Gemma n° 1987

“Quest’anno è stato molto più difficile trovare una gemma non perché non ne avessi ma perché mi sembra quasi che tutto lo sia: dopo due anni di privazioni mi pare di avere tutto e anche oltre. Alla fine ho deciso di portare un pezzo di un libro letto recentemente e che riassume il mio stato d’animo. Parla di un uomo che ad un certo punto della sua vita si guarda allo specchio e si rende conto di non essere lui la persona che vede e decide di partire e fare un viaggio intorno al mondo, un viaggio senza ritorno in cui ricerca la sua natura. Ecco il passo di Come una notte a Bali di Gianluca Gotto:
Trascorri anni a immaginare il momento in cui la tua vita cambierà. Quel momento, però, non arriva. La vita va avanti come sempre, senza sorprese, senza novità, senza grandi emozioni. 
Ma poi, proprio quando ormai credi che nulla possa cambiare, ecco che succede qualcosa di totalmente inaspettato. È il destino? È colpa di Dio? O forse è l’Universo? O è semplicemente il caso?
Dopo anni di calma piatta, ora il mare è in tempesta. Puoi tornare in fretta al porto sicuro che conosci alla perfezione. Oppure farti trasportare lontano dalle nuove correnti.
Così facendo, potresti trovare qualcosa che non riuscivi nemmeno a immaginare nei tuoi sogni più sfrenati.
Potresti scoprire di non aver mai capito niente su di te e di non aver mai amato davvero.
Potresti riacquistare un sorriso che neanche sapevi di avere: quello vero, che nasce dal cuore.
E un giorno potresti ritrovarti sulla cima di un promontorio a Bali.
Di fronte all’immensità dell’oceano.
Felice come non eri mai stato nella tua vita.
Ho scelto questo passo in particolare perché quest’anno avrò la possibilità di fare un viaggio a New York, il primo fuori dall’Italia. E’ anche un sogno che ho fin da piccola quello di andare a New York. Ecco quindi che dopo due anni di chiusure e isolamenti vari mi sembra di tornare a vivere e ciò mi ridà la speranza”.

Le parole citate da C. (classe quarta) mi hanno portato alla mente un passo di Novecento di Alessandro Baricco che ho sempre amato e che mi hanno fatto pensare a quel giorno in cima al promontorio a Bali.
“A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, ‘notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran.”

Gemme n° 422

https://www.youtube.com/watch?v=zf-5XQmQW9c

A volte mi riconosco in Novecento e credo che l’età in cui siamo sia critica, non siamo né bambini né adulti. Penso che quella scaletta di Novecento, per noi, possa fungere da slancio: il mondo avanti è infinito con miliardi di scelte, sotto c’è l’oceano in cui rischiamo di affondare, dietro c’è la nave, il nostro guscio in cui abbiamo vissuto a lungo. Guardando avanti abbiamo paura per quello che potrebbe esserci e temiamo di essere l’ultima ruota del carro. Queste sensazioni ed emozioni le provo, anche se cerco di soffocarle perché magari non è ancora il momento di preoccuparsi; tuttavia le scelte che devo fare mi fanno già pensare, mi fanno paura”. Questa è stata la gemma di C. (classe seconda).
Nella canzone “E’ necessario” i Tiromancino cantano: “Io so che non è facile riuscire a proiettarsi nel futuro immaginando come sarà la vita andando avanti; le scelte che farò saranno sempre più importanti dei dubbi che ho che oggi sono ancora tanti”. Da un lato ci sono sicuramente la paura e il timore, ma dall’altra c’è anche la possibilità di mettersi in gioco, di sentirsi padroni della nostra vita, registi e non attori o spettatori dell’esistenza.

