Stupore, meraviglia, incanto

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Negli ultimi mesi, in vari confronti con colleghe e colleghi, ho messo in evidenza una difficoltà nella quale mi imbatto da circa due-tre anni a questa parte: faccio fatica a destare lo stupore in classe. Non voglio certo generalizzare, ma mi capita sempre più spesso di incrociare sguardi attoniti o volti inespressivi davanti a racconti o testi o filmati che dovrebbero far esclamare “oooooooh” (ricordo la meraviglia di qualche tempo fa quando mostravo uno di quei filmati che mostrano il passaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e viceversa). Ho attribuito la colpa alla disponibilità, cresciuta moltissimo negli ultimi anni, di tutto questo materiale on-line e alla sua facile fruibilità: insomma la sensazione che tutto è già stato visto, tutto è già stato detto. Magari non ci si è soffermati a riflettere, e ora, che è venuto il momento di farlo, è un ragionare “a freddo”, senza la spinta emozionale. Poi, però, mi capita di leggere in una classe prima, il testo scritto da una ragazza appena uscita dalla quinta, un testo che parla di amicizia, di vita, di morte, di amore e di passione per la vita. E molte/i si emozionano e hanno gli occhi rossi. Allora mi è venuto in mente quel testo di Alessandro D’Avenia scritto un mesetto fa per il primo giorno di scuola e che mi ero promesso di riprendere. E’ venuto il momento… Lo prendo dal suo blog (è stato pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica settimanale “Ultimo banco”).

“Non sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare, in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro. Per questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata, neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che orienta il nostro individuarci, cioè scoprire in che cosa siamo unici e irripetibili. E proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole. Chi invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista. A scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto. Perché?
La scuola non è un edificio (sarebbe troppo poco) ma ogni spazio-tempo della storia in cui incontriamo ciò che ci meraviglia. Si dà scuola – a volte anche a scuola – ovunque accada lo stupore, cioè un incontro reale con il mondo. Il primo giorno di scuola non è quindi l’inizio di un susseguirsi di ore a cui resistere in vista del prossimo ponte, ma una metafora del «senso della meraviglia». Come allenarlo? Cominciamo con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza gioia. Così avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino. Per questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il suo libro di poesie «A Responsibilty to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale. Chi non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino, responsabilità. Perché avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze. Un ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu, proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile? E quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto? Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi, semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane. Lo stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van Gogh). E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione. Chiedere «per raccontare quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come diciamo che lo è la scuola per lui.”

Qui e ora, ma anche altrove

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Sull’ultimo numero del settimanale diocesano La Vita Cattolica compare un editoriale del dirigente Luca Gervasutti sulla proibizione dello smartphone a scuola. Nell’istituto in cui insegno, a partire dal secondo anno è previsto l’utilizzo dell’iPad. Da molto tempo abbiamo visto succedere per i tablet quello che scrive il dirigente a proposito dello smartphone “È innegabile che gli smartphone catturino la concentrazione e che la notifica diventi un riflesso condizionato”. Quindi non sarà certo con la proibizione di uno specifico dispositivo che si risolveranno i problemi. Lascio qui l’editoriale, poi, in fondo, propongo un testo che ogni tanto leggo in classe.

“Vietare lo smartphone a scuola è diventato il mantra di questi mesi. Lo si presenta come la soluzione più rapida a problemi che angustiano genitori e insegnanti: distrazione, perdita di attenzione, difficoltà relazionali. È un discorso che funziona perché offre risposte immediate, ma proprio questa immediatezza ne rivela il limite: confonde sintomo e causa, strumento e sistema. Lo smartphone non è il nemico, è lo specchio di una società che corre senza tregua, che trasforma ogni gesto in prestazione e ogni momento in contenuto da condividere. Dentro questo orizzonte accelerato, il cellulare diventa l’interfaccia più evidente, non la radice del problema.
Il divieto rischia allora di trasformarsi in un alibi: tranquillizza gli adulti, ma non educa i ragazzi. Appena varcata la soglia scolastica, i dispositivi tornano nelle loro mani, pronti a scandire giornate fatte di notifiche e messaggi incessanti. Pensare di risolvere il problema eliminando l’oggetto è come curare la febbre rompendo il termometro. La vera sfida non è allontanare lo strumento, ma imparare a governarlo. Se la scuola non insegna l’uso consapevole di ciò che scandisce la quotidianità giovanile, chi potrà farlo?
Chi invoca il divieto lo fa spesso in nome dell’attenzione. È innegabile che gli smartphone catturino la concentrazione e che la notifica diventi un riflesso condizionato. Ma la distrazione che viviamo non nasce dal cellulare: è figlia di un sistema che ci spinge a correre sempre più veloce, a rispondere a mille stimoli contemporanei. Una distrazione sistemica, che lo smartphone amplifica senza inventarla. Vietarlo a scuola significa rimuovere il sintomo ignorando la malattia.
La scuola non può sottrarsi al compito di insegnare a gestire la velocità che caratterizza il nostro tempo, ma deve anche farsi luogo di educazione alla lentezza, alla riflessione e alla capacità di distinguere ciò che merita attenzione da ciò che è solo rumore di fondo. Leggere senza interruzioni, discutere senza notifiche, scrivere a mano non sono esercizi nostalgici, ma strumenti necessari per allenare competenze che nessun dispositivo potrà sostituire. In questo senso la scuola deve però offrire l’esperienza della lentezza non come rifiuto del digitale, ma come condizione per usarlo liberamente e con consapevolezza. L’errore più diffuso consiste nel ridurre la questione a un aut aut, come se dovessimo scegliere tra un mondo analogico da difendere e un universo digitale da respingere o, al contrario, da abbracciare senza spirito critico.
La formazione dei giovani richiede invece entrambi i linguaggi: la pazienza della scrittura a mano e la rapidità della tastiera, la concentrazione su un libro cartaceo e l’apertura offerta dalla Rete, la profondità dell’esperienza analogica e la reticolarità degli strumenti digitali. È un bilinguismo cognitivo che la scuola ha il dovere di coltivare, perché solo dalla loro coesistenza può nascere uno sviluppo armonico dei ragazzi.
Questo non significa spalancare le porte agli schermi senza regole. I limiti restano indispensabili, ma c’è una differenza profonda tra proibire ed educare. Il divieto dall’alto genera soltanto sotterfugi, mentre un contratto educativo condiviso trasforma il limite in responsabilità. Se un ragazzo comprende perché in certi momenti il cellulare va lasciato da parte, se percepisce la rinuncia come costruttiva e non punitiva, allora quel limite diventa apprendimento. È in questo equilibrio che si costruisce la cittadinanza digitale.
L’equivoco di fondo è credere che la scuola debba proteggere i ragazzi dal presente. Non è così: la scuola deve fornire strumenti per affrontarlo. Togliere lo smartphone non basta; occorre imparare a conviverci, usarlo con consapevolezza, mettergli confini, non subirne il richiamo incessante. Solo così lo si trasforma da minaccia in risorsa.
Vietare è facile, educare è difficile. Ma se la scuola rinuncia a educare proprio sugli strumenti che plasmano la vita dei ragazzi, a cosa serve? Meglio affrontare la complessità che rifugiarsi nella scorciatoia del divieto. Non è spegnendo i cellulari che renderemo gli studenti più liberi: lo diventeranno quando sapranno gestirne tempi e modi, distinguendo connessione da dipendenza, uso da abuso. In un mondo che accelera e frammenta, il vero compito educativo non è eliminare lo smartphone, ma insegnare a dominarne i ritmi e a restituire dignità all’atto di scegliere.”

Mi è capitato spesso di riflettere in classe sul potere distraente delle notifiche; mi è anche capitato di raccontare che le notifiche, io, da studente, non ce le avevo. Però tenevo sotto il banco o nello zaino libri e spesso, durante le lezioni, scrivevo poesie o racconti. Non lo facevo sempre: scappavo con la mente quando mi annoiavo, quando non provavo interesse per quello che si faceva in classe. Certo, forse il mio era un atto più consapevole e voluto rispetto alla notifica che può “venire incontro”, ma la testa comunque staccava da quello che si stava facendo. Si rifugiava in un altrove e non nascondo che quell’altrove spesso è stato salvifico: perché era mio, perché me l’ero costruito io, perché era frutto delle mie parole, delle mie paure, dei miei sogni. Non era un passare il tempo a scrollare Tiktok, a passare in rassegna la vita degli altri: quello è un altro tipo di altrove. Ecco allora un testo che a volte leggo in classe, per cercare di comprendere che esistono diversi tipi di altrove e che non tutti sono malati, che può esserci un’educazione alla consapevolezza e alla responsabilità. Che lo smartphone, in fin dei conti, è un mezzo: decidiamo noi se e quando utilizzarlo, decidiamo noi se farne uno strumento per andare verso un altrove autentico o un altrove fantomatico.
“Pensaci.
Siamo tutti malati, di un male sottile e persistente.
Una malattia che agisce in sordina, che apparentemente non fa alcun rumore.
Io la chiamo ‘la malattia dell’altrove’.
Siamo sempre in un indefinito altrove: un altro tempo, un altro luogo, altre persone.
Al tavolo con amici e siamo al cellulare a scrivere all’amica (e poi, quando siamo con quell’amica, magari scriviamo a qualcun altro).
Relazioniamo il nostro tempo ad un tempo andato. “Si stava meglio prima”, “quando ero più giovane”, “se solo avessi”, “chissà come sarebbe stato”. Oppure siamo in proiezioni future. Gli impegni del giorno dopo, le preoccupazioni per il lavoro, l’attesa spasmodica e persistente di una felicità posticipata, sempre, ad un momento “da venire”.
Quando avrò la macchina,
Quando avrò la laurea,
Quando avrò il lavoro,
Quando avrò una relazione,
Quando avrò una casa,
Quando avrò dei figli.
Per poi, inevitabilmente, spostarci in un ulteriore “altrove” quando li avremo ottenuti.
È così che schiacciamo e mortifichiamo ogni giorno il nostro tempo, la nostra vita, il respiro del nostro Adesso.
Un ‘oggi’ che ogni giorno perde energia ed entusiasmo.
Ecco.
È un modo eccellente per rendersi infelici, delegando aspettative e attese ad uno spazio “oltre” che ha la consistenza di un puro pensiero.
Domani non esiste. Domani sarà, tra 24 ore, un nuovo oggi. E oggi sarà quello che domani chiamerai ieri. Lo osserverai con nostalgico rammarico e dirai “se solo avessi..”, “chissà come sarebbe stato se..”.
E allora?
Vuoi ancora prenderti in giro, perdendoti nei meandri degli “altrove” e delle possibilità perdute o scegli di agire, oggi?
Ovunque tu sia, devi esserci davvero.
Ciascun momento è unico e, croce e delizia, non ritornerà più.
È il tuo tempo, la tua vita.
Ed è Adesso.”
Oscar Travino. Sette Secondi: Pensieri liberi di uno psicoterapeuta (pp.11-12). Edizione Kindle.

