Un piede sulla lavagna, un piede sull’altare

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Ormai un classico appuntamento del blog: quello con le Interferenze di Gabriella Greison su Avvenire. Il 14 novembre si è dedicata a Georges Lemaître.

“Georges Lemaître non indossava un camice, ma una tonaca. Non lavorava solo tra telescopi e lavagne, ma anche tra chiese e cattedrali. Era un sacerdote cattolico e, nello stesso tempo, uno dei più grandi cosmologi del Novecento. L’uomo che per primo ha osato dire una frase rivoluzionaria: “L’universo ha avuto un inizio”. Lo chiamavano “il prete che ha inventato il Big Bang”. In realtà lui preferiva parlare di “atomo primitivo”: una minuscola particella cosmica compressa oltre ogni immaginazione che, disgregandosi, avrebbe dato origine a tutto ciò che conosciamo — galassie, stelle, pianeti, persino noi. Quando Lemaître lo propose nel 1931, l’accoglienza fu tiepida se non ostile: Einstein, dopo una sua conferenza, gli disse con l’aria di chi mette un punto: i calcoli sono corretti, ma la fisica è “abominevole”. Non proprio un incoraggiamento. Eppure quel giovane prete belga non si spaventò. Continuò a fare i conti, a immaginare il cosmo come una pellicola che non si srotola solo in avanti ma può essere riavvolta: se oggi vediamo le galassie allontanarsi, allora ieri dovevano essere più vicine, e prima ancora più vicine, fino a un primo respiro, un lampo d’origine. Un universo che si espande implica un’origine, e un’origine cambia tutto. Non più un cosmo eterno e statico, ma una storia.
Molti, ancora oggi, faticano a credere che Lemaître fosse entrambe le cose: sacerdote e scienziato. Come se la fede e la ricerca fossero incompatibili per statuto. Lui non vedeva alcuna contraddizione. Celebrare la Messa e scrivere equazioni erano due modi di entrare nello stesso mistero, con due grammatiche differenti. Diceva che tra l’inizio della materia e l’atto della creazione c’è un abisso che la fisica non colma e che la teologia non misura; la fisica racconta il “come”, la fede interroga il “perché”. Due domande diverse, entrambe necessarie. Per questo non usò mai la fede per tappare i buchi della scienza, né la scienza per dimostrare l’esistenza di Dio: manteneva un equilibrio raro, una distanza di rispetto tra i linguaggi. Era convinto che la matematica potesse dire l’universo con una chiarezza che nessun’altra lingua possiede, ma che il mistero del suo perché restasse oltre ogni formula.
C’è un fotogramma che amo: Lemaître alla lavagna, gesso in mano, il colletto bianco in evidenza, e quegli occhi da alpinista dell’ignoto. Pochi sanno che prima della “teoria dell’atomo primitivo” c’è un suo articolo del 1927, quasi ignorato, in cui ricava — con naturalezza disarmante — l’idea che lo spazio si stia espandendo e collega la distanza delle galassie alla loro velocità di allontanamento. Quella che poi diventerà la “legge di Hubble” l’aveva già messa nero su bianco lui, con la serenità di chi non ha urgenza di intestarsi i meriti. Non cercava fama, cercava coerenza: se i dati dicono questo, è lì che dobbiamo andare, anche se la filosofia del tempo preferisce un universo.
La sua tenacia era quasi monastica: niente clamore, solo lavoro. E quando negli anni ’50 qualcuno provò a trasformare la sua intuizione in bandiera apologetica — “il Big Bang conferma la creazione biblica” — Lemaître fu il primo a frenare: mischiare i piani, semplificare, usare la fisica come prova di Dio, era per lui un errore concettuale e spirituale. “La scienza non ha bisogno di Dio per funzionare. E Dio non ha bisogno della scienza per esistere.” In una riga toglieva secoli di malintesi.
Il suo temperamento era così: una spiritualità silenziosa, fatta di dedizione, di studio, di ascolto del cielo. Non predicava dai pulpiti: lasciava che le equazioni diventassero finestre. E mentre il dibattito infuriava tra universi eterni e universi a nascita, tra staticità rassicuranti e dinamiche vertigini, Lemaître continuava a fare ciò che sapeva fare meglio: affinare i conti, interrogare i dati, accettare che il reale potesse essere più audace delle nostre abitudini mentali. L’idea di un “giorno senza ieri” era un terremoto non solo scientifico ma culturale: se il tempo ha una nascita, allora la storia del cosmo è davvero una storia, con un incipit, uno svolgimento, una trama che continua a dispiegarsi. Il che non “dimostra Dio” — Lemaître non lo disse mai — ma ci espone a una domanda più radicale: perché ci sono leggi così fini da permettere stelle, chimica, coscienze? Perché la musica delle costanti fisiche suona nella tonalità giusta per far emergere la vita? La scienza descrive; la spiritualità, se è onesta, non invade ma domanda.
C’è anche un’altra immagine: Lemaître seduto a un tavolo di lavoro nell’Università di Lovanio, fuori la luce grigia del Belgio, dentro una lavagna piena. Accanto, non premi e medaglie, ma libri sgualciti. Poteva pretendere riconoscimenti; scelse la discrezione. Più tardi sarebbe diventato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, proprio perché capace di tenere i ponti aperti senza confondere le sponde. Non cercò mai d’essere protagonista: preferì aprire una strada e sparire ai margini del quadro. E proprio per questo la sua figura oggi risplende: perché ha lasciato spazio all’oggetto del suo amore — l’universo — più che al soggetto che lo raccontava.
Se dovessimo definire la sua spiritualità, potremmo chiamarla “spiritualità della ricerca”: lavoro silenzioso, fedeltà ostinata, meraviglia disciplinata. Non dogmi urlati, non scorciatoie. Un credente capace di custodire la trascendenza senza usarla come tappabuchi, uno scienziato capace di amare i limiti del proprio metodo senza trasformarli in muro. Ha accettato che la verità avesse più piani di profondità, che una formula potesse illuminare il come e una preghiera potesse sostenere il perché, senza che nessuna delle due pretenda l’ultima parola. In questo equilibrio sta la sua eredità più grande: la possibilità di abitare due mondi senza scegliere l’esilio.
E poi c’è l’epilogo che sembra scritto per il cinema: 1965–66, la scoperta della radiazione cosmica di fondo — quel fruscio termico che ci arriva da ogni direzione, eco tiepida della prima luce — che offre una conferma potente alla visione di un universo caldo e giovane che si espande. Lemaître ne viene a conoscenza poco prima di morire. Non fa proclami, non esulta: sorride con quella compostezza di chi sa che la scienza procede per indizi, mai per trionfi definitivi. È una tappa, non un arrivo. Anche la prova più elegante è sempre una soglia.
Lo confesso: quando racconto Lemaître io non sono una semplice cronista. Mi riguarda. Anche io vivo su quel crinale dove la ragione spinge e lo stupore trattiene; dove le equazioni aprono e le domande fanno aria; dove il “come” è una musica che voglio imparare e il “perché” è la vibrazione che non smette di chiamare. Non cerco dimostrazioni travestite da miracoli né miracoli travestiti da dimostrazioni. Cerco un luogo in cui ragione e poesia stiano nello stesso respiro. Per questo, quando parlo della sua teoria, non mi limito alla dinamica dello spazio-tempo che si dilata: sento, nello stesso gesto, una pedagogia del limite. La scienza non tutto può dire; la spiritualità non tutto deve dire. È nel varco tra i due che passa l’aria.
Georges Lemaître è morto nel 1966, pochi giorni dopo aver appreso che il cielo conserva ancora, ovunque, la memoria termica della sua nascita. Forse gli bastava: non l’ultima parola, ma un segno. La sua lezione, oggi, suona più necessaria che mai: il cosmo non è un problema da risolvere in fretta, è una storia da contemplare con attenzione. La fisica può dirci come procede; la spiritualità ci chiede perché ci riguarda. Tenere insieme queste due posture — senza confonderle, senza contrapporle — è l’arte sottile che lui ha praticato con una grazia che fa scuola.

E allora, la domanda inevitabile: davanti a un universo che ha avuto un inizio, davanti a un cielo che porta ancora l’eco di quel primo respiro, che cosa ne facciamo noi? Preferiamo archiviare tutto come caso, o sentiamo — anche solo per un istante — che dentro quell’inizio c’è una chiamata alla responsabilità, alla gratitudine, alla ricerca? Siamo disposti a vivere nell’apertura che Lemaître ci ha consegnato — un piede sulla lavagna, un piede sull’altare — senza chiedere all’uno di divorare l’altro, ma lasciando che insieme, finalmente, ci aiutino a guardare più lontano?”

Planck e la fiducia nell’invisibile

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Nel suo quarto articolo per la rubrica Interferenze di Avvenire, Gabriella Greison si occupa di Max Planck e dell’importanza di restare fedeli alla verità senza possederla.

“Max Planck non amava le scene. Non gli interessava l’eroismo, né le prime pagine dei giornali. Aveva un portamento discreