La tentazione del dominio

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Il precetto di non invocare il nome di Dio senza un motivo serio viene sistematicamente infranto, specialmente quando la divinità è strumentalizzata negli scontri politici. Questa pratica, benché antica, si rivela di una pertinenza drammatica nel presente. Il saggio più recente del filosofo Silvano Petrosino, professore presso l’Università Cattolica di Milano, intitolato Potere e religione. Sulla libertà di Dio, analizza in profondità le complesse interconnessioni tra queste due sfere cruciali.
L’analisi di Petrosino spazia su concetti fondamentali quali il simbolo, la dimensione dell’abitare, l’importanza della cura e l’atto dell’amministrare. Il suo lavoro culmina nell’identificazione delle cause che generano le deviazioni e le patologie del potere, ponendo in luce la totale autonomia del Dio delle Scritture, una figura che non cerca di dominare alcuno e, parallelamente, si sottrae alla manipolazione e all’intrappolamento in riti o schemi umani privi di sostanza. Gianni Santamaria l’ha intervistato per Avvenire.

“Petrosino si muove attraverso autori da lui frequentati da una vita: filosofi, come Levinas, Girard, Blanchot, Cassirer, Rosenszweig e Kierkegaard, indagatori della psiche, da Freud a Lacan e Kristeva, fino a storici e sociologi della religione, da Eliade a Durkheim, biblisti come Beauchamp e Maggioni, grandi poeti come Goethe e Rimbaud. Fino a una citazione fondamentale per l’ossatura del saggio, presa da un autore, Roland Barthes, spesso considerato solo per i Frammenti di un discorso amoroso o per la semiotica della moda, ma che «invece su questi argomenti ha un pensiero molto preciso».

Lei utilizza concetto dell’abitare come cura dell’altro, che però subisce la “fatale attrazione” del diventare possesso: dell’altro, della terra, di Dio. Quali gli antidoti a questa tentazione?
«Bisogna prima capire la ragione profonda della questione. Sono stato molto colpito da un’affermazione di Roland Barthes sulla libertà. Questa va intesa – dice – non solo come la forza di sottrarsi al potere, come libertà “da”, ma anche, e soprattutto, come volontà di non sottomettere nessuno. È sorprendente, perché dice che la libertà è non esercitare un potere. Da questo punto di vista – è la tesi centrale del libro – solo Dio è libero, perché, stando alle Scritture, è il solo che non vuole sottomettere nessuno. Il potere in sé non è male. Il problema è perché noi lo esercitiamo per sottomettere qualcuno. Secondo me perché cerchiamo continuamente una conferma alla nostra identità. A lezione faccio sempre l’esempio del bambino che dice ai genitori “guardate che mi tuffo”. Attende un riconoscimento. È un “ditemi che esisto”».

E quello che fanno tanti uomini di potere?
«Il potere non va criminalizzato. Anche per fare il bene è necessario il potere. Il problema è che esso si trasforma facilmente in qualcosa di malvagio quando non viene usato per realizzare qualcosa, ma per confermare qualcuno».

È una dinamica che si può applicare anche agli scenari nel mondo di oggi?
«È esattamente questo. Il sociologo Enzo Pace dice che la religione viene sfruttata nei momenti di crisi di identità. È interessante in questo senso quello che avviene negli Stati Uniti. Non lo si dice spesso, ma sono in una crisi profondissima, non per l’economia, bensì per il disastro della scuola. In una situazione così, per dare un’identità, Donald Trump usa la religione e il suo universo simbolico. Lo si è visto ai funerali di Kirk: la croce della vedova macchiata di sangue, il tema del martirio, la croce fatta transitare nello stadio. È il sintomo di una debolezza profonda a livello sociale».

Non è l’unico al mondo a usare la religione.
«Certo, ma non mi stupisce quando ciò avviene nel mondo islamico, che non ha conosciuto l’umanesimo e la Rivoluzione francese. Mi sorprende che avvenga nell’Occidente cristianizzato. Ogni volta che c’è una crisi politica si gioca il potente jolly della religione. In questo si capisce il grande valore del comandamento “non nominare il nome di Dio invano”. È come se Dio dicesse lasciami fuori dalle tue cose. Non uccidere in mio nome. Non tirarmi in ballo. Ma è esattamente quello che si continua a fare in modo terribile».

In Occidente c’è il duplice movimento del volersi autonomizzare dal potere e dalla religione e allo stesso tempo del sentire il fascino del “Palazzo”, come lei lo chiama. Perché?
«L’uomo è questo. Perciò distinguo la religiosità dalla religione. Se la prima non trova forme istituzionalizzate, organiche, non viene certo annullata, ma si manifesta in quello che Roger Bastide chiamava il “sacro selvaggio”. Eliminare dall’umano la dimensione religiosa e quella artistica, che per me vanno sempre insieme, è illusorio. Il problema è che il modo di abitare la religiosità, può sempre deviare, come abbiamo detto, verso il dominio. La religione è un pharmakon, che può aiutare gli uomini a vivere, ma anche avvelenarli. È uno sbandamento strutturale, è il grano e la zizzania.»

Spesso si evocano i “falsi profeti”.
«Per questo mi colpisce ciò che avviene negli Stati Uniti, perché l’Occidente in qualche modo aveva superato certi infantilismi: i predicatori, chi fa i miracoli in diretta… Anche chiamare Kirk “martire” è problematico. Gesù in molte parabole evoca una figura legata al tema dell’abitare: l’amministratore infedele. Non si può abitare senza amministrare e non si può amministrare senza legiferare. Ma spesso l’amministratore si concepisce come padrone. E questa è la fine. Il Levitico dice: ricordati che sei in affitto».

A queste derive lei oppone il realismo biblico. Cosa ci insegna?
«Bisogna riconoscere con serietà che l’uomo continua a sbandare, che il dominio non è un accidente e non dipende dal fatto che gli uomini sono cattivi, anche se poi alcuni certamente lo sono. E dunque la religione deve continuamente sorvegliarsi per non trasformarsi in una struttura di dominio. Pericolo che è sempre dietro l’angolo. Realismo è riconoscere che, pensando di fare il bene dell’altro, in realtà te lo stai mangiando, lo stai distruggendo. Questo realismo riguarda i singoli, ma a maggior ragione chi ha posizioni apicali: i maestri, gli intellettuali, la gerarchia. Spesso si sentono cose incredibili, visioni finte, opinioni false, non dalla vecchietta o dal passante, ma dal politico, dal filosofo… l’uomo non è così».”

Planck e la fiducia nell’invisibile

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Nel suo quarto articolo per la rubrica Interferenze di Avvenire, Gabriella Greison si occupa di Max Planck e dell’importanza di restare fedeli alla verità senza possederla.

“Max Planck non amava le scene. Non gli interessava l’eroismo, né le prime pagine dei giornali. Aveva un portamento discreto, quasi austero, da professore che preferisce passare inosservato. Eppure, da quell’austerità è nata una rivoluzione che ha cambiato per sempre la storia della conoscenza: la nascita della meccanica quantistica. Planck non cercava la fama: cercava la verità. E la verità, per lui, non era un premio o una formula perfetta, ma una condizione morale. Credeva che il mondo avesse una struttura logica, una coerenza interna, una musica che si poteva ascoltare solo nel silenzio. Diceva che la scienza era un modo per avvicinarsi all’ordine, e che quell’ordine — razionale, invisibile, armonico — era il segno di Dio. Non un Dio che interviene nei destini umani come un regista, ma un Dio che regge la scena con leggi invisibili, precise, meravigliosamente coerenti. Un Dio che non ha bisogno di apparire per essere creduto.
La sua scoperta, quella che gli cambiò la vita, arrivò quasi per disperazione. Alla fine dell’Ottocento la fisica era in crisi: c’era un problema, la “radiazione del corpo nero”, che nessuno riusciva a spiegare. Le formule classiche si scontravano contro un muro. Planck cercava solo un modo per far tornare i conti, non per rivoluzionare la fisica. Nel 1900 tentò una via che gli parve un espediente temporaneo: ipotizzò che l’energia non fluisse in modo continuo, ma a pacchetti, a “quanti”. Un piccolo gesto matematico, quasi un trucco per far funzionare la formula. E invece, con quell’atto di umiltà e di genio, aprì un varco. Il mondo non era continuo, ma granulare. La realtà non era un tessuto uniforme, ma un mosaico invisibile di frammenti energetici, pulsanti come note di una sinfonia che si accende e si spegne. La fisica classica si incrinava, e nasceva la fisica quantistica.
Planck stesso faticò a credere alla sua scoperta. Diceva che era come se avesse aperto una porta su un territorio che non voleva ancora esplorare. E infatti per anni cercò di tornare indietro, di chiudere quella porta, di rimettere ordine nel caos che aveva generato. Ma l’universo, ormai, aveva parlato. E da lì in avanti niente sarebbe stato più continuo, né prevedibile, né definitivo. Eppure Planck rimase Planck: calmo, riservato, quasi diffidente verso il clamore dei suoi colleghi più giovani. Non aveva lo slancio visionario di Einstein, né il gusto per i paradossi di Bohr. Era l’uomo del rigore, del metodo, della costanza. Pensava che la scienza fosse un avvicinamento lento, progressivo, un cammino fatto di piccoli passi. E dentro quel cammino trovava spazio per la fede. “La fede è un’eredità preziosa dell’umanità”, scrisse. “La scienza e la religione non sono in contrasto, ma si completano e si condizionano reciprocamente.” Non parlava di una fede dogmatica, ma di un atto di fiducia. Perché ogni scienziato, nel momento in cui scrive un’equazione, compie un gesto di fede: crede che l’universo abbia un senso. Crede che le leggi della natura non siano arbitrarie, ma coerenti. Crede che la mente umana sia parte di quell’ordine, non estranea ad esso. In questo senso, per Planck, la fede non era un’alternativa alla ragione, ma la sua radice. Era la fiducia che il mondo non sia assurdo, che ogni frammento di realtà porti traccia di una logica comune. Ma dietro quella calma del professore, la vita di Max Planck fu segnata dal dolore. Vide morire due figlie, una moglie, e infine il suo ultimo figlio, Erwin, giustiziato dai nazisti per aver partecipato al complotto contro Hitler. Aveva più di ottant’anni. Aveva visto crollare tutto: il suo Paese, la sua generazione, la sua fede negli uomini. Eppure non smise mai di credere, né nella scienza, né in Dio. Non alzò mai i pugni al cielo per chiedere spiegazioni. Non trasformò il dolore in rancore. Continuò a scrivere, a insegnare, a cercare. Perché la sua spiritualità era questa: resistere al buio, tenere accesa la luce dell’intelletto. C’è una sua frase che mi ossessiona: “Per credere nella scienza, bisogna credere nella razionalità del mondo”. È un manifesto, una preghiera laica. Perché ogni volta che sperimentiamo, noi stiamo già compiendo un atto di fede. Non quella dei dogmi, ma quella che ci dice che il mondo ha un senso. Che non è un gioco casuale. Che non siamo gettati nel caos, ma immersi in una logica che ci precede.
E qui, se permettete, apro una parentesi. Perché questa parte mi riguarda da vicino. Io, che racconto la fisica sui palchi, perché lo faccio? Perché non mi basta più dire le cose “fredde”, solo con i numeri. Io sono in ricerca. Mi muovo tra le equazioni e i racconti, tra gli archivi e la scena, ma quello che inseguo è un senso. Un senso che non si può scrivere con la gessata di una lavagna, ma si può intuire in un respiro, in una parola, in un gesto. La fisica, per me, non è mai stata solo tecnica: è una lente per guardare dentro, non solo fuori. È il mio modo di stare nella domanda. E la spiritualità — quella libera, senza dogmi, fatta di domande più che di risposte — è il territorio naturale in cui queste domande respirano. Io non so se troverò mai una risposta definitiva. Ma so che questo cammino, questo continuo oscillare tra particelle e mistero, è il mio modo di cercare. E ogni volta che racconto Planck, racconto anche questo: che il mistero non è un fallimento, ma un fine. Planck lo sapeva. Sapeva che non si può possedere la verità, si può solo restarle fedeli. Che la fede non è un pacchetto chiuso di certezze, ma il coraggio di continuare a cercare anche quando tutto sembra crollare. Forse la sua vera eredità non sono solo i quanti, i Nobel, le formule che portano il suo nome. Forse è questa: la certezza che scienza e fede non sono nemiche, ma sorelle. Due vie che non si annullano, ma si guardano negli occhi. Due strade che si separano e poi si ritrovano, come due onde che interferiscono e creano una figura nuova. Max Planck non parlava di miracoli. Parlava di costanza. Parlava di fedeltà. Credeva che Dio fosse la radice della logica dell’universo, il fondamento silenzioso di ogni legge naturale. E nella sua voce sobria, senza enfasi, c’era già una spiritualità profonda: credere che l’invisibile sia reale. Che la luce più forte non è quella che si vede con gli occhi, ma quella che illumina la mente e consola il cuore. La sua fede nella luce invisibile è un invito a non smettere di cercare, anche quando tutto intorno è oscurità. A credere che la conoscenza, se fatta con umiltà, è una forma di preghiera. Che ogni esperimento riuscito è una genuflessione alla bellezza del mondo. E che ogni scoperta, anche la più piccola, è un modo per dire grazie.
Domanda per noi, oggi: se persino Planck, il più sobrio dei fisici, ci ricorda che ogni conoscenza nasce da un atto di fede, siamo disposti ad ammettere che anche noi viviamo di fiducia nell’invisibile? E che forse la vera grandezza non sta nel possedere risposte, ma nel restare fedeli alla ricerca — anche quando fa male, anche quando sembra inutile, anche quando tutto intorno crolla? Perché la scienza, come la vita, non promette certezze. Promette solo che, finché continueremo a cercare, la luce invisibile non si spegnerà mai.”

Tra Paolo di Tarso e Palantir

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Da un po’ di tempo sto cercando di leggere articoli e pubblicazioni sul modo di vivere la fede e di intendere la religione negli Stati Uniti d’America. A incidere su questa scelta vi sono vari fattori: l’elezione di un papa proveniente da quello stato, il fatto che spesso ciò che avviene oltreoceano arriva dalle nostre parti, la presenza sempre più frequente di linguaggio e simboli religiosi nella politica, il fenomeno della polarizzazione delle posizioni. Oggi pubblica un articolo piuttosto lungo, preso da Pandora Rivista. Esso indaga il ruolo del Cristianesimo come forza teologico-politica capace di frenare il caos nelle società occidentali contemporanee, riprendendo il concetto paolino di Katechon. Analizza l’influenza di figure come Donald Trump, J.D. Vance e soprattutto Peter Thiel, ideologo della Silicon Valley e teorico di un cristianesimo politico che unisce capitalismo, sovranismo e visione escatologica. Nei suoi scritti, Thiel propone una reinterpretazione del “senso comune” e del potere come freno all’entropia sociale (definibile in pochissime parole come tendenza di una società al disordine, alla disgregazione e alla perdita di coesione interna), ponendo il Cristianesimo come ultimo baluardo contro la dissoluzione dell’Occidente e le minacce percepite, in particolare l’Islam e il globalismo liberale. Disclaimer: come al solito, a meno che non lo dichiari, sul blog non riporto soltanto idee alle quali aderisco, ma sono interessato a ospitare punti di vista differenti, utili ad approfondire varie tematiche. Specificato questo, ecco il testo scritto da Benedetta Lazzeri ed Elia Scapini.

“Diciamocelo, non annoia mai il dibattito sui fondamenti primi delle società occidentali, con l’irrisolta questione se le moderne democrazie liberali possano veramente legittimarsi o se, in fin dei conti, poggino su presupposti che non sono in grado di darsi. Un tema stimolante, questo, soprattutto perché chiama in causa la questione della religiosità, in generale, e della religione cristiana in particolare, nel suo rapporto con le società contemporanee, sollevando la domanda se, in fondo, l’aver relegato le religioni allo spazio del privato sia stato veramente un buon affare o se non si sia scelto di liquidare, assieme al Cristianesimo, anche una realtà in grado di opporsi all’entropia intrinseca alle dinamiche umane e di potere, qualcosa che sappia resistere al caos e alla disgregazione. Nel gergo teologico politico, questa forza resistente ha un nome specifico: Katechon. Un termine complesso, che ci arriva dal Nuovo Testamento – 2 Tessalonicesi 2,6-7 – e che, dalla prima Modernità alla prima metà del Novecento, ha abitato le pagine più raffinate della trattatistica politica che, ora come allora, era mossa da una domanda fondamentale: su quali basi si costruiscano le nostre istituzioni e se ci sia, nelle loro fondamenta, una forza che faccia da deterrente, da freno. Una questione che diviene sempre più urgente man mano che le religioni, le ideologie e i simboli perdono la loro forza spirituale e morale sulla comunità.
Ma più del dubbio se abbiamo fatto e stiamo facendo bene, se le nostre scelte di democrazia e liberalismo ci beneficeranno sul lungo periodo o se invece non siamo parte di un macro trend che nel suo complesso è in declino, più di ogni rimpianto e rimorso, siamo incuriositi dalle proposte, dalle nuove teorie e letture, da tutte quelle voci che propongono convintamente di indicare strade nuove, che lo siano realmente o apparentemente.
A colorare il dibattito con un senso di fallimento e sconfitta ci hanno pensato, fra gli altri, Donald Trump e J. D. Vance e che la loro proposta intersechi i motivi del Cristianesimo non fa certo dubbio: abbiamo sentito parlare di elezione divina e abbiamo visto ministri di governo riuniti in preghiera. Non solo, J. D. Vance, convertito al Cristianesimo dalla lettura di Agostino, ha addirittura proposto l’applicazione geopolitica del principio dell’ordo amoris di Tommaso d’Aquino, mostrandone l’interno accordo con lo slogan America First: ci sono cose che vengono prima e cose che vengono dopo, e le cose che vengono prima esigono una dedizione maggiore, con buona pace di tutto il resto. In questo senso, per quanto possano sembrare bizzarri, i riferimenti e le citazioni teologiche che arrivano dalla Casa Bianca andrebbero prese molto sul serio, e non per un’improbabile consapevolezza nascosta dietro di esse, quanto perché queste parole sono la prova della cogenza di una teoria che Carl Schmitt sostenne quasi un secolo fa: tutte le società contemporanee e occidentali si basano su concetti teologici secolarizzati.
Che il Cristianesimo abbia un ruolo fondamentale nel dibattito politico mondiale non è cosa nuova; se si riavvolge il nastro della storia, anche solo di due o tre anni, si vedranno apparire, in fila, momenti fondamentali della contemporaneità più recente in cui il Cristianesimo e i suoi principali simboli si sono fatti carico di messaggi e gesti dalla portata politica non trascurabile, come, per esempio, l’incontro tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e Donald Trump fuori dalla Basilica di San Pietro, in Vaticano. Il problema, tuttavia, andrebbe posto in modo più preciso e scientifico, domandandosi innanzitutto, che ruolo abbia il Cristianesimo nell’orientamento delle politiche degli Stati sovrani, su tutti, in quella degli Stati Uniti di Donald Trump. Una domanda che apre la strada ad altre questioni cruciali, ad esempio, quella su quanto siano ancora pregnanti i simboli religiosi (seppur secolarizzati) all’interno delle società occidentali; su quale rapporto intercorra tra il Cristianesimo professato dai trumpiani e il dio-denaro – l’unica vera guida delle politiche della Casa Bianca e della Silicon Valley – e, ancora, se il il Cristianesimo possa essere la forza in grado di tenere a freno il caos che sta sconvolgendo gli ordini mondiali.

C’è un’altra figura fondamentale, seppur infinitamente meno nota dei Trump e dei Vance, che potrebbe aiutarci a rispondere a queste domande; un uomo che tira le fila del dibattito geopolitico mondiale e che ha influenzato (e continua a influenzare) profondamente l’establishment nordamericano. Classe 1967, patrimonio personale di 8 miliardi di dollari, Peter Thiel nasce a Francoforte da famiglia tedesca poi naturalizzata statunitense. Appassionato sin da piccolo di fantascienza, studia filosofia nella prestigiosa sede di Stanford, dove segue i corsi di René Girard e acquisisce una specializzazione in legge. Prima di approdare in California e di diventare uno dei capostipiti della Silicon Valley, Thiel lavora come avvocato e trader. Nel 1999 fonda PayPal che, un anno più tardi, si fonde con X.com di Elon Musk prima di essere venduta a eBay (nel 2002) per 1,5 miliardi di dollari. È solo nel 2003 che l’ambizioso capostipite della PayPal Mafia fonda Palantir Technologies – il nome della società, che deriva dalle “pietre veggenti” della saga fantasy Il Signore degli Anelli di Tolkien, ci dice qualcosa sull’eccentrica personalità di Thiel –, compagnia di software specializzata nell’analisi e nella gestione dei dati complessi, utilizzata, tra le altre, da agenzie governative quali CIA e FBI. Dichiaratamente gay, balbuziente, colto e infinitamente meno scenografico dell’allievo Musk, è stato proprio Thiel a sdoganare, nel 2016, l’appoggio della Silicon Valley e delle Big Tech a Donald Trump; una vicinanza che, soprattutto nelle ultime elezioni, si è dimostrata essenziale alla leadership del Tycoon. Minimalista, austero e con una cultura più alta della media dei suoi sodali e colleghi, Peter Thiel è un ideologo efficace, forse non di altissimo livello, talvolta tranchant nel tagliare lo spazio politico mondiale in categorie riduttive (seppur schmittiane) come il bipolarismo amico-nemico, ma sicuramente capace di orientare il sentimento politico e geopolitico della Silicon Valley e dello Studio Ovale.
Ma ideologo di cosa? Qual è il pensiero, lo schema, che si nasconde dietro la retorica ultrareazionaria e nazionalista di Trump e Vance? Quale ragionamento può giustificare la totale sottomissione dello spazio politico al potere economico che sembra tenere in piedi l’asse che lega la Casa Bianca e la Silicon Valley e, soprattutto, come entra il Cristianesimo in questa equazione? Sono questioni complicate, come complicato è lo scenario che le genera; tuttavia, nella confusione generale del momento, Peter Thiel sembra poter fornire delle prime risposte. A differenza di coloro cui si accompagna, Thiel ha più volte tentato di dare ragione delle proprie idee e i suoi primi scritti politicamente orientati risalgono agli anni dell’università a Stanford. Un particolare, questo, non da poco, considerando che la forma scritta ci fornisce non solo una via d’accesso diretta e interna all’ideologia del magnate, ma ci dà anche la possibilità di interpretare e commentare da fuori un pensiero che, dal 2017 a oggi, sembra essersi rafforzato nel suo peso politico specifico.
Già nel lontano 2003 il breve saggio (circa 25 pagine) Il momento straussiano raccoglieva gran parte di quella che, negli anni a venire, sarebbe diventata la sua visione politica. Nel libro, le riflessioni del magnate della Silicon Valley vengono liricamente introdotte da un estratto in versi di Locksley Hall di Alfred Tennyson; parole, quelle del poeta inglese, che con il senno di poi risuonano più potenti e rivelatrici che mai. Il passo racconta una visione del futuro dai tratti escatologici: in questa preveggenza profetica, l’uomo può spingere il proprio sguardo fino al limite del possibile e lì vede la meraviglia del progresso. Un avanzamento tecnico del mondo che, continua Tennyson, porta con sé guerra e distruzione, almeno fino all’istituzione – che va di pari passo con il crollo di ogni potere politico specifico – di un Parlamento dell’umanità, di una Federazione del mondo, guidata solo da una saggezza condivisa che tiene a bada persino i popoli più irrequieti e i regni più instabili. In altre parole, Thiel non santifica il progresso sfrenato e senza limiti, bensì sembra inserirlo in una sorta di movimento triadico hegeliano, durante il quale, a due fasi diametralmente opposte e inconciliabili, se ne aggiunge una di ricomprensione delle due nella conciliazione del common sense. Questo senso comune tanto idealizzato è, pare ovvio, il Katechon paolino, è una forza frenante che ha una direzione e un fine, è, insomma, un concetto teologico secolarizzato.
Rispetto alla visione poetica di Tennyson, non è difficile individuare la fase in cui si trovano a vivere gli Stati contemporanei. Il mondo è in fiamme, la globalizzazione del commercio senza barriere è in crisi e, con essa, la pace e l’unità che si diceva fossero seguite alla separazione della Guerra Fredda. Ciò che manca – questo sembra dirci Thiel – è appunto il common sense cui Tennyson fa riferimento nei suoi versi, lo stesso che appare ciclicamente nelle dichiarazioni che provengono dalla Casa Bianca. E poco importa se il modo in cui il poeta inglese intende l’espressione poco (o niente) ha a che fare con il “buon senso” trumpianamente inteso; è proprio questa l’accezione cui pensa la giovanissima speaker della Casa Bianca Karoline Leavitt quando per comunicare le risoluzioni operate dal governo le descrive come ovvie e scontate proprio perché conformi con il senso comune della maggioranza degli elettori.
Se per Tennyson, infatti, il senso comune è sinonimo di un “sentire collettivo”, della ragionevole concordia condivisa da un gruppo di persone che ha il sapore di un’élite razionale mossa dalla fiducia nell’ordine globale della giustizia, con Trump – e forse anche con Thiel – ci troviamo di fronte a un senso comune che non richiede nessuno sforzo di ragione ma che dà per buona l’opinione immediata e urgente dei più, senza trascurare (anzi) le comuni (appunto!) frustrazioni e delusioni. La ripresa che Peter Thiel fa di questa espressione ci mette davanti a uno dei punti essenziali del dibattito contemporaneo: il senso comune ci porta tutti a evitare aghi e vaccini, il senso comune darà ragione a chi suggerisce esservi un legame vincolante fra somaticità biologico-genitale e rappresentazione genderizzata dell’orientamento sessuale, il senso comune non vede ragione nello sforzo economico e bellico in guerre oltreoceano e, cosa più importante, il common sense diviene incomprensibilmente verità assoluta. È stato questo, in fondo, il principale richiamo di Vance all’Europa, quando, armato di gesso e bacchetta, ha ricordato ai nostri politici come fare il loro mestiere: obbedire al senso comune, a quello che la pancia del popolo chiede a gran voce, anche qualora il buon senso sembri spingere in una direzione diversa.
In altre parole, esiste una teologia anche in politica, un discorso attorno a quelli che devono essere i principi primi e ultimi delle società, ed esistono agenti politici in grado di orientare la scena del mondo senza lasciarsi influenzare da quelle che, alla luce di questi ragionamenti, non sono che visioni parziali, frammentarie del reale. Sono stati proprio i Thiel e i Musk a orientare la scelta della Vicepresidenza su J. D. Vance – decisione che ha scontentato l’ala più moderata dei magnati vicini a Trump – ed è stato Thiel a fornire una parte dei presupposti teorici della campagna trumpiana contro le istanze inclusive e la cultura woke. Risale addirittura a trent’anni fa un libro poco noto del proprietario di Palantir – meno famoso del già citato The Straussian Moment e molto meno noto del vendutissimo Da zero a uno – dal titolo più che eloquente: The Diversity Myth. Scritto quando Thiel si trovava ancora tra i banchi della Stanford University, il libro attacca duramente le prime voci woke, accusandole di avallare un atteggiamento “semplicemente anti-occidentale” senza alcun proposito se non quello di distruggere l’Occidente e tutte le sue forme.
In effetti, l’idea che la società occidentale esista anche in virtù delle sue espressioni sociali, culturali e politiche non è di per sé errata, né può essere sovrapposta alle istanze nazionaliste e suprematiste che formano il sostrato ideologico che ha dato forma, tra le altre cose, al governo Trump. L’ultranazionalismo intransigente che muove la California delle tech affonda le sue radici in idee molto più raffinate e colte; per comprenderle – e per tentare di capire il valore religioso a queste associato – può essere utile tornare alle pagine iniziali de Il momento straussiano. Un’idea sulla piega che prendono le pagine del saggio l’ha già data l’introduzione, con l’immagine di un’umanità impelagata in un regno di mezzo fatto di guerra e distruzione.
L’intero testo è permeato da un senso di minaccia da parte di un oscuro nemico che presto si capisce essere – neanche a farlo apposta – l’Islam; un Islam genericamente inteso, senza nessuna distinzione territoriale o politica, ma che porta con sé l’oscura minaccia della distruzione religiosa e culturale del mondo occidentale e democratico. Ogni politica di integrazione e adattamento al nuovo ordine dell’Occidente, dopo l’11 settembre, è andata sgretolandosi. Le democrazie liberali hanno visto aumentare le ondate di violenza e odio, il tutto mentre i partiti di sinistra e i movimenti inclusivi strizzavano l’occhio a pensieri e religioni alternative. A ciò si è aggiunta la depauperazione degli Stati occidentali, con enormi flussi di denaro che, invece di favorire (come da programma) le economie dei Paesi in via di sviluppo, andavano a stanziarsi nei ricchi conti svizzeri di ignoti dittatori del terzo mondo. È probabilmente questa puntuale decostruzione delle basi su cui poggia il mondo contemporaneo a portare Thiel a riflettere – ancora prima che sulla distruzione dell’identità religiosa e nazionale – su quale sia la natura più profonda dell’essere umano. Così, in modo apparentemente gratuito, lo scritto schmittiano di Thiel si trasforma in quella che solo a un occhio inesperto potrebbe sembrare una speculazione filosofica e che è, in realtà, il tentativo di basare l’agire politico dei decision maker cristiani occidentali su premesse razionali. Che cosa ha a che fare il turbocapitalismo condito di un richiamo alla trascendenza delle forme politiche con l’esistenza umana in genere?
Secondo Peter Thiel, molto. La natura umana ha alla base una violenza cieca e incontrollabile – la stessa che era al centro dei testi del maestro putativo di Thiel, Girard –, una brutalità che può essere mitigata solamente dalla ragione. L’Islam è il portatore contemporaneo di questa bruta violenza senza intelletto, di un odio irrisolvibile e impermeabile a quella cultura del dialogo e della coscienza introdotta, in Occidente, dall’Illuminismo.
Mettere la violenza alla base della natura umana, al di là dei risvolti islamofobi che la teoria acquisisce in queste pagine, non apporta alcuna novità al dibattito politico contemporaneo, come non è nuova la disillusione verso l’ottimistica visione illuminista secondo cui tutti gli agenti politici, assieme, sarebbero in grado di sedersi a un tavolo e stipulare un patto sociale sulla base del quale avviare una convivenza pacifica e duratura. Quello che stupisce – non per originalità, quanto per l’eccessiva semplificazione – è l’individuazione del nemico non tanto nel rivale (economicamente o politicamente inteso), quanto nel diverso; insomma, il nemico come l’islamico di bianco bendato di monicelliana memoria: “l’antico periglio che vien dallo mare”!
È una strana commistione tra il Leviatano e il binomio schmittiano amico-nemico il mostro a due teste che sembra orientare le idee di Thiel, secondo il quale la scelta della sovranità dovrebbe ricadere solamente su colui che si dimostri in grado di individuare il nemico e sia deciso a combatterlo fino ad annientarlo, nel rispetto e nella salvaguardia del mondo occidentale e delle sue forme. Quella cui siamo davanti nelle pagine de Il momento straussiano è la rischiosa sintesi tra un neoliberismo estremo e un autoritarismo dai caratteri escatologici, quasi che la decisione del più forte sia resa tale da una volontà Altra che arriverà a dimostrarne la futura necessità. Thiel ha quello che a Musk manca e quello che al Tycoon (che lo sappia o no) serve: una visione teologica del reale. Dove “teologico” indica una precisa visione occidentale e cristianocentrica secondo la quale un intelletto più alto e potente debba indirizzare la realtà verso le sue forme proprie, tenendo a freno le istanze particolari. Forse è proprio quella del freno, del Katechon, l’idea che sta alla base di Palantir, l’azienda fondata dal miliardario che ufficialmente si occupa di raccolta e protezione di dati ma della quale, nello specifico, non si sa quasi nulla. Rimandando, ancora una volta, all’idea di un ente di controllo superiore e ineffabile.
Un’inchiesta di Wired, che ha anche coinvolto ex dipendenti come fonti, ha spiegato che la piattaforma non venderebbe solo software ma anche «l’idea di soluzioni senza attriti a problemi complessi», non solo, dopo aver collaborato con l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e con le forze armate israeliane, questa primavera Palantir ha firmato un accordo con la NATO che gli permetterà – attraverso un sistema di intelligenza artificiale acquistato dall’Alleanza – di avere accesso a tutti i dati raccolti e annotati dei Paesi membri. Alla base sia di Palantir che delle riflessioni del saggio, c’è uno schema preciso che prevede, evidentemente – e lo stesso Thiel non lo ha nascosto – un’idea di fortificazione dell’Occidente e, con esso, delle sue forme politiche e religiose. D’altra parte, e questo Thiel lo dice chiaramente ne Il momento straussiano, la prerogativa principale dello statista occidentale e cristiano è proprio quella di sapere introdurre nella comunità un potere che frena. C’è un problema, tuttavia, che lo stesso magnate riconosce: l’apertura incontrollata dei mercati e degli scambi (anche culturali) porta necessariamente allo scontro, l’umanità non si fonda su alcun principio positivo di unione o concordanza e l’incontro ha sempre in sé il germe della contrapposizione. Il Cristianesimo – quello della Casa Bianca, che si leva al grido di Dio, Patria e Famiglia – è l’unico freno possibile alla deflagrazione, l’unico baluardo del vecchio mondo in dissolvenza in grado di fare la guida in tempi di distruzione e caos. Thiel sembra aver risposto a ciascuna delle domande che ci eravamo posti in partenza, tranne una: che ne facciamo, quindi, del neoliberismo sfrenato che lo ha creato?”

Quel filo di speranza

Ieri siamo andati con i bimbi a vedere uno dei tanti villaggi della zucca che stanno fiorendo in questo periodo. C’era anche un piccolo labirinto fatto con dei pallet messi in verticale. Mariasole vi si è infilata immediatamente seguita da Fra: ovviamente mi sono accodato per procedere alle spalle del piccolo che ben presto ha perso le orme della veloce sorella. Ma non ha perso la speranza: ha iniziato a sbirciare tra le assi dei pallet e a chiamare “Tata” ad alta voce, senza fermarsi, continuando a procedere, come se un invisibile filo lo legasse a Mariasole. E in poco tempo è uscito dal labirinto anche lui. Mi è tornato in mente tutto questo leggendo un articolo di suor Maria Gloria Riva su Avvenire.