Gemme n° 385

https://www.youtube.com/watch?v=j_sOftHA9m4

Ho portato come gemma la sequenza di un film che consiglio perché ricco di scene e discorsi belli e commoventi: questa è una delle mie preferite”. Così si è espressa M. (classe quarta).
Riporto la frase del film tratto da “Novecento” di Alessandro Baricco: “Sapeva leggere Novecento, non i libri. Quelli sono buoni tutti. Sapeva leggere la gente, i segni che la gente si porta addosso, posti, rumori, odori. La loro terra, la loro storia, tutta scritta addosso. Lui leggeva e con cura infinita catalogava, sistemava, ordinava in quella immensa mappa che stava disegnandosi in testa. Il mondo magari non l’aveva visto mai, ma erano quasi trent’anni che il mondo passava su quella nave. Ed erano quasi trent’anni che lui su quella nave lo spiava. E gli rubava l’anima.” Novecento lo fa attraverso un pianoforte; a me piace farlo da dietro l’obiettivo di una macchina fotografica. Immortalare una persona sconosciuta, immaginarne la storia, i pensieri, le emozioni; farli miei, darne un’interpretazione personale. Non è detto che corrisponda alla verità, non è quello che conta.

Idolatri senza dèi

dèi

Riporto parte di un testo che sto leggendo di Salvatore Natoli e che è per me fonte di molte riflessioni.
Un argomento o un personaggi esistono se appaiono nei media. Se escono di scena è come se non fossero mai esistiti. Ci sono personaggi – e molti – ma c’è assenza d’opera. Fantasmi di verità, fantasmi di libertà. Peraltro, la comunicazione di massa vive e si alimenta di scoop, crea icone e devoti; fan impazziti eseguono danze tribali intorno all’idolo del momento. A ciò si accompagna una sorta di superstizione delle cose, la dipendenza – a seconda delle persone – da questo o quell’oggetto, quasi fosse un amuleto della vita quotidiana. […]
Che fine ha fatto l’Illuminismo? […] la nostra contemporaneità … certamente mostra segni di cattiva salute e quello di essere idolatri senza neppure dèi è il più preoccupante. L’esito tragico del titanismo novecentesco ha mostrato come fossero fallaci quegli idoli a cui si erano innalzati altari e sacrificate vittime, ma dalle ceneri dei titani è emersa una miriade di idoli tascabili. Dèi di un giorno, ed è già troppo. Gli dèi minori che oggi popolano la terra hanno poco da spartire con gli antichi dèi, nel cui nome si celebravano i grandi misteri della vita: la generazione, la nascita, la morte. La stessa idea cristiana di salvezza – promessa e mai compiuta – si è spenta. Al suo posto è subentrata quella di benessere, e la felicità, lungi dal coincidere con la realizzazione di sé, è identificata piuttosto con l’efficienza, con l’effetto fitness. Oggi più che un politeismo tollerante ci imbattiamo in un monoteismo perverso: l’Io/Dio.”
(Salvatore Natoli, “Non ti farai idolo né immagine”, Il Mulino)

