dell’esercito russo e da un ricco uomo d’affari legato a Putin) si conta già in 23 nazioni africane. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma in realtà svolgono training agli eserciti, forniscono scorte armate agli uomini di governo, conducono guerre informatiche, svolgono operazioni contro i ribelli nelle zone minerarie per facilitare contratti con compagnie russe, spesso connesse proprio agli azionisti della Wagner.
I mercenari sbarcarono per la prima volta in Africa nel 2013 quando in Sudan (guidato allora dal dittatore islamista Omar al-Bashir) furono utilizzati per reprimere manifestazioni di piazza. Da allora è stata una escalation in tutto il continente, ultimamente anche nella ricca regione mineraria di Cabo Delgado (Mozambico) dove operano terroristi islamisti, autori di numerosi attacchi. Mentre in Libia sostengono Khalifa Haftar con grande preoccupazione degli Stati Uniti.
I mercenari esordirono nel 2014 in Crimea a fianco dell’esercito russo che aveva occupato la penisola. Oggi conterebbero su almeno diecimila uomini contrattualizzati. Un escamotage che consente a Putin di avere le mani libere, non dover rendere conto a nessuno delle operazioni di questi “privati” che sono responsabili di abusi e crimini contro prigionieri e civili inermi. Ma Mosca ufficialmente ignora tutto questo.

RUSSIA IN AFRICA. IL SUDAN È UNA MINIERA D’ORO

09 Marzo 2022
di Marco Cochi.
La recente visita a Mosca di “Hemetti”, vicepresidente del Consiglio sovrano sudanese, ha allarmato molti paesi, tra cui Stati Uniti ed Egitto. Spaventa il progetto di una base navale del Cremlino sul Mar Rosso. E si vuole porre un freno al contrabbando di centinaia di tonnellate di oro illegale che dal Sudan finiscono nei forzieri russi.
Molti paesi africani stanno mostrando una buona dose di cautela nel rivedere le loro relazioni con la Russia per proteggere i loro interessi nazionali. Lo dimostra l’astensione di ben 17 nazioni del continente, oltre al veto dell’Eritrea, nell’approvazione della risoluzione votata, lo scorso 2 marzo, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per condannare l’invasione russa dell’Ucraina.
Una cautela che trae origine dal fatto che negli ultimi anni il Cremlino ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. Un chiaro esempio è l’invio, a partire dal 2018, dei mercenari russi del Gruppo Wagner, oltre che in Libia, per aiutare i leader locali di Centrafrica, Mozambico e Sudan a mantenere saldo il loro potere e silenziare la dissidenza interna. E non a caso i tre paesi figurano tra gli stati africani astenuti.
A partire dallo scorso 6 gennaio, l’impegno militare della compagnia privata russa sta interessando anche il Mali, dove i paramilitari sono stati dispiegati nella città di Timbuctu. Ufficialmente, le unità della Wagner sono impegnate nell’addestramento delle Forze armate maliane e nel contrasto delle milizie jihadiste legate ad al-Qaida e al gruppo Stato islamico.
Altro aspetto saliente è da ricercare nei dati del SIPRI, che indicano Mosca come il principale fornitore di armi all’Africa, dove tra il 2015 e il 2019 ha esportato il 49% dell’equipaggiamento militare del continente, più del doppio di Cina e Stati Uniti. Per questo, è improbabile che molti leader africani aderiscano al moltiplicarsi degli appelli in corso per condannare l’aggressione della Russia in Ucraina.
Tra i paesi africani che non nascondono il loro sostegno a Mosca c’è il Sudan. Con il Cremlino, il terzo più grande paese dell’Africa intrattiene una partnership così consolidata che il 23 febbraio il vicepresidente del Consiglio sovrano di Khartoum, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemetti ha iniziato una visita a Mosca, durante la quale, poi, l’armata russa ha invaso l’Ucraina.
Dagalo è anche a capo delle Rapid support forces (Forze di supporto rapido – Rsf), un’unità irregolare al soldo di Khartoum, che durante la guerra in Darfur si rese responsabile di indicibili violenze e crimini di guerra contro gli appartenenti alle etnie non arabe fur, maasalit e zaghawa. Violenze che continuano ancora oggi.