“Non tutti ricordano che l’unico Giubileo del XIX secolo fu quello del 1825, celebrato – esattamente 200 anni fa – da un Papa di nome Leone, però XII. I giubilei successivi, indetti da Pio IX nel 1850 e nel 1875, non ebbero luogo a causa dei disordini politici che accompagnarono l’unità d’Italia, ma anche per il serpeggiare di guerre e depressioni economiche in tutta Europa. Non è difficile comprendere come la parola speranza in tali contesti culturali fosse ritenuta vacua e prima di fondamento. Il filosofo Nietzsche riteneva la speranza non una virtù, ma un sentimento negativo che spinge ad impegnare le proprie energie entro inutili sforzi. I pittori, in quel periodo, presero a dipingere la speranza separata dalle altre due virtù, fede e carità, attingendo volentieri all’immagine biblica suggerita dal Salmo 137 (1-3): Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!».
L’umanità, prigioniera delle Babilonie di ogni tempo, è incapace di salmodiare i canti della speranza. Così il clima culturale di quegli anni non fu tanto diverso dal nostro, dove guerre e depressione economica, miraggi espansionistici e giochi di potere, minano la fiducia assottigliando sempre più il filo della speranza.

A questo filo si aggrappò l’artista inglese George Frederic Watts quando nel 1886 dipinse la sua Hope. Il soggetto, cui l’artista dedicò varie versioni, conobbe una grande popolarità e, nella sua forza simbolica, parla ancora a noi oggi. L’espressione filo della speranza è collegata al mito di Arianna che consegnò all’amato Teseo, avventuratosi nel labirinto per uccidere il Minotauro, un gomitolo, il cui filo lo avrebbe ricondotto all’uscita. In realtà anche il termine biblico speranza, in ebraico Hatiqvà, contiene l’immagine di una corda (qav) tesa fra due poli. Ed è proprio entro questi due universi culturali, l’ambiente biblico e quello greco, cui Watts attinge per dipingere la speranza. La donna, nella posa della notte michelangiolesca, è bendata. La cetra con la quale cantare i canti di speranza è rimasta con una sola corda. Tutto appare perduto, oscuro difficile. Acque e nubi minacciose minano il globo terrestre e ogni pronostico positivo appare futile. La corda tesa però, l’ultimo filo della speranza, ben si accorda con una piccola stella che brilla in alto, appena visibile, attestando agli scoraggiati di ogni tempo e latitudine, che sorge sempre, oltre le nostre cecità, la stella della speranza.

A questo filo si aggrappa anche un artista contemporaneo, Viviani Vanni, che in una litografia dedicata al mito di Arianna, lega la corda tesa non ai canti di Sion, ma ad una mela. Il filo attraversa un’altra mela che, significativamente, rappresenta il grande labirinto del mondo internettiano. La mela, lo sappiamo, ci riporta a quella nostalgia delle origini, a quella sapienza capace di penetrare la realtà regalata ai due progenitori e irrimediabilmente persa dopo il peccato. Così per Vanni questa sapienza si riannoda grazie al mondo del Web, tuttavia la grossolana fattura della corda e il verismo della mela ci ricordano che anche nell’era dell’intelligenza artificiale è sempre necessario l’uomo, l’uomo con i suoi interrogativi ancestrali e con il suo percorso umano. Insomma, contrariamente alle filosofie nietzschane, la speranza è l’insopprimibile nostalgia dell’uomo che, senza dimenticare l’immanenza della storia, tende all’infinito. Cosa dice dunque a noi un Giubileo, come quello del primo quarto del XXI secolo, dedicato alla speranza? Cosa può fare l’uomo, sempre più piccolo in un mondo globalizzato, ad affrontare sfide che appaiono ben più grandi di Babilonia e dell’antico Minotauro?
La Chiesa, i Papi ci vengono incontro con la loro risposta semplice e super partes. Dal 2000 ad oggi la bambina da nulla della speranza, come la definisce Peguy, possiede un tesoro dentro un fazzoletto. Se Peguy si riferiva alla Veronica del Calvario, che ben prima delle tecniche fotografiche fissa nel tempo il volto del Cristo Eterno, il suo fazzoletto ci porta anche a realtà più quotidiane.

Seicento anni fa, nel 1425, Tommaso di Ser Giovanni di Mòne, detto Masaccio, dipinse nella Cappella Brancacci una stupenda, quanto drammatica, fuga dei progenitori dall’Eden. Qui viene immortalata la porta chiusa del Paradiso e non certo a caso: fu proprio nel 1425 che papa Martino V aprì, per la prima volta, la Porta Santa della Basilica di San Giovanni in Laterano. Così Masaccio pone i progenitori, scacciati dal paradiso, tra una porta chiusa e una scena di speranza. La scena è nota come il tributo e ritrae il Salvatore al centro della scena mentre, davanti all’esattore delle tasse, indica a Pietro il vicino mar di Tiberiade. Pietro, su comando di Gesù, apre la bocca a un pesce e vi trova la moneta da consegnare al Tribuno. Così, anche il fazzoletto da nulla di Pietro custodisce una grande speranza. Il pesce che reca a Pietro l’importo delle tasse è simbolo di Cristo che ha già pagato per la liberazione dell’uomo. «Chi è sottoposto a tassazione: i figli o gli schiavi?» chiese Gesù. Poiché i figli ne sono esenti ecco – dice Cristo – io ho già pagato per tutti. Questo è il senso del Giubileo e la grande speranza anche per l’uomo contemporaneo. C’è uno che ci considera figli e ha già pagato il prezzo del nostro riscatto. Non c’è disperazione per chi entra nella Chiesa dove la porta del Paradiso è stata riaperta, la tassa della colpa pagata e le braccia della misericordia allargate per l’eternità.

In tal senso è efficacissimo il confronto, nell’arte di Giotto, fra speranza e disperazione. Nell’impianto iconografico della Cappella degli Scrovegni, Giotto pone la personificazione della Speranza, di fronte a quella della Disperazione. La Speranza, ritratta in uno slancio leggero ed elegante, possiede ali candide e, per quanto i piedi poggino a terra, è colta in volo. Il volto, rivolto in alto, è orientato verso un punto che va oltre il visibile. Le mani protese, infatti stanno ricevendo da Dio una corona di gloria. Non così invece la Disperazione. Il peso del suo pessimismo e dei pensieri cupi sembra trascinarla sempre più in basso. Mentre i suoi piedi poggiano a terra, il suo collo è stretto nella morsa di una corda degli impiccati. Un demonio le ha rubato il cuore e le mani sono chiuse a pugni stretti. L’orizzonte di chi dispera è quello della mediocrità e del proprio io. In un tale orizzonte ogni visione profetica è impensabile. Al contrario, l’orizzonte dello speranzoso è sempre fuori di sé, tiene conto di un più in là e le sue mani aperte sono pronte non solo a dare, ma anche a ricevere la novità di una salvezza che può venire solo dall’alto. L’arte, in pieno accordo con i Giubilei di ogni tempo, ci racconta così la speranza: uno sprone ad andare oltre sé stessi, un invito a confidare: c’è sempre un filo che resta teso nella vita e una stella che brilla oltre le nostre oscurità quotidiane.”

La bellezza nella domanda

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Su Avvenire è stata inaugurata una nuova rubrica curata dalla fisica Gabriella Greison. Il nome è Interferenze e così la presenta l’autrice: “Scrivo questa rubrica perché sono — come tutti, forse — alla ricerca. Una ricerca che non è fatta solo di archivi, formule o viaggi nei luoghi dei fisici del Novecento, ma anche e soprattutto di  un bisogno interiore: dare un nuovo significato alle cose del mondo. Viviamo in un’epoca in cui le spiegazioni sembrano a portata di mano. Tutto è un link, un tutorial, un algoritmo che completa la frase al posto nostro. Eppure più le risposte si moltiplicano, più mi accorgo che le domande sono quelle che contano. Non basta dire “come funziona” — serve chiedersi “perché ci riguarda”, “che senso ha per me”. In questo cammino, Einstein è il mio faro. Non tanto per la relatività o per le fotografie spettinate che conosciamo tutti, ma per la sua capacità di tenere insieme due cose che di solito vengono separate: il rigore della scienza e il senso del mistero. Einstein non ha mai smesso di cercare, non ha mai smesso di stupirsi, non ha mai avuto paura di nominare Dio quando sentiva che le parole della fisica non bastavano più. Einstein come altri fisici (soprattutto quantistici) a cui sono legata e che scavano nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni.
Questa rubrica nasce così: dal desiderio di abitare quel confine invisibile tra scienza e spiritualità, dove i numeri non cancellano le emozioni, e le emozioni non negano i numeri. Voglio provare a raccontare storie che aprano spazi, che lascino entrare aria nuova, che mettano insieme ciò che spesso separiamo. Non so ancora dove porterà questa ricerca. Ma so che partire da Einstein significa partire da un luogo sicuro: il luogo in cui il pensiero più razionale si lascia attraversare dallo stupore, e l’uomo più logico del Novecento ammette che senza mistero la vita si spegne. Ecco cosa farò in queste righe: camminerò in quella zona di confine, raccoglierò indizi, proverò a dare voce a ciò che sfugge. Non con trattati, ma con racconti. Non con soluzioni definitive, ma con riflessioni aperte. Perché se il mondo ha ancora bisogno di senso, forse il primo passo è ricominciare ad ascoltare la spiritualità che ci abita. Domanda per voi: E voi? Quando è stata l’ultima volta che vi siete lasciati sorprendere da qualcosa che non sapevate spiegare? State sicuri che leggerò tutte le vostre risposte. Potete inviarle a
lettere@avvenire.it.

Riprendo la parola per dire che riguardo ad Albert Einstein quest’anno cadono, tondi tondi, diversi anniversari: 120 anni dalla teoria della relatività ristretta, 110 anni dalla relatività generale e 70 anni dalla morte avvenuta il 18 aprile 1955. Ma ecco il pezzo di Gabriella Greison.

“Da ragazzo Albert Einstein non aveva nessuna predisposizione al sacro. Anzi, al ginnasio di Monaco la religione gli stava stretta: dogmi, preghiere obbligate, riti che gli sembravano gusci  vuoti. A quindici anni, con la stessa radicalità con cui più tardi avrebbe spezzato le catene della  fisica classica, decise di liberarsi da ogni idea di un Dio personale. «Un’illusione infantile», la  chiamava. Poi arrivò la sua maturità scientifica, il suo trasferimento in America, e con esso l’illuminazione. Non nel senso mistico, ma in quello che appartiene a chi attraversa le profondità dell’universo e scopre che non tutto può essere spiegato con la logica. Mentre scardinava le leggi di Newton, mentre piegava lo spazio e il tempo, Einstein cominciava a percepire che c’era qualcosa di più grande. Lo chiamava «il Vecchio». Non era un Dio che ascolta le preghiere, ma un’entità più sottile: l’ordine nascosto della natura, la razionalità misteriosa dell’universo.
«Voglio sapere come Dio ha creato il mondo — scriveva — non mi interessano questo o quel fenomeno, questa o quella particella. Voglio conoscere i Suoi pensieri, il resto sono dettagli». Era un parlare con Dio senza crederci davvero. Un dialogo che somigliava più a un esercizio filosofico che a una devozione. Eppure in quelle frasi si sente il respiro di un uomo che ha visto troppo per restare ateo in senso stretto. Einstein illuminato non abbraccia mai una religione. Non si converte, non fa professioni di fede. Ma riconosce che il linguaggio della fisica, da solo, non basta. «Il misterioso è ciò che non possiamo  penetrare, e che tuttavia percepiamo come significato più profondo della nostra esistenza». È questo il suo salto: da ragazzo scettico ad adulto capace di parlare con Dio — non per ricevere risposte, ma per non smettere di fare domande.
E così, il fisico che ha dato al mondo la teoria della relatività finisce per regalarci una visione più  assoluta: un Dio senza altari, fatto di equazioni e meraviglia, un’entità che non giudica ma che  invita a guardare più in profondità. Einstein non si immaginava certo un signore con la barba bianca seduto tra le nuvole a dispensare  premi e punizioni. Eppure parlava spesso di religione. E lo faceva con una formula che spiazza  ancora oggi: «Il più bel sentimento che possiamo provare è il senso del mistero. È la fonte di ogni vera arte e di ogni vera scienza. Chi non lo conosce, chi non sa più fermarsi davanti allo stupore e restare rapito, è già come morto: i suoi occhi sono spenti». In pratica, aveva trasformato tutto questo in un sentimento di religious feeling. Non religione come  dogma, ma religione come vibrazione interiore, come consapevolezza che la realtà nasconde  qualcosa di infinitamente più grande di noi. Non un catechismo: un’emozione. Non un trattato di teologia: un brivido.
Perché lo scienziato che più di tutti ha cambiato la nostra visione del mondo — ha piegato lo  spazio, ha curvato il tempo, ha fatto ballare la luce — in fondo ci diceva che la vera radice non era la matematica, ma il mistero. E qui sta il punto. Oggi siamo così abituati ad avere risposte pronte che ci dimentichiamo la bellezza delle domande. Google risolve i dubbi, Alexa risponde in un secondo, l’intelligenza artificiale completa le frasi prima che le abbiamo pensate. Ma Einstein ci ricorda che la scienza nasce non dalle risposte, bensì dall’incapacità di smettere di stupirsi. C’è qualcosa di profondamente spirituale in questo. Non nel senso confessionale, ma in quel confine sottile dove la fisica diventa poesia. Quando Einstein diceva che «il misterioso è l’emozione fondamentale», stava riconoscendo che la realtà non è mai del tutto addomesticabile. Non tutto si lascia misurare, non tutto si lascia prevedere. Ogni volta che pensiamo di aver incasellato l’universo, lui ci sorprende con un paradosso, una particella, un lampo di inatteso. E allora la domanda che ci resta è: come risuona oggi questa idea? Forse così: la vita è meno lineare di quanto vorremmo, meno controllabile di quanto speriamo. Possiamo programmare agende, pianificare carriere, prenotare voli low cost per i prossimi sei mesi.  Ma poi arriva l’imprevisto, l’inaspettato, il salto quantico che non avevamo considerato. Ed è lì che ci accorgiamo di essere vivi.
Il senso del mistero non è una fuga dall’incertezza, ma la sua accoglienza. È accettare che non sappiamo tutto, e che va bene così. È riconoscere che c’è una bellezza nella domanda non risolta, una luce negli angoli bui. Einstein non ci stava invitando a costruire un tempio. Ci stava suggerendo di abitare la meraviglia. Di non perdere quello sguardo da bambini che si incantano davanti a una coccinella, a un’eclissi, a una formula scritta male sulla lavagna che però apre universi. Forse la sua vera eredità non è solo la relatività, ma questa: custodire il mistero come il bene più prezioso. Perché senza mistero non c’è ricerca, non c’è arte, non c’è spiritualità. E soprattutto: non c’è vita.”

Fides instrumentum rei publicae

Immagine creata con Gemini®

A inizio estate, su Vox, è stato pubblicato un articolo interessante di Katherine Kelaidis sul legame tra religione e politica negli USA di Donald Trump. Da studioso delle religioni e dei fenomeni ad esse legati, è un argomento che mi piace approfondire. In pochissime parole l’autrice sostiene che si tratti di una fede politica: una religione dell’identità e della nazione, che usa il linguaggio della fede per ottenere potere. Il pezzo è molto lungo, per cui ne propongo una sintesi. In fondo, accompagno il testo con un video del giornalista Francesco Costa, direttore de Il Post: affronta il tema del rapporto tra statunitensi e religione ed è dell’aprile 2024 (pre-elezioni USA).

Per oltre sessant’anni la “destra religiosa” americana è stata quella dei boomer: un movimento cristiano tradizionalista, teocratico, che voleva “rimettere Dio nelle scuole” e ispirare la legge civile ai principi biblici.
Con Donald Trump nasce però qualcosa di nuovo. Il suo progetto non è far conformare lo Stato alla Chiesa, ma piegare la Chiesa alla volontà del nazionalismo americano — un’ideologia che identifica la libertà e la prosperità degli Stati Uniti come privilegio esclusivo dei cittadini bianchi, eterosessuali e patriottici.
L’articolo sottolinea che questo modello somiglia più alla Russia di Putin (dove la Chiesa ortodossa è subordinata al Cremlino) che a una teocrazia come quella iraniana. In altre parole: la religione viene svuotata e sostituita con un culto politico di “America First”.
Trump ha creato una Religious Liberty Commission e tre consigli consultivi formati da leader religiosi, esperti giuridici e laici. Ufficialmente, dovrebbero analizzare la storia della libertà religiosa negli Stati Uniti. Ma, secondo l’autrice, l’obiettivo reale è riscrivere quella storia da una prospettiva nazionalista e ideologica. I presidenti precedenti (Bush, Obama, Biden) avevano invece un Office of Faith-Based and Neighborhood Partnerships, cioè un ufficio di collaborazione con le organizzazioni religiose per problemi sociali (povertà, traffico di esseri umani, ambiente). Trump lo ha abolito. Nel suo modello, non è la religione a migliorare la società, ma è l’America stessa a diventare la fonte di religione e moralità. Le chiese prosperano o falliscono in base a quanto si adeguano alla “vera” identità americana. Dei 39 membri della Commissione, non c’è nessun protestante “storico” (metodisti, presbiteriani, episcopali), che un tempo rappresentavano la “religione civile americana”. Al loro posto: evangelici conservatori, cattolici tradizionalisti, ebrei ortodossi, un arcivescovo greco-ortodosso, due musulmani convertiti bianchi e Ben Carson, avventista del settimo giorno. Questa composizione rivela che la nuova alleanza non è teologica, ma culturale. È un fronte interreligioso unito dal sentirsi “assediato” su temi come genere, sessualità e razza. Le differenze dottrinali vengono accantonate: ciò che conta è difendere una certa visione identitaria della nazione.
Contrariamente a quanto afferma la propaganda, il movimento non mira a restaurare il passato, ma a trasformare radicalmente la società americana. Se la vecchia destra religiosa era teologica e poi politica, la nuova crea una teologia a misura della politica. Trump è visto come una figura quasi messianica: non un salvatore delle anime, ma dell’America stessa. In questo contesto, il linguaggio religioso serve solo come strumento di legittimazione politica.
Kelaidis cita due casi emblematici che rappresentano una religione civile dove l’oggetto di fede è l’America stessa, non Dio. Ismail Royer, musulmano convertito e membro della Commissione, è stato condannato per aver aiutato persone a unirsi a un gruppo terroristico in Pakistan. Ora promuove la libertà religiosa come arma politica e dichiara: “L’America è un paese cristiano fondato su principi cristiani”. Per lui, la teologia conta poco: ciò che importa è la comune battaglia culturale contro il liberalismo. Eric Metaxas, scrittore e attivista evangelico, ha percorso un cammino simile: il suo interesse non è la dottrina cristiana, ma la difesa di una certa idea di ordine sociale e politico.
Una differenza cruciale con la “vecchia” destra religiosa: il nuovo movimento non parla quasi mai di salvezza, inferno o vita eterna. L’obiettivo non è più influenzare le anime, ma modellare la società nel presente. In questo senso, l’autrice paragona la “religione di MAGA” al culto imperiale romano, centrato sulla potenza e fertilità della nazione. La preoccupazione per la natalità, il rifiuto dei trattamenti medici che rendono sterili i giovani trans, la retorica contro l’aborto come “perdita di cittadini americani”: tutto questo rientra nella logica di un culto della forza e della riproduzione nazionale, più che in una dottrina cristiana.
Trump ha poi promosso parate militari, nuove feste nazionali e ora una riscrittura agiografica della storia americana. Questi elementi costituiscono, secondo l’autrice, una forma moderna di religione civile imperiale: l’America come realtà sacra, il patriottismo come fede, Trump come pontefice politico.
L’autrice, infine, si sofferma sui metodi per lottare contro questo modo di vedere le cose: i metodi che funzionavano contro la vecchia destra religiosa (smascherare ipocrisie morali, appellarsi alla Bibbia) non funzionano più. Il nuovo movimento non prova vergogna, non risponde a richiami teologici o morali: è animato solo dall’utilità politica. Per combatterlo, serve una nuova alleanza tra progressisti e credenti conservatori che restano fedeli a principi morali autentici — cioè che riconoscono un’autorità superiore allo Stato o al leader politico. Questi “tradizionalisti non MAGA” (vescovi cattolici, protestanti moderati, mormoni) potrebbero essere alleati inattesi nel contrastare la “Chiesa di MAGA”.
In conclusione, Trump e il movimento MAGA hanno dichiarato una guerra religiosa non solo contro il secolarismo, ma anche contro la religione tradizionale che rifiuta di sottomettersi al nazionalismo. Non è una teocrazia, ma qualcosa di più nuovo e insidioso: una religione della nazione e dell’identità, mascherata da fede. Per affrontarla, conclude Katherine Kelaidis, non basteranno le Scritture né gli appelli alla coscienza. Bisognerà riconoscerla, smascherarla e costruire alleanze inattese con chiunque creda ancora in un potere più alto di Donald Trump.

La difficoltà di scegliere

Immagine creata con ChatGPT®

Quello delle scelte, oltre che essere un argomento tipico del terzo anno, è uno dei temi di cui si parla più frequentemente in classe. Ne scrive Alice Nanni, studentessa magistrale in Neurobiologia, sulla rubrica Chiasmo di Treccani.

“Non c’è niente di più umano della scelta, un concetto trasversale che di taglio attraversa tutti i livelli di realtà della nostra esistenza assumendo connotazioni via via diverse.
Compare già multiforme nella storia delle tradizioni filosofico-religiose: Eva può non mangiare la mela poiché ha in dono il libero arbitrio; nel buddhismo si sceglie la rinuncia per raggiungere il nirvana; nell’induismo le azioni compiute in vita determinano la successiva reincarnazione in base al karman accumulato; nei miti norreni l’eroe o l’eroina paradossalmente scelgono il loro destino, o meglio accolgono ciò che è predeterminato per loro. Anche al di fuori della sfera spirituale la natura umana rimane intrinsecamente dominata dalla scelta. Kierkegaard, ad esempio, sostiene che la possibilità di scegliere non sia «la ricchezza, bensì la miseria dell’uomo» e considera il libero arbitrio il suo limite e la sua disperazione. Forse non sorprende che la sua dissertazione su questo vuoto che si para di fronte all’homo, in bilico davanti al futuro, si risolvesse tutta nella fede in Dio. Infatti, per secoli il bisogno di spiegare il mondo, l’esistenza e l’Io, e di rispondere alle domande senza una facile risposta è stato dominio delle religioni, sopravvissute allo scientismo, all’Illuminismo, al razionalismo e perfino a Nietzsche. La domanda da farsi a questo punto è: riescono ancora a resistere nel tecno-capitalismo del ventunesimo secolo?
Circoscrivendo lo sguardo alla parte di mondo definita Occidente, è innegabile che stiamo attraversando una crisi della spiritualità e delle credenze. In un’indagine dell’Istituto di Ricerca Eurispes del 2024, molti giovani tra i 18 e 30 anni hanno valutato la religione come uno degli ultimi valori per priorità nella propria vita: è risultata “molto importante” o “importante” solo per il 38,7%, a fronte del 90,6% ottenuto dalla voce “democrazia”. I report di diversi Osservatòri in merito alla questione mostrano che il trend è di allontanarsi dalle istituzioni religiose per cercare la propria spiritualità in una nuova dimensione fluida, indefinita e autonoma. In un mondo che ha perso le sue coordinate assolute, ognuno è lasciato alla sua personale interpretazione del reale: la capacità di scegliere si inserisce così in uno spazio senza assi cartesiani, in cui lo spaesamento interiore va a braccetto con una società neoliberale della performance e della produttività, in cui ogni occasione è un’opportunità da sfruttare.
Parlare di spiritualità e di individualità significa parlare inevitabilmente di collettività. Gli ultimi decenni hanno visto affastellarsi una rivoluzione tecnologica dopo l’altra, con una spinta al profitto che, se in un primo momento ha generato un clima di speranza e prosperità, ha presto rivelato l’altra faccia della medaglia, quella brutta. L’insostenibilità di questo modello omnicomprensivo può essere esemplificata attraverso un’analisi intergenerazionale che si ispira al pensiero di Maura Gancitano. La generazione Boomer è figlia del primo modello liberale — quando ancora era possibile crederci —  e vive intrisa della retorica liberal-calvinista del se vuoi puoi, sostrato di una visione di successo secondo cui il benessere coincide con un lavoro, non importa quanto faticoso e totalizzante, che garantisca di che vivere e un po’ di più. La generazione dei Millennial è la prima a mettere in crisi questo ideale: le crisi finanziarie, il ricambio sempre più veloce di un mercato libero fondato sulla moneta e non sull’essere umano, e le aspettative calate dall’alto intaccano la narrazione dominante. Gli eredi naturali di questo processo sono i giovani e le giovani della Generazione Z (1999-2014), che portano ancora più avanti la rottura.
Una caratteristica specifica dei cosiddetti nativi digitali è l’espressione della propria identità online, una para-realtà che se interrogata in modo intelligente restituisce uno spaccato interessante dell’attualità. In modo non esaustivo, possiamo citare due macro-trend che vivono nello spazio virtuale e che inevitabilmente mantengono un rapporto bidirezionale con la realtà. Da un lato troviamo l’insofferenza per la retorica del lavoro come priorità: la tendenza era già emersa con il periodo delle Grandi Dimissioni, conseguenza del lockdown degli anni ‘20, ma la ricerca di strade alternative e la denuncia di una cultura lavorativa vecchia e abusante si rafforzano di giorno in giorno. Dall’altro lato abbiamo la FOMO (fear of missing out).
Per quanto la disuguaglianza sociale e la povertà assoluta siano in aumento, osservando a volo di uccello l’evoluzione socioeconomica dell’ultimo secolo, risultiamo essere generalmente più ricchi. O almeno, secondo un modello iper-consumista, abbiamo più soldi per poterne spendere di più. Sta di fatto che, mettendo da parte il discorso di classe, lo stile di vita del cittadino medio è profondamente cambiato e si è arricchito della dimensione del tempo libero, delle ferie, del viaggio di piacere. A cascata le nuove generazioni hanno ricevuto in eredità la possibilità di essere molte più cose, almeno in potenza. Lo sappiamo e veniamo esposti a questa consapevolezza quotidianamente, con un flusso continuo di vite altrui sullo schermo, che mostra quante cose si possono fare, quante cose si possono essere. Insomma, è sicuramente cambiato il modello di riferimento ma è altrettanto vero che l’idolo del “tutto è possibile” è continuamente ingrassato dal confronto con l’altro, che si propone come immagine in negativo di tutto ciò che tu NON sei.
Spopolano reels su Instagram e video su Tiktok di persone in stanze immacolate, che recitano: «POV: hai 20 anni e ogni giorno sei indecisa se fondare una start-up, lasciare tutto e viaggiare il mondo in un van, iniziare un master o scrivere poesie». Che sia realistico o meno, chiunque di noi è esposto a questa potenzialità immaginativa infinita e, in una spirale di overthinking, la tua vita finisce per assumere l’aspetto di una nave senza timone, che speri naufraghi prima o poi sull’isola giusta. L’ambito universitario è forse la massima espressione di questa parabola. Continuare il percorso di studi significa anche prolungare quel limbo in cui (quasi) tutto è ancora accessibile; perciò, tantissime persone finiscono per concludere il ciclo di studi trovandosi di fronte qualcosa di inaspettato, ovvero la mancanza di prospettive concrete e quindi la possibilità di qualunque prospettiva.

Seppure assumiamo che l’essere umano sia fatto per scegliere, non è però calibrato su un numero tendente a infinito di opzioni per ogni scelta. In relazione a questo nuovo spaesamento quotidiano dell’esistenza si è iniziato a parlare del concetto di paradosso della scelta, teorizzato da Barry Schwartz nel libro “The Paradox of choice: Why more is less” (2004). Per lo psicologo americano la massimizzazione della libertà individuale non è direttamente proporzionale alla massima felicità. Secondo i dettami della filosofia neoliberale, più è meglio: un principio assoluto che dovrebbe riguardare anche i gradi di libertà del singolo individuo inserito in una società del benessere. Invece, la curva reale che descrive la felicità dell’essere umano in funzione del numero di scelte possibili sarebbe a forma di campana, con un massimo oltre il quale la qualità di vita diminuisce.
Schwartz identifica, in particolare, il modello comportamentale del maximizer, ovvero colui o colei che vuole scegliere sempre la migliore delle opzioni, crede che ogni possibilità sia realizzabile ed è alla ricerca della perfezione. Una volta compiuta la scelta, la sua quête non si esaurisce poiché il/la maximizer continua a ipotizzare l’esistenza di un’alternativa migliore collocata nel futuro, ma anche tra quelle — impossibili da verificare —  già scartate nel passato. Questo loop comporta sensazioni di ansia e depressione, rimorso, insoddisfazione cronica e, in ultima analisi, quella che Schwartz chiama la paralisi della scelta, ovvero scegliere di non scegliere, poiché lo stallo permette di fare tutto, di essere tutto. In termini più scientifici si parla di choice overload, un tema non nuovo nel settore delle neuroscienze.
Per citare qualche esempio, uno studio del 2018 ha tentato di indagare come il cervello si attiva nel processo della scelta. I soggetti sperimentali sono stati esposti a set di oggetti di 6, 12 o 24 elementi tra cui dovevano sceglierne uno. Analizzando l’attività cerebrale grazie alla tecnica dell’fMRI, si è osservata una curva a campana, con un massimo di attivazione per il set di 12 elementi e valori minori sia per 6 che per 24. Lo stesso Schwartz ha portato a supporto della sua tesi una serie di semplici test dimostrativi, tra cui il più famoso è forse quello dei cioccolatini: posti di fronte a una scatola di 30 o a una di 6 cioccolatini, i suoi studenti hanno riportato in modo statisticamente significativo più soddisfazione per la scelta nel secondo caso, come se il maggior numero di alternative scartate rendesse meno appagante la scelta compiuta. Ovviamente, le variabili in gioco sono moltissime e complesse, ma questo studio e altri più recenti sono un interessante spunto per interrogarsi sulla gestione emotiva e cognitiva della scelta in una società che ha commercializzato e portato alle sue estreme conseguenze questo carattere esistenziale dell’essere umano.
Un’altra prospettiva per analizzare il paradosso della scelta è radicata nel modello socioeconomico di sviluppo, sia nella sua realtà oggettiva sia nell’interiorizzazione che ne fa il singolo. La narrazione dominante dell’ultimo decennio ha spinto, infatti, verso un’estrema responsabilizzazione dell’individuo, generando una sorta di equazione per cui il massimo della libertà significa anche il massimo della colpa: assistiamo insomma a un ritorno dell’ideale individualista dei Baby Boomer, intersecato, però, con l’iper consumismo e molte nuove difficoltà quali la crisi climatica. Calandoci nell’attualità, proprio il tema ambientalista, estremamente sentito dai più giovani, può essere un esempio calzante di questa nuova dinamica. Una risposta efficace e a lungo termine a questo problema non può che essere collettiva, politica, globale: eppure, ha attecchito molto il linguaggio dell’azione individuale, che deresponsabilizza le istituzioni e i colossi del mercato, e ripropone la logica del consumo, ma “green”. Se l’individuo, attraverso le sue scelte, è responsabile del cambiamento che può produrre in teoria, ma ha un impatto relativamente piccolo in pratica, lo scollamento tra la libertà di scegliere e la conseguenza di questa libertà diventa conclamato. Da cui il pessimismo, la rinuncia, la non-scelta.
Questo scarto ha progressivamente contagiato la sfera pubblica e quella individuale con il risultato della morte civile del singolo e quindi della collettività. Un dato chiaro è, per esempio, la crisi del voto, pilastro della struttura democratica: pochissimi giovani oggi scelgono di esercitare questo diritto fondamentale, e l’astensionismo appare come la forma più grande di protesta impugnabile contro una sovranità che già da tempo non è rappresentativa. Checché se ne dica, la cifra umana della generazione Z non è il disinteresse, ma la sensazione di impotenza fondata non tanto sul paradosso della scelta, quanto sul paradosso della libertà di scelta. Di fronte a un futuro che si annuncia spaventoso e che non è possibile cambiare da soli, nonostante venga detto che abbiamo la libertà di farlo, scegliere di non scegliere o non scegliere di scegliere è il grido unanime di un sistema al collasso che, mentre si espande, implode.
Nel marasma di individualità tutte incatenate, il ruolo stesso della scelta è totalmente deformato. Tra performatività, logica del profitto e morte dello spirito, questa modernità che vuole superare la velocità della luce è in realtà profondamente paralizzata, perfino davanti alle troppe opzioni di un menù del fast food. Più che chiederci come tornare a scegliere dovremmo forse ribaltare la prospettiva: tornare a essere fonte attiva di opzioni, invece che consumatori passivi di offerte, e finalmente definire un nuovo concetto di libertà individuale, che abbia al centro l’essere umano.”

Gemma n° 2653

“Ogni anno, durante le settimane del centro estivo, viene scelto un tema su cui riflettere insieme ai bambini, e quest’anno il tema è stato quello della “Gioia piena”. A prima vista, potrebbe sembrare complicato spiegare questa parola a dei bambini, ma in realtà la gioia si manifesta in modi diversi nella vita di ognuno. Durante quest’estate, ho avuto l’opportunità di riflettere sul significato di questa parola e, alla fine, ho capito cosa rappresenta veramente per me la gioia piena.
In particolare, sono convinta di averla sperimentata veramente durante la settimana di luglio trascorsa in montagna, a Rigolato. È stata una settimana ricca di impegni per noi animatori, una settimana che ci ha visto dedicare interi pomeriggi alla preparazione delle attività, dei giochi, delle squadre e di tutto il resto. Nonostante la stanchezza di quei giorni, i ricordi più belli che conservo di quella settimana sono quelli legati ai momenti passati insieme ai miei amici, le lunghe camminate in montagna animate dalle risate dei bambini e dalle canzoni che cantavamo lungo i sentieri, i pasti condivisi in una piccola sala da pranzo, dove ci trovavamo stretti ma felici, le sere trascorse a chiacchierare, tutti chiusi in una sola stanza, con la paura di essere scoperti e mandati nelle nostre camere, la fretta delle pulizie e, soprattutto, le risate dei bambini che mi seguivano ovunque, facendomi mille domande a cui, nonostante tutto, cercavo sempre una risposta.
A rendere questi momenti indimenticabili sono state le persone con cui li ho vissuti: il gruppo di animatori, che è stato semplicemente il più bello che potessi desiderare, ma anche i bambini, che sono il vero collante di tutte le situazioni.
Ricordo un momento preciso in cui ho capito davvero quanto tutto questo fosse importante per me. Era la mattina dell’ultimo giorno del camposcuola. Ci trovammo tutti insieme fuori dalla casa, pronti per entrare nella sala da pranzo per fare colazione. Quando entrai, vidi che sui tavoli c’erano i libretti che noi animatori avevamo preparato la sera prima, riempiendoli di dediche fino alle due di notte, uno per ogni bambino presente. E ricordo anche di aver trovato al mio posto un foglio, riempito delle firme dei bambini che mi avevano accompagnato durante questa esperienza. È stata una sorpresa inaspettata vedere che ogni animatore aveva ricevuto qualcosa di simile, e non riuscivo a trattenere l’emozione. Quel momento, circondata dalle espressioni gioiose dei bambini che si leggevano le dediche a vicenda, mi ha riempito il cuore.
Quella giornata, passata a ricordare i momenti più belli della settimana con gli altri animatori, abbracciandoci, consolandoci a vicenda e cantando le nostre canzoni dell’estate, mi ha fatto comprendere quanto questo lavoro mi faccia bene al cuore.
Le persone con cui condivido queste esperienze non sono soltanto dei “colleghi”, ma sono degli amici con cui ho una complicità che va oltre il ruolo dell’animatore. Per me, loro sono la luce e il sale della mia vita!”
(C. classe quinta)

Gemma n° 2015

“Come gemma ho portato una riflessione religiosa fatta due anni fa, un periodo complicato della mia vita, al di là della questione pandemica, anche per la perdita di una persona cara. Essendo io una persona cristiana mi sono fatta le tipiche domande: perché una persona innocente deve soffrire? perché il dolore se c’è Dio? dov’è quando stiamo male? Provo a rispondere. C’è il mistero dell’agire di Dio, però noi crediamo anche se non sappiamo come egli agisca. Immagino la nostra vita come una linea del tempo. Su questa linea ad un certo punto è arrivato Cristo, Dio è sceso in terra. Prima di Cristo eravamo in una situazione negativa; anche ora c’è il peccato, con la differenza che Cristo è venuto a salvarci e possiamo redimerci perché siamo nella grazia di Cristo. C’è chi crede e chi no, lui è venuto per salvare tutti. Per questo disegno la persona prima di Cristo sotto la linea. Noi abbiamo il libero arbitrio, possiamo decidere tra bene e male, possiamo credere in Dio o meno. Dio è in controllo dell’Universo, non delle singole vite, siamo noi il motore delle nostre azioni. Come esempio porto la vicenda di Giuseppe, capace di interpretare i sogni del Faraone; sicuramente mentre era imprigionato non pensava a ringraziare Dio della propria sorte, come noi nelle difficoltà vediamo la nostra fede venire meno. Dio non funziona come vogliamo noi; ha un piano generale in cui si collocano le nostre vite. Per un cristiano la speranza non viene mai meno, Dio è come un salvagente; come ha avuto un piano per Giuseppe, così ce l’ha per me. Ho una visione che mi proietta in avanti, oltre il momento difficile che sto vivendo: anche per me, come per Giuseppe, ci sarà il lieto fine”.

Mentre riflettevo su come commentare la gemma di F. (classe quarta) mi sono imbattuto in alcune parole di David Maria Turoldo: “Spero sempre nell’umanità. Nella mia umanità, nella tua umanità. Quello che non ho fatto ieri, cerco di attuarlo oggi. Spero sempre nel nuovo giorno, che è sempre un giorno mai vissuto da nessuno. E’ come se il mondo sorgesse di nuovo alla luce. Penso al bene che posso fare, il piccolo, grande aiuto che posso dare ai fratelli. Il sole rispunta, la vita risplende, aiutiamoci a sperare”.

Undicesima stazione

So che siamo nel periodo dell’Avvento, è appena iniziato. Molti cristiani, ieri, hanno acceso la prima delle quattro candele della loro corona. Eppure mi soffermo su una riflessione di più di vent’anni fa di Mario Luzi (1914-2005), scritta in occasione della Via Crucis di quell’anno per l’XI stazione, quella di Gesù inchiodato alla croce. L’ho trovata su La rivista de Il Mulino. Sono parole messe in bocca a Gesù stesso. Scrive Luzi:

“Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti. È solo una stazione per il figlio Tuo la terra, ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare. Il cuore umano è pieno di contraddizioni ma neppure un istante mi sono allontanato da te. Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato. La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
E terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di Te è stata continua e forte, tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. Padre, non giudicarlo questo mio parlarti umano quasi delirante, accoglilo come un desiderio d’amore, non guardare alla sua insensatezza. Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego”.

Resto convinto che i testi delle religioni siano in grado di essere occasione di riflessione per tutti, credenti e non credenti: non farei il lavoro che faccio se non ne fossi convinto. Certo saranno riflessioni dalle molteplici sfaccettature, frutto della diversità umana. Prendo questo dubbio di Gesù e lo porto nel tempo che stiamo vivendo: eccesso o difetto di umanità? “Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?”. Qual è, mi chiedo, lo sguardo che sto gettando sul mondo? Qual è l’atteggiamento che ho? Su quale fronte mi schiero? L’interrogativo del Gesù di Luzi è retorico, perché la risposta alle domande è contenuta nella prima parte: “È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile. […] ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare […] Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato”. Si tratta di un Gesù che ha fatto un’immersione completa nell’umanità, anche quella più lontana, anche quella più inaspettata, anche quella inascoltata o dimenticata, quella per la quale è così difficile provare empatia, creare uno spazio d’ascolto dentro di me. Eppure, nonostante tutto questo, conserva un dubbio, quello di essere stato autoreferenziale, quello di aver assecondato una propria volontà, una propria preferenza, un proprio desiderio: “Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa”. Come faccio a comprendere, a discernere tra il gesto egoista e il gesto puramente altruistico? Lo so che nel gesto di generosità è contenuta l’autogratificazione e so che è normale. Ma quale può essere la bussola per non perdermi e non confondere la “Tua volontà”. Troppe volte, in nome di una supposta volontà superiore, si sono compiuti danni inenarrabili! Provo ancora a cercare tra le parole di Luzi una risposta e mi colpiscono queste: “La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario”. Ieri sera a cena con noi c’era una coppia di cari amici: Mariasole passava da un braccio all’altro, li guardava negli occhi, sorrideva, sprizzava gioia da ogni particella del suo corpo. Diceva con tutta se stessa e con le parole: “che bello stare insieme”. Ecco l’umano a cui dovrei cercare di somigliare ogni giorno, ecco l’umano da cercare in questo Avvento affinché il divino possa continuare a trovare albergo nella grotta di ogni cuore…Un brano di Nick Cave rifatto dalla tredicenne Nell Smith insieme ai The Flaming Lips per meditarci su (tutto Where the Viaduct Looms è un cover album pazzesco secondo me!).

Divinità e fumetti

Avevo messo da parte questo breve articolo apparso su Wired il 28 ottobre 2017 a firma di Andrea Curiat. Per gli appassionati del settore fumettistico.

“Tutti pazzi per il manga Saint Young Men, di Hikaru Nakamura (per J-Pop prima e Rw-Goen poi). Cosa succederebbe se Gesù e Buddha, stanchi della loro vita ultraterrena, decidessero di passare un po’ di tempo sulla terra, condividendo un appartamento a Tokyo come moderni coinquilini nel Giappone contemporaneo? La risposta in un fumetto leggero, divertente e ironico, con i nostri divini protagonisti alle prese con i problemi e gli svaghi della vita quotidiana, pronti a compiere miracoli e svelare verità universali come se nulla fosse.
Da due anni, ormai, si vociferava della trasposizione del manga non più in un anime (ne sono già usciti due, nel 2012 e nel 2013), ma in una vera e propria serie tv live action. L’attesa dei numerosi fan è stata infine premiata con una webserie disponibile su YouTube, per ora soltanto in giapponese (in attesa degli inevitabili sottotitoli), ma già sufficiente a regalarci delle immagini indimenticabili di due attori nipponici nei panni del messia cristiano e dell’illuminato monaco fondatore del buddismo.
Insomma, la religione trova spazio anche nei fumetti, seppure in versione ironica e leggera. Non è certo la prima volta che sceneggiatori e disegnatori di tutto il mondo provano a dare una rappresentazione del divino, più o meno irriverente, più o meno fedele. Ecco allora 5 esempi di (un) Dio, come visto dal mondo dei fumetti.

La Presenza (DC Comics)
No, non è Superman l’essere più forte dell’Universo Dc. E no, non è neanche il suo avversario cosmico Darkseid. La divinità creatrice e onnipotente dei fumetti Dc è nota solo con il nome di Presenza, ed è una rappresentazione neanche troppo celata del Dio giudeo-cristiano. Dalla Presenza scaturiscono i poteri dello Spettro, gli Eterni descritti da Neil Gaiman in Sandman, i Nuovi Dei di Jack Kirby e tutti gli eventi chiave che hanno segnato la storia del multiverso Dc.

Jack Kirby (Marvel Comics)
Chi è, allora, il Dio dei Marvel Comics? Ovviamente, Jack Kirby. La rivelazione (è il caso di dirlo) giunge ai Fantastici Quattro durante un celebre ciclo di storie firmate da Mark Waid e dal compianto Mike Wieringo, durante il quale lo scientifico Reed Richards decide di viaggiare sino al Paradiso per riportare a casa l’anima del defunto Ben Grimm, alias la Cosa. Al vertice della creazione, il quartetto trova il Re dei fumetti, che con la sua matita divina può riscrivere qualsiasi aspetto della realtà in cui operano i supereroi Marvel. Un’interpretazione decisamente “meta” della divinità. E sicuramente il sorridente Stan Lee avrebbe qualcosa da ridire sulla scelta di Jack Kirby come Dio dei fumetti…

Le divinità di Testament
Tra il 2006 e il 2008, la Vertigo (etichetta Dc Comics rivolta a lettori maturi) ha pubblicato il coraggioso Testament, di Douglas Rushkoff e Liam Sharp, un fumetto che narra la storia dell’umanità nel passato, presente e futuro, esposta alla volontà e al conflitto per la supremazia spirituale tra le divinità pagane e due versioni del Dio giudeo-cristiano: Elijah, il Dio raffigurato nella Bibbia, e un nuovo “Vero e solo Dio“.  Qui la storia di Abramo e Isacco si intreccia con quella di Jake Stern, giovane studente di un futuro prossimo. Inedito in Italia.

Il Dio di Preacher
Nessuna opera raffigura al meglio lo spirito dirompente e irriverente dei fumetti degli anni ’90 come Preacher di Garth Ennis e Steve Dillon (a proposito, state guardando la serie tv?). Qui, l’ex-predicatore Jesse Custer, la sua fidanzata Tulip O’Hare e il vampiro Cassidy sono a caccia di una divinità che ha abbandonato il proprio posto in Paradiso per nascondersi da Genesis, essere nato dall’unione tra un angelo e un diavolo, e tanto potente da rivaleggiare con il Paradiso intero. Una visione della religione studiata a tavolino per scandalizzare o divertire, a seconda dell’inclinazione del lettore su questi temi. Edito in Italia da Rw Lion (formati vari).

Le divinità di Supergod
Altro giro, altra provocazione intellettuale. Se gli dei non vanno all’umanità, sarà l’umanità a creare gli dei. Tramite ingegneria genetica, intelligenza artificiale, viaggi nello spazio, le nazioni del mondo creano in laboratorio degli esseri dai poteri divini, sperando di risolvere i propri problemi – o di poterli utilizzare come armi finali in una guerra fredda. Ne deriva una escalation senza ritorno in cui il supergod Krishna stermina gli abitanti dell’India per salvare il Paese dall’inquinamento, e tutti gli sforzi per fermarlo non sembrano far altro che peggiorare la situazione, sino a una vera e propria Apocalisse biblica. Raccolto in volume da Edizioni Bd (156 pp, 13 euro).”

Mio nonno Giovanni Papini

Meno di un mese fa, il 20 luglio, si è spenta, a 85 anni, l’attrice Ilaria Occhini. La scorsa settimana, facendo un po’ di ordine tra tagli e ritagli di vecchi giornali che avevo messo da parte, ho scovato un’intervista fattale da Gabriella Mecucci per Fondazione Liberal in cui parla del nonno Giovanni Papini, di cui proprio quest’estate mi sono ripromesso di leggere qualcosa. Mi piace proporla qui.

“«Sospetto che Papini sia stato immeritatamente dimenticato»: così scriveva il grande Borges nell’ormai lontano 1975. E aveva ragione da vendere se persino oggi nel cinquantenario della morte (l’intervista è del 2006, Papini muore l’8 luglio 1956) non è stato fatto quasi nulla per ricordarlo. I suoi libri sono scomparsi dagli scaffali delle librerie. Eppure di questo intellettuale si può dire tutto tranne che non abbia segnato con la sua presenza la vita culturale italiana. Intendiamoci, il suo nome ancora circola fra gli addetti ai lavori: qualche convegno affronta la sua robusta personalità e qualche giovane critico medita di sottrarlo alla damnatio memoriae, ma è poco. Troppo poco. Ilaria Occhini, grande attrice e moglie di Raffaele La Capria, è stata la sua nipotina preferita. Il nonno l’ha amata teneramente e lei ha conservato tutto intero il calore di quel rapporto. E lo racconta, intrecciandolo qua e là con la vita importante e difficile di Giovanni Papini, con le sue avventure culturali e letterarie.

            Perché signora Occhini suo nonno è stato dimenticato?
Dimenticato? Io direi epurato. Nonostante però che non si studi più nelle scuole e nelle università, nonostante il tentativo vergognoso di farlo sparire, la sua figura è così gigantesca che l’operazione è destinata a fallire. Papini ha un ruolo troppo importante nel Novecento italiano, nella rivoluzione del Novecento per ridurlo al silenzio. Può essere amato o detestato, si può considerare o no un grande scrittore, ma non si può cancellare. È stato il fondatore di tre riviste che hanno profondamente segnato la vita intellettuale italiana: Leonardo, Lacerba e La Voce. Non si può negare che attraverso questi canali è entrata nel nostro Paese la cultura europea. Mio nonno è stato certamente un grande sprovincializzatore. C’è poco da fare, alla fine lo dovranno riscoprire. Non si può parlare di Prezzolini e Soffici saltando Papini.

Da “Il Mattino” del 15 aprile 2016

            E perché allora questa damnatio memoriae?
La prima ragione è Gramsci che espresse su di lui e sulla sua opera giudizi sferzanti. Non le ho mai lette ma so che quelle parole molto dure hanno pesato parecchio in un Paese come il nostro a egemonia culturale comunista. Probabilmente questa è la causa principale. Mio nonno è stato molto importante nella vita culturale italiana, una stroncatura di Papino poteva far male. Lui, dal canto suo, aveva una penna facile, era spregiudicato, non gradava in faccia a nessuno e non risparmiò nessuno. Voglio dire che fu irriverente anche verso gli accademici di prima fila. Insomma, di nemici se ne fece parecchi. Nessuno osò attaccarlo in vita, anzi la sua lunga e terribile malattia fu seguita dalla stampa con attenzione, con affetto. Subito dopo la morte però si scatenarono.

            Basta questo per spiegare il tentativo di rimozione?
Questo conta parecchio, ma probabilmente c’è anche dell’altro. Certamente lo ha danneggiato il suo essere catalogato come fascista. Anche se mio nonno non fu mai organico al regime. Non adulò mai – come tanti altri intellettuali – Mussolini e i gerarchi che pure conosceva. Non chiese loro alcun favore. Scrisse al duce una sola volta per chiedergli di fare una strada a Bucciano, altrimenti i contadini potevano salire solo con la mula. La lettera è molto bella ed è conservata nell’Archivio di Stato. Certo, del fascismo condivideva alcuni valori di fondo, ma fu l’ultimo a essere nominato accademico d’Italia. Quando la Repubblica di Salò gli offrì il posto di Gentile, dopo l’uccisione del filosofo, disse di no. Né fece mai parte di coloro che lodavano il nazismo. Andò a Weimar, dopo aver detto ben tre no ai tedeschi che continuavano a invitarlo, e fece un discorso tutto letterario. Non una parola di politica.

            Tanti intellettuali sono stati fascisti, ma non per questo hanno subito l’epurazione?
Lo so. Erano molti quelli che osannavano le gesta del duce. Che sostenevano cose da vergognarsi. Mio nonno non si comportò mai così. Il peccato che ha determinato quella che ho chiamato epurazione non è stato il filofascismo, ma il non essere diventato, a regime caduto, un fervente antifascista. Non aver imboccato – come hanno fatto in tanti – la strada dell’intellettuale organico al Pci. Se avesse fatto questa scelta avrebbe partecipato alla schiera dei redenti. Ecco, mio nonno non è un redento.

            Quanto pesò la malattia nella vita e nella produzione culturale di suo nonno?
Un morbo, allora non diagnosticato, lo privò prima dell’uso della mano destra, condannandolo a non poter scrivere, poi della mano sinistra, poi delle due gambe e infine della parola. Questo calvario, durato cinque anni e sopportato con spirito profondamente cristiano, non lo fece smettere mai di lavorare. Anche quando non parlava più, trovò un modo per dettare. Mia cugina Anna Paszkowski si sedeva accanto a lui e snocciolava l’alfabeto, quando arrivava alla lettera giusta, mio nonno faceva un segno col capo ed emetteva un suono gutturale. E così, faticosamente, consonante dopo vocale, veniva composta la parola. Anna col passare del tempo era diventata molto brava: le bastavano una o due sillabe per intuire quale fosse l’intera parola. Con questo metodo il nonno riuscì a scrivere La spia del mondo che è un volume di Schegge. Secondo me una delle cose più belle di Papini. In quei lunghissimi anni, tormentati dal dolore, non ha mai smesso di pensare, dettare, sperare. Non si è mai lamentato.

            Lei ha parlato di spirito profondamente cristiano, che importanza ha avuto nella vita di suo nonno la conversione?
Ilaria Occhini si alza e mi porta un brevissimo, folgorante scritto di Giovanni Papini. Nessuno meglio di Papini stesso ha raccontato il suo rapporto con la malattia e con Dio. Sotto il titolo Morte quotidiana, poche righe:
Sempre più cieco, sempre più immoto, sempre più silenzioso. La morte non è che immobilità taciturna nelle tenebre. Io muoio dunque un po’ per giorno, a piccole dosi, secondo il modulo omeopatico. Ma io spero che Dio mi concederà la grazia, nonostante tutti i miei errori, di giungere all’ultima giornata con l’anima intera.

            Da questo scritto e dai suoi racconti, nonostante una malattia terribile, Giovanni Papini aveva una intensa vita intellettuale e spirituale…
Sì, e anche se piò apparire incredibile, era allegro. Ricordo che insieme abbiamo fatto qualche grande risata. Era ironico e autoironico. Da buon toscano amava la battuta. Gliene venivano di buone. Dello scrittore e critico Carlo Bo disse che aveva l’ingegno più corto del nome. E la frase arrivò alle orecchie anche del destinatario che per la verità non se la prese più di tanto. Anzi, reagì bene.

            Torniamo al Papini irriverente, che con le sue stroncature o magari con le sue battute si fece parecchi nemici. Persone che fin quando era in vita preferirono tacere, ma che – come lei raccontava poc’anzi – in morte si scatenarono. Cosa successe dunque dopo la sua scomparsa?
Le racconto un fatto preciso. Mio nonno scriveva sul Corriere della Sera, ne era un collaboratore. Quando era ancora in vita quel quotidiano aveva raccontato la sua malattia con rispetto e affetto. Il giorno dopo la morte, fu il primo giornale che andai a leggere. Il necrologio del Corriere era un articolo pieno di critiche acide e di cattiverie. Una vera e propria stroncatura di Papini. Ci rimasi malissimo. Non potevo credere che si potesse pensare tanto male di mio nonno anche perché in passato era stato molto omaggiato. Come immaginare che avesse critici così feroci? E come accettare che si appalesassero solo dopo la sua scomparsa? Mi sembrò terribile.

            Lei era la nipote prediletta di Giovanni Papini. Che rapporto aveva con suo nonno?
Io sono nata in casa sua. Lui appuntò sulla sua agenda il giorno e l’ora della mia nascita e scrisse su quelle pagine della sua grande gioia. Quando ero piccola fu il mio compagno di giochi, il mio asilo. Se avevo bisogno di qualcosa, correvo da lui. Se ne combinavo qualcuna delle mie, la punizione che mio padre mi infliggeva consisteva nel non poter stare con lui. Una volta detti una rispostaccia e mi venne vietato di uscire con il nonno. Papini era solito prendere una volta alla settimana la carrozza per andare a fare una passeggiata. Spesso mi portava con sé. Il giorno che scattò la punizione saremmo dovuti andare insieme al ristorante Le Logge. Mia nonna telefonò a mia madre e le disse: «Così non mettete in castigo l’Ilaria, ma mettete in castigo Papini».

            Un grande legame…
Non c’è dubbio. Ricordo che si scappava insieme in campagna e ci buttavamo giù per la Ripaccia, una stradina molto scoscesa, pericolosa per una bambina ancora piccola e per un anziano signore quasi cieco e pieno di acciacchi. Eppure andavamo all’avventura e ci divertivamo un mondo. Un giorno non riuscivamo più a tornare a casa e, quando dopo parecchie ore rientrammo, la nonna ci mise in punizione a tutti e due.

            Quando lei è cresciuta, questo tenero rapporto è diventato anche uno scambio intellettuale?
Ne La mia Ilaria scrive che per fortuna io non lo conosco per il suo graffiare sui fogli, ma per altro. Seguiva da vicino i miei studi. Veniva a sapere che a scuola facevamo Leopardi? Subito si preoccupava di farmi trovare i libri più interessanti sull’argomento. Aveva una gigantesca biblioteca con oltre ventimila volumi ben ordinati. Ricordava a memoria la collocazione di tutti. Capitava quando lo andavo a trovare che mi portasse in quella grande stanza. Appena entrati mi dava indicazioni precise su dove era collocato un certo libro che pensava mi interessasse o di cui mi voleva parlare. Io lo prendevo, lo aprivo e trovavo alcune righe sottolineate da lui perché le leggessi. Era il suo modo di aiutarmi a conoscere. Senza pedanterie, senza atteggiamenti professorali. Così, quasi giocando.

            Lei è diventata un’attrice molto brava e apprezzata, Papini come ha vissuto la sua scelta?
Quando mio nonno è morto, ero ancora una ragazza, alle prime armi come attrice. Mio padre non voleva che intraprendessi questa carriera, ma mi disse che, se davvero lo desideravo, mi avrebbe lasciata libera di iscrivermi all’accademia. A una condizione, però: avrei dovuto trovare i soldi per mantenermi. Non potevo aggiudicarmi una borsa di studio, perché per concorrere bisognava essere nullatenenti. E io non lo ero. Mio nonno non condivideva la mia scelta, ma alla fine fu lui a mettermi a disposizione le 25 mila lire al mese che mi servivano per vivere e studiare a Roma. Insomma, non gli piaceva che facessi l’attrice ma non cercò di impedirmelo. Non si oppose, anzi mi aiutò.

            Papini ha mai potuto vedere una sua esibizione?
No. Solo una volta, quando era già molto malato, gli capitò di sentirmi recitare per radio. Ero alle prime armi e non ero un granché. Non era soddisfatto di quella mia esibizione. Lui del resto era abituato a ben altro. Aveva conosciuto Eleonora Duse e con lei aveva avuto un fitto scambio epistolare. Era poi un grande esperto di teatro mentre io avevo ancora molto da imparare. E me lo disse. Mi raccontò che un soffio, un sospiro della Duse si sentiva fino in fondo al teatro. Mi raccomandò di non strillare perché non serviva a nulla. Tutte queste osservazioni lì per lì mi dispiacquero, ma poi me le sono ricordate. Mi sono tornate alla mente tante volte e probabilmente mi hanno aiutata a crescere, a migliorare come attrice.

            Suo nonno a un certo momento della sua vita si convertì. Da anarchico senza Dio si trasformò in un convinto cattolico. Vi è mai capitato di parlarne?
La nostra era una famiglia cattolica, ma non parlavamo molto del nostro rapporto con la religione. Per mio nonno la conversione fu un passo importantissimo, una scelta profondamente vissuta. Qualcuno è riuscito persino a sostenere che la fede di Papini non fosse vera, che fosse un gesto di opportunismo venuto a seguito del grande successo internazionale della Storia di Cristo. Una sorta di invenzione per amplificare l’impatto già straordinario di quel libro. Niente di più falso. Mio nonno ha testimoniato con la sua vita, con il suo dolore vissuto cristianamente la propria fede. Poco prima di morire, quando quasi non riusciva più a respirare chiese che gli venisse letto Sant’Agostino. Era un grande credente. La verità è che la sua conversione fu così autentica da risultare ad alcuni insopportabile. Anche questo probabilmente fu una delle cause dell’epurazione di cui parlavo prima.

            All’inizio di questa conversazione lei ha accennato al ruolo di sprovincializzatore della cultura italiana che ebbe Papini, aveva una fitta rete di rapporti italiani e internazionali?
Sì. Dialogava con i più grandi intellettuali francesi e anglosassoni: da André Gide a Henry James. Nel suo archivio c’è un importante epistolario dal quale si ricava la rete dei rapporti che intratteneva. Ci sono, ad esempio, dieci cartoline postali attraverso le quali Ungaretti inviava a Papini le poesie scritte dal fronte. Si tratta dei versi poi raccolti e pubblicati in Porto sepolto.

            Qual è l’opera di suo nonno che preferisce?
L’uomo finito mi sembra un grande libro. Mi piace molto anche La seconda nascita, dove racconta la sua conversione.

            Quale rapporto aveva suo nonno con la campagna dove viveva, con i contadini? E quale con la sua città, Firenze?
Con i contadini aveva un rapporto molto stretto. Viveva con loro. La porta di casa era sempre aperta e loro la sera venivano dal nonno per giocare a briscola. Le mogli aiutavano la nonna nei lavori di casa. Tra l’ambiente fiorentino e Papini c’era una grande differenza. Lui, che pure sui fatti letterari non risparmiava critiche a nessuno, non parlava mai male degli altri dietro le spalle, che fossero amici o semplici conoscenti. Non gli ho mai sentito fare un pettegolezzo né dire una cattiveria. A Firenze invece era tutto uno sparlare l’uno contro l’altro. Un modo di fare persino imbarazzante.

            Chi è stato l’uomo di lettere più legato a suo nonno?
Certamente Soffici. Dal periodo del futurismo antimarinettiano sino alla fine della vita hanno sempre continuato a parlarsi, a incontrarsi. È stato lui il grande amico.

            Suo nonno che rapporto ha avuto con Gentile?
Che io sappia nessuno o giù di lì. Papini il rapporto vero lo ha avuto con Benedetto Croce. Il filosofo lo ha stimato e ammirato per tutta una fase, come dimostra il carteggio. Poi fra i due ci fu una brutta rottura. Perché accadde non glielo saprei dire. So solo che non si videro né sentirono mai più.

            Quanto ha pesato nella sua vita l’essere la nipote di Papini?
In alcune occasioni mi ha favorito. Qualche volta forse può avermi danneggiato. In realtà però io ho sempre potuto scegliere liberamente. Dietro di me c’erano un nonno e un padre importanti, ma non mi hanno mai schiacciata. Ho trovato la mia strada: sono diventata Ilaria Occhini. Il teatro mi ha dato molto. L’ho molto amato e mi sono anche molto divertita. E la televisione mi ha fatto percepire l’affetto della gente. Un tempo, tanti fra attori e registi definivamo la tv un elettrodomestico, ne parlavamo con un po’ di puzza sotto il naso. Snobismo. Adesso è cambiato tutto: c’è la ressa per recitare in una fiction, anche se spesso di artistico non hanno nulla.”

Il silenzio umile dell’ascolto

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Paola Zampieri intervista il teologo Duilio Albarello (Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale) sulla ricerca spirituale e i giovani. “In un tempo in cui il rapporto con il sacro non è più regolato dalle credenze delle chiese, ma dall’espressività e dalla creatività degli individui, la chiesa deve saper tacere e ascoltare, incontrare e testimoniare la bellezza del credere”. Questa la fonte.
Prof. Albarello, quali sono le forme inedite di ricerca spirituale, in particolare, che caratterizzano il mondo giovanile in un’epoca in cui il rapporto con il sacro non è più regolato dalle norme morali o dalle credenze delle chiese, ma dall’espressività e dalla creatività degli individui?
«Nel nostro tempo quel “paganesimo di ritorno”, o meglio quel secolarismo culturale che attorno alla metà del Novecento si affacciava soltanto sulla scena, si è pienamente realizzato e per la verità ha anche cominciato a mostrare i segni del suo logoramento. Uno di questi segni più evidenti, specie a livello giovanile, è la ricomparsa del “sacro” prevalentemente nella forma del soggettivismo spirituale, ossia del cosiddetto bricolage religioso. Tale fenomeno tuttavia, assai prima di essere stigmatizzato, richiederebbe di essere attentamente decifrato. Esso infatti a mio parere è l’espressione ambivalente di quello che alcuni hanno cominciato a chiamare “l’incredibile bisogno di credere” (Julia Kristeva) che si registra nella nostra epoca».
La “fede”, oggi, cos’è?
«In un momento in cui l’unica certezza rimasta sembra essere quella che non vi siano più certezze, il problema maggiore diventa rintracciare le risorse disponibili per attivare una fiducia che si mostri effettivamente fondata, pur senza degenerare per forza in una sorta di “credenza fai da te”. Sotto questo profilo, la “fede” si propone oggi come la questione antropologica per eccellenza, sia sul piano individuale, sia sul piano collettivo: una fede che consenta di continuare o ricominciare a dare credito alla vita, prima ancora che a Dio. Sono sempre di più le persone che avvertono questa esigenza, specie tra le giovani generazioni, ma spesso purtroppo la loro domanda non trova accoglienza nel “recinto” ecclesiale, poiché non disponiamo di strumenti capaci di interpretarla e di accompagnarla».
In questo contesto, come si pone la spiritualità cristiana? Come risponde al bisogno di senso dei giovani?
«A mio avviso, il bisogno di senso si sovrappone proprio a quel bisogno di credere, di cui parlavo prima. A questo riguardo, penso che per intercettare la sensibilità e il coinvolgimento dei giovani – ma non solo – sia indispensabile coltivare la dimensione estetica della fede, o in parole più semplici la “bellezza del credere”. Intendo dire: l’incontro con Cristo che cambia la qualità della vita non può avvenire in un ambiente asettico e in un clima anestetizzante. Purtroppo la sensazione che si prova in molti casi nei percorsi formativi o nelle celebrazioni liturgiche non spinge affatto chi partecipa ad esclamare: “È bello per noi stare qui!”. Eppure una testimonianza ecclesiale, che non accenda i sensi con la luce dello Spirito e non indirizzi gli affetti a percepire il fascino di stringere alleanza con il Signore, è destinata fin dall’inizio a mancare il suo compito».
Occorre spingere sulle leve emotive?
«Sia chiaro, non sto incoraggiando a spingere sul pedale dell’emotivismo per attivare discutibili strategie pastorali di seduzione, che finiscono per confondere la testimonianza del Vangelo con la pubblicizzazione di un prodotto. Intendo solo evidenziare che senza sperimentare la bellezza del credere nel Dio di Gesù sarebbe del tutto impossibile riconoscere la verità della sua Parola e lasciarsi trasformare dalla bontà della sua Presenza».
È l’esempio che muove e trascina.
«La spiritualità cristiana nasce e si costituisce ovunque vi siano un uomo e una donna che attestano quanto sia “bello” – dunque promettente e insieme impegnativo – edificare la propria vita nella compagnia del Signore. Tra il resto, per limitarci a una esemplificazione significativa, l’obbiettivo di una cura pastorale per la ricerca vocazionale dei giovani dovrebbe essere appunto questo: suscitare in essi il desiderio di “avere una storia” con il Signore, di incrociare la propria via con quella percorsa da Gesù, riconoscendo che è davvero la via verso la vita buona».
Quale contributo può portare la teologia per cambiare lo sguardo della chiesa sui giovani?
«A mio avviso si tratta di mettere finalmente in piena luce la portata pratica della “svolta antropologica” maturata nel pensiero teologico del Novecento. Infatti questa “svolta” si basa sulla consapevolezza che sarebbe impossibile dire il Dio di Gesù Cristo senza coinvolgere l’essere umano, la sua esistenza concreta a livello personale e sociale. Anzi, la verità dell’Evangelo individua il terreno di prova decisivo proprio nella sua forza di autentica umanizzazione: se tale forza venisse meno o comunque non fosse più percepita, ne risulterebbe compromesso il carattere affidabile di quella stessa verità».
Qual è la sfida che interpella la chiesa?
«In questa prospettiva, la chiesa è sfidata a lasciar cadere le incrostazioni dottrinali e morali che spesso ancora la paralizzano, per tornare a condividere con le nuove generazioni il suo unico ‘tesoro’: l’umanità eccedente di Gesù Cristo, come forma e forza, che sono necessarie all’“incredibile bisogno di credere”, diffuso nelle nostre società dell’incertezza, per essere autenticamente degno dell’uomo».
Il primo passo da fare?
«Un primo passo, indispensabile, per raccogliere tale sfida da parte della comunità ecclesiale sarebbe quello di tacere, per mettersi davvero in ascolto in particolare delle esperienze concrete dei giovani, con le loro attese e le loro disillusioni, con le loro risposte e i loro dubbi. Solo passando attraverso questo silenzio umile dell’ascolto, sarà possibile per la testimonianza ecclesiale incontrare i giovani in carne ed ossa, in modo da offrire loro quel “giusto senso” dell’esistenza, che ha la sua origine in Dio e che Gesù Cristo intende donare a tutti».

Scienza e laicità

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Ieri, su L’indiscreto, ho trovato un articolo molto interessante in cui si tratta di scienza, religione, secolarismo, laicità. Si tratta della traduzione di “Why religion is not going away and science will not destroy it” di Peter Harrison (Laureate Fellow e direttore dell’Institute for Advanced Studies in the Humanities presso la University of Queensland. Il suo libro Narratives of Secularization è in uscita quest’anno). La traduzione è a cura di Francesco D’Isa.