La tempesta

LA TEMPESTA (Angelo Branduardi, Senza spina)
Non c’è più vento per noi tempo non ci sarà
per noi che allora cantavamo con voci così chiare.
Non c’è più tempo per noi vento non ci sarà
per noi che abbiamo navigato quel mare così nero.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Non c’è più vento per noi tempo non ci sarà
per noi che stelle cercavamo sotto quel cielo scuro.
Si alzerà il vento per noi tempo per noi sarà
il nostro viaggio, la guida, la mano del destino.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà
Un vento poi soffierà dentro le nostre vele
qual è la rotta giusta solo il Signore lo sa
Un vento poi si alzerà dentro le nostre vele
è perché la rotta giusta solo il Signore la sa.
Non c’è più vento per noi tempo non è per noi
che nella notte senza luce misuravamo il mare.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Un vento poi soffierà dentro le nostre vele
qual è la rotta giusta solo il Signore lo sa
Un vento poi si alzerà dentro le nostre vele
perché la rotta giusta solo il Signore la sa.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Branduardi dedica questo brano “a tutti coloro che hanno affrontato la tempesta, rischiando di perdere la rotta, ed hanno saputo attendere che il vento buono gonfiasse le loro vele ed hanno ripreso le vie del mare, verso nuove tempeste”. Quindi, una prima cosa da notare è che la tempesta va affrontata e non evitata: siamo lontani dal protagonista dell’epitaffio dell’“Antologia di Spoon River” di cui si legge:
Una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione ma la mia vita.
Perché, l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio;
è una barca che anela al mare eppure lo teme.”
(E. L. Masters, Antologia di Spoon River)
Questa, semmai, è la situazione cantata all’inizio da Branduardi, quella di coloro per i quali non c’è più né vento né tempo; la differenza è che, per i protagonisti di questo brano, la navigazione c’è stata e ha riguardato un mare buio, “nero”, che loro hanno tentato di scrutare col canto di voci “chiare”. Oltre al mare nero c’era anche un “cielo scuro” dove cercavano di intravvedere le stelle che potevano dar loro la rotta. Ne “La linea d’ombra” canta Jovanotti: “è dolce stare in mare quando son gli altri a fare la direzione, senza preoccupazione, soltanto fare ciò che c’è da fare, e cullati dall’onda notturna sognare la mamma, il mare”.
Infine, c’è un’altra cosa che facevano i marinai descritti nella canzone con il “noi”: nella notte buia e senza luce misuravano il mare. Già misurare il mare è impresa ardua se non impossibile vista la vastità, farlo senza alcuna luna o stella presente in cielo è del tutto inutile. Calcolare l’infinito non ha senso, non tutto può essere calcolato dall’uomo. Ma ecco che il vento si alza a segnare la possibilità del viaggio: con la bonaccia non si naviga, serve il vento che soffi dentro alle vele e le gonfi (come fa un cristiano a non pensare allo Spirito?).
A questo punto dobbiamo però introdurre due elementi importanti: la tempesta e la guida del viaggio. Branduardi non ha paura della tempesta, non la fugge, sa che sarebbe inutile. Viene in mente un personaggio biblico che, in fuga da Dio, si imbarca a bordo di una nave e durante una tempesta si rifugia nel ripostiglio più remoto e si addormenta profondamente. In questo caso Dio non è colui che salva dalla tempesta, ma colui che l’ha mandata per suscitare una reazione nel suo profeta, cosa che effettivamente accade. Giona spiega ai marinai della nave che la tempesta è causa sua perché egli è in rotta con Dio e li invita a gettarlo in mare, dimostrando pentimento per la sua fuga e anche la volontà di gettarsi a corpo nudo nella tempesta tra le braccia di Dio.
E poi c’è la guida: “la rotta giusta solo il Signore la sa” canta Branduardi. Tre immagini mi si formano davanti agli occhi:
1. Marco 4, 35-41: «In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”.»
Gesù non evita che la tempesta si costituisca e che le onde riempiano di acqua la barca; averlo dalla propria parte, averlo a bordo, non è garanzia di pace e tranquillità, di assenza di difficoltà. Gesù, mentre sulla barca possiamo immaginare il lavorio frenetico dei pescatori per cercare di governarla e di buttare in mare l’acqua, dorme (come Giona)! Egli, poi, addirittura rimprovera i suoi compagni per averlo costretto a riportare la calma. La tempesta con la fede si può affrontare, ma forse la fede dei discepoli non è ancora abbastanza salda.
2. Matteo 14, 22-33: «Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra sponda, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro, scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”.»
La tempesta diventa il luogo dove la fede è necessaria, il luogo dove l’uomo sperimenta che non ha più mezzi utili per uscire dalla situazione in cui è finito se non l’affidarsi a colui che salva.
3. Infine un frammento di “Novecento”, il film di Giuseppe Tornatore tratto dall’omonimo libro di Alessandro Baricco
«Quella notte, nel bel mezzo della burrasca, con quell’aria da signore in vacanza, mi trovò là, perso in un corridoio qualunque, con la faccia di un morto, mi guardò, sorrise, e mi disse: “Vieni”.
Ora, se uno che su una nave suona la tromba incontra nel bel mezzo di una burrasca uno che gli dice “Vieni”, quello che suona la tromba può fare una sola cosa: andare. Gli andai dietro. Camminava, lui. Io… era un po’ diverso, non avevo quella compostezza, ma comunque… arrivammo nella sala da ballo, e poi rimbalzando di qua e di là, io ovviamente, perché lui sembrava avesse i binari sotto i piedi, arrivammo vicino al pianoforte. Non c’era nessuno in giro. Quasi buio, solo qualche lucina, qua e là. Novecento mi indicò le zampe del pianoforte.
Togli i fermi,” disse. La nave ballava che era un piacere, facevi fatica a stare in piedi, era una cosa senza senso sbloccare quelle rotelle.
Se ti fidi di me, toglili.”
Questo è matto, pensai. E li tolsi.
E adesso vieni a sederti qua, mi disse allora Novecento.
Non lo capivo dove voleva arrivare, proprio non lo capivo. Stavo lì a tenere fermo quel pianoforte che incominciava a scivolare come un enorme sapone nero… Era una situazione di merda, giuro, dentro alla burrasca fino al collo e in più quel matto, seduto sul suo seggiolino – un altro bel sapone e le mani sulla tastiera, ferme.
Se non sali adesso, non sali più,” disse il matto sorridendo.
Okay. Mandiamo tutto in merda, okay? tanto cosa c’è da perdere ci salgo, d’accordo, ecco, sul tuo stupido seggiolino, ci son salito, e adesso?”
E adesso, non aver paura.”
E si mise a suonare.
Ora, nessuno è costretto a crederlo, e io, a essere precisi, non ci crederei mai se me lo raccontassero, ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava, non smetteva un attimo, ed era chiaro, non suonava semplicemente, lui lo guidava, quel pianoforte, capito?, coi tasti, con le note, non so, lui lo guidava dove voleva, era assurdo ma era così. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l’Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte. Oh yes.»

https://www.youtube.com/watch?v=DGCrx4y-bkw

Gemme n° 105

New York

Quello che sta finendo è stato un brutto anno. Ho portato un ricordo del momento più bello che ho vissuto: le due fantastiche settimane del viaggio a New York, che rivivrei immediatamente.” Questa è stata la gemma di C. (classe terza).
Scrive Baricco in Novecento:
“Viaggiava, lui. E ogni volta finiva in un posto diverso: nel centro di Londra, su un treno in mezzo alla campagna, su una montagna così alta che la neve ti arrivava alla pancia, nella chiesa più grande del mondo, a contare le colonne e a guardare in faccia i crocefissi. Viaggiava. Era difficile capire cosa mai potesse saperne lui di chiese, e di neve, e di tigri e… voglio dire, non c’era mai sceso, da quella nave, proprio mai, non era una palla, era tutto vero. Mai sceso. Eppure, era come se le avesse viste, tutte quelle cose. Novecento era uno che se gli dicevi “Una volta son stato a Parigi”, lui ti chiedeva se avevi visto i giardini tal dei tali, e se avevi mangiato in quel dato posto, sapeva tutto, ti diceva “Quello che a me piace, laggiù, è aspettare il tramonto andando avanti e indietro sul Pont Neuf, e quando passano le chiatte, fermarmi e guardarle da sopra, e salutare con la mano”.
“Novecento, ci sei mai stato a Parigi, tu?”
“No.”
“E allora?”
“Cioé… si.”
“Si cosa?”
“Parigi”
Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c’é in Bertham Street, d’estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che lui in Bertham Street, lui, non c’é mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell’aria, l’ha respirata davvero. Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima.
In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia… Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava… Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime.”

Gemme n° 28

FranciaLa gemma che ha portato questa mattina A. (classe terza) è una mail, “una cosa a cui tengo molto, la risposta di accettazione della mia richiesta di soggiorno-studio all’estero, in Francia: il prossimo anno, infatti, andrò là 3 mesi a studiare. Non è tantissimo ma è importante e ci saranno senz’altro delle difficoltà. Non dico di aver paura di essere dimenticata dagli amici, ma un po’ di essere sostituita (la mia migliore amica troverà un’altra spalla? Il mio moroso, sempre se ce l’avrò, mi aspetterà? La mia compagna di banco riempirà quel vuoto?). Penso sia vera la frase che dici che si piange quando si va e si piange quando si torna; i miei genitori mi hanno detto che basta che non pianga quando sono là. Poi ho scritto una cosa sulle scelte: siamo continuamente costretti a scegliere tra più alternative, tra bene e male, e chiedo al prof di leggerla per me sulle note di “Hall of fame”…

Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni ora ci troviamo davanti a decisioni da prendere, e ogni volta non sappiamo da che parte incominciare: ci domandiamo se agire d’ istinto, o ragionarci su; se sia meglio pensare di testa nostra o chiedere un consiglio; e se sia più opportuno riferirsi ai genitori che ci conoscono dal nostro primo istante di vita, ai nonni che sono “vecchi e saggi”, o agli amici che condividono i nostri interessi. Così finiamo spesso per lanciare una moneta, se non altro, per poter dare la colpa alla sorte e non a noi stessi in caso di insoddisfazione.
La nostra intera esistenza è continuamente condizionata da scelte.
A partire da quelle giornaliere “ Come mi vesto oggi?”, “Cosa mangio a colazione?”, “Vicino a chi mi siedo in autobus?”, “Mi offro in matematica?”, “Torno subito a casa o mi fermo in centro con gli amici?”, “In TV guardo Dottor House o Gossip Girl?”. E poi ci sono quelle scelte “grandi”, che ti condizionano la vita, come la scelta della scuola superiore, dell’ università, di un lavoro, di un marito, di una famiglia, di una casa.
Una volta ho letto che “ Avere la possibilità di scelta ci rende infelici e insoddisfatti: quando scegliamo una cosa ci sentiamo tristi perché pensiamo che stiamo rinunciando ad un’altra opportunità, e ciò ci rende insoddisfatti di quello che abbiamo scelto”, ed è vero, perché ottenere qualcosa per perderne un’ altra non potrà mai essere piacevole. Il segreto quindi rimane solo quello di capire cosa non si è disposti a perdere.
Prendere una decisione è sempre molto difficile, soprattutto per quanto riguarda le relazioni! Pensa, anche se può essere un esempio un po’ stupido, a quando la tua migliore amica non va d’ accordo con il tuo ragazzo: sei costretto a schierarti, per forza. Ed è orribile, soprattutto perché in ogni caso farai soffrire qualcuno, ma prima di tutti a soffrire sarai tu.
La maggiore difficoltà quando si tratta di una scelta, è data dal fatto che non sempre Amore e Ragione la pensano allo stesso modo; anzi: quasi mai. Provare a farli conciliare è come pretendere che un ghiacciolo non si sciolga nel deserto. Inoltre, le scelte più facili sono raramente quelle più giuste: sta a noi assumerci la responsabilità delle nostre decisioni.”

Riporto una frase di Bob Marley e la scena finale de “La leggenda del pianista sull’oceano” con lo splendido monologo finale di Novecento (dal libro “Novecento” di Alessandro Baricco): “Quando sei davanti a due decisioni, lancia in aria una moneta. Non perché farà la scelta giusta al posto tuo, ma perché, nell’esatto momento in cui essa è in aria, saprai improvvisamente in cosa stai sperando di più.” (Bob Marley)

Rinnovati negazionismi

Un articolo un po’ lungo ma, ritengo, molto, molto interessante. E’ un’intervista di Edoardo Castagna allo storico Claudio Vercelli, presa da Avvenire: tratta di revisione storica e negazionismo.