Di recente, è emerso che le Rsf hanno avuto legami con la Wagner e anche se non ci sono statistiche ufficiali sul numero e sul luogo in cui si trovano i contractor russi in Sudan, alcune stime indicano la presenza di 300 effettivi, impegnati in attività congiunte e programmi di addestramento con la milizia di Dagalo. Nel paese, si è diffuso il sospetto che alcuni oppositori politici favorevoli a un ritorno del governo civile siano recentemente scomparsi per mano dei mercenari russi.
Nel 2017, l’interesse iniziale della Wagner nei confronti del Sudan è stato cercare i giacimenti di oro presenti nelle aree remote del paese, così cospicui che potrebbero rendere Khartoum in pochi anni il terzo produttore dell’Africa.
Secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico Telegraph, negli ultimi anni la Russia ha contrabbandato centinaia di tonnellate di oro illegale dal Sudan, nell’ambito del piano di costruire la “fortezza Russia” e difendersi dalle previste sanzioni legate all’invasione in Ucraina.
Il Cremlino ha più che quadruplicato la quantità di oro detenuto nella banca centrale dal 2010, creando un “forziere di guerra” attraverso un mix di importazioni estere e vaste riserve auree nazionali, diventando il terzo produttore mondiale del prezioso metallo e arrivando, nel giugno 2020, a detenere più oro che dollari.
Mentre le statistiche ufficiali suggeriscono che il Sudan esporta scarsissime quantità di oro in Russia, un dirigente di una delle più grandi società aurifere sudanesi ha dichiarato al Telegraph che il Cremlino è il più grande attore straniero nell’enorme settore minerario del paese. Secondo la fonte, rimasta anonima, ogni anno circa 30 tonnellate d’oro vengono trasportate dal Sudan in Russia, sebbene sia impossibile valutare la reale portata dell’operazione.
Secondo Sim Tack, cofondatore di Force Analysis, una società di consulenza con sede in Belgio specializzata nella mappatura dei conflitti, alcune società russe come M-Invest, che ha una filiale locale chiamata Meroe Gold, hanno iniziato a operare in Sudan dopo che l’ex dittatore Omar El-Bashir ha incontrato Vladmir Putin nel 2017, offrendogli concessioni minerarie e permettendogli di costruire una base navale nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. 
Una struttura in grado di ospitare fino a 300 persone, civili e militari, e 4 navi da guerra. Secondo il progetto, Mosca avrà il diritto di trasportare, attraverso porti e aeroporti sudanesi, armi, munizioni e attrezzature destinate al funzionamento della sua base. Questo sito sarà il primo del suo genere per Mosca in Africa, e il secondo al mondo, dopo quello di Tartus, in Siria.
La base servirà a coprire due dei grandi interessi russi nella regione africana. Il primo è l’export bellico, per creare dipendenza e influenza attraverso questo mercato nei paesi del continente. Il secondo è che Mosca potrà avere un peso sull’asse Mar Rosso, Suez, Corno d’Africa che connette Mediterraneo e Oceano Indiano, considerato strategico per il commercio internazionale.
Una promessa che nella sua recente visita a Mosca, il generale Dagalo ha rinnovato proprio mentre le truppe dell’Armata russa si preparavano a invadere l’Ucraina. Secondo Hemetti, la proposta russa per lo sviluppo della base navale in Sudan sarebbe all’attenzione del ministro della difesa di Khartoum, di conseguenza non direttamente sotto la sua capacità decisionale.
Secondo gli Stati Uniti, invece, l’approvazione sarebbe imminente perché la missione del generale Dagalo a Mosca avrebbe avuto come principale oggetto proprio la discussione in merito alla definizione dell’accordo per la base navale.
L’assenso di Hemetti alla costruzione della base russa ha provocato la dura reazione delle autorità egiziane, che hanno chiesto al potente generale sudanese di fornire chiarimenti sulle dichiarazioni riguardanti la base. I funzionari del Cairo hanno affermato «di opporsi alla creazione di qualsiasi base straniera vicino ai confini e alle aree di influenza del paese».
Sarà però difficile che Khartoum receda dai suoi propositi, mentre cerca aiuti economici, dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso per intero un pacchetto di aiuti da 700 milioni di dollari, in seguito al colpo di stato del 25 ottobre.

UN CONFLITTO POCO “ORTODOSSO”

11 Marzo 2022
di Rocco Bellantone.
A fine 2021, oltre cento sacerdoti in servizio nel continente hanno lasciato il patriarcato di Alessandria (Egitto) per passare a quello di Mosca. Artefice della manovra il patriarca russo Kirill I, fedelissimo di Putin, in rotta con Tawadros II di Alessandria
Centodue sacerdoti in servizio in 8 paesi africani passati dal patriarcato greco-ortodosso di Alessandria a quello russo. Con questo cambio di casacca di massa, annunciato a Mosca nel Sinodo di fine 2021 e di cui ha dato notizia Asia News, agenzia di informazione dei missionari del Pontificio istituto missioni estere (Pime), il patriarcato russo ha creato ufficialmente un proprio esarcato in Africa. Dodici in totale le bandierine fissate nelle due diocesi dell’Africa settentrionale e meridionale: Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Ciad, Camerun, Nigeria, Libia, Centrafrica e Seicelle. Incarico di guida assegnato al vescovo russo di Erevan in Armenia, Leonid (Gorbačev).
Con una sola mossa, l’artefice di questa manovra, il patriarca di Mosca Kirill I, ha centrato due obiettivi: ha scippato sostegno internazionale alla Chiesa autocefala di Ucraina, frutto dello scisma ortodosso del 2018 (innescato nel 2014 dall’occupazione russa della Crimea) e riconosciuta dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartomoleo I; e ha assestato un duro colpo all’autorevolezza in Africa del patriarca di Alessandria, Tawadros II, che nell’agosto scorso, sull’isola turca d’Imbros, aveva teso la mano al metropolita autocefalo di Kiev Epiphany, segnando il definitivo punto di rottura con la Chiesa russa, già maturato nel 2019.
In passato compagni di studi all’università sovietica di Odessa, Kirill I e Tawadros II sono dunque ormai ai ferri corti. Nella sua campagna di conversione in Africa, il patriarca di Mosca sa di poter contare sull’appoggio incondizionato del Cremlino. Kirill I fa parte, infatti, della cerchia dei fedelissimi del presidente russo Vladimir Putin. Ha rapporti molto stretti con oligarchi e manager delle più influenti aziende del paese, compreso il gigante petrolifero Gazprom. Una fedeltà riconosciutagli dal governo, che nel 2019 ha sborsato circa 43 milioni di dollari per ristrutturare la sua residenza nell’ex palazzo imperiale di San Pietroburgo.
Da anni la Chiesa di Mosca coltiva contatti in Africa. Ultime terre di conquista, come segnalato in un report di Africa Intelligence, sono stati Tanzania, Kenya, Uganda, Zambia e Sudafrica. Tra le parrocchie sfilate ad Alessandria c’è quella di Sergio di Radonež a Johannesburg (Sudafrica), guidata dall’arciprete Daniel Lugovoy. Altro fronte caldo è il Madagascar, dove l’ambasciatore russo Andrey Andreev sta raccogliendo fondi per affidare una nuova chiesa a sacerdoti legati a Mosca.
I centodue transfughi di fine anno sono il risultato di un pressing diplomatico istruito in occasione di un precedente sinodo che si era tenuto a Mosca il 23 e 24 settembre. Da allora l’uomo di Kirill I in Africa, il vescovo Leonid – scelto non a caso per questo ruolo dopo aver rappresentato il patriarcato russo ad Alessandria tra il 2004 e il 2013 – non si è mai fermato. A metà novembre è stato a Dar es Salaam, dove ha incontrato i metropoliti Dimitrios di Irinoupolis, referente per la Tanzania orientale, e Jeronymos di Mwanza, per la Tanzania occidentale. Nella sua visita è stato accompagnato dall’ambasciatore russo in Tanzania, Yuri Popov, che in questo paese cura in particolare gli interessi della compagnia di stato Rosatom nei locali giacimenti di uranio.
Il blitz di Leonid era stato anticipato, qualche settimana prima, da un tour di visite di Tawadros II, volato prima a Kampala (Uganda) per un incontro con il presidente Yoweri Museveni, poi in Tanzania insieme all’ambasciatore egiziano Mohamed Gaber Abulwafa e al console onorario greco William Ferentinos – dove a capo di un codazzo di imprenditori greci ha incontrato anche il vicepresidente Filippo Mpango –, infine a Johannesburg per un colloquio con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa.
La regione dei Grandi Laghi è lo scacchiere in cui la posta in palio tra le due Chiese è la più alta. Tra fine luglio e inizio settembre le morti prima del metropolita Nikoforos di Kinshasa, poi del suo omologo di Kampala Jonah Lwanga, hanno aperto una delicata partita per la loro successione. Chi riuscirà ad accaparrarsi quelle poltrone, infatti, avrà accesso a uno dei più ampi bacini di fedeli ortodossi di tutto il continente.
Mosca ci tiene moltissimo. I governi di Rwanda e Uganda sono tra i principali acquirenti africani di armi di fabbricazione russa, mentre in Rd Congo è sempre più attivo il gruppo Alrosa, specializzato in estrazione di diamanti. Sono business in forte crescita, che il Cremlino vuole tutelare garantendosi una leadership religiosa nella regione. Se in Africa meridionale Zimbabwe, Angola e Mozambico restano sotto il controllo del patriarcato di Alessandria, che in quest’area conta sull’arcivescovo cipriota Seraphim, la sfida è aperta in Repubblica Centrafricana. La piccola comunità ortodossa del paese è passata recentemente sotto la sfera d’influenza russa. E nella capitale Bangui è in fase di costruzione il settimo centro russo per la scienza e la cultura, sotto lo sguardo vigile della compagnia di sicurezza privata Wagner. Segno, anche questo, che quella in corso non è solo una campagna religiosa.

Le ragazze di Chibok

Boko_Haram_in_Lake_Chad_Region.pngStamattina, in una classe terza, abbiamo approfondito quale sia la situazione della pena di morte in alcuni paesi del mondo. Parlando della Nigeria, è emerso il caso delle studentesse rapite qualche anno fa dal gruppo Boko Haram. Ecco qui un articolo pubblicato proprio oggi su Il caffè geopolitico da Ornella Ordituro.
Il gruppo terroristico africano Boko Haram — il cui nome ufficiale in arabo è “Jama’at Ahl al-Sunnah Lidda’Awat al-Jihad”, cioè persone impegnate per la propagazione degli insegnamenti del profeta e per il jihad — nasce nel 2002 ad opera di Mohamed Yusuf a Maiduguri, nello stato del Borno, nella regione nord-orientale della Nigeria. L’organizzazione è composta principalmente da militanti nigeriani, camerunensi, ciadiani, nigerini e maliani. Solo nel 2009, a seguito della violenta repressione dell’esercito nigeriano, l’organizzazione jihadista ha cominciato a seminare il panico, compiendo attentati che hanno suscitato sgomento in tutta la comunità locale, nei paesi limitrofi e a livello internazionale. Boko Haram mira, infatti, a costituire uno Stato integralmente islamico partendo dalla Nigeria e prevedendo – stando alle ultime dichiarazioni del leader Abubakar Shekau – di imporre la sharia anche in Benin, Camerun, Ciad, Niger e Mali anche attraverso alleanze con i gruppi terroristici attivi nel continente, quali Al-Qaida nel Maghreb islamico e Daesh, da cui ha preso ispirazione per fondare “The Islamic State’s West African Province”. Nonostante il Presidente della Nigeria Muhammad Buhari abbia recentemente dichiarato che il governo può dichiararsi vincitore nella lotta contro il terrorismo, la Nigeria resta al terzo posto nel mondo, dopo Iraq e Afghanistan, per numero di attacchi terroristici subiti. Buhari si è insediato nel maggio 2015, ereditando una situazione già disastrosa. Avrebbe dovuto diversificare l’economia basata sull’esportazione di petrolio e combattere la corruzione ma il Paese è attualmente alle prese con una seria recessione economica. La lotta contro Boko Haram resta un obiettivo difficile da raggiungere, complice anche un passato fatto di ferite e rancori etnici sedimentati e mai risolti.
Si stima che in totale siano morte oltre ventimila persone in seguito agli attacchi di Boko Haram ma il numero non è preciso; almeno cento delle duemila donne rapite sono state usate per compiere attacchi kamikaze; oltre due milioni e quattrocentomila persone hanno abbandonato le loro abitazioni: un milione e ottocentomila sono considerate “internally displaced person” e duecentomila sono rifugiate nei campi in Camerun, Ciad e Niger. Nelle regioni nigeriane più colpite – Adamawa, Borno e Yobe – oltre 7 milioni di persone vivono grazie agli aiuti umanitari, oltre il cinquanta percento sono bambini. Allo stato attuale, circa trecentomila bambini solo nello stato del Borno soffrono di malnutrizione. Molti di loro sono stati reclutati da Boko Haram per diventare bambini soldato: uno su cinque è un suicide bomber, i tre quarti sono ragazze.
Secondo l’idea del gruppo islamista, in tutto il Paese l’istruzione occidentale dovrebbe essere vietata; per14428694342_bd2dc976f0_b tale motivo, Boko Haram continua a perpetrare crimini e violenze anche contro gli studenti. Tra il 14 e il 15 aprile 2014, 279 studentesse sono state rapite nella scuola di Chibok, nell’area nord-orientale della Nigeria. La maggior parte di esse risulta, purtroppo, ancora scomparsa e la loro sorte rimane sconosciuta. Si teme che siano state in larga parte costrette a sposare i rapitori, a entrare esse stesse a far parte delle milizie, sottoposte a terribili violenze, vendute come schiave o indotte a commettere attacchi suicidi. Ad oggi, solo in venti sono riuscite a tornare a casa. Le giovani sono state rilasciate in cambio della liberazione di quattro combattenti di Boko Haram. Il rilascio è stato il risultato di negoziati tra il governo nigeriano e i fondamentalisti islamici, grazie alla mediazione del governo svizzero e della Croce Rossa Internazionale. La comunità internazionale è molto attiva nella sensibilizzazione della società civile al problema, il movimento #bringbackourgirls non perde occasione per ricordare il tragico evento. La drammatica situazione delle studentesse rapite ha messo in luce problemi più ampi, tra cui attacchi regolari contro le scuole, la mancanza di insegnanti e l’urgente necessità di fondi internazionali per riparare e ricostruire gli edifici distrutti. In particolare, la mancanza di opportunità educative per i giovani significa che alcuni bambini non ricevono da molti anni nessun insegnamento scolastico.
Nel gennaio 2015, è stata istituita, per merito del Consiglio di Sicurezza dell’Unione Africana, una Multinational Joint Task Force” (MNJTF) ed è stata avvallata, nello stesso mese, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Si tratta di una coalizione offensiva nata con il contributo di Nigeria, Camerun, Chad, Niger e Benin con l’obiettivo di combattere Boko Haram e ogni altro gruppo terrorista nella regione del Lago Ciad. Il mandato della missione è quello di creare zone sicure nelle aree minacciate dalle attività di Boko Haram o da altri gruppi terroristici; facilitare la ricostruzione delle zone distrutte dagli attacchi terroristici; favorire il ritorno a casa degli sfollati e dei rifugiati; garantire il successo di operazioni umanitarie e la consegna di beni necessari alla popolazione; il mandato della missione include anche attività di prevenzione, compresa ogni misura volta a liberare le ragazze della scuola di Chibok ed evitare che accadano episodi simili.
Tuttavia, nonostante la coalizione sia attiva sul campo, Boko Haram resta una minaccia per la pace e la sicurezza regionale. Per evitare che la crisi diventi internazionale, a tal proposito, l’Unione Europea ha recentemente stanziato cinquanta milioni di euro per sostenere l’azione dell’Unione Africana nel mantenimento del quartier generale di Njamena, così come i distaccamenti in Camerun e Niger, oltre che per dare un supporto tecnico e logistico all’operazione. Con le Risoluzioni n. 2161 e 2195 del Consiglio di Sicurezza ONU del 2014 sono state imposte sanzioni al fine di congelare i beni e i fondi di Abubakar Mohammed Shekau, quale leader del movimento e affiliato ad Al-Qaida, accusato di ricevere aiuti, assistenza e finanziamenti per perpetrare attività terroristiche per conto di Boko Haram. La decisione ricalca l’azione intrapresa dal Comitato del Consiglio di Sicurezza per contrastare “Daesh”, “Al-Qaida” e persone, gruppi, enti, associazioni ad essi affiliate. A queste, si aggiunge la decisione del Consiglio europeo di imporre sanzioni a Boko Haram, quale organizzazione terroristica”.

Tra arte e uomo

Un consiglio: leggete le brevi parole in corsivo che posto subito qui sotto. Se vi interessa sapere di cosa si tratta andate oltre, altrimenti possono bastare quelle. Sono le parole di una lettera ricevuta dal giornalista Marco Aime da parte di Asco Ousmane, un suo amico del Mali. L’articolo appare su Nigrizia di dicembre, a cui sono abbonato da anni; non l’ho trovato in rete per cui nel caso violassi leggi di copyright è sufficiente segnalarmelo e rimuoverò immediatamente il post.

Caro amico,
volevo dirti che il mio silenzio non è un oblio, ma è perché tutti i cavi delle comunicazioni sono stati danneggiati dai ribelli. Sono tre mesi che la rete telefonica non funziona. Nessuno qui è ormai sicuro, la popolazione vive nel panico totale. La psicosi è diventata la regina madre della città, ma sono riuscito a mandare mia moglie e i miei figli a Bamako. Io sono rimasto a Timbuctù per cercare di salvare il lavoro.
La città si è svuotata, due terzi della popolazione è fuggita e l’esercito ci ha abbandonato alla nostra triste sorte. Non c’è stata resistenza: i militari hanno abbandonato caserme, armi e divise per vestirsi come i civili e nascondersi nelle case della gente. Le tre regioni del nord in 72 ore sono cadute in mano a gruppi di islamisti, l’Mnla è diventato il padrone della città. Quelli dell’Mnla si sono installati all’aeroporto, Ansar Dine nella caserma. Questi vogliono instaurare la shari‘a. Il velo alle donne è diventato obbligatorio, anche per le bambine, i bar sono stati saccheggiati, le banche svuotate, tutti i servizi bloccati.
È la crisi totale, Marco. Con la presenza di questi islamisti non ci saranno più scuole, tranne quella coranica. Un uomo non può più acquistare nulla da una donna e viceversa, non si può più giocare a carte o suonare, né fumare per la strada. Una donna non può camminare con un uomo per strada, se non è suo marito. È la disperazione.

timbuctu_esercito_maliLa Patisserie Asco, piccolo ristorante all’aperto all’ingresso di Timbuctù, era un punto di riferimento per molti abitanti della città. Soprattutto per una certa intellighenzia. Seduti ai tavolini, all’ombra delle acacie, incontravi insegnanti, magistrati, amministratori, che spesso discutevano di politica e di molte altre cose, con Asco che partecipava attivamente a ogni discussione. Distrutto. Il locale è stato distrutto come tutti gli altri. Quando ricevetti questa mail, mi vennero le lacrime agli occhi nel pensare al dolore di tanta gente, di molti amici che a Timbuctù come a Kidal, a Gao e in molti altri villaggi stavano provando a causa della guerra.
I racconti che sono arrivati da altri conoscenti, parlavano di mani amputate pubblicamente sulla piazza del mercato, donne stuprate davanti ai figli e ai mariti, uomini fucilati pubblicamente. In una mail successiva, Asco mi raccontava di avere mandato nella capitale moglie e figli anche perché ha una bambina di dodici anni e i jihadisti pretendevano di scegliere come spose le ragazzine che ritenevano più carine.
Timbuctù il cui suolo, secondo il cronista tunisino del XVII secolo es Sadi, non era mai stato toccato dagli idoli pagani, aveva saputo mantenere per secoli una tradizione di tolleranza e di apertura. Islamica fin dalla sua fondazione, nel XII secolo, Timbuctù è stata popolata da una borghesia commerciale, aperta al mondo, curiosa, che ha saputo fondere i caratteri del mondo arabo con quelli della tradizione africana ed è contro i segni di questa tradizione di tolleranza, che si è scagliata la furia iconoclasta dei jihadisti, che hanno distrutto tre storici mausolei: quelli di Sidi Mahmoud, di Sidi Moctar e di Alpha Moya. Sanda Ould Boumama, portavoce del gruppo, dopo aver annunciato altre distruzioni, ha dichiarato che costruire tombe è contrario all’Islam e pertanto proibito. Questi episodi hanno immediatamente acceso l’attenzione dei media, che avevano fino a quel momento appena accennato alle violenze perpetuate sulla popolazione. Nel gennaio del 2013 le truppe francesi entrano a Timbuctù, mettendo in fuga i jihadisti che la occupavano dall’ottobre dell’anno precedente. Immediatamente ha fatto il giro del mondo la notizia che costoro avevano dato alle fiamme migliaia di antichi manoscritti conservati nel Centro Ahmed Baba. Testimonianze scritte della secolare tradizione culturale di Timbuctù. Per fortuna (se di fortuna si può parlare in questo frangente) i responsabili delle biblioteche hanno messo in salvo la maggior parte dei manoscritti, prevedendo l’accanimento degli islamisti.
Ciò che accomuna questi tragici fatti (era accaduto lo stesso per i Buddha di Bamayan) è la loro capacità di smuovere l’opinione pubblica, molto di più di quanto riescano a fare azioni simili perpetuate sugli individui. Le statue, i manoscritti, i monumenti. Questi manufatti, di indubbio pregio e valore storico, sembrano colpirci più della sorte delle persone. Perché ci commuoviamo in maniera più intensa davanti a un monumento danneggiato che di fronte alle tragedie umane? Che il delirio iconoclasta degli “studenti islamici” fosse un segno di barbarie è fuor di dubbio, ma non è certo stata l’espressione peggiore del loro fanatismo. Ci siamo però accorti della loro furia solo quando hanno violato il sacro tempio dell’arte, quasi che sentissimo più vicina a noi questa realtà piuttosto che quella umana. Percepiamo l’arte come un universale, come un qualcosa che ci appartiene. Perché? La cultura occidentale contemporanea, grazie anche alle politiche dell’Unesco, ci ha portati a pensare all’arte e alla natura come universali, come parte di un patrimonio appartenente a tutti: il patrimonio dell’umanità. Non riusciamo invece ad abbandonare l’idea che gli esseri umani siano in qualche modo marchiati da una nazionalità, da una cittadinanza, da un legame con un territorio che, se non è il nostro, li rende automaticamente stranieri. Nascita e nazione sembrano diventati un binomio indissolubile, sul quale costruire le nostre identità. Quando c’è un incidente o una guerra si sente parlare dei “nostri” morti, quelli degli altri contano meno. Natura e arte ci emozionano e ci uniscono, perché, percepite come universali, diventano anche extra territoriali. L’umanità ci rende diversi e talvolta nemici. Attraverso l’arte abbiamo materializzato la storia, rendendola visibile e pertanto utile a conservare la memoria. Accade poi che con il tempo questi oggetti di venerazione siano via via svuotati e ridotti a simulacri di un valore universale e assoluto. Abbiamo divinizzato l’arte al punto di ritenerla al di sopra delle parti, sovrumana.
Potremmo riflettere su questi temi, magari rileggendo ancora una volta questi versi del grande poeta israeliano Yehuda Amichai:
«Un giorno sedevo sui gradini dell’entrata della Torre di Davide.
Avevo appoggiato le mie due borse della spesa di fianco a me.
Un gruppo di turisti circondava la sua guida e io divenni il loro punto di riferimento.
“Vedete quell’uomo con le borse della spesa? Proprio a destra della sua testa c’è un arco di epoca romana. Appena a destra della sua testa”. “Ma si sposta! Si sposta!” . Io mi dicevo: la redenzione verrà solo quando la loro guida dirà loro: “Vedete quell’arco di epoca romana? Non è importante: ma lì vicino in basso, un po’ a sinistra, c’è un uomo seduto, che ha comprato frutta e verdura per la sua famiglia”».