Poco più di cinquant’anni fa, nel 1966, l’illustre antropologo canadese Anthony Wallace aveva fiduciosamente predetto la scomparsa della religione per mano del progresso scientifico: “La credenza nei poteri soprannaturali è destinata a estinguersi in tutto il mondo, a seguito della crescente precisione e diffusione delle conoscenze scientifiche”, – e la visione di Wallace non era un caso isolato. Al contrario, le scienze sociali moderne, che si sono sviluppate nell’Europa Occidentale del XIX secolo, interpretano la recente esperienza storica della secolarizzazione come un modello universale. Le scienze sociali presumevano (e talvolta prevedevano) una convergenza di tutte le culture verso un modello secolare che grosso modo somigliava alla democrazia occidentale liberale. Ma è accaduto quasi l’opposto.
Non solo la laicità non è riuscita a continuare la sua marcia globale, ma molti paesi come Iran, India, Israele, Algeria e Turchia hanno visto dei governi secolari cedere il passo a favore di governi religiosi, o perlomeno l’ascesa di influenti movimenti nazionalisti religiosi. La secolarizzazione, così com’era prevista dalle scienze sociali, ha fallito.
A dire il vero, il fallimento non è incondizionato. Molti paesi occidentali continuano a vivere il declino della fede e delle pratiche religiose. I più recenti dati censuari pubblicati in Australia, per esempio, mostrano che il 30 per cento della popolazione si identifica come “priva di religione”, e che questa percentuale è in aumento. Indagini internazionali confermano dei livelli relativamente bassi di religiosità in Europa occidentale e Australasia. Anche gli Stati Uniti, che sono spesso causa di imbarazzo per la tesi della secolarizzazione, hanno visto un aumento dell’ateismo. La percentuale di atei negli Stati Uniti si trova ora a un livello più alto (se “alto” è la parola giusta) di circa il 3 per cento. Nonostante questo però, il numero di persone che si ritengono religiose a livello globale rimane alto, e le tendenze demografiche suggeriscono che il modello generale dell’immediato futuro sarà di crescita religiosa. Ma questo non è l’unico fallimento della tesi della secolarizzazione.
Scienziati, intellettuali e sociologi pensavano che la diffusione della scienza moderna avrebbe portato alla secolarizzazione – che la scienza, insomma, sarebbe stata una forza secolarizzante. Ma non è stato così. Se guardiamo alle società in cui la religione è ancora vitale, le loro caratteristiche comuni hanno meno a che fare con la scienza e più con il senso di sicurezza esistenziale e di protezione da alcune delle incertezze fondamentali della vita, sotto forma di beni pubblici. Una rete di sicurezza sociale potrebbe essere correlata con i progressi scientifici, ma in modo impreciso, e ancora una volta è istruttivo il caso degli Stati Uniti. Gli USA, infatti, sono senza dubbio la società più scientificamente e tecnologicamente avanzata al mondo, e allo stesso tempo sono la più religiosa delle società occidentali. Come ha scritto il sociologo britannico David Martin ne Il futuro del cristianesimo (2011): “Non c’è alcuna relazione coerente tra il grado di progresso scientifico e la riduzione di influenza, fede e pratica religiosa”.

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Jawaharlal Nehru

La storia della scienza e della secolarizzazione diventa ancora più intrigante se si considerano quelle società che hanno avuto reazioni significative contro l’agenda laica. Il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru ha sostenuto ideali laici e scientifici, e ha inserito l’educazione scientifica nel suo progetto di modernizzazione del paese. Nehru era sicuro che il passato vedico indù e i sogni musulmani di una teocrazia islamica avrebbero ceduto entrambi davanti all’inesorabile marcia della secolarizzazione. “La Storia prosegue a senso unico”, ha dichiarato. Ma, come attesta l’aumento di indù e di fondamentalismo islamico, Nehru aveva torto. Inoltre, l’associazione della scienza all’agenda laica ha causato l’effetto collaterale di fare della scienza una vittima collaterale della resistenza alla laicità.
La Turchia è un caso ancor più rivelatore. Come la maggior parte dei nazionalisti pionieristici, Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica turca, era un laico. Atatürk credeva che la scienza fosse destinata a soppiantare la religione. Al fine di assicurarsi che la Turchia fosse sul lato giusto della storia, ha conferito alla scienza, in particolare alla biologia evolutiva, un posto centrale nel sistema di istruzione della nascente Repubblica turca. L’evoluzionismo e il secolarismo sono stati associati al programma politico di Atatürk. Di conseguenza i partiti islamici turchi, che cercano di contrastare gli ideali laici dei fondatori della nazione, hanno attaccato anche l’insegnamento delle teorie evolutive. Per loro, l’evoluzione è associata al materialismo secolare. Questo sentimento è culminato nella decisione dello scorso giugno di rimuovere l’insegnamento della teoria evolutiva dalle classi del liceo. Anche in questo caso, la scienza è diventata una vittima per via di un’alleanza sbagliata.
Gli Stati Uniti hanno un contesto culturale diverso, in cui potrebbe sembrare che la questione chiave sia il conflitto tra le letture letterali della Genesi e le caratteristiche fondamentali della storia evolutiva. Ma in realtà gran parte del discorso creazionista è incentrato su valori morali. Anche nel caso degli Stati Uniti, vediamo che l’anti-evoluzionismo è motivato almeno in parte dal presupposto che la teoria dell’evoluzione favorisca il materialismo secolare e la sua visione morale. Come in India e Turchia, di fatto la laicità sta danneggiando la scienza.
In breve, non solo la secolarizzazione globale non è inevitabile ma, quando accade, non è causata dalla scienza. Inoltre, quando si prova a usare la scienza per promuovere il secolarismo, i risultati rischiano di danneggiarla. La tesi che “la scienza causa la secolarizzazione” fallisce il test empirico e arruolare la scienza come strumento di secolarizzazione si rivela una pessima strategia. La scienza e il laicismo sono un’accoppiata così imbarazzante da farci chiedere: perché c’è ancora chi non se ne accorge?
Storicamente, le fonti che hanno avanzato l’idea che la scienza avrebbe soppiantato la religione sono due. In primo luogo, le concezioni progressiste della Storia del XIX secolo, in particolare quelle associate al filosofo francese Auguste Comte, che sostiene che le società passano attraverso tre fasi – religiosa, metafisica e scientifica (o “positiva”). Comte, che ha coniato il termine “sociologia”, voleva diminuire l’influenza sociale della religione e sostituirla con una nuova scienza sociale. L’influenza di Comte si è estesa fino ai “giovani turchi” e Atatürk.
Nel XIX secolo, inoltre, si è assistito alla nascita di un “modello conflittuale” tra scienza e religione. È la visione che la storia possa essere compresa nei termini di un “conflitto tra due epoche nell’evoluzione del pensiero umano – quella teologica e quella scientifica”. Questa descrizione viene dall’influente testo di Andrew DicksonWhite A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom” (1896), il cui titolo incorpora alla perfezione la teoria dell’autore. Il lavoro di White, così come il precedente “History of the Conflict Between Religion and Science” (1874) di John William Draper, fonda la tesi del conflitto come metodo standard per interpretare le relazioni storiche tra scienza e religione. Entrambe le opere sono state tradotte in più lingue. La Storia di Draper ha visto più di 50 edizioni nei soli Stati Uniti, ed è stata tradotta in 20 lingue. In particolare, è diventata un bestseller nel tardo impero ottomano, influenzando il pensiero di Atatürk che il progresso consista nella sostituzione della religione da parte della scienza.
Oggi, le persone sono meno fiduciose che la storia si muova attraverso una serie di tappe indirizzate a una destinazione comune. La maggior parte degli storici della scienza inoltre, nonostante la sua persistenza nel pensiero comune, rifiuta l’idea di un conflitto duraturo tra scienza e religione. Celebri scontri come il caso di Galileo, nascevano anche dalla politica e dalle personalità in campo, non solo dalla scienza e la religione. Darwin aveva significativi sostenitori religiosi e detrattori scientifici, e viceversa. Molti altri casi di presunto conflitto scienza-religione sono ora considerati invenzioni. La norma, infatti, è più spesso quella del sostegno reciproco. Nei suoi anni di formazione nel XVII secolo, la scienza moderna era basata sulla legittimazione religiosa. Nel corso del XVIII e XIX secolo, la teologia naturale ha contribuito a divulgare la scienza.
science_religion-e1487601998562.pngIl modello conflittuale tra scienza e religione ha offerto una visione sbagliata del passato, che, in combinazione con le aspettative della secolarizzazione, ha portato a una visione sbagliata del futuro. La teoria della secolarizzazione è fallita sia dal punto di vista descrittivo che predittivo. La vera domanda è perché esistono ancora sostenitori di questo conflitto. Molti di loro sono eminenti scienziati. Sarebbe superfluo ribadire le riflessioni di Richard Dawkins sull’argomento, ma non si tratta di una voce solitaria. Stephen Hawking ritiene che “la scienza vincerà perché funziona”; Sam Harris ha dichiarato che “la scienza deve distruggere la religione”; Stephen Weinberg pensa che la scienza abbia indebolito la fede religiosa; Colin Blakemore prevede che la scienza finirà per rendere inutile la religione. Le testimonianze storiche non supportano tali visione. Anzi, suggeriscono che siano fuorvianti.
Allora perché persistono? Le risposte sono politiche. Lasciando da parte qualsiasi predilezione per le pittoresche visioni della storia del XIX secolo, dobbiamo guardare alla paura del fondamentalismo islamico, l’esasperazione del creazionismo, l’avversione per le alleanze tra i religiosi di destra e i negazionisti del cambiamento climatico, le preoccupazioni circa l’erodersi dell’autorità scientifica. Anche se potremmo concordare con queste preoccupazioni, non c’è nulla di male nello smascherare il fatto che queste nascono da un’intrusione gratuita di impegni normativi nel dibattito. La speranza che la scienza sconfiggerà la religione non è un valido sostituto di una valutazione delle realtà presenti. Continuando con questa linea difensiva si rischia di ottenere un effetto opposto a quello voluto.
La religione non scomparirà presto, e la scienza non la distruggerà. Semmai, è la scienza che è soggetta a crescenti minacce alla sua autorità e alla sua legittimità sociale, motivo per cui ha bisogno di tutti gli alleati possibili. I suoi sostenitori farebbero bene a smettere di vedere un nemico nella religione, o insistere sul fatto che l’unica strada per il futuro si trovi in un connubio di scienza e laicità.

Quell’immorale di un ateo

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Su La lettura di domenica 13 agosto, a pagina 5, c’è un piccolo riquadro con un breve scritto di Marco Ventura dal titolo “Se sei ateo sei immorale”. Inevitabile che attirasse la mia attenzione. L’ho trovato online e lo ripropongo qui sotto con l’intenzione di farne oggetto di discussione nelle mie quinte trasformando l’ultima affermazione in un interrogativo.
“L’ateo è immorale, incline a commettere delitti, non degno di fede, incapace di costruire solide reti familiari e sociali. Negli ultimi decenni si è pensato che il pregiudizio negativo nei confronti degli atei sarebbe scomparso dalle società secolarizzate per confinarsi in aree ad alta densità religiosa, come i Paesi islamici in cui ancora oggi gli atei finiscono in prigione o sottoterra. Un gruppo di ricercatori guidato da Will M. Gervais, psicologo dell’Università del Kentucky, ha appena pubblicato sulla rivista «Nature Human Behaviour» uno studio che prova il contrario: il pregiudizio negativo sugli atei è vivo, anche in Occidente, persino tra gli atei stessi. La ricerca ha testato la convinzione che gli atei siano meno morali dei credenti su un campione di 3 mila persone nei cinque continenti: cristiani, musulmani ed ebrei, buddhisti e indù; negli Emirati arabi e nei Paesi Bassi, in Cina e in India. Con la sola eccezione di Finlandia e Nuova Zelanda, il pregiudizio è risultato ancora persistente. Il mondo si è secolarizzato, gli atei negli Stati Uniti sono uno su quattro secondo un recente studio dello stesso Gervais, eppure abbiamo ancora bisogno di Dio per sentirci morali.”

Turchia: quale laicità?

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Un articolo molto molto interessante di Chiara Maritato sulla Turchia, sulla laicità e sul ruolo religioso ed etico dell’Islam. La fonte è l’Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa.
In molti articoli che raccontano la Turchia di oggi, compare una narrazione che segue più o meno la seguente trama: nata dalle ceneri di un impero, dove regnava un Sultano/Califfo (kalifat rasul Allah, cioè rappresentante dell’inviato di Dio, e quindi successore di Maometto), la Turchia si è poi laicizzata con la proclamazione della Repubblica fondata il 29 ottobre del 1923 da Mustafa Kemal (che si farà poi chiamare, dal 1934, padre dei turchi, Atatürk).
Oggi, dopo quindici anni di governo conservatore religioso del partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), la Turchia si sta islamizzando. Questa visione, seppure molto diffusa, è incompleta. Come si “islamizza” una nazione la cui popolazione è per oltre il 90% di religione musulmana? La domanda può sembrare retorica, ma non lo è del tutto. Nell’aprile 2016, in un intervento che ha scatenato molte polemiche il Presidente del parlamento turco, Ismail Kahraman, ha affermato senza mezzi termini che la Turchia è uno stato a maggioranza musulmana e dovrebbe avere una costituzione religiosa.
Se è vero che il ruolo e il significato della religione nella sfera pubblica sono andati ridefinendosi, l’Islam non ha mai cessato di essere una componente fondante dell’identità turca. Inoltre, la laicità intesa come separazione tra stato e chiesa ha poco o niente a che fare con la laicità turca, laiklik. Principio costituzionale e valore fondante, ispiratore di politiche restrittive e di non pochi colpi di stato, il laiklik è lontano da una separazione tra stato e religione come due realtà a sé stanti. Al contrario, esso si presenta come principio assertivo in cui lo stato, attraverso il suo apparato burocratico e militare, controlla la religione relegandola alla sfera privata.
Un altro aspetto critico è che a livello istituzionale, a differenza di quanto talvolta si legge, la Repubblica turca non nasce laica. L’articolo 2 della Costituzione del 1924 afferma che “la religione della Repubblica è l’Islam”. Quest’articolo sarà emendato nel 1928, quando viene meno il riferimento alla religione, ma è solo nel 1937 che includerà la laicità tra i principi fondamentali della Repubblica. Questo ritardo non sorprende, se invece di concentrarsi esclusivamente sulle celebri misure per la modernizzazione volute da Atatürk, si considera la nascita della Turchia come stato-nazione alla luce del nazionalismo turco, un’ideologia che può essere sintetizzata in tre principi chiave: turchizzazione, occidentalizzazione e islamizzazione.
Nel 1925 sono proclamate una serie di leggi dette “Rivoluzionarie”, che impongono la chiusura delle confraternite sufi e delle comunità religiose e vietano il fez (copricapo ottomano). Durante i primi venti anni della Turchia Repubblicana, l’élite al governo è stata quindi impegnata nella missione di “rieducare” la popolazione a una morale civica e alle cosiddette sei frecce del kemalismo, elaborate nel 1931 (nazionalismo, populismo, repubblicanesimo, statalismo, rivoluzionarismo, laicismo). Questa “missione civilizzatrice” ha avuto l’obiettivo di modernizzare e occidentalizzare usi e costumi, anche negli aspetti più privati. A tale processo, noto in Turchia con il termine di “ingegneria sociale” (toplumsal mühendisliği) si sono contrapposte una serie di rivolte scoppiate tra il 1925 e 1930. Il regime ha risposto rafforzando il suo controllo autoritario contro una costante minaccia islamista (irtica). Tuttavia, le pratiche religiose “non-ufficiali” sono continuate clandestinamente nel quotidiano.
L’intento di educare la società a una modernità secolare non prevedeva la costituzione di una società senza religione. Quello che è spesso definito come Islam kemalista ufficiale versus l’Islam della tradizione e delle confraternite è da intendersi come il controllo dello stato su una religione da praticarsi in forma privata e il più possibile “razionale”. Un aspetto che spesso sfugge quando si analizza la prima secolarizzazione, è che il laicismo turco è stato un tentativo di re-islamizzare la società verso un Islam “nazionale”, “civile”, “ufficiale”, “puro” (doğru din) lontano dalla tradizione e dalla superstizione.
Uno degli strumenti con cui la Repubblica turca ha avviato questa trasformazione del religioso è indubbiamente il Direttorato per gli Affari Religiosi (Diyanet). A seguito della proclamazione della Repubblica nel 1923, il 3 marzo 1924 gli affari religiosi diventarono competenza di un’unità amministrativa, il Direttorato per gli Affari Religiosi. Il Diyanet è un organo statale il cui presidente è nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Primo ministro. Tra le sue principali competenze vi sono la gestione dei servizi riguardanti la fede, le pratiche islamiche e l’amministrazione dei luoghi di culto. Concretamente, il Diyanet supervisiona le attività che si svolgono nelle circa 90.000 moschee in Turchia, seleziona gli operatori di culto (che sono quindi dipendenti statali) e diffonde la dottrina religiosa, l’Islam sunnita di scuola hanafita.
Se è vero che nell’ultimo ventennio le competenze e risorse di questa istituzione pubblica sono profondamente mutate, la trasformazione del Diyanet fu avviata molto prima della vittoria dell’AKP alle elezioni del 2002. Nel 1965, la legge sull’organizzazione e i doveri del Direttorato elenca tra i compiti dell’organo quello di “illuminare la società sulla morale”. È dunque a partire dagli anni Sessanta che la sfera morale entra tra le competenze dirette dell’istituzione. Per restarci. Durante gli anni Settanta, e soprattutto dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, sarà anche attraverso la rete capillare del Diyanet, diffusa sul territorio nazionale e nelle comunità turche in Europa, che si consolida la cosiddetta “Sintesi turco-islamica”. Quest’ultima ha visto un utilizzo strumentale della religione come collante della società. Il Diyanet assunse dunque una funzione tutelare di contrasto ai movimenti di sinistra e al partito comunista. Infatti, la Costituzione oggi vigente, promulgata nel 1982 e figlia di quel colpo di stato, all’articolo 136 aggiunge tra le competenze del Direttorato quella di “promuovere la solidarietà e l’integrità nazionale”.
A partire dai primi anni 2000, e soprattutto dal 2010, una riorganizzazione interna ha rinforzato la capacità amministrativa del Diyanet. Il suo budget è oggi pari a più di 2 miliardi di dollari e conta circa 120.000 dipendenti. Nell’ultimo decennio, da protettore del laicismo di stato, il Diyanet è diventato una delle istituzioni più politicizzate, nonché uno degli strumenti attraverso cui diffondere nazionalismo turco e morale islamica, due componenti chiave su cui si fondano le politiche dell’AKP.
kocatepemosqueIn questo quadro si inserisce la volontà di formare una “nuova generazione di devoti”, come ha affermato in un celebre discorso del 2012 l’allora premier Erdoğan. Ad emergere è soprattutto il sostegno morale e spirituale che il Diyanet, tramite il suo personale maschile e femminile, fornisce alla popolazione. Questo avviene non solo nelle moschee dislocate in tutta la Turchia, ma anche in strutture pubbliche come ospedali, orfanotrofi, prigioni, località protette per donne vittime di violenza, riformatori. A seguito di accordi con i ministeri competenti, il personale del Diyanet si reca regolarmente in queste strutture pubbliche per svolgere attività di predicazione, lettura di Corano, guida spirituale (irşad) e sostegno morale.
Dal 2005, sono stati inoltre istituiti uffici del Diyanet con l’intento di fornire sostegno morale e guida spirituale a donne e famiglie (Aile Irşad ve Rehberlik Büröları). Si tratta di una sorta di consultori familiari, dislocati sul territorio nazionale, dove predicatori e predicatrici del Diyanet incontrano su appuntamento donne e famiglie, ascoltano i loro problemi, organizzano seminari e attività di formazione. Questi uffici sono forse la struttura che più di tutte incarna la volontà dello stato, attraverso il Diyanet, di appropriarsi di ambiti nuovi come il supporto morale.
L’educazione alla morale islamica e le misure conservatrici recentemente adottate – da ultima la decisione di rimuovere la teoria di Darwin dai libri di biologia riecheggiano, capovolgendolo, il tentativo di secolarizzazione dei costumi imposto dall’alto, da parte di uno “stato-padre” kemalista chiamato ad educare più che a governare. Tuttavia, la questione va oltre la ricerca di pronostici sul se e come l’Erdoğanismo riuscirà in una nuova impresa di “ingegneria sociale” volta ad una re-Islamizzazione. L’attuale riposizionamento dei confini tra stato e religione in Turchia si evince proprio dal ruolo assunto dalla religione nelle istituzioni pubbliche, in quanto insieme di pratiche oltre che di valori. Tuttavia, la piena realizzazione di una missione “moralizzatrice” solleva non poche perplessità. Nonostante l’ingente apparato burocratico e militare, il fallimento della modernizzazione kemalista invita a riflettere criticamente sugli strumenti e sull’efficacia delle politiche oggi in campo, nonché sugli scenari futuri.”