Si può non fare

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Ho da poco terminato il libro “L’uomo oltre l’uomo. Per una critica teologica a transumanesimo e post-umano” di Tiziano Tosolini. La lettura è stata molto piacevole e stimolante. All’interno varie chicche. Ne riporto una, che in realtà è una citazione del filosofo italiano Giorgio Agamben dal suo libro Nudità:
“Paradossalmente la non accettazione della propria impotenza toglie all’uomo la sua vera e propria dignità: “impotenza” non significa qui soltanto assenza di potenza, non poter fare, ma anche e soprattutto “poter non fare”, poter non esercitare la propria potenza. Separato dalla sua impotenza, privato dell’esperienza di ciò che può non fare, l’uomo odierno si crede capace di tutto e ripete il suo gioviale “non c’è problema” e il suo irresponsabile “si può fare”, proprio quando dovrebbe invece rendersi conto di essere consegnato in misura inaudita a forze e processi su cui ha perduto ogni controllo. Egli è diventato cieco non delle sue capacità, ma delle sue incapacità, non di ciò che può fare, ma di ciò che non può, o può non, fare” (pag. 82).
Tecnologia, bioetica, politica, sport, lavoro, competitività … a tanti ambiti può essere riferito il testo sopra riportato. Buona riflessione.

Tra determinismo e libero arbitrio

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Maddalena Feltrin è allieva della Scuola Superiore di Toppo Wassermann di Udine. Recupero un suo pezzo di un mese fa, scritto per Treccani. Il tema è di nuovo quello delle scelte, del libero arbitrio e del determinismo. Ci vuole un po’ di concentrazione, ma gli interrogativi che suscita sono numerosi e interessanti, così come le possibilità di approfondimento.“

Accettando l’analisi che viene proposta da alcuni neuroscienziati come J.D. Haynes e B. Libet, si è costretti all’ammissione di una visione deterministica del mondo, ossia la concezione della realtà per la quale tutti i fenomeni sono collegati l’un l’altro secondo un ordine necessario e invariabile. In altre parole, in natura, data una causa o una legge, può verificarsi soltanto un certo effetto o un particolare fenomeno e non un altro. Nell’Universo non c’è spazio per una variazione spontanea né per il perseguimento di una libera scelta.
Questa visione del mondo comporta degli effetti su molti aspetti del nostro approccio alla vita, ed è emblematico il caso della legislazione, che necessita di essere completamente rivista. La legge è, infatti, basata sull’idea che le persone siano responsabili delle loro azioni (tranne in eccezionali occasioni) ma, se ogni prassi umana è ricondotta a prevedibili schemi di risposta a degli stimoli, non si può più pensare di punire un uomo: egli, ontologicamente, non ha mai preso una vera decisione! Conseguentemente, la negazione del libero arbitrio mette in discussione l’esistenza stessa del sistema giuridico e di qualsiasi forma normativa.
Di fronte a questa conclusione, alcuni filosofi come T. Nagel, P. van Inwagen e C. McGinn ribadiscono l’importanza dell’intuizione della libertà. Essa è la condizione ineliminabile dei giudizi morali e lo stesso Haynes ammette come – non appena si comincia ad interpretare il comportamento delle altre persone – sia virtualmente impossibile credere che esse non stiano attivamente prendendo delle decisioni. Siamo, quindi, condannati a credere nella libertà, anche se abbiamo buone ragioni per pensare deterministicamente. Pertanto, dobbiamo – a loro detta – ammettere il paradosso di dover credere a qualcosa la cui esistenza sembra impossibile da provare: come scrive Inwagen, «il libero arbitrio sembra […] essere impossibile. Ma sembra anche che il libero arbitrio esista. Perciò l’impossibile sembra esistere».
Per rispondere a questa contraddizione, il biofisico H. Atlan recupera il senso di responsabilità del singolo in una visione deterministica con un confronto tra le neuroscienze e Dio. Egli, riprendendo la visione spinoziana della mente e del corpo intesi come aspetti diversi della stessa sostanza, sviluppa il suo pensiero a partire da un verso in un antico trattato ebraico, Capitoli dei padri 3:15 (Pirkei Avot, ndr): Tutto è previsto ma viene concesso il permesso [di scegliere];
e, successivamente, utilizza nella sua argomentazione un passo dal Salmo di Davide (Ps 141:4):
Non inclinare il mio cuore ad alcuna cosa malvagia,
per commettere azioni malvagie con i malfattori,
e fa che io non mangi delle loro delizie.

In questi passaggi delle Sacre Scritture, infatti, l’uomo non percepisce di aver determinato le proprie azioni, ma viene ugualmente definito responsabile di esse. Davide, infatti, sembra quasi accusare Dio di manipolazione o inclinazione perversa, implicitamente dichiarandolo ‘autore’ delle sue azioni malvagie – ma ciò è impossibile, in quanto all’Altissimo non può essere attribuito alcun atto ingiusto. La spiegazione teologica che viene data in risposta a questo paradosso è la stessa che si può utilizzare per recuperare il senso di responsabilità in una visione deterministica su base scientifica: dal momento che la libertà di scelta è puramente un’illusione, gli uomini possono solamente osservare l’agire di una forza esterna nel loro stesso corpo. Contemporaneamente, tuttavia, sono ritenuti imputabili di qualsiasi loro pensiero e gesto in quanto essi stessi si illudono di poter scegliere. Inoltre, non sarebbe possibile giudicare moralmente un agente non umano (che sia Dio o la legge di natura delle cose): la preghiera del re di Israele non è una critica morale all’Onnipotente, ma è una supplica che semplicemente riflette il modo con cui Dio opera e ‘funziona’. Le azioni divine non sono il risultato di una scelta etica, ma sono un modo di essere. Il senso di responsabilità implicato nelle nostre azioni è qualcosa che appartiene alla nostra logica, e che ha senso solamente se si mantiene separato dal concetto di determinismo neurale. Anche se la possibilità di scelta, in senso assoluto, potrebbe essere un’illusione, il concetto di responsabilità è perfettamente reale.
Questi due piani possono essere distinti più facilmente nella lingua inglese, che distingue tra consciousness e conscience: con la prima si intende ‘coscienza di sé, consapevolezza di esser vivi’, con la seconda invece la sensibilità etica dell’individuo. Conseguentemente, si può mantenere una responsabilità per ciò che accade attraverso il proprio corpo, indipendentemente dal controllo della consciousness (riservato a Dio, o al naturale corso degli eventi), ma nella loro piena acquiescenza in una fase di conscience. Tuttavia, il concetto rimane per noi sfuggente e difficile da accettare in quanto queste due funzioni, nei fatti, operano come un unico sistema integrato e con assoluta interdipendenza tra le parti.”

La difficoltà di scegliere

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Quello delle scelte, oltre che essere un argomento tipico del terzo anno, è uno dei temi di cui si parla più frequentemente in classe. Ne scrive Alice Nanni, studentessa magistrale in Neurobiologia, sulla rubrica Chiasmo di Treccani.