L’Europa di Morin

Un’intervista molto agile presa da un blog del Corriere della Sera che si occupa di Francia. Ma si parla anche di Europa, di Mediterraneo, di Germania, di Mali. L’intervistato è Edgar Morin.

“A vent’anni Edgar Nahoum entrò nella Resistenza contro i nazisti e il regime di Vichy allora trionfanti, con il nome di battaglia di «Morin». Oggi che di anni ne ha 91, Edgar Morin esorta di nuovo alla lotta e ad avere il coraggio di perseguire l’improbabile: cioè, ai giorni nostri, battersi per una Europa unita. Con Mauro Ceruti, Morin ha scritto «La nostra Europa» (Raffaello Cortina Editore), un libro che ha l’ambizione di rispondere alle domande: «Cosa possiamo sperare? Cosa dobbiamo fare?». Nel suo studio di direttore di ricerca emerito del Cnrs a Parigi, il grande sociologo e filosofo della sinistra francese offre uno sguardo autorevole — e paradossalmente ottimista — sull’Europa di oggi.

Nel 1942 lei voleva sconfiggere Hitler. Oggi vuole una federazione europea. Stesso grado g1220978204_g1207957988_g1207594221_morin2.jpgdi improbabilità?

«Abbastanza. Ma tutta la storia umana ci indica che l’evoluzione accade quando gli eventi non seguono la traiettoria probabile. Il caso più clamoroso è quello della Grecia».

Cioè?

«L’impero persiano provò per due volte a schiacciare le piccole città greche, Atene in testa. Nella Prima guerra persiana gli ateniesi sconfissero l’esercito invasore a Maratona. E nella Seconda ci fu la sorpresa di Salamina, dove la flotta greca distrusse quella persiana. Chi l’avrebbe mai detto?».

L’improbabile ha prevalso anche nella Seconda guerra mondiale?

«Senza dubbio. Quando ho fatto la scelta di combattere nella Resistenza (nel 1942 Morin entrò come luogotenente nelle forze della Francia libera, ndr), i nazisti dominavano l’Europa ed erano sul punto di sconfiggere l’Urss. Niente indicava che potessero essere battuti. Fu una scommessa, per fortuna ci andò bene. Già l’Europa metanazionale del 1945 è figlia dell’improbabile».

Per questo lei e Ceruti avete scelto proprio questo momento per scrivere un libro europeista?

«Sono i giorni della crisi profonda ma, come diceva Hölderlin, “là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”. Bisogna credere in un nuovo, improbabile sussulto, perché le ragioni non mancano».

Non c’è leader europeo, a parte David Cameron, che a parole non sostenga la prospettiva di un’unione politica.

«I fatti non seguono perché nessuno ha il coraggio di accettare una cessione di sovranità a beneficio di tutti. Tutto è più difficile perché ci sono molte forze centrifughe. Guardate l’intervento in Mali, dove la Francia di fatto è sola a difendere interessi di tutta l’Europa».

Ma è proprio la Francia a essere accusata di frenare sull’integrazione politica. Berlino parla spesso di federazione, e Parigi non risponde.

«Angela Merkel evoca l’unione ma non vuole una politica di rilancio dell’economia. È la Francia a preoccuparsi di una politica economica comune, che non serva solo gli interessi di Berlino. L’impressione mia e di molti qui in Francia è che la Germania proponga un’unione ma a condizione di controllarla, perché nel frattempo la cancelliera Merkel impone ovunque il suo rigore».

L’avvento di Hollande all’Eliseo ha suscitato non poche speranze nell’Europa del Sud. Oggi quello slancio sembra essersi fermato, la Francia appare impegnata soprattutto ad affrontare i suoi notevoli problemi interni.

«Il rapporto della Francia con l’Europa del Sud è interessante e controverso. Negli anni Ottanta i premier socialisti di Portogallo, Spagna e Italia chiedevano al presidente Mitterrand di volgersi verso il Mediterraneo, di guardare di più a Sud. Lui a mio avviso non capì l’importanza di quella offerta di alleanza, era ossessionato dall’asse franco-tedesco, dal suo rapporto privilegiato con Helmut Kohl. Quello fu il primo errore».

E poi?

«Nicolas Sarkozy appena diventato presidente propose un’Unione del Mediterraneo. Un’idea priva di contenuto, davvero troppo campata per aria».

Perché per rinascere l’Europa deve guardare a Sud?

«Perché nel Mediterraneo stanno i problemi e le opportunità. A cominciare dal conflitto israelo-palestinese, sorta di cancro che estende le sue metastasi ovunque, che fortifica in Europa tutto quel che è antislamico e antiarabo e rafforza nei Paesi arabi i sentimenti contrari all’Occidente e alla civiltà giudaico-cristiana. Siamo davanti a un processo infernale, e senza svalutare ciò che è europeo, bisogna rigenerare quel che è mediterraneo».