Cielo muto?

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Perché nessuno ci dice nulla? Sì, molti ci dicono qualcosa o qualcos’altro, ma sono uomini, e ne sanno quanto noi. Chi invece sa, se c’è, perché sta in silenzio? E se non c’è, il mistero di un cielo che c’è, e tace, non diminuisce. Che cos’è questo?

(redazione della rivista Diogene Magazine, n. 40-41 dicembre 2016)

Tra ragione e rivelazione

Il filosofo di origini tedesche Leo Strauss (divenuto statunitense dopo la fuga dalla Germania nazista) è al centro di un articolo di Mauro Bonazzi apparso domenica su La Lettura, l’inserto settimanale del Corriere della Sera. Vi si tocca il pensiero di Baruch Spinoza con qualche riferimento a quello di Friedrich Nietzsche. In rete l’articolo si può reperire sul blog dell’Associazione culturale Amore e Psiche.
Nietzsche ospite (inatteso) di Spinoza
La morte di Dio libera l’uomo o lo priva di ogni senso etico? Due classici visti da Leo Strauss nella crisi della modernità. Resta incerto l’esito del conflitto tra ragione e rivelazione. La fragilità degli ideali illuministi alla luce della terribile catastrofe di Weimar
baruch-spinozaCi si chiede sempre cosa sia un classico. Leo Strauss non avrebbe avuto dubbi: è chi aiuta a capire i problemi. Come Baruch Spinoza, ad esempio. Strauss gli si era avvicinato quasi per caso, su invito dell’Accademia per le Scienze del Giudaismo. Non se ne allontanò più. La ragione della lunga frequentazione è facile da intuire: chi meglio di Spinoza, emarginato dalla sua comunità per l’empietà delle dottrine professate, il pensatore radicale per eccellenza, poteva servire come guida per indagare il grande problema della modernità, lo scontro tra religione e filosofia (e scienza)? Lo Spinoza del Trattato teologico-politico è colui che più decisamente si era scagliato contro il principio di autorità e dunque la Rivelazione. Ma neppure lui era riuscito a riportare una vittoria definitiva. Quello che rende il suo attacco così interessante agli occhi di Strauss è il fallimento: neanche Spinoza è riuscito a dimostrare la superiorità di filosofia e scienza rispetto alle verità rivelate.
leo-straussCerto, riconosce Strauss, filosofia e scienza godono ormai di maggior prestigio, nel discorso pubblico, rispetto alle tradizioni religiose. Nel mondo disincantato (il riferimento corre ovviamente a Max Weber) in cui viviamo non c’è più posto per miracoli e profeti. Ma il maggior prestigio di filosofia e scienza rispetto alla religione non si fonda sulle basi solide di una confutazione autentica. Perché se è vero che la Rivelazione non riesce a sottomettere la filosofia, non meno vero è che la filosofia non riesce a debellare la Rivelazione: dimostrare (per via di ragionamento o ricorrendo all’esperienza concreta) che Dio non esiste è impossibile. Così come è impossibile dimostrare che esiste (è un fatto di fede, non di argomentazioni). Ed è questo che importa a Strauss: la persistenza della tensione tra due modi di considerare la realtà, diversi e incompatibili; è lo scontro tra Atene e Gerusalemme, come scriverà negli anni della maturità.
Ma già in quegli anni giovanili, l’analisi di Spinoza lo aveva aiutato a capire che la questione decisiva, in questo scontro, riguardava la (presunta) autonomia della ragione. Il progetto della modernità, che si propaga fino ai nostri giorni, si fonda sulla convinzione che la ragione umana basti per rendere adeguatamente conto della realtà, permettendoci di costruire un mondo di pace e benessere. Il progetto è nobile e ambizioso. Ma anche realizzabile? Strauss aveva iniziato le sue letture nel pieno della crisi di Weimar: una bella espressione, la Repubblica di Weimar, degli ideali illuministici, che però stava implodendo di fronte a una realtà che si rivelava più complicata, refrattaria a farsi irreggimentare secondo schemi e categorie moderni. Non sono diversi i problemi che stiamo affrontando oggi. Intanto Strauss era finito esule, come molti altri, ebrei e non solo.
Il testamento di Spinoza (Mimesis) contiene la prima traduzione italiana dei saggi che Strauss era venuto testamento-spinoza-2scrivendo su questo tema tra il 1924 e il 1932, a completamento dell’opera principale La critica della religione in Spinoza, uscita nel 1930, e chiarisce alcuni punti decisivi della sua interpretazione. In particolare, questi lavori aiutano a meglio comprendere l’importanza della presenza di un ospite inatteso, a cui Strauss continuamente pensa quasi mai nominandolo. Friedrich Nietzsche. Senza di lui non si può capire che cosa sia davvero in gioco.
L’ateismo di Spinoza (perché a questo conduceva il suo razionalismo radicale) nasceva con un intento liberatorio, facendo propria la battaglia di Epicuro contro la paura degli dèi. Dobbiamo liberarci di Dio per smettere di vivere nel terrore, e tornare a guardare serenamente il mondo che ci circonda; seguendo le leggi della natura, non asserviti alla minaccia del peccato. Con Nietzsche si comprende che il vero problema è un altro: come pensare a un mondo senza Dio? Questa è la sfida a cui la rivoluzione scientifica, di cui sia Nietzsche sia Spinoza erano convinti sostenitori, ci invita. Liberati dal giogo degli dèi, gli uomini si sono fatti padroni del loro destino. Per farne cosa? Il Dio biblico, il creatore del cielo e della terra, era anche il garante dell’esistenza del bene e del male. Nell’universo retto dalla provvidenza divina vigeva la fiducia che esistessero valori oggettivi come il bene o la giustizia, a cui rifarci per le nostre decisioni. La morte di Dio mette in crisi la fondatezza di questa convinzione: dove contano solo le leggi fisiche di causa ed effetto ha senso parlare ancora di bene o male?
Qualche anno fa Leo Strauss ha goduto di un’improvvisa notorietà, diventando oggetto di critiche veementi e adesioni incondizionate, in un clima quasi da stadio (soprattutto negli Usa). Questo perché si riteneva che il suo pensiero politico stesse alla base dell’ideologia neo-conservatrice della presidenza di George W. Bush. Molti suoi allievi, in effetti, hanno occupato cariche di rilievo nell’amministrazione repubblicana. Ma le interpretazioni solo politiche della sua filosofia sono inutilmente riduttive. Il suo interesse è altrove: in un pensiero inattuale, capace di illuminare le questioni del presente grazie a una ripresa degli antichi — gli ultramoderni, li chiamava lui.
Sono celebri le due definizioni aristoteliche dell’essere umano: l’animale razionale e l’animale politico. Per natura tendiamo tutti al sapere, si legge all’inizio della Metafisica: conoscere, trovare il senso di ciò che siamo e di ciò che ci circonda, esprime un aspetto essenziale della nostra natura. Ma, a differenza di tanti altri animali, non possiamo vivere da soli, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri: siamo politici nel senso che viviamo sempre insieme (questa è la Politica). Sembra banale ma non lo è, perché desiderio di conoscenza e rispetto delle norme etico-politiche non sempre vanno d’accordo. Oggi lo sappiamo fin troppo bene. La ricerca scientifica procede impavida verso scoperte sempre più meravigliose, offrendoci possibilità fino a poco tempo fa impensabili. Che uso fare però di queste scoperte? Ci sono dei limiti per la ricerca? E chi li stabilisce?
Con altri termini, discutendo di vita contemplativa (dedicata alla conoscenza) e di vita attiva (dedicata alla politica), sono gli stessi problemi di cui si preoccupava Aristotele, seguito dai filosofi medievali che avrebbero poi influenzato Spinoza (l’ultimo degli ultramoderni, in fondo, perché consapevole di questa tensione insormontabile). L’impulso inestirpabile a conoscere che caratterizza i sapienti, nella misura in cui mette in discussione tutti i valori su cui si fonda la città, non rischia di essere eversivo? Forse che Socrate è stato condannato giustamente? Sono domande inquietanti, che almeno ci aiutano a chiarire la portata dei problemi — di problemi che sembrano scontati e che poi si scoprono d’impervia risoluzione. A questo servono i classici, come ha insegnato Leo Strauss, e per questo conviene continuare a leggerli.”

Giovani e fede

piccoli ateiGiovani e fede, giovani e religione, giovani e chiesa. Sono tutti temi toccati da una ricerca che ha dato origine ad un libro qui presentato da Umberto Folena per Avvenire.
Le fila dei giovani credenti si stanno assottigliando. Veramente convinti e attivi sono ormai poco più del 10 per cento, rispetto al 15 di vent’anni fa. Ma le opposte tifoserie farebbero bene a contare fino a dieci prima di stracciarsi le vesti le une ed esultare le altre. Il libro di Franco Garelli, infatti, va letto nel titolo ma anche nel sottotitolo: Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? (Il Mulino, 231 pagine, 16 euro), e sembra costruito apposta per dar di che meditare agli uni e agli altri, come sempre – e purtroppo è sempre più raro – quando ci troviamo di fronte a onesta sociologia e non ad agguerriti pamphlet.
La ricerca guidata da Garelli, con la collaborazione di Simone Martino, Stefania Palmisano, Roberta Ricucci e Roberto Scalon, ha tutti i crismi dell’attendibilità. Si basa su due ricerche realizzate nel 2015, una quantitativa svolta dall’Eurisko, che ha avvicinato un campione nazionale di 1450 giovani tra i 18 e i 29 anni, e una qualitativa con 144 interviste approfondite dirette a studenti universitari di Roma e Torino. E fotografa una realtà di fronte alla quale alcuni, comunque troppi nella Chiesa stessa preferiscono forse voltare lo sguardo. Non soltanto la schiera dei non credenti aumenta (oggi comprende il 28 per cento dei giovani), ma non ha più remore nel dichiararsi tale, come se in Italia stesse venendo meno l’esigenza di una cittadinanza religiosa.
La “non credenza”, però, è categoria “ombrello” porosa, dove si annidano molte definizioni e sensibilità. A grandi linee ci sono almeno due generi di atei, i “forti” e i “deboli”. I primi manifestano una duplice convinzione: è impossibile conoscere ciò che supera l’esperienza umana; e non c’è bisogno di Dio per condurre una vita sensata. Costoro costituiscono lo zoccolo duro della non credenza. Gravitano dalle loro parti gli atei “deboli”, coloro che «negano Dio più per le pressioni del proprio ambiente di vita che per specifiche convinzioni personali, uniformandosi al sentire diffuso tra i coetanei che frequentano, quasi fosse una moda culturale che si fa propria per emanciparsi da un legame religioso che i più considerano antimoderno». Gruppo difficile da afferrare in ogni sua sfumatura, questo. Ci sono gli apatici e disinteressati, ma anche quanti si tengono ai margini della religione senza spezzare del tutto il legame, non ostili alla fede ma attenti a non farsi coinvolgere.
E all’interno dell’appartenenza cattolica? C’è una minoranza convinta e attiva. In questi giorni l’abbiamo vista a Cracovia. Ma c’è anche l’appartenenza debole di chi esprime il proprio cattolicesimo più nelle intenzioni che nel vissuto; o chi aderisce alla religione cattolica per motivi identitari, in cerca di sicurezza in un mondo plurale che disorienta. Sono perlopiù i giovani dalla pratica religiosa discontinua, da un rapporto con la fede “fai da te”.
Nulla, nulla davvero appare scontato ed è difficile affermare che ciò sia negativo. La ricerca continua di senso abita anche e soprattutto il mondo dei convinti e attivi. Erano tali anche alcuni (molti?) di quanti oggi si dichiarano decisamente atei, o “non credenti”, e hanno abbandonato la Chiesa dopo avervi condotto un percorso formativo, più o meno intenso, e sono stati introdotti alla fede in famiglia. Il fatto è che profili e percorsi si mescolano. I giovani di diverso orientamento non vivono separati, ma fanno parte degli stessi gruppi, si confrontano, accettando e rispettando la «biodiversità religiosa». Ci sono atei incalliti e credenti granitici che si evitano; ma molti di più sono «i giovani (credenti e non) attenti gli uni alle buone ragioni degli altri, delineando una possibile convivenza pur nella diversità degli orizzonti».
E allora, va peggio o addirittura meglio rispetto ai tempi in cui la società italiana poteva essere definita “cattolica”, e la frequenza ai sacramenti riguardava la maggioranza della popolazione anche giovanile? Domanda mal posta perché il confronto è impossibile. Non si possono paragonare due società tanto diverse. Ieri era praticamente impossibile non credere in Dio o dichiararsi anche soltanto dubbiosi; oggi non più. Ogni giovane credente lo è non per routine o prassi sociale, ma per convinzione.
E la Chiesa, e papa Francesco? Le critiche più frequenti all’istituzione sono l’inadeguatezza, il fatto di essere antiquata in campo etico, gli scandali rilanciati generosamente dai mass media. Nessun giovane denuncia un’educazione repressiva (la mala educación), una religione punitiva e colpevolizzante, preti e suore da evitare in quanto tali. E non è raro vedere “non credenti” a fianco di volontari della Caritas, o in una Ong d’ispirazione cattolica, perché solo lì possono sentirsi utili per una giusta causa. C’è comunque apprezzamento (anche da parte di molti non credenti) per la Chiesa locale, che tiene aperti gli oratori ed è presente nei luoghi di frontiera.
E Francesco? Almeno un giovane su due riconosce di essere stato spinto da lui «a riavvicinarsi alla fede o ad aumentare il proprio impegno religioso». Ma «non tutto fila liscio». Un Papa che parla chiaro finisce anche per dividere, ad esempio sulla questione migratoria, e c’è chi gli rimprovera di dedicarsi troppo ai temi sociali e poco al senso del sacro e alle ragioni dello spirito. Una società plurale è inevitabile che sia abitata da una Chiesa plurale. Quanto poi la cattolicità riesca a dialogare con la biodiversità, senza scontrarsi con lei né perdendo se stessa, questo è un altro tema tutto da esplorare.”