Negazionismo_cover.jpg“Il negazionismo della Shoah sta trovando una nuova, duplice linfa. Da una parte l’antisemitismo islamista; dall’altra il mare indistinto di internet. Due filoni, spesso intersecati, che alimentano e rilanciano le teorizzazioni di quanti affermano che le camere a gas e i forni crematori non sono mai esistiti, che i lager erano campi di concentramento ma non di sterminio, che la Shoah è un’invenzione, anzi un complotto, ordito dai vincitori della Seconda guerra mondiale per giustificare le proprie politiche imperialiste e colonialiste.

Per lo storico Claudio Vercelli, che a Faurisson ed eredi dedica un saggio nelle librerie da venerdì prossimo (Il negazionismo. Storia di una menzogna, Laterza, pagine 224, euro 20,00), «fino agli Settanta i negazionisti erano una nicchia legata all’estrema destra radicale, figure del tutto marginali. Ma poi, con l’affermazione dell’islamismo radicale e di internet, hanno avuto una nuova visibilità. Divenendo uno degli esempi più evidenti del cospirazionismo oggi tanto diffuso».

Eppure i negazionisti invocano per sé quel diritto alla continua revisione che è propria della ricerca storiografica. Qual è il discrimine tra revisione storica e negazionismo?

«L’attività storica presuppone sempre e comunque un’opera di revisione, sia perché emergono nuovi dati, sia perché con il variare delle stagioni culturali varia anche il metro di giudizio. Il termine revisionismo è stato utilizzato, in chiave polemica, per definire quegli storici che a partire dagli anni Ottanta hanno letto il Novecento europeo come una storia di contrapposizione tra totalitarismi. Questo giudizio comporta anche una nuova valutazione della Shoah; non certo una sua negazione, quanto invece una sua diversa collocazione all’interno dell’opposizione tra nazismo e comunismo. Invece i negazionisti rifiutano integralmente i fatti storici riconosciuti non solo dagli studiosi, ma da ogni persona di senso comune; non danno un’opinione sulla Shoah discosta dal giudizio prevalente, ma affermano che lo sterminio di massa non è che finzione».

Eppure sostengono di applicare – loro solo in modo coerente – le metodologie storiche; prendono alcuni elementi fattuali e “dimostrano” l’impossibilità tecnica dello sterminio, delle camere a gas, dei forni crematori… In cosa si distinguono dalla vera analisi storiografica?

«I negazionisti fanno la pantomima della ricerca scientifica. Fingono di usare certi strumenti, mentre in realtà li stravolgono per accreditare le loro ipotesi ideologiche stabilite a priori. In un mosaico di migliaia di pezzi, tutti perfettamente combacianti tranne uno, si concentrano esclusivamente su quell’uno per affermare che allora è l’intero mosaico a non reggere. Per esempio, diversi anni fa, durante una conferenza a Cremona, mi è capitato di sentire un’ex deportata dichiarare di ricordare l’odore del gas di Auschwitz. Sono sobbalzato: era impossibile, l’odore del gas non si diffondeva certo per il campo, ma solo nelle camere della morte. Quello che la donna ricordava era l’odore dei cadaveri, quell’odore dolciastro, nauseabondo, che molti testimoni hanno evocato. Definirlo “odore di gas” non è un falso, ma un meccanismo che si spiega facilmente, per chi conosce i processi mentali di rimozione e di sostituzione. Quell’odore non era solo il segno della morte altrui, ma anche quello della propria sopravvivenza, e quindi del senso di colpa che i sopravvissuti si sono portati dietro. Come ben sanno magistrati e poliziotti, una testimonianza può avere un elemento fallace sebbene veritiera nel suo complesso: ma un negazionista enfatizza solo quell’elemento, direbbe che, siccome non può essere vero che quella donna ricordi l’odore del gas, allora Auschwitz è “la grande menzogna”».

Come può un simile racconto avere presa?

