Propongo un articolo piuttosto vivace e non molto lungo scritto da Vincenzo Brancatisano su Orizzonte Scuola. Ragiono su questi temi molto spesso e frequentemente mi confronto con colleghe e colleghi; poco più di un anno fa, mentre partecipavo ad un convegno sull’adolescenza a Rimini, mi ponevo proprio la questione della preparazione pedagogica e didattica del corpo docente italiano. Mi sentirei di fare solo una puntualizzazione in merito all’accenno che viene fatto all’alternanza scuola lavoro, ma la rimando ad un futuro post.
“Leggo i titoli di centinaia di corsi di formazione per docenti. La maggior parte dei medesimi riguarda la disabilità degli studenti, i loro disturbi specifici di apprendimento (dsa), che meritano la giusta attenzione, le nuove tecnologie da usare in classe, le classi rovesciate o da rovesciare al più presto, Google drive dove infilare alla rinfusa la didattica appena offerta in classe o magari mai proposta in aula e spedita a casa come un pacco di Amazon a beneficio di genitori imbestialiti.
E invece c’è una grande emergenza che meriterebbe la giusta attenzione e che non occupa né sembra preoccupare la categoria dei formatori e degli insegnanti, almeno non nei grandi numeri. E si tratta di un’emergenza forse proprio perché non attiva la giusta attenzione dei docenti.
Questa emergenza si chiama preadolescenza e adolescenza. Quanti sono i docenti che si son dotati della giusta formazione per essere in grado di interpretare le dinamiche psicologiche, psicosociali, neurologiche, affettive dello studente che vive questa epoca ispirata al massimo nichilismo, alla mancanza diffusa di scopo, al desiderio di automutilarsi pur di attirare l’attenzione dei pari, al disastro causato dai genitori che si propongono loro come amici invece che come nomos, alla dipendenza dalle tecnologie talmente devastante che vien voglia di pensare: ma perché non si drogano con le sostanze (è un’iperbole, ovvio, tesa a sottolineare la cifra del fenomeno) invece che con gli smartphone, con le attese ansiosissime e distruttive di una risposta a un messaggino, che dev’essere brevissima (“Perché non risponde? Avrà ricevuto? Sì, c’è la doppia sbarretta blu, forse non ha capito…”) con l’esercizio fisico compulsivo nelle mille palestre sempre più affollate di giovanissimi in cerca di identità (la nuova dipendenza di cui non si parla ancora), con i giochi d’azzardo online.
Tra le tante ricadute positive (si parla invece solo dei lati negativi) dell’alternanza scuola lavoro, una ricaduta apprezzabile emerge dai tanti recenti colloqui con i genitori. Tutti mettono in evidenza il sollievo momentaneo ma intenso indotto in loro dal vedere i propri figli staccati per ore e ore e per settimane dal telefonino e dalle cuffiette, una sorta di disintossicazione involontaria che fa il paio per fortuna con quella che si ripeterà più avanti, quando i nostri ragazzi saranno assunti in aziende per svolgere mansioni che non si conciliano con lo zombismo che abbiamo tutti davanti agli occhi. Ma intanto, questi zombie li abbiamo, appunto davanti agli occhi.
Tutti o quasi tutti ipnotizzati da un nulla cosmico talmente potente che si fa fatica, nei grandi numeri, a farlo sopravanzare dall’interesse per quello che viene proposto in classe da docenti che continuano a proporsi loro come avrebbero fatto vent’anni orsono, senza capire che la connessione di massa alla rete, avvenuta solo di recente, ha cambiato l’assetto sociale, quello antropologico e quello neuronale dei giovanissimi.
Basterebbero i dati sulle crisi d’ansia, sugli attacchi di panico che richiedono ogni giorno il soccorso delle ambulanze nelle nostre scuole, gli occhi assonnati di ragazzi e ragazze che si vede da lontano che hanno trascorso la notte davanti a un mini schermo luminoso, con tutti i danni cerebrali connessi alla privazione di sonno importante a quell’età.
Eppure si continua a minimizzare la dimensione del fenomeno. Continuiamo a preoccuparci, e giustamente, di handicap, di sostegno, di alunni diversamente abili, di alunni neoarrivati e di alunni con bisogni speciali. Ma non dimentichiamoci dell’adolescenza, cari formatori e organizzatori della formazione, né degli strumenti, e ce ne sono, capaci di rendere gli insegnanti capaci di affrontarla nel modo più appropriato e proficuo”.
Tra pensiero monoteista e dialogo

Un interessante articolo di Pier Aldo Rovatti, uscito su “l’Espresso” del 13 novembre 2016, con il titolo “Nel nome di un solo Dio” e che ho trovato su Aut Aut. Molte le riflessioni e le suggestioni che suscita.
“Dio non è morto. Nietzsche aveva annunciato, quasi un secolo e mezzo fa, in una pagina della sua Gaia scienza rimasta famosa, la “morte di dio”, provocando uno scandalo filosofico e molte attese.
Destinata a uscire di scena sarebbe stata la Verità, quella che si scrive con la lettera maiuscola, quella che si impone nella sua unicità e nella sua prepotente violenza apodittica. Certo aveva in mente la nostra scena religiosa, ma per lui non stava lì la questione principale: consisteva piuttosto in ciò che potremmo definire il “monoteismo” della ragione e delle fondamentali categorie del pensiero come “essere” o “soggetto”.
Non senza imbarazzo, sapendo bene quali difficoltà si aprivano per tutti, Nietzsche aveva predetto un cambiamento radicale della scena culturale a venire. Si rendeva perfettamente conto che bisognava attraversare le acque limacciose del nichilismo e che la mancanza di punti di appoggio e di difese richiedeva una lunga convalescenza, molto lunga, per abituarsi al vuoto di verità che si apriva sotto i piedi di ciascuno. Era però sicuro che alla fine sarebbe prevalsa quella “scienza gaia” che aveva in mente come antidoto alla tragedia dell’esistenza umana.
Sbagliava. Il monoteismo della Verità non è affatto morto né morente, anzi si è riprodotto in forme più temibili e velenose. La deformazione islamistica di questo monoteismo ne è solo l’esempio più minaccioso e sbaglieremmo a nostra volta se credessimo di poterlo isolare e tagliare via come la parte malata di un corpo. Ci illuderemmo drammaticamente se pensassimo che con un intervento chirurgico, asportando il male, il corpo, cioè il nostro stesso corpo sociale e culturale, tornerebbe a essere sano.
Al contrario, ci accorgiamo ogni giorno di più che il monoteismo della Verità unica sta sotto la pelle di ciascuno di noi, nonostante e forse proprio in ragione della diffusione del nichilismo (quello che Nietzsche riteneva cattivo in quanto passivo), ed è pronta a riaffiorare a ogni istante con effetti devastanti nella vita pubblica, con piena evidenza, ma anche nella vita privata e nelle relazioni individuali.
Le violenze scoppiano con sempre maggiore frequenza. Parlo di quelle violenze che scaturiscono dall’intransigenza e da una incapacità di accogliere senza intolleranza chi ci sta vicino o si avvicina a noi. Stiamo diventando ogni giorno più infastiditi e di conseguenza più autoritari nel nome di un’idea di verità chiusa e all’apparenza rassicurante che ciascuno si costruisce per conto proprio, anche in mancanza di un credo o di un dogma: una sorta di monoteismo filosofico prêt-à-porter, spesso fatto in casa e quindi alquanto penoso e solo abbozzato, però molto efficace e con tratti violenti sempre meno mascherati. Pensiamo, per esempio, alla diffusione capillare dei comportamenti a carattere razzistico nei confronti di qualunque fenomeno che comporti estraneità o semplicemente stranezza.
Questo “dio” velenoso e obnubilante non è affatto morto, anzi sta contaminandoci tutti con un velo di pensiero assolutistico, unico e unificante, che non ha bisogno di numi tutelari e di compatte sistemazioni filosofiche, forse neppure di stampelle religiose. Sta infatti assumendo il volto peggiore, quello del senso comune o del buon senso, del “così fan tutti”, insomma dell’omogeneizzazione delle menti. Viviamo in una società nella quale si dà ormai per scontato da parte degli osservatori (psicologi, sociologi ecc.) che l’emozione prevale sulla riflessione, il che significa che il comportamento emotivo viene considerato come giusto e opportuno mentre il comportamento riflessivo viene spesso bollato come inopportuno e scarsamente efficace, dunque sbagliato.
Il monoteismo culturale che sta avvolgendoci è un prodotto del cattivo nichilismo, il suo effetto collaterale, una reazione epidermica alla paura che venga a mancare l’appiglio, la maniglia della verità cui attaccarci. Nietzsche si augurava una caduta del dio-verità e che gli uomini moderni, dopo avere per un po’ zoppicato, imparassero infine a camminare senza grucce, da soli.
Forse si augurava anche la nascita di un pensiero critico e autocritico che corrispondesse a questa arte di camminare. Qualcosa di simile e anche di rilevante si è pure prodotto nella nostra contemporaneità, ma con quanta fatica! Ed è realistico osservare che l’attuale velame di intransigenza, che si sta spalmando ovunque attorno a noi e dentro noi stessi, toglie aria al pensiero critico, anzi sembra proprio soffocarlo. Spendersi criticamente contro il monoteismo del pensiero veritativo, a chi giova? Non certo a coloro che hanno scelto la strada dell’insegnare: faticheranno molto ad andare avanti, saranno indotti a gettare la spugna, e se troveranno un luogo che permetta loro di vivere e parlare con libertà dovranno presto aspettarsi di essere marchiati come cattivi maestri, sia questo luogo una scuola elementare o un dipartimento universitario.
Nessun rispetto per gli altri. Che cosa rinforza e cosa rende più fragile l’attuale tendenza al monoteismo del pensiero? Quando la verità e il potere stringono la loro alleanza, come sta accadendo oggi a tutti i livelli nella nostra società, il risultato prevedibile è di solito un’intensificazione delle dinamiche di massa e possiamo verificarlo osservando la presenza delle tecnologie digitali, il ruolo predominante che esse hanno assunto grazie a una sorprendente diffusione microfisica, al punto che già alle soglie della pre-adolescenza se ne riscontra ampiamente l’uso. Ma il “grande fratello” digitale è soltanto uno degli effetti collaterali di questa nuova alleanza culturale.
È utile guardare più da vicino come essa funziona nelle nostre vite quotidiane. Innanzi tutto, non si tratta di un semplice fenomeno di esteriorizzazione: in realtà, ciò che tendiamo a rinforzare è proprio il nostro interno, il nostro “io” per capirsi. Sta infatti producendosi un inquietante aumento dell’egoismo individuale. L’augurio di Nietzsche, secondo il quale sarebbero stati smantellati il feticcio e la “metafisica” della soggettività chiusa in se stessa ed elevata a valore assoluto, viene fragorosamente smentito dall’idolatria dell’individuo che domina ovunque.
Questa idolatria agisce e prevale anche là dove sembra evidente (come appunto nel caso dell’islamismo dell’Isis) che l’individuo rinuncia a se stesso per identificarsi completamente in una verità esterna a lui. Proviamo, invece, a immaginare il contrario, e cioè che anche in questo caso, che atterrisce il nostro comune modo di sentire, avvenga una potente interiorizzazione della verità il cui effetto è un’impressionante fortificazione dell’io individuale.