Il Mediterraneo oggi è il luogo delle minacce, della guerra in Siria, delle Primavere arabe che sembrano tradire le speranze.

«Appunto, è qui che si gioca il futuro. Non parlo di misure concrete, ma il nostro ruolo è di rafforzare una sensibilità. Possiamo almeno provare a riportare in vita quel sentimento affettivo di una identità comune legata a un mare che mi piace definire “materno”».

Non è una visione sentimentale ma poco realistica?

«Al contrario. Anni fa ho scritto un testo che si intitolava appunto Togliere e ridare mito al Mediterraneo. Il nostro mare non è solo armonia, Apollo e Partenone; è un luogo di conflitti. Ma è comunque qui che sono nati i monoteismi e il pensiero laico. È il luogo di una costruzione storica inaudita».

Guardando a Sud, François Hollande ha mandato l’esercito francese in Mali. Lei è d’accordo con questo intervento?

«Sì, lo approvo. Anche se arriva troppo tardi e troppo presto. Tardi, perché si è lasciato che gli islamisti si impadronissero del Nord. Presto, perché gli alleati europei hanno seguito la Francia in modo solo simbolico, e anche perché adesso i tuareg e gli islamisti sono esposti alla vendetta dei maliani. È un’avventura storica e, come sempre in questi casi, i rischi sono molto alti, le conseguenze negative secondarie possono essere più importanti dei successi nel raggiungere gli obiettivi principali. Guardiamo la Libia: la decisione di intervenire era comprensibile, viste le minacce su Bengasi e considerato il regime di Gheddafi; ma adesso ci troviamo con un’enorme quantità di armi che sono finite ai jihadisti di tutta la regione, Mali compreso. Siamo nel vortice delle scommesse storiche, molto pericolose, è vero. Ma io penso che, a un certo punto, dei rischi vadano presi».

Prima delle elezioni presidenziali francesi lei ha firmato, con Michel Rocard e altri, il manifesto «Roosevelt 2012» per spronare la sinistra alle riforme, e ha sostenuto la candidatura di François Hollande. Che cosa pensa delle sue difficoltà attuali, tra tasse, fughe dei capitali all’estero e caso Depardieu?

«La Francia nemica dei ricchi, degli imprenditori e del mercato è un’immagine caricaturale, alimentata dall’opposizione sconfitta. Al contrario, molti a sinistra criticano Hollande perché non conduce una politica abbastanza di sinistra. Io non ero d’accordo con la tassa del 75%, perché la ritenevo inutile e controproducente: i ricchi possono benissimo evitarla espatriando. Soprattutto, Hollande non ha ancora fatto quel che ci aspettiamo da lui, una politica rooseveltiana basata sul rilancio delle energie rinnovabili e sull’ecologia intesa in senso largo. Invece l’energia e l’ecologia potrebbero essere il cuore della nuova integrazione europea».

È deluso da Hollande?

«No, lo critico ma ha un grande merito: Hollande ha combattuto e fermato il dogma politico del rigore che stava massacrando i greci e gli spagnoli. L’Europa può ripartire da qui».”

No femminile alla sharia

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Una storia di coraggio tutta al femminile, presa dal Corriere. L’ha scritta Monica Ricci Sargentini

“Erano solo duecento ma è come se fossero state migliaia. Sì perché ci vuole coraggio per scendere in piazza a Timbuktu, una delle città nel nord del Mali finite sotto il controllo dei gruppi estremisti islamici, per protestare contro le limitazioni alle libertà imposte dai salafiti in nome dell’applicazione della sharia. Le donne hanno sfidato l’ira dei radicali manifestando contro l’obbligo a portare il velo, a girare per la città solo accompagnate dal marito o dal fidanzato, a essere frustate pubblicamente per la minima violazione di regole così rigide che impongono loro persino un coprifuoco serale. Gli islamici hanno sparato alcuni colpi in aria per disperderle. Fortunatamente non ci sono stati feriti. Timbuktu è la “città misteriosa” del Sahara, neo capitale del “nuovo Stato indipendente di Azawad”, autoproclamatosi tale nel nord del Paese. Indipendente e islamico in senso qaedista e wahhabita, per cui — a parte le considerazioni politiche — ogni deviazione dal più rigido monoteismo è “shirq”, idolatria. In un’area vasta quanto la Francia ormai si applica rigidamente la versione fondamentalista della legge islamica. Le distruzioni del patrimonio artistico, le amputazioni di mani e piedi, le lapidazioni, le fustigazioni e più di recente le esecuzioni sommarie sono fatti all’ordine del giorno denunciati in un recente rapporto di Amnesty International. Innumerevoli anche i casi di stupro di donne e il reclutamento sempre più massiccio di bambini soldato. Tutto questo sta spingendo la comunità internazionale a valutare seriamente l’ipotesi di un intervento militare per scacciare i terroristi, richiesto tra l’altro in più occasioni dal presidente ad interim maliano, Dioncounda Traorè. La Comunitá economica dei Paesi dell’Africa occidentale (Ecowas) ha già pronta una forza militare di 3.000 uomini circa, ma il Mali chiede una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Nei giorni scorsi, il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha annunciato la nomina dell’ex primo ministro Romano Prodi come inviato speciale delle Nazioni Unite nel Sahel per cercare di risolvere la complessa crisi in cui versa l’area.”

L’erba schiacciata

Pubblico un articolo interessante di Andrea de Georgio trovato sul blog sui diritti umani gestito insieme da Corriere della Sera e Amnesty. Tratta del Mali, in particolare della zona settentrionale, e racconta la preoccupante storia di Alhader Ag Almahmoud.