«La questione del negazionismo va al di là della Shoah e investe i meccanismi di auto-convincimento politico-culturali. La ripetizione serve per rendere non solo lecite, ma anche reali idee che altrimenti non avrebbero nessun riscontro. I mistificatori si sentono investiti del ruolo di Dio: creare la realtà con la parola. Tra loro non è estranea la convinzione di essere figure prometeiche, che portano all’uomo verità e saggezza spazzando i fumi della falsificazione. È per questo che sono seducenti».

Così s’inseriscono in quei filoni complottisti che investono anche vari altri ambiti…

«Il nesso tra negazionismo e cospirazionismo è l’altro aspetto fondamentale. Negli anni Settanta-Ottanta i media hanno dato una visibilità fino ad allora insperata a una nuova generazione di negazionisti, a partire da Robert Faurisson. E nel contempo sono subentrati altri fattori, in primo luogo il diffondersi del negazionismo in area islamica con la rivoluzione iraniana del 1978-1979. Oggi il nocciolo critico è il legame tra cospirazionismo e islamismo radicale, dove il discorso anti-israeliano si fa anti-sionista – e infine antisemita – recuperando la vecchia vulgata anti-coloniale per la quale le sofferenze del mondo sono il prodotto del complotto di un Occidente che falsifica la storia per continuare a tenere i popoli avvinti alle sue catene. Gli ebrei sono la punta di diamante della neo-colonizzazione occidentale, “razzialmente” destinati alla cospirazione; l’Occidente – a sua volta una loro costruzione – è decadente e amorale, quindi da combattere».

Il rilancio del negazionismo passa attraverso la frustrazione che alimenta il fondamentalismo islamico?

«La globalizzazione ha scompaginato equilibri secolari. Se le mie certezze vengono meno, se mi sento angosciato da un futuro nebuloso, se mi sento vittima di circostanze a cui non riesco a dare un nome, se il risentimento e la rivalsa sono motori fondamentali della mia identità, se io vivo tutto ciò – e nel mondo islamico, ma anche in parte nel nostro, questo accade spesso – allora devo trovare uno strumento che mi permetta di interpretare quella che altrimenti non sarebbe che una Babele incomprensibile».

E questo strumento spesso si trova online…

«Internet è l’altra faccia della stessa medaglia. Anche qui entrano in gioco complessi elementi cognitivi e identitari. Nel web non ci sono gerarchie e chi non ha adeguati strumenti culturali confonde il vero, il verosimile e il falso, il giusto e l’ingiusto. Il cospirazionismo sguazza nella grande fabbrica del relativismo cognitivo. Basti pensare alla proliferazione delle teorie complottistiche sull’11 settembre: anziché la difficile ricostruzione di un quadro articolato, ecco una spiegazione – gli americani si son tirati giù da soli le Torri gemelle per poter colonizzare il mondo – onnicomprensiva, seducente, semplificata».

Resta il dilemma: che fare di fronte a un negazionista? Confutazione o silenzio?

«Io ho fatto mia la morale di Pierre Vidal-Naquet: si parla di negazionismo, si lotta contro il negazionismo, ma non si parla con i negazionisti. Se scendo nell’agone con loro sono sconfitto a priori, perché tra noi non può esserci dialogo – cioè confronto tra ipotesi storiografiche differenti – ma solo opposizione tra realtà e menzogna».

Eppure capita che trovino accoglienza addirittura in ambienti accademici…

«Sono accoglienze molto limitate, c’è un forte cordone culturale di difesa. Tuttavia in alcuni ambienti politico-accademici – l’ha fatto, per esempio, Noam Chomsky – in effetti esiste la tendenza a dar loro voce, se non altro perché parlano male di Israele: e siccome il conflitto israelo-palestinese è assurto a categoria dello spirito, questi ambienti si lasciano sedurre. Non necessariamente sottoscrivono ciò che dicono, ma si prestano perché così contestano la “storia scritta dai vincitori” in nome della libertà di opinione: ma questa non implica che tutti debbano parlare di tutto… Certo, il confine tra libertà d’opinione, anche radicale, e diffamazione è difficile da definire: ma c’è. E qui ci troviamo dinanzi a persone che falsificano deliberatamente la storia. Chi dà loro voce, lo fa per una motivazione politica».”