Si capisce bene il fatto che ci sentiamo protetti come abitanti della sfera liberalizzata in cui stiamo vivendo, ma si capisce anche bene come possiamo sentirci minacciati da questo monoteismo “impazzito”: non tanto e non solo per i rischi materiali costituiti da un “nemico” invisibile e del tutto alieno da noi, ma forse anche perché il suo processo mentale non è poi così estraneo al nostro modo di pensare. Siamo lontanissimi da tale esempio-limite, tuttavia c’è qualcosa per cui ne avvertiamo una pericolosa prossimità: ipotizzo che questo qualcosa appartenga all’inarrestabile superfetazione dell’io individuale di cui siamo, insieme, vittime e responsabili.
E dunque che cosa diventa più fragile con l’affermarsi del monoteismo del pensiero? Più l’io diventa potente, più si impoverisce e quasi si fa evanescente l’immagine dell’altro. Il risvolto negativo di ciò che possiamo chiamare l’attuale assolutismo del nostro modo di pensare è un sempre più palpabile deficit etico. Norme, regole, codici e comitati etici si moltiplicano ma non bastano certo a coprire il buco che si è scavato e che seguitiamo ad allargare: l’affossamento graduale (e all’apparenza inarrestabile) del “rispetto per l’altro”, per il migrante che arriva e che temiamo ci depredi, ma anche per coloro che abbiamo intorno e con i quali magari conviviamo ogni giorno.
Il monoteismo in cui stiamo abbozzolandoci tende a bruciare ogni etica, anche minima, in quanto ci disabitua all’ascolto reale di chi ci sta vicino o ci viene incontro, come se fosse ormai un gesto inutile, una semplice perdita di tempo. L’altro viene così ridotto a un’utilità. Se è utilizzabile per confermare il nostro potere individuale, piccolo che sia, allora lo tolleriamo o appunto lo adoperiamo come uno strumento, altrimenti lo ignoriamo e perfino lo calpestiamo quando intralcia i nostri passi. Naturalmente, ogni volta, alziamo il vessillo della presunta verità che sostiene il nostro comportamento, e non vogliamo sentire altre ragioni.
Ci lamentiamo di continuo della fragilità di ciò che chiamiamo “democrazia”, fino al punto di temere che si tratti ormai di una parola vuota. Ci chiediamo come possiamo difenderla mentre essa si sgretola sotto i nostri piedi, e non abbiamo granché da rispondere. È difficile dare una risposta finché seguitiamo a ignorare cosa significhi ascoltare e rispettare gli altri. Il dilagante monoteismo del pensiero sembra facilitare e accogliere proprio questo nostro analfabetismo etico. Non ci invita ad ascoltare l’altro e neppure alimenta la curiosità per tale ascolto. Peggio: non sollecita neanche la domanda sul senso da dare a questa pratica che è essenziale – come è ovvio – a una compagine sociale destinata a diventare sempre più plurale e composita.”
Fiducia: virtù o buonismo?

Quando chiedo a studentesse e studenti di prima cosa è necessario che ci sia secondo loro nei rapporti d’amore e d’amicizia una delle risposte che ricevo più frequentemente è “la fiducia!”. Quando faccio un brainstorming sui valori nelle terze, quello della fiducia non manca mai ed emerge tra i primi. Personalmente ritengo la fiducia reciproca la base del rapporto di coppia costruito con Sara: potersi abbandonare metaforicamente e realmente tra le braccia di una persona sapendo di trovarvi accoglienza è impagabile.
Su Rocca del 15 dicembre Romolo Menighetti ha scritto questo articolo che trovo ricco di spunti e stimoli.
“L’Istat nei giorni scorsi ha reso pubblici i risultati di un’indagine sul grado di fiducia che gli italiani ripongono verso gli altri. Questa risulta essere scarsa: solo il 19,9 per cento è disposto a concederla. Ed è ragionevole pensare che dopo le stragi di Parigi compiute da giovani che prima di rivelarsi spietati assassini si mimetizzavano dietro una banale normalità, l’indice di fiducia si abbassi ulteriormente. A tutto danno, tra l’altro, della qualità
della vita.
In questo contesto è opportuna una riflessione sulla «fiducia», che configuro – oggi più che mai, nel clima di terrore cieco che ci sovrasta – come «virtù», intesa come disposizione dell’animo a seguire il «bene», mentre la diffidenza sistematica può configurarsi come «male».
La fiducia di fondo verso gli altri e la realtà è una conquista (come tutte le altre virtù), ed è parente della fortezza e della speranza. Perseguita e vissuta diventa la pietra angolare di una personalità sana dal punto di vista psichico che, per usare le parole dello psicanalista Horst-Eberhard Richter, permette di «resistere» invece di «fuggire». Una fiducia che fa dire «sì» alla realtà dell’uomo e del mondo così come sono, nella loro contraddittorietà, incoerenza e ambiguità. Una fiducia che diventa solida speranza contro le continue minacce, contro le frustrazioni e l’incombente disperazione.
Certo, la fiducia è un rischio, nei confronti degli altri e della realtà in genere. Perciò va osata, ancorché ben ponderata, da uomo maturo e adulto. Non è superficiale ottimismo. La realtà e gli altri difficilmente cambieranno, anche se la fiducia agisce nel senso di una trasformazione. Ma è sicuramente il nostro atteggiamento di fondo che cambia, permettendoci di continuare il nostro percorso nella vita in positivo, coerentemente con i nostri valori di riferimento.
Superando l’atteggiamento difensivo, il teologo morale Bernhard Häring esorta a dare a tutti «un anticipo di fiducia» (Häring, Un’autobiografia a mo’ d’intervista, a cura di Valentino Salvoldi, Paoline), convinto che un atteggiamento aperto e privo di sospetti contribuisca ad abbattere le barriere, facilitando i legami di amicizia.
Quest’atteggiamento di fiducia di fondo, antinichilista e costruttivo, può apparire irrazionale. Infatti, non è supportato oggettivamente. Non può dimostrarsi a priori con qualcosa che garantisca la fondatezza della mia fiducia nell’altro. Come osserva Hans Küng (Ciò che credo, Rizzoli 2010) un simile «punto di Archimede» non esiste. Ma la fiducia nella vita e negli altri si rende comprensibile a noi stessi attraverso l’esercizio di questa decisione nella vita di tutti i giorni. Si comprende che ha senso ed è ragionevole averla presa nel momento stesso in cui la si mette in atto. È un po’ come altre esperienze fondamentali quali l’amore e la speranza. Non si possono dimostrare a priori con ragionamenti logici. Per contro, il nichilismo e la cinica sfiducia sono distruttivi. Basti pensare alla vita e alla rovinosa fine di Friedrich Nietzsche, e a Stravroghin (il protagonista dei Demoni di Dostoevshij), che dopo una vita passata a negare si impicca.
Invece il «sì» fondamentale agli altri può essere mantenuto con coerenza fino alla fine, malgrado tutto. Basti pensare alla «resistenza» di Dietrich Bonhoeffer, a Hetty Hillesum morta a Auschwitz restando fino all’ultimo una persona «luminosa», a Edit Stein, l’ebrea convertita, morta anch’essa a Auschwitz per aver voluto condividere fino in fondo la sorte della sua gente. La vita e la morte di questi dimostrano che il «sì» verso gli altri può mantenersi nonostante le insidie, le difficoltà, le cattiverie, le crudeltà altrui.
La fiducia per alcuni si basa su motivazioni religiose: sono i credenti convinti e convincenti. Ma si può avere questa fiducia nella vita e nel prossimo anche attingendo a un’etica umana.
Un’ultima osservazione. La fiducia è importante anche nell’intera vita sociale. Ad esempio, in economia la fiducia è la valuta più importante dei mercati finanziari sani. È la base della convivenza umana. Non per nulla i migliori capi e dirigenti sono quelli capaci di creare fiducia.
La fiducia, dunque, nei momenti bui, è più che mai virtus, nel senso di forza capace di resistere agli sconquassi più disastrosamente inquietanti.”
Quello che non
La vedi nel cielo quell’alta pressione, la senti una strana stagione?
Ma a notte la nebbia ti dice d’un fiato che il dio dell’inverno è arrivato.
Lo senti un aereo che porta lontano? Lo senti quel suono di un piano,
di un Mozart stonato che prova e riprova, ma il senso del vero non trova?
Lo senti il perché di cortili bagnati, di auto a morire nei prati,
la pallida linea di vecchie ferite, di lettere ormai non spedite?
Lo vedi il rumore di favole spente? Lo sai che non siamo più niente?
Non siamo un aereo né un piano stonato, stagione, cortile od un prato…
Conosci l’odore di strade deserte che portano a vecchie scoperte,
e a nafta, telai, ciminiere corrose, a periferie misteriose,
e a rotaie implacabili per nessun dove, a letti, a brandine, ad alcove?
Lo sai che colore han le nuvole basse e i sedili di un’ex terza classe?
L’angoscia che dà una pianura infinita? Hai voglia di me e della vita,
di un giorno qualunque, di una sponda brulla? Lo sai che non siamo più nulla?
Non siamo una strada né malinconia, un treno o una periferia,
non siamo scoperta né sponda sfiorita, non siamo né un giorno né vita…
Non siamo la polvere di un angolo tetro, né un sasso tirato in un vetro,
lo schiocco del sole in un campo di grano, non siamo, non siamo, non siamo…
Si fa a strisce il cielo e quell’alta pressione è un film di seconda visione,
è l’urlo di sempre che dice pian piano:
“Non siamo, non siamo, non siamo…”
Puntualizzazione: a detta dello stesso Guccini la sua negazione non è montaliana “Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Non chiederci la parola) ma “è lo sfogo di uno che scopre di vivere con una persona che non lo considera più molto”.
Il brano si apre con l’alta pressione nel cielo, che significa solitamente bel tempo, ma subito, a far da contraltare arriva la nebbia notturna che mal si concilia col sereno, e la nebbia annuncia l’arrivo dell’inverno. Da qui in poi tutta la canzone è costruita attorno a dei contrasti, a dei contraltari, a delle affermazioni seguite immediatamente dalle loro negazioni. Soffermiamoci sulle situazioni descritte:
• un aereo porta lontano (a sottolineare l’esigenza o il desiderio di andarsene?)
• un pianista non particolarmente dotato prova e riprova a suonare Mozart, ma nonostante tutti i tentativi non riesce a trovare il vero senso delle cose, della vita, di se stesso
• cortili umidi, auto abbandonate, cicatrici di vecchie ferite appena percettibili e occasioni perse rinchiuse in vecchie lettere mai inviate: rimorsi? rimpianti?
• favole spente che quindi non lasciano spazio ai sogni, alle speranze, alla consolazione
• strade senza nessuno, solitarie che tristemente portano a luoghi già conosciuti e che non danno più l’emozione della prima volta
• binari che pervicacemente si perdono verso il nulla con vagoni di terza classe nella nebbia di una distesa uniforme e sterminata: angoscia
Il tutto si conclude con un urlo doloroso e triste che non riesce neppure a farsi sentire, tanto è orrido l’abisso davanti al quale si trova. Mi ricorda il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”:
“Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.”
O anche il tratto de “La nascita della tragedia” di Friedrich Nietzsche in cui Mida si mette alla ricerca di Sileno:
“L’antica leggenda narra che il re Mida per molto tempo inseguì nella foresta il saggio Sileno, il compagno di Dioniso, senza prenderlo. Quando questo infine gli cadde nelle mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile tace il demone; finché, costretto dal re, uscì finalmente fra risa sibilanti in queste parole;
“Stirpe misera ed effimera, figlia del caso e della fatica, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non udire?
La cosa migliore è per te totalmente irragiungibile: non essere nato, non essere, essere niente.
Ma la seconda cosa migliore per te è – morire presto.”