“Ad Alhader Ag Almahmoud, tuareg di Ansongo, poche settimane fa è stata amputata la mali_small_map.jpgmano destra in nome della sharia. Lo ha raccontato lui stesso a Bamako il 20 settembre scorso durante un’affollata conferenza stampa di Amnesty International sulle amputazioni e le violenze che negli ultimi mesi stanno sfiancando la popolazione del nord del paese. Vestito con un’ampia tunica celeste, il volto coperto dal tradizionale turbante tuareg che normalmente lo protegge dalla sabbia e dal vento del deserto, l’uomo ha descritto nei dettagli la sua terribile disavventura mostrando, con riluttanza, il moncherino. Accusato di furto di bestiame, Alhader non è potuto scampare alla sorte che i gruppi terroristi di integralisti islamici del nord riservano ai presunti ladri. Nulla importa se, prima che la punizione fosse perpetrata, gli animali “rubati” erano stati ritrovati. Nulla importa se, con il loro ritrovamento nella foresta, l’accusa fosse decaduta.

“La sentenza era già stata emessa. Con un coltello da carne di quelli che si comprano al mercato il capo del Mujao (Movimento per la jhiad nell’Africa occidentale, ndr) mi ha tagliato la mano destra, dopo avermi avvolto il braccio in un sacchetto di plastica, per il sangue. Ci ha messo circa dieci minuti. Non ho urlato e, sebbene non mi abbiano fatto nessun tipo di anestesia, non sono svenuto. La cosa che più mi ha ferito è che prima di calare la lama sulla mia mano abbiano gridato: Allah akbar!”.

Il Mali e l’intero Sahel, nel quasi totale disinteresse dei media italiani, stanno attraversando la peggiore crisi della propria storia. Da mesi il paese è spezzato in due non più solo dall’enorme fiume Niger che ne divide da sempre la geografia. Nel gennaio scorso combattenti tuareg di ritorno dalla Libia post-gheddafi sconfitti e pesantemente armati hanno deciso di riprendere la lotta per l’indipendenza dell’Azawad (“terra del pascolo” in lingua tamashek, ossia l’ampia regione nord del Mali). Per anni abbandonati a se stessi da uno stato centrale onnivoro di fondi internazionali e per niente interessato alle dune settentrionali – e memori delle passate ribellioni finite male – i tuareg in un primo momento si sono alleati con la galassia di sigle jhiadiste e qaediste della zona (Mujao e Aqmi, Al Qaeda nel Maghreb islamico) trasformando le sabbie del Sahara nel santuario del terrorismo internazionale. L’Mnla (gruppo armato di tuareg per l’indipendenza dell’Azawad) insieme ai “barbuti” venuti da paesi limitrofi nel marzo scorso hanno conquistato le tre città-simbolo del nord, Timbouktou, Gao e Kidal, causando una vera e propria crisi politica nel paese. Amadou Toumani Touré, presidente democraticamente eletto ed emblema della stabilità nazionale è stato investito da durissime critiche per la mala gestione della questione settentrionale. Cavalcando l’onda del malcontento, il capitano Amadou Haya Sanogo nella notte fra il 21 e il 22 marzo 2012 ha preso il potere nel più classico dei colpi di stato militari africani. In poco tempo, nonostante la condanna unanime dell’atto di forza da parte della comunità internazionale, la sua giunta ha epurato le autorità e si è insediata nei posti di comando. Al nord la situazione invece che migliorare è degenerata fino alla dichiarazione da parte del Mujao e di Aqmi, sbarazzatisi nel frattempo degli scomodi e laici alleati tuareg, della sharia. Come racconta Amnesty International nel suo rapporto e Human Rights Watch : alle violenze arbitrarie contro militari e civili commesse dalla giunta al potere si sono sommate, negli ultimi mesi, quelle del nord. La lista che recita Saloum D. Traorè, direttore esecutivo di Amnesty Mali, è lunga: “Distruzioni di luoghi di culto cristiani e sufi, fra cui siti protetti dall’Unesco, divieto di ogni forma di musica, imposizione del velo integrale a tutte le donne, chiusura di scuole miste, ospedali e altri servizi sociali, arresti e omicidi sommari, bambini soldato, stupri di massa, lapidazioni. Sono almeno sette i casi accertati di amputazioni di mani e piedi, senza processo né testimoni, come invece prevedrebbe la legge coranica.”

Il Dottor Traorè è vestito con un grand bubu marrone, abito tradizionale maschile dell’Africa occidentale. Siede nel suo piccolo ufficio in una palazzina di Kalaban Kourà, quartiere periferico di Bamako che si affaccia sulla strada dell’aeroporto. Sul soffitto le pale di un vecchio e polveroso ventilatore cigolano svogliate, senza spostare né l’aria né le alte pile di scartoffie che affollano la sua scrivania. Il racconto continua. “Più di 350 mila persone dall’inizio della crisi sono scappate dai territori del nord cercando rifugio nella capitale o in paesi vicini come Niger, Burkina Faso, Mauritania e Senegal. La gente scappa anche dalla grave crisi alimentare che quest’anno sta decimando il Sahel.”

L’opinione pubblica della capitale, pur essendo un paese al 95% musulmano, condanna fermamente l’interpretazione anacronistica e radicale dei gruppi salafiti, rigettando la sharia e aspettando che l’esercito nazionale e la Cedeao (la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) intervengano militarmente per liberare il nord e ristabilire l’integrità nazionale. Un intervento che, però, nasconde anche grandi interessi geopolitici e petroliferi di potenze mondiali quali Francia, Usa, Qatar e Algeria. Nell’attesa è la popolazione civile, come sempre, a soffrire. Come dice un proverbio africano: “quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata” .”