Degna della mia voce interiore

«Ah, Marija Veniaminovna, noi la porteremmo in trionfo se solo… se solo Lei non credesse in Dio!». Ieri sera stavo sfogliando “Io donna” e mi sono imbattuto in un articolo su Marija Veniaminovna Judina, probabilmente la più grande pianista del ‘900. Le parole con cui ho iniziato il post sono di Pavel Fedorovic, uno degli esponenti del Partito Comunista russo. A lui risponde la Judina: «Non si darà mai il caso che mi portiate in trionfo, Pavel Fëdorovic. Non rinnegherò la fede e Dio. Sarete voi, invece, a venire tutti dalla nostra».

Da adolescente scrive: «Conosco solo una strada che porta a Dio, l’arte. Non voglio affermare che la mia strada sia universale, so che ne esistono altre. Ma sento che questa è per me. Questa è la mia vocazione. Io ci credo e credo anche nella forza che mi è data nel percorrerla. Io sono un anello di congiunzione nella catena dell’arte»

Scrive nel suo diario: «Una sera in cui il pubblico si ostinava a non volersi alzare al termine di un mio concerto nella sala Glinka dopo aver suonato già vari bis esco per l’ennesima volta e li vedo tutti lì seduti. “Ma siete ancora qui?”; e tutti di nuovo ad applaudire. “In questo caso vi reciterò delle poesie”. E recito Zabolockij, e poi Pasternak e si leva un uragano di applausi. Ma a causa dell’ottusità di qualcuno si vendicarono di me e i miei concerti a Leningrado si interruppero»

Nel 1933 la Judina viene assunta dal Conservatorio di Mosca e nel 1943 parte per il fronte, ma con come infermiera o interprete, come in un primo tempo avrebbe voluto, bensì per tenere concerti benefici alla radio o nelle sale della Leningrado stretta dalla morsa dei tedeschi. «È a questi anni che risale il leggendario episodio narrato dall’amico Sostancovic. Stalin ascolta alla radio il secondo movimento del concerto numero 23 K 488 di Mozart eseguito dalla Judina e ne rimane così colpito da chiedere immediatamente il disco, che però non esisteva trattandosi di un concerto eseguito in diretta. Convoca allora d’urgenza la pianista e l’orchestra in una sala di registrazione e ottenuto il disco invia in ringraziamento alla Judina ventimila rubli, una cifra da capogiro per l’epoca. E la pianista risponde: “La ringrazio per il Suo aiuto, Iosif Vissarionovic. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso. La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della chiesa in cui vado”. Si dice che quel disco venne trovato sul grammofono la notte che trovarono Stalin morto nella sua dacia. Ma pochi sanno che la Judina aveva sempre suonato quel secondo movimento interpretandolo come un requiem per le vittime del gulag».

«Sì, voglio mostrare alla gente che si può vivere senza odiare, pur essendo liberi e indipendenti. Sì, voglio cercare di essere degna della mia voce interiore».

Una storia tutta da scoprire:

http://www.tempi.it/onda-speciale-su-marija-judina-la-pianista-che-ha-commosso-stalin#.UJ932oawXw8

http://www.ilsussidiario.net/News/Storia-della-Settimana/2009/3/30/MARIJA-JUDINA-La-pianista-che-commosse-Stalin/15235/

http://www.ilsussidiario.net/News/Musica-e-concerti/2010/8/17/MARIJA-JUDINA-La-pianista-dimenticata/106653/

http://www.meetingrimini.org/default.asp?id=673&item=4991

http://www.ilsussidiario.net/News/Musica-e-concerti/2010/8/23/MARIJA-JUDINA-Piero-Rattalino-la-pianista-immortale-all-ombra-del-regime/107574/