“Non c’è niente di più umano della scelta, un concetto trasversale che di taglio attraversa tutti i livelli di realtà della nostra esistenza assumendo connotazioni via via diverse.
Compare già multiforme nella storia delle tradizioni filosofico-religiose: Eva può non mangiare la mela poiché ha in dono il libero arbitrio; nel buddhismo si sceglie la rinuncia per raggiungere il nirvana; nell’induismo le azioni compiute in vita determinano la successiva reincarnazione in base al karman accumulato; nei miti norreni l’eroe o l’eroina paradossalmente scelgono il loro destino, o meglio accolgono ciò che è predeterminato per loro. Anche al di fuori della sfera spirituale la natura umana rimane intrinsecamente dominata dalla scelta. Kierkegaard, ad esempio, sostiene che la possibilità di scegliere non sia «la ricchezza, bensì la miseria dell’uomo» e considera il libero arbitrio il suo limite e la sua disperazione. Forse non sorprende che la sua dissertazione su questo vuoto che si para di fronte all’homo, in bilico davanti al futuro, si risolvesse tutta nella fede in Dio. Infatti, per secoli il bisogno di spiegare il mondo, l’esistenza e l’Io, e di rispondere alle domande senza una facile risposta è stato dominio delle religioni, sopravvissute allo scientismo, all’Illuminismo, al razionalismo e perfino a Nietzsche. La domanda da farsi a questo punto è: riescono ancora a resistere nel tecno-capitalismo del ventunesimo secolo?
Circoscrivendo lo sguardo alla parte di mondo definita Occidente, è innegabile che stiamo attraversando una crisi della spiritualità e delle credenze. In un’indagine dell’Istituto di Ricerca Eurispes del 2024, molti giovani tra i 18 e 30 anni hanno valutato la religione come uno degli ultimi valori per priorità nella propria vita: è risultata “molto importante” o “importante” solo per il 38,7%, a fronte del 90,6% ottenuto dalla voce “democrazia”. I report di diversi Osservatòri in merito alla questione mostrano che il trend è di allontanarsi dalle istituzioni religiose per cercare la propria spiritualità in una nuova dimensione fluida, indefinita e autonoma. In un mondo che ha perso le sue coordinate assolute, ognuno è lasciato alla sua personale interpretazione del reale: la capacità di scegliere si inserisce così in uno spazio senza assi cartesiani, in cui lo spaesamento interiore va a braccetto con una società neoliberale della performance e della produttività, in cui ogni occasione è un’opportunità da sfruttare.
Parlare di spiritualità e di individualità significa parlare inevitabilmente di collettività. Gli ultimi decenni hanno visto affastellarsi una rivoluzione tecnologica dopo l’altra, con una spinta al profitto che, se in un primo momento ha generato un clima di speranza e prosperità, ha presto rivelato l’altra faccia della medaglia, quella brutta. L’insostenibilità di questo modello omnicomprensivo può essere esemplificata attraverso un’analisi intergenerazionale che si ispira al pensiero di Maura Gancitano. La generazione Boomer è figlia del primo modello liberale — quando ancora era possibile crederci —  e vive intrisa della retorica liberal-calvinista del se vuoi puoi, sostrato di una visione di successo secondo cui il benessere coincide con un lavoro, non importa quanto faticoso e totalizzante, che garantisca di che vivere e un po’ di più. La generazione dei Millennial è la prima a mettere in crisi questo ideale: le crisi finanziarie, il ricambio sempre più veloce di un mercato libero fondato sulla moneta e non sull’essere umano, e le aspettative calate dall’alto intaccano la narrazione dominante. Gli eredi naturali di questo processo sono i giovani e le giovani della Generazione Z (1999-2014), che portano ancora più avanti la rottura.
Una caratteristica specifica dei cosiddetti nativi digitali è l’espressione della propria identità online, una para-realtà che se interrogata in modo intelligente restituisce uno spaccato interessante dell’attualità. In modo non esaustivo, possiamo citare due macro-trend che vivono nello spazio virtuale e che inevitabilmente mantengono un rapporto bidirezionale con la realtà. Da un lato troviamo l’insofferenza per la retorica del lavoro come priorità: la tendenza era già emersa con il periodo delle Grandi Dimissioni, conseguenza del lockdown degli anni ‘20, ma la ricerca di strade alternative e la denuncia di una cultura lavorativa vecchia e abusante si rafforzano di giorno in giorno. Dall’altro lato abbiamo la FOMO (fear of missing out).
Per quanto la disuguaglianza sociale e la povertà assoluta siano in aumento, osservando a volo di uccello l’evoluzione socioeconomica dell’ultimo secolo, risultiamo essere generalmente più ricchi. O almeno, secondo un modello iper-consumista, abbiamo più soldi per poterne spendere di più. Sta di fatto che, mettendo da parte il discorso di classe, lo stile di vita del cittadino medio è profondamente cambiato e si è arricchito della dimensione del tempo libero, delle ferie, del viaggio di piacere. A cascata le nuove generazioni hanno ricevuto in eredità la possibilità di essere molte più cose, almeno in potenza. Lo sappiamo e veniamo esposti a questa consapevolezza quotidianamente, con un flusso continuo di vite altrui sullo schermo, che mostra quante cose si possono fare, quante cose si possono essere. Insomma, è sicuramente cambiato il modello di riferimento ma è altrettanto vero che l’idolo del “tutto è possibile” è continuamente ingrassato dal confronto con l’altro, che si propone come immagine in negativo di tutto ciò che tu NON sei.
Spopolano reels su Instagram e video su Tiktok di persone in stanze immacolate, che recitano: «POV: hai 20 anni e ogni giorno sei indecisa se fondare una start-up, lasciare tutto e viaggiare il mondo in un van, iniziare un master o scrivere poesie». Che sia realistico o meno, chiunque di noi è esposto a questa potenzialità immaginativa infinita e, in una spirale di overthinking, la tua vita finisce per assumere l’aspetto di una nave senza timone, che speri naufraghi prima o poi sull’isola giusta. L’ambito universitario è forse la massima espressione di questa parabola. Continuare il percorso di studi significa anche prolungare quel limbo in cui (quasi) tutto è ancora accessibile; perciò, tantissime persone finiscono per concludere il ciclo di studi trovandosi di fronte qualcosa di inaspettato, ovvero la mancanza di prospettive concrete e quindi la possibilità di qualunque prospettiva.

Seppure assumiamo che l’essere umano sia fatto per scegliere, non è però calibrato su un numero tendente a infinito di opzioni per ogni scelta. In relazione a questo nuovo spaesamento quotidiano dell’esistenza si è iniziato a parlare del concetto di paradosso della scelta, teorizzato da Barry Schwartz nel libro “The Paradox of choice: Why more is less” (2004). Per lo psicologo americano la massimizzazione della libertà individuale non è direttamente proporzionale alla massima felicità. Secondo i dettami della filosofia neoliberale, più è meglio: un principio assoluto che dovrebbe riguardare anche i gradi di libertà del singolo individuo inserito in una società del benessere. Invece, la curva reale che descrive la felicità dell’essere umano in funzione del numero di scelte possibili sarebbe a forma di campana, con un massimo oltre il quale la qualità di vita diminuisce.
Schwartz identifica, in particolare, il modello comportamentale del maximizer, ovvero colui o colei che vuole scegliere sempre la migliore delle opzioni, crede che ogni possibilità sia realizzabile ed è alla ricerca della perfezione. Una volta compiuta la scelta, la sua quête non si esaurisce poiché il/la maximizer continua a ipotizzare l’esistenza di un’alternativa migliore collocata nel futuro, ma anche tra quelle — impossibili da verificare —  già scartate nel passato. Questo loop comporta sensazioni di ansia e depressione, rimorso, insoddisfazione cronica e, in ultima analisi, quella che Schwartz chiama la paralisi della scelta, ovvero scegliere di non scegliere, poiché lo stallo permette di fare tutto, di essere tutto. In termini più scientifici si parla di choice overload, un tema non nuovo nel settore delle neuroscienze.
Per citare qualche esempio, uno studio del 2018 ha tentato di indagare come il cervello si attiva nel processo della scelta. I soggetti sperimentali sono stati esposti a set di oggetti di 6, 12 o 24 elementi tra cui dovevano sceglierne uno. Analizzando l’attività cerebrale grazie alla tecnica dell’fMRI, si è osservata una curva a campana, con un massimo di attivazione per il set di 12 elementi e valori minori sia per 6 che per 24. Lo stesso Schwartz ha portato a supporto della sua tesi una serie di semplici test dimostrativi, tra cui il più famoso è forse quello dei cioccolatini: posti di fronte a una scatola di 30 o a una di 6 cioccolatini, i suoi studenti hanno riportato in modo statisticamente significativo più soddisfazione per la scelta nel secondo caso, come se il maggior numero di alternative scartate rendesse meno appagante la scelta compiuta. Ovviamente, le variabili in gioco sono moltissime e complesse, ma questo studio e altri più recenti sono un interessante spunto per interrogarsi sulla gestione emotiva e cognitiva della scelta in una società che ha commercializzato e portato alle sue estreme conseguenze questo carattere esistenziale dell’essere umano.
Un’altra prospettiva per analizzare il paradosso della scelta è radicata nel modello socioeconomico di sviluppo, sia nella sua realtà oggettiva sia nell’interiorizzazione che ne fa il singolo. La narrazione dominante dell’ultimo decennio ha spinto, infatti, verso un’estrema responsabilizzazione dell’individuo, generando una sorta di equazione per cui il massimo della libertà significa anche il massimo della colpa: assistiamo insomma a un ritorno dell’ideale individualista dei Baby Boomer, intersecato, però, con l’iper consumismo e molte nuove difficoltà quali la crisi climatica. Calandoci nell’attualità, proprio il tema ambientalista, estremamente sentito dai più giovani, può essere un esempio calzante di questa nuova dinamica. Una risposta efficace e a lungo termine a questo problema non può che essere collettiva, politica, globale: eppure, ha attecchito molto il linguaggio dell’azione individuale, che deresponsabilizza le istituzioni e i colossi del mercato, e ripropone la logica del consumo, ma “green”. Se l’individuo, attraverso le sue scelte, è responsabile del cambiamento che può produrre in teoria, ma ha un impatto relativamente piccolo in pratica, lo scollamento tra la libertà di scegliere e la conseguenza di questa libertà diventa conclamato. Da cui il pessimismo, la rinuncia, la non-scelta.
Questo scarto ha progressivamente contagiato la sfera pubblica e quella individuale con il risultato della morte civile del singolo e quindi della collettività. Un dato chiaro è, per esempio, la crisi del voto, pilastro della struttura democratica: pochissimi giovani oggi scelgono di esercitare questo diritto fondamentale, e l’astensionismo appare come la forma più grande di protesta impugnabile contro una sovranità che già da tempo non è rappresentativa. Checché se ne dica, la cifra umana della generazione Z non è il disinteresse, ma la sensazione di impotenza fondata non tanto sul paradosso della scelta, quanto sul paradosso della libertà di scelta. Di fronte a un futuro che si annuncia spaventoso e che non è possibile cambiare da soli, nonostante venga detto che abbiamo la libertà di farlo, scegliere di non scegliere o non scegliere di scegliere è il grido unanime di un sistema al collasso che, mentre si espande, implode.
Nel marasma di individualità tutte incatenate, il ruolo stesso della scelta è totalmente deformato. Tra performatività, logica del profitto e morte dello spirito, questa modernità che vuole superare la velocità della luce è in realtà profondamente paralizzata, perfino davanti alle troppe opzioni di un menù del fast food. Più che chiederci come tornare a scegliere dovremmo forse ribaltare la prospettiva: tornare a essere fonte attiva di opzioni, invece che consumatori passivi di offerte, e finalmente definire un nuovo concetto di libertà individuale, che abbia al centro l’essere umano.”

Gemma n° 2381

“Ho scelto di portare questa foto perché rappresenta la mia esperienza da animatrice al centro estivo. Fare l’animatrice mi ha insegnato a prendermi delle responsabilità e inoltre mi ha dato l’opportunità di conoscere persone tuttora molto importanti. Anche se spesso mi dovevo svegliare presto e tornavo a casa tardi, specialmente i bambini mi hanno dato e insegnato molto. Sono grata di aver avuto questa opportunità e di averla condivisa con un gruppo di amici con i quali sto bene” (A. classe terza).

Gemma n° 2001

“Durante i primi mesi di quest’anno scolastico, mi sono soffermata a lungo sulle mie scelte, le mie azioni e sugli ultimi avvenimenti della mia vita.
Noi giovani siamo in quel periodo in cui tutto è un limbo: siamo intrappolati tra il mondo dei ragazzi e degli adulti ed allo stesso tempo facciamo spesso scelte che consideriamo “da grandi” ma che in realtà ci mettono solo più confusione.
In questi ultimi tre anni sono cresciuta molto da questo punto di vista ed ho imparato ad entrare piano piano in questo nuovo mondo, spesso a causa di scelte ingenue ed inconsapevoli che allo stesso tempo mi hanno insegnato preziose lezioni di vita.
Il mondo dei grandi non è mai stato perfetto poiché si parla di responsabilità, maturità, vita lavorativa, soldi, famiglia, casa… Non che sia tanto male, ma alla fine è proprio lì che scopri tante parti di te che neanche conoscevi, ti apri a nuove conoscenze ed esperienze. Questo passo verso una responsabilità sempre più grande è stata una delle paure della mia adolescenza. Tutti dobbiamo affrontare questi problemi ma questo è ciò che un lato della vita ci riserva e dobbiamo godercela nei suoi alti e bassi altrimenti rischiamo di rimanere da soli.
Ma cosa significa stare da soli?
Tutto comincia dalla nostra persona: le nostre relazioni, scelte e giudizi. Siamo noi stessi che ci isoliamo in molte situazioni perché pensiamo che le persone esterne non possano comprenderci. Però stare con la nostra persona ci permette di riflettere sulla nostra vita e soprattutto ci permette di prenderci una pausa dalla vita frenetica di oggi.
Stare da soli può essere benefico come potrebbe diventare un’arma tagliente.
Quest’anno lo reputo veramente un anno dal quale non riesco a prendermi una vera pausa per riflettere. Lo studio, il traguardo sempre più vicino all’esame di fine anno, la corsa all’esame di ammissione per l’università, il COVID e vari problemi familiari.
Tutti gli avvenimenti accaduti si accumulano come piccoli fantasmi che mi svolazzano intorno ed in mezzo a questo disordine vorrei solo riuscire a schiarire le idee e riprendere tutto da zero.
Forse questo mio desiderio sarà possibile tra qualche mese? Aspetto che il futuro me lo dimostri e che io stessa riesca a lasciarmi alle spalle questi pesi senza aver bisogno di portarli come fardelli.”

Accolgo il bilancio-sfogo di H. (classe quinta) augurandole quello che lei stessa auspica a se stessa: un’occasione di reset, uno di quei periodo in cui si ha il tempo per mettere dei punti, dei punti a capo, dei puntini di sospensione, dei punti esclamativi o dei punti interrogativi. Le auguro la punteggiatura dell’esistenza, quella che permette al nostro vivere di essere letto con un po’ più di chiarezza senza che sia esclusivamente un flusso di pensiero continui nel quale rischiare di perdersi.

Quelli che vedi sono solo i miei vestiti, adesso facci un giro e poi mi dici

Nelle classi del triennio, la settimana scorsa, abbiamo cercato di capire cosa sia successo sulla questione referendum e Corte Costituzionale. Non siamo entrati troppo nel merito del tema dell’eutanasia (a cui dedicheremo delle ore specifiche), ma ho letto l’editoriale della rivista Lavialibera e vi trovo spunti molto interessanti per approfondire ulteriormente la questione. Le parole sono di Fabio Cantelli Anibaldi, vicepresidente del Gruppo Abele, scrittore (autore de La quiete sotto la pelle, sulla sua esperienza nella comunità di San Patrignano, da cui è tratta la docu-serie Sanpa su Netflix), originario di Gorizia.

“Ci sono leggi che difendono dal male che altri ci potrebbero infliggere, ma su ciò che è bene per ciascuno di noi nessuna legge dovrebbe sindacare e decidere, a meno che quel bene sia dannoso per altri. Questo mi pare il nocciolo perlopiù ignorato della questione eutanasia, ossia la facoltà di scegliere la morte qualora la vita diventi insopportabile a causa del dolore fisico e psichico, ostaggio di un’invalidità così vasta e incurabile da toglierle la dignità del poter scegliere e del poter fare: vita ridotta a esserci dolente, inerme, inerte. Prima che per legge è per compassione che a uno sventurato in questa condizione dovrebbe essere concesso di poter morire senza ricorrere al suicidio tramite la somministrazione guidata di farmaci letali, in un ambiente accogliente e riscaldato dalla presenza dei propri cari, in luoghi dove l’occhio, un istante prima di chiudersi, possa perdersi in infiniti di cieli, vette e mari, non sbattere contro fredde pareti d’ospedale o grigi muri urbani.
Unico ostacolo a questa pietosa concessione, l’eventuale opposizione di famigliari o parenti, ma non mi risulta che una persona legata al malato si sia mai opposta a ciò che il malato stesso chiedeva o, se non era più in grado di chiedere, implorava con gli occhi e il corpo: la morte come liberazione dal male, la morte come uscita dall’incubo di un vivere asfissiante perché meccanico. Non mi risulta che ci siano stati famigliari che hanno reagito diversamente da Giuseppe Englaro (padre di Eluana, ndr), Mina Welby (moglie di Piergiorgio, ndr), Valeria Imbrogno (fidanzata di Fabiano Antoniani, ndr), cui è toccata una sorte terribile: non solo soffrire per una persona cara irrimediabilmente invalida ma lottare per liberarla da uno stato vegetativo permanente, come nel caso di Eluana Englaro, o da una vita sentita come una prigione come in quelli di Pergiorgio Welby e Fabiano Antoniani.
Ma perché – poste le condizioni di cui sopra – nel nostro Paese non viene riconosciuta a una persona condannata all’ergastolo di una vita ridotta a mera sopravvivenza la facoltà di porre fine alla pena? Per tre ragioni, mi sembra.
La prima è la rimozione della morte. In Occidente – vale a dire in tutto il mondo, ormai – alla morte che colpisce uno sconosciuto si reagisce con un moto di studiata rassegnazione, ma anche quando si è intimi del defunto la riflessione sulla propria mortalità viene perlopiù elusa, come se a morire siano e saranno sempre gli altri. La maggior parte degli esseri umani vive come se fosse immortale e le conseguenze della finzione sono sotto gli occhi di tutti: la nostra è una società orribile, fondata su relazioni strumentali e posticce, una società dove il non parlare di morte si traduce in violenze esplicite come quelle delle guerre o implicite come quella selettiva che regola il mercato economico: mors tua vita mea. Anche nel caso della minaccia incombente e illimitata della pandemia, l’Occidente ha dato il peggio di sé, riuscendo a distogliere lo sguardo. Ecco allora i bollettini quotidiani, i calcoli statistici, le previsioni matematiche: la riduzione della morte a cifra come base di una rimozione di massa, forse la più grande dell’Occidente moderno. Si può immaginare allora quanto una riflessione sull’eutanasia possa risultare sgradita: la scelta del malato di morire per il rifiuto di ridursi a entità organica può rivelare per contrasto l’insensatezza delle vite sane fondate sul puro durare, vite che vivono come se non dovessero mai finire.
La seconda ragione – figlia della prima – è l’assenza di empatia. Per negare a chi è inchiodato a un’incurabile sofferenza il conforto di un accompagnamento alla morte, bisogna eludere una domanda che dovrebbe sorgere spontanea di fronte al dolore altrui, prima ancora di quella su come mitigarlo: “Come reagirei, se fossi al posto suo?”. Il mettersi nei panni degli altri anche – anzi, soprattutto – quando sono panni scomodi è la premessa dell’empatia, ma l’immedesimazione è impossibile in carenza di sensibilità o quando la sensibilità è addestrata a sentire solo ciò che non perturba. Per sentire il dolore degli altri e provarne turbamento bisogna prima aver riconosciuto e accolto la propria alterità: senza quest’inquietante ma decisiva scoperta è impossibile comunicare davvero col dolore del mondo.
Terza ragione: il potere condizionante della dottrina cattolica. Parlo di dottrina e non di fede perché, se vissuta con la necessaria radicalità, la fede non esclude l’inquietudine e anche la crisi di coscienza. La dottrina no: la dottrina decide a priori cosa è bene e cosa è male, e riguardo all’esistenza umana stabilisce – come noto – che essa è un dono di Dio, dono di cui però non è dato disporre. Ma è ancora un dono una vita ridotta a tortura o a stasi vegetativa? È ancora un dono la vita per chi la sente come un incubo, una spoliazione di libertà e dignità? Qui si pone l’antico problema teologico sollevato da Sant’Agostino nelle Confessioni con la domanda “si Deus est, unde malum?”: se Dio esiste, come può esserci il male? Problema che la dottrina aggira attraverso un’acrobazia dialettica sintetizzata nell’articolo 311 del catechismo cattolico, il quale comincia col dire che gli uomini, peccatori all’origine, hanno introdotto nel mondo il male morale “incommensurabilmente più grave del male fisico” per poi concludere che “Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene”. Dunque il Dio che ci ha dato in dono la vita, ma non la facoltà di disporne, consente il male morale essendo in grado, dall’alto della Sua onnipotenza, di trasformarlo in bene. Quanto alla malattia invalidante e letale che coglie di sorpresa e senza apparente ragione, la dottrina non parla – verrebbe da dire grazie a Dio – di utilità del dolore in quanto viatico al Cielo, lasciando così intendere che resti valido il principio secondo il quale la vita è un dono divino di cui è impossibile disporre anche quando non è nient’altro che angosciata impotenza, dipendenza assoluta, pena infinita.
Viene da pensare che il problema di fondo della questione eutanasia sia quello sollevato da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, problema della libertà quando, da libero arbitrio, si trasforma in responsabilità. Da sempre ma forse oggi più che mai l’uomo vuole essere libero da leggi e limiti, ma quando la libertà lo pone di fronte a una scelta di coscienza esige un’autorità o una legge che lo sollevi dall’onere di decidere.
Una legge per l’eutanasia difficilmente sarà approvata in un Paese come il nostro, ma se mai accadesse da un lato esulterei, dall’altro non potrei fare a meno di constatare quanto sia orribile sancire per decreto quello che dovrebbe essere un moto istintivo dell’anima. Davvero siamo così corrotti da dover rendere la pietà un obbligo di legge?”.

La domanda e la risposta

Scrivo sul blog, forse metterò qualcosa su Instagram e Twitter, di certo non su Facebook, social in cui resto solo per informarmi o mantenere relazioni altrimenti destinate a perdersi (non mi meraviglio che i ragazzi non lo frequentino: lo conoscono). Pubblicherò il solito “Nuovo post sul mio blog”…
Stamattina, insieme a delle colleghe, ero per strada e in piazza in mezzo a loro. Passo buona parte della mia giornata in mezzo a loro, in presenza fisica o mentale (anche se non li vedo, li penso, penso a quello che scrivono, raccontano, esprimono…). Li sento discutere, parlare, chiedere; li vedo ascoltare, appassionarsi, interrogarsi.
“Prof, cosa dovremmo fare domani?” mi hanno chiesto ieri in una classe prima. “Non vi dirò cosa dovete fare. Parlatene a casa, discutetene con i genitori, con fratelli, sorelle, conoscenti, fatevi un’opinione e la scelta arriverà”. Stamattina alcuni erano in piazza, alcuni erano in classe. Bravi! Bravi questi e bravi quelli se la scelta è ponderata, se si sono informati prima di scegliere e decidere: non siete rimasti a casa. In piazza c’era sicuramente chi rideva e chi era lì senza sapere perché; ma tanti, tantissimi, erano lì consapevolmente, consci della loro presenza, in ascolto di chi prendeva la parola (applaudivano, annuivano, negavano: ascoltavano). Non hanno bisogno del cinismo mascherato di realismo di adulti delusi. Se non ci credono loro, chi ci deve credere? Sono a chiedere a chi ha il potere di farlo di prendere delle decisioni! Sono a chiedere a chi ha paura di fare scelte impopolari perché corre il rischio di non essere rieletto, di fare scelte impopolari. E sono a chiedere a noi adulti di stare dalla loro parte perché ci conoscono troppo bene e sanno che li guarderemmo dalle finestre liquidandoli con un “eh, son ragazzi… anche io alla tua età…”. Invece no, noi adulti, sappiamo perfino sorprenderli! Già! Sappiamo fare di peggio: non li compatiamo con un benevolo sorriso, ma li attacchiamo! Scriviamo sui social che devono vergognarsi, che non sanno perché son lì, che vogliono solo fare vacanza, che non sono coerenti. Siamo adulti tristi. E’ lì che va cercata la risposta alla domanda “Perché non abbiamo fatto niente quando potevamo fare qualcosa?”.

Una mano che strozza in guanti bianchi

Fonte

Venerdì 1 febbraio, come ho già avuto modo di scrivere, ero a Trieste per partecipare a ControMafie, gli Stati generali di Libera. Durante la plenaria di apertura c’è stato l’intervento di don Luigi Ciotti, che ho registrato. Questo pomeriggio mi sono messo a riascoltarlo per farne un pezzo da mettere qui. Quanta fatica! E mi è tornato in mente che ho faticato molto anche mentre ero nell’Aula Magna dell’Università… Ecco, rettore Fermeglia, al giorno d’oggi, un’amplificazione migliore, l’Università giuliana la meriterebbe.
Per questo motivo non riesco a riportare per intero l’intervento di don Ciotti, ho cercato di fare del mio meglio…

“Io vorrei partire da una domanda cui tutti siamo chiamati a rispondere: come mai dopo 150 anni parliamo di mafia? …
I giornalisti hanno subito chiesto come mai a Trieste.

  1. Innanzitutto perché quando nasce Libera, il primo incontro pubblico è stato fatto a Trieste. Paolo Rumiz ha moderato l’incontro, c’era Caselli, c’ero io e soprattutto c’era una persona eccezionale per questa città, don Mario Vatta.
  2. Abbiamo un debito di riconoscenza, un atto di responsabilità con chi è stato assassinato, con chi non c’è più, con chi è rimasto solo, con le famiglie. Già allora eravamo arrivati per tuo zio (dice rivolto a Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina) e torniamo perché i nomi di chi non c’è più non basta dirli con la bocca, dobbiamo sentirli un pochettino qui dentro, altrimenti diventa la retorica della memoria. Noi non vogliamo la retorica della memoria, non possiamo permettercelo, non dobbiamo farlo. E non possiamo dimenticare a nordest un ragazzo di Trento, meraviglioso anche lui, Antonio Micalizzi, giovane giornalista che a Strasburgo ha perso la vita. Le speranze di chi non c’è più devono camminare sulle nostre gambe; noi dobbiamo impegnarci per fare in modo che la memoria sia viva. Noi dobbiamo esser vivi, più degni, più coraggiosi per costruire intorno a noi vita, perché vinca davvero la vita e la morte sia sconfitta.
  3. Ma mi piacerebbe che da questa sala ci si ponesse ancora dei dubbi, perché i dubbi sono più sani delle certezze: quando incontro qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, mi preoccupo. Anzi, se trovate qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, a nome mio e di Giancarlo Caselli, salutatecelo personalmente e cambiate strada. Siamo tutti piccoli. Abbiamo il dovere di continuare a leggere la realtà: l’Italia e la maggior parte degli italiani si sono fermati alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Sono passati 26 anni! E voi (rivolto ai magistrati e alle forze dell’ordine) ci testimoniate come le mafie siano profondamente cambiate. Siamo venuti nel nordest per far emergere le cose belle e positive di questa terra, ricordando anche le parole del papa sull’ecologia integrale: disastri ambientali e disastri sociali non sono due crisi diverse, ma un’unica crisi socio-ambientale.

Allora, 5 anni del rapporto della direzione nazionale antimafia, le antenne dei nostri presidi sui territori, la società civile: quello che emerge impone a tutti noi, anche a chi è già impegnato il morso del più, uno scatto in più. Il problema non sono i migranti, il problema sono i mafiosi nel nostro paese! La commissione antimafia, con voto unanime, scrive che “le organizzazioni mafiose italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni assumendo forme organizzative nuove e modelli di azione sempre più multiformi e complessi”. Cito alcune caratteristiche:

  1. progressivo allargamento del raggio d’azione: non c’è regione d’Italia che possa dichiararsi esente
  2. profili organizzativi: presidi reticolari
  3. più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale e nei mercati: lì è possibile situare il consolidamento del potere delle mafie
  4. promozione di relazioni con attori della cosiddetta area grigia (al confine tra sfera legale e illegale). Non è un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma una commistione tra le due aree. Si tratta di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito.

Tocca a noi cogliere quello che ci viene consegnato dagli organi competenti, metterlo insieme alle nostre conoscenze e alle nostre forze per assumerci di più la nostra parte di responsabilità. Abbiamo il dovere di guardare alle cose positive, ma anche di prendere coscienza che le mafie si rigenerano.
Molta gente oggi ha scelto la neutralità: non è possibile scegliere la neutralità. Abbiamo il dovere umile, umile, umile di schierarci. Un abbraccio ai genitori dei ragazzi morti di droga in questa regione: l’onda lunga dell’assenza di futuro per molti giovani comincia a farsi sentire. L’eroina è tornata più di prima, più di vent’anni fa. La droga resta uno degli zoccoli delle organizzazioni criminali mafiose.
Abbiamo leggi che ci vengono invidiate, peccato che vi siano piccole virgole o singole parole in grado di stravolgerne l’efficacia. Abbiamo bisogno di chiarezza: azioni chiare, parole autentiche, misurate ma ferme e inequivocabili, capaci di esprimere a un tempo il dolore, la compassione, la condanna, ma sempre anche la speranza. Tutto ciò anche contro i mormoranti, coloro che mormorano per i corridoi…
Non dimentichiamoci che gli altri sono i termometri della nostra umanità, compresi quanti vengono da lontano. Non facciamo della legalità un mito: essa è il mezzo, la via per raggiungere quell’obiettivo che si chiama giustizia. La legalità non è il fine. Essa va saldata fortemente alla responsabilità. Leggere nel Rapporto Censis che l’Italia è il fanalino di coda nell’istruzione e nella formazione ci fa sobbalzare sulla sedia. La cultura deve svegliare le coscienze. La legalità senza civiltà, senza educazione, senza cultura, senza lavoro si svuota.
Le mafie sono parassiti e traggono forza dai vuoti sociali, dai vuoti culturali. La corruzione è una mano che strozza in guanti bianchi. Siamo chiamati a studiare, a documentarci per attuare un’etica incarnata che inizi dalle piccole cose della quotidianità: cittadini attenti al bene comune e alla responsabilità.
Un’ultima parola per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto un gruppo di lavoro sulla corruzione e sulle mafie. La Chiesa deve parlare chiaro senza reticenze, non limitarsi a predicare il Vangelo, ma viverlo nella sua ricerca di verità e nel suo impegno contro le ingiustizie, le prepotenze, gli abusi di potere. In questi anni il papa, dopo aver incontrato un migliaio di parenti delle vittime, è andato sulla piana di Sibari e senza mezzi termini ha gridato che le mafie sono adorazione del male e disprezzo del bene comune e ha detto con forza che tutto questo va combattuto, allontanato, ma ha anche detto che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi non sono in comunione con Dio e ha usato un termine molto chiaro: “sono scomunicati”.

La speranza per il domani poggia sulla resistenza dell’oggi. Le leggi devono tutelare i diritti, non i poteri; devono promuovere la giustizia sociale, non le disuguaglianze o le discriminazioni. La speranza è un diritto ma anche l’orizzonte di una politica seriamente impegnata nella promozione del bene comune; se la politica non fa questo tradisce la sua essenza, non è politica. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizione del potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, perché è da 150 anni che noi continuiamo a parlare di mafie.”

Far west, far web

post truth
Immagine tratta da The Norwich Radical

Un interessante articolo di Damiano Greco sulla necessità di una nuova educazione all’informazione. La fonte è Eastwest.
Esattamente come avviene nella società offline, anche all’interno della collettività online non possiamo e non dobbiamo esimerci dalle nostre responsabilità e doveri inderogabili, sia di natura etico-morale che di tipo costituzionale. Questi vincoli nell’attuale contesto digitale devono essere tradotti in condivisioni, commenti e cinguettii virtuosi, norme che devono essere garantite nella dimensione virtuale come lo sono già in quella reale.
Come sosteneva Bauman – compianto sociologo e filosofo della “società liquida” – solo la convivenza tra questi due mondi potrà garantire all’individuo e alla società una condizione di vita sana e sostenibile. Il nuovo ecosistema comunicativo diviene “Onlife”, attraverso una connessione costante, fusione tra questi due mondi, prendendo le redini di assetti consolidati dunque, facendo assumere ai nuovi attori della sfera pubblica – i cittadini-utenti – il ruolo di protagonisti indiscussi, mentre la nuova moneta di scambio viene rappresentata dalla visibilità, bramata e inseguita da quest’ultimi. Gli attori sociali si ritrovano dunque costretti a prendere parte ad una tragicomica competizione per la notorietà e lo status, cercando, proprio come le merci in vendita negli scaffali, di rendersi particolarmente attraenti agli occhi degli altri utenti se intendono sentirsi parte della società in cui vivono, tenendo costantemente aggiornata la propria identità digitale attraverso i diversi social network, divenendo pertanto un vero e proprio obbligo sociale. Riformulando in salsa 2.0 la consapevolezza di “sé stesso” attraverso la celebre citazione e intuizione di Cartesio: “Condivido, dunque sono”.
Viviamo d’altra parte nell’epoca della post-verità, basata sull’emotività e convincimenti personali a discapito di dati oggettivi, il superamento dell’attendibilità raggiunge il punto di non ritorno nel momento della perdita di consapevolezza dell’importanza obiettiva dell’autenticità dei fatti. L’ascesa della Post-Truth, entrata con forza nella nostra quotidianità non deve essere sottovalutata, i pericoli rappresentati dall’illusione della conoscenza rischiano seriamente di depotenziare la qualità già fragile dell’attuale arena mediatica, in tale contesto le notizie che dovrebbero seguire rigidi parametri tecnico-scientifici, vengono lasciate in balia di bugie facili e rassicuranti, all’interno di questa cornice troviamo come sempre il complesso rapporto tra lo Stato ed il cittadino, tra la collettività e l’individuo, in una sorta di cinica interdipendenza dominata dal caos. Una valanga di notizie travolge la Rete e con essa i cittadini-utenti, incapaci di effettuare una scelta autonoma si affidano al trend del momento, vulnerabili e fragili divengono il ventre molle del web, trovandosi portatori inconsapevoli di ideologie fasulle che paradossalmente si scontrano con convinta presunzione contro il mondo della competenza e istruzione. Annamaria Tesla su Internazionale scrive che oggi il 44% della popolazione si “informa” tramite Facebook, il social network più famoso al mondo attraverso dei complessi algoritmi tenderebbe inoltre a creare delle “camere dell’eco” in grado di far rimbalzare ripetutamente la “balla” all’interno del web, questa senza trovare alcuna opposizione diverrebbe in fine reale.
Ma com’è potuto accadere? Quando i lettori-utenti hanno iniziato a credere al populismo spicciolo e alle menzogne dei politici perdendo la fiducia nei vari professionisti, giornalisti, editori? In realtà come afferma Riccardo Luna in “Bufale, Post-Verità e il Futuro del Giornalismo”, tutto ciò non rappresenta una novità: “…E’ sempre accaduto che le persone si facessero una idea “sui titoli dei giornali”. Senza leggere gli articoli. E quindi per decenni l’opinione pubblica si è formata più sui titoloni che sulla realtà. Scandalizzarsi ora vuol dire non avere memoria. Ma adesso questa cosa ha dentro il motore potentissimo della rete”. In tal senso, nella lotta contro la diffusione delle “fake news” si stanno iniziando a muovere i primi timidi passi, ad esempio in Germania è stata annunciata una proposta di legge finalizzata a multare le piattaforme social nel momento in cui non provvedano a rimuovere contenuti hate speech in grado di incitare all’odio.
Cosa fare al riguardo? Come è noto il flusso informativo per poter funzionare correttamente richiede cittadini “illuminati”, porre l’accento sull’istruzione e la promozione delle scienze risulta essere ancora oggi molto importante, ma la vera priorità dei nostri tempi è insegnare a comprendere la realtà del mondo iperconnesso di oggi con i suoi elevatissimi collegamenti, il forte impatto tecnologico e la velocità innovativa degli attuali canali comunicativi, a cui sono inesorabilmente legate le nuove generazioni, rischia seriamente di impedire a quest’ultime di poter raggiungere e comprendere l’attuale contesto sociale, ma di arrivarci con grande affanno e confusione, favorendo sempre più la divisione a serio discapito del progresso socio-culturale. La conoscenza dunque, deve rappresentare ancora una risorsa, ma deve essere accompagnata dalla consapevolezza degli effetti che può avere ad esempio, una condivisione estrapolata all’interno della nostra filter bubble – bolla di informazioni creata appositamente da Facebook finalizzata a compiacere le nostre esigenze – e postata con troppa superficialità, senza prima aver appurato le fonti della notizia attraverso una ricerca metodica e ponderata, il post rischia di divenire virale innescando una escalation pericolosa e difficilmente inquadrabile.
I canali divulgativi, una volta saldamente in mano alle istituzioni, vengono oggi veicolati e orientati dagli influencer, in grado con il loro peso mediatico, di indirizzare opinioni e atteggiamenti ed infine per consolidare o meno il consenso ad un candidato in vista di un confronto politico. Nella definizione di Mazzoleni (1998) la comunicazione politica veniva descritta come “il prodotto dello scambio fra i tre attori dello spazio pubblico, ossia tra sistema politico, sistema dei media e cittadini-elettori…”, se in passato dunque individuavamo un netto sbilanciamento a favore dell’interazione tra i primi due attori – il sistema politico e i media – ponendo di fatto il terzo attore ad uno ruolo di mero spettatore all’interno della comunicazione politica, oggi la centralità dei New Media impone una visione differente, dove troviamo il cittadino-utente assumere un peso sempre più rilevante, in grado di comunicare attraverso un nuovo linguaggio eterogeneo e complesso, ridisegnando di fatto l’arena del confronto politico. Appare chiaro che i Governi non sono più in grado di gestire adeguatamente le attuali problematiche, l’unica strada percorribile prima di scatenare scontri civili senza una via di ritorno, viene rappresentata dalla necessità di far assumere ai cittadini-utenti una maggiore coscienza, ponendoli in condizione di organizzarsi e di poter gestire i propri processi e le proprie risorse, riunendoli sotto un’unica tenda, quella che riporta in alto la scritta “Empowerment”. La società civile digitale non solo dovrebbe incentivare questi principi ma addirittura prendersene carico nella loro totalità. Si necessita una nuova educazione all’informazione, un luogo di incontro e confronto di processi individuali e collettivi coordinati da una forma di divulgazione responsabile. Il mondo ha bisogno di giornalisti scrupolosi e di lettori vigili e attenti. Con la speranza che un giorno si potrà guardare indietro negli anni ripensando a questo periodo caotico definendolo goliardicamente come il “Vecchio Far Web”.”

Gemme n° 478

Fin dalla prima volta che l’ho ascoltata, il testo di questa canzone mi ha colpito: «fabbricare quello che verrà con materiali fragili e preziosi senza sapere come si fa». A volte penso al futuro e non riesco a immaginarlo, ma penso che siamo noi a costruirlo, abbiamo in mano il materiale per farlo, possiamo deciderlo noi, è una nostra scelta. Poi penso anche che le due ragazze che si amano sia un messaggio di uguaglianza: «il loro non era un amore poi tanto diverso».” Così E. (classe terza) ha presentato la propria gemma.
E’ una canzone che mi piace molto, questa delle Luci. Penso sia venata di una malinconia aperta comunque alla speranza, al futuro e al domani. «Forse si trattava di accettare la vita come una festa, come ha visto in certi posti dell’Africa. Forse si tratta di affrontare quello che verrà come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà. Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopo guerra e di mettersi a ballare fuori dai bar come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia».

Gemme n° 422

https://www.youtube.com/watch?v=zf-5XQmQW9c

A volte mi riconosco in Novecento e credo che l’età in cui siamo sia critica, non siamo né bambini né adulti. Penso che quella scaletta di Novecento, per noi, possa fungere da slancio: il mondo avanti è infinito con miliardi di scelte, sotto c’è l’oceano in cui rischiamo di affondare, dietro c’è la nave, il nostro guscio in cui abbiamo vissuto a lungo. Guardando avanti abbiamo paura per quello che potrebbe esserci e temiamo di essere l’ultima ruota del carro. Queste sensazioni ed emozioni le provo, anche se cerco di soffocarle perché magari non è ancora il momento di preoccuparsi; tuttavia le scelte che devo fare mi fanno già pensare, mi fanno paura”. Questa è stata la gemma di C. (classe seconda).
Nella canzone “E’ necessario” i Tiromancino cantano: “Io so che non è facile riuscire a proiettarsi nel futuro immaginando come sarà la vita andando avanti; le scelte che farò saranno sempre più importanti dei dubbi che ho che oggi sono ancora tanti”. Da un lato ci sono sicuramente la paura e il timore, ma dall’altra c’è anche la possibilità di mettersi in gioco, di sentirsi padroni della nostra vita, registi e non attori o spettatori dell’esistenza.

La gente ballava, sorrideva, era felice

Max è un sacerdote passionista che ho conosciuto sul web. Poche ore fa sul suo profilo fb ha scritto: “Domenica scorsa all’omelia ho parlato di questa intervista, la testimonianza della band che suonava al Bataclan di Parigi la sera della strage. Per far capire cosa vuol dire “responsabilità”, sentirsi chiamati a rispondere ai bisogni degli altri, ad agire immediatamente per il bene di tutti. Ragazzi che hanno preferito rimanere con i loro amici feriti anziché scappare e salvarsi la vita, facendo da scudo con i loro corpi, andando incontro alla morte. La testimonianza è drammatica. Bisognerebbe farla vedere nei licei, nelle scuole.” Ho allora deciso di dare voce al suo desiderio: ecco l’articolo di Paolo Vites da Il Sussidiario e il video tratto da Youtube.

“Vorrei mettermi in ginocchio davanti ai genitori dei ragazzi morti quella notte” dice tra le lacrime Josh Homme, uno dei fondatori degli Eagles of Death Metal che quella sera della strage al Bataclan non era andato a Parigi con il suo gruppo. “Vorrei dire loro sono a vostra disposizione per qualunque cosa, perché davanti a quello che è successo che cosa puoi dire a chi ha perso i propri figli, la moglie, i fratelli? Non ci sono parole e forse è giusto che non ci siano” aggiunge Homme. Gli Eagles of Death Metal dopo un comunicato ufficiale hanno rilasciato adesso la prima testimonianza al sito americano Vice, una lunga video intervista di circa mezz’ora in cui raccontano quello che hanno vissuto quella notte. Visibilmente ancora scioccati, spesso scoppiano in lacrime, si tengono stretti fra loro, posano il capo sulle spalle dell’altro mentre raccontano l’orrore che hanno vissuto. Uno di loro ad esempio si era nascosto in un camerino insieme a molti membri del pubblico. Una ragazza, dice, era ferita gravemente e perdeva molto sangue. In due cercavano di fermare l’emorragia mentre un altro ragazzo aveva trovato nel frigo una bottiglia di champagne che doveva servire per i festeggiamenti del dopo concerto e la brandiva in mano, l’unica arma che avessero per difendersi, mentre sentivano i colpi d’arma da fuoco nel corridoio fuori della porta. Il chitarrista della band commenta: “Voglio dire a chi ama la musica rock e a chi non la ama: stiamo insieme. Io sono qui, sono sopravvissuto e stasera potrò tornare a casa da mio figlio. La musica rock mi ha dato un lavoro, una casa, una famiglia. Ma adesso non posso più far finta di niente, voglio che tutti sappiano che la vita è una cosa meravigliosa. Essere vivi”. Vogliamo tornare a Parigi, aggiunge, ed essere i primi a suonare al Bataclan quando riaprirà. Diversi giornali italiani all’indomani della strage avevano detto che i musicisti erano fuggiti ai primi spari abbandonando i loro fan: questo video dimostra che non è vero. Raccontano nei dettagli quei momenti insieme al pubblico, cercando vie d’uscita, soccorrendosi gli uni con gli altri, facendosi forza. Qualcuno in certa area cattolica ha anche detto che questo è un gruppo satanista che stava invocando il diavolo quando sono arrivati i terroristi, a causa del brano che stavano suonando, Kiss the Devil. Gli EODM sono un gruppo invece che fa la parodia proprio di quel genere di gruppi, li prende in giro: “Quella sera la gente ballava, sorrideva, era felice” racconta uno di loro. Proprio come succede con la vera musica rock. Satana non piange. Gli EODM in questo video invece piangono a lungo. Consigliamo a certi personaggi di guardarselo con attenzione. “Ci siamo dentro tutti in questa cosa, portiamo nel nostro cuore tutti i nostri amici francesi, vogliamo loro bene, e senza di loro non saremmo sopravvissuti” concludono.”

Gemme n° 252

https://www.youtube.com/watch?v=k60i0es8gb0

A. (classe quinta) ha commentato così la sua gemma: “L’Italia penso sia uno dei paesi più belli al mondo, è molto ricca. Penso invece che per la politica non siamo portati; ci sono stati anni in cui le persone si ribellavano. Penso sia necessaria una rivoluzione nelle nostre teste; è come se stessimo guardando solo dentro il nostro orticello e non ci interessasse la situazione in cui vivono molte persone. Manca un po’ un movimento di massa che cambi le cose e penso che dovrebbe partire da noi, da chi ha l’età giusta per affrontare le cose. La politica dovrebbe interessarci.”
In un vecchio post di quattro anni fa ho presentato “Lo scrutatore non votante”, una canzone di Samuele Bersani. Ne riporto una frase: “Prepara un viaggio ma non parte, pulisce casa ma non ospita”. Le carte in tavola ci sono tutte, è ora di giocarle.

Con la schiena dritta

Da ieri Mauro Berruto non è più il commissario tecnico della nazianale italiana maschile di pallavolo. Sul suo sito ho trovato questo post in cui il coach espone le proprie motivazioni. Lo riporto perché vi si parla di etica, responsabilità, scelte, rispetto, lavoro, valori, regole, comunicazione, new media, social network. In riferimento a quanto scritto nelle prime righe del comunicato ricordo che all’inizio della fase finale della World League, Berruto aveva escluso per motivi disciplinari quattro giocatori: Dragan Travica, Ivan Zaytsev, Giulio Sabbi e Luigi Randazzo.
Oggi ho comunicato al Presidente Carlo Magri la decisione di rimettere il mio mandato di Commissario berruto2Tecnico della Squadra Nazionale di pallavolo nelle mani Sue e del Consiglio Federale.
Il clima generatosi intorno alla squadra, in relazione al provvedimento disciplinare nei confronti di quattro atleti da me deciso in occasione della Final Six di World League a Rio de Janeiro, mi ha reso consapevole di non sentire più quella fiducia completa nel mio operato che sempre ho sentito e che è condizione necessaria per poter svolgere questo straordinario compito.
Il dolore di rinunciare al mio ruolo di CT a un mese dell’obiettivo verso il quale tutto il mio lavoro era stato indirizzato nel quadriennio olimpico, non è negoziabile rispetto alla difesa di valori che ritengo fondamentali quali il rispetto delle regole e della maglia azzurra. Valori che ritengo altresì fondamentali nella mia visione di sport.
La commovente risposta della squadra successiva alla mia decisione (la vittoria contro la Serbia e, ancora di più, la coraggiosa sconfitta contro la Polonia campione del mondo) mi restituisce la certezza che sui valori tutto si fonda.
Tengo tuttavia, amaramente, questa certezza solo per me, ringraziando di cuore i 13 protagonisti di quelle due partite, perché il coro di chi ha letto nella mia decisione incapacità di gestione, inadeguatezza al ruolo, danno economico o addirittura causa scatenante di una brutta immagine per il nostro movimento mi fa pensare che il rispetto delle regole sia diventato merce negoziabile davvero.
Se così è il mio passo indietro è dovuto, perché non è e non può essere questo il mio modo di intendere lo sport e fare il Commissario Tecnico.
Ringrazio tutti coloro che hanno lavorato con me in questi anni, atleti e membri dello staff, perché tutti mi hanno insegnato delle cose. Un pensiero particolare va ai 30 atleti che in questi quattro anni e poco più hanno esordito con la maglia azzurra. E’ un record di cui vado molto fiero perché regalare questa gioia non ha davvero prezzo.
Ringrazio tutti gli staff delle Squadre Nazionali giovanili e in particolare Mario Barbiero, motore inesauribile della nostra pallavolo maschile giovanile. Fin dal primo minuto ho voluto dimostrare come la nazionale Seniores fosse parte di un progetto comune che incomincia a quattordici anni con i Regional Days. Le nostre squadre giovanili stanno da qualche tempo brillando in Europa e nel mondo e considero questo fatto, insieme alla riforma dell’Under 13, un’ulteriore medaglia di cui andare fiero.
Ringrazio il Presidente Magri per aver realizzato, il 17 dicembre del 2010, il mio più gigantesco sogno di bambino. Sono passati da quel giorno anni, medaglie, vittorie, sconfitte. 134 volte ho sentito suonare l’inno di Mameli con il cuore che scoppiava di orgoglio e di rispetto per quella bandiera distesa davanti a me.
Tengo tutti questi ricordi ma ne scelgo uno: la fotografia scattata sul podio olimpico di Londra. L’onore più grande che potesse immaginare un ragazzo che aveva incominciato ad allenare in un oratorio della sua città.
Ho un ultimo desiderio che devo soprattutto ai miei figli Francesco e Beatrice: vorrei spiegare loro che il nuovo modo di comunicare fondato sulle opinioni espresse sulle pubbliche piazze virtuali dei social network, ha fatto sì che siano state di me scritte cose che spero loro non leggeranno mai. Dietro ai ruoli ci sono persone e il principio del rispetto della persona dovrebbe guidare anche questo nuovo modo di comunicare. Mi piacerebbe che Francesco e Beatrice crescessero con l’idea che rispettare le regole e le persone è talmente bello da essere rilassante. Mi piacerebbe che andassero orgogliosi del fatto che il loro papà, partendo dal nulla, abbia avuto l’onore infinito di rappresentare il nostro Paese. Mi piacerebbe fossero orgogliosi del fatto che, al di là di 7 medaglie vinte, il loro papà possa essere ricordato per averlo fatto sempre e comunque con onestà. Con fatica, con onestà e con la schiena dritta.
Mauro Berruto”

Gemme n° 239

Quella che propongo è la mia canzone preferita, rilassante, trasmette pace, serenità e fa riflettere sulla differenza tra piccoli e grandi, e tutte le certezze che avevamo da bambini non sono più certezze”. Questa la gemma di I. (classe quinta).
Il testo, da una traduzione trovata on-line, dice: “Ma quando ero più giovane avevo la risposta, devo ammetterlo, ma tutte le mie risposte, adesso che sono più vecchio, si son trasformate in domande…”. Seguono alcune domande, alcune delle quali molto profonde e che potremmo comprendere all’interno delle cosiddette domande esistenziali, quelle cioè che si pongono alla ricerca di un senso. L’esperienza che ho fatto io non è tanto quella di una trasformazione delle risposte in domande, quanto quella di un mutamento delle risposte, influenzate dagli studi, dalle letture e soprattutto dai vissuti. Non nascondo che mi piace sentirmi provocato, non mi dispiace, talvolta, lasciare la terra ferma per nuotare in un mare incerto e sconosciuto verso nuovi approdi.

Il meglio di te

Un bel racconto di Roberto Emanuelli.
sedieIl saggio e anziano Ajari Shiki si ritrovò a giocare a Koi-koi, un antico gioco di carte giapponese, col suo nipotino Haruki. Il saggio Shiki vinse facilmente quasi tutte le mani e poi l’intera partita, usando molta tecnica e strategia. Usando il coraggio e la pazienza, il cuore e la testa, l’intelligenza e la furbizia. Nel tempo, Shiki, aveva imparato che c’è un momento in cui bisogna aspettare e uno in cui è necessario agire, fare qualcosa. Shiki aveva imparato, nei tanti anni di esperienza e umile studio, che statisticamente ci sono mani in cui si è serviti in modo favorevole e altre meno, e che, quando capitano, le mani favorevoli vanno sfruttate al meglio e ottimizzate col nostro ingegno, mentre quando ci si ritrova davanti a quelle avverse, è importante limitare i danni e non perdere testa e speranza. E in fine, Shiki, aveva imparato che a volte, pur mettendocela tutta, pur impegnandoci al massimo sfruttando tutte le nostre conoscenze e qualità, ecco, a volte si perde lo stesso, perché il nostro avversario è più forte di noi, o perché, quella, non era la nostra partita, ma che, conservando la nostra dignità, ci guadagneremo la possibilità di una nuova sfida. Ma Haruki, in un impeto di rabbia e frustrazione, si alzò di scatto, tutto rosso in viso, pronunciando parole intrise di collera e risentimento verso l’anziano nonno, e verso la sorte maligna. Shiki osservò in silenzio il giovane nipote, accennando un sorriso colmo di pietà e dispiacere, e dopo qualche secondo di esitazione gli rivolse poche parole: “l’uomo che attribuisce i motivi del suo fallimento alla sfortuna o, peggio, a un altro uomo, è un uomo che non ce l’ha fatta. È un uomo fragile. È un uomo che non ce la farà mai. Ora, tu hai una possibilità, mio giovane nipote, forse la prima e ultima della tua vita, puoi scegliere: metterti di nuovo seduto, dando il meglio di te, mettendo amore, impegno e umiltà, o scappare per il resto dei tuoi giorni”.
Haruki chiese umilmente perdono, e scelse di essere degno.”

Gemme n° 227

https://www.youtube.com/watch?v=VHJ2KUFDrlI

Il testo della canzone non rispecchia in maniera precisa e puntuale la mia situazione, ma vi ritrovo le emozioni mie e di mia sorella, a cui ho scritto la lettera che chiedo al prof di leggere. Non so se mai gliela consegnerò; adesso sicuramente no perché è troppo piccola”. Questa la gemma di V. (classe terza), di cui riporto solo la canzone.
Mentre riprendo in mano le parole di V. le casse del mio impianto stereo diffondono le note di una canzone poco nota di una cantante italiana scomparsa da un po’ di anni e molto sottovalutata. Si tratta di “Il vento folle” di Giuni Russo e il mio pensiero va all’amore di una sorella maggiore verso quella minore: “Ho piantato un giardino di pensieri e sentimenti in piena terra agitati dal vento, dal vento di un desiderio che non vuole, non vuole darsi per vinto. E poi vederti passare nel rumore del mare su tappeti di schiuma nelle spiagge sognate, poterti parlare mi commuove. Il vento folle porta un atomo d’amore dentro il cuore. Un respiro come un’onda del mare e la pienezza dell’amore che mi assale ed io foglia nel vento, quel vento di un desiderio che non vuole, non vuole darsi per vinto. E poi ti vengo a cercare nel rumore del mare su tappeti di schiuma nelle spiagge sognate, poterti abbracciare mi commuove. Il vento folle porta un atomo d’amore dentro il cuore”.

Gemme n° 221

https://www.youtube.com/watch?v=bODhgVA3-m0

E’ vero, la mia gemma è un cartone animato. Ma alla fine della quinta penso sia importante decidere che strada prendere; per farlo potrebbe esserci bisogno di andare contro tutti, anche contro coloro che vogliono il nostro bene. E’ difficile riconoscere la strada giusta. Qui il padre vuole proteggere il figlio ma rischia di impedirgli di vivere la sua vita, cavolate ed errori compresi. Si deve solo ascoltare se stessi, quello che ci piace, chiarirci le idee in mezzo a tutto ‘sto casino. Ecco, la mia ambizione è che vorrei aggiungere qualcosa di mio a questo mondo, creare qualcosa, sarebbe un peccato sprecare l’occasione e penso che debba cercare di farlo in tutti i modi possibili”. Queste sono state le parole con cui A. (classe quinta) ha commentato la sua gemma.
Una studentessa di quinta porta un cartone animato? Allora il suo prof risponde a tono… Con Kung Fu Panda aggiungo un elemento: la fortuna di incontrare qualcuno che creda in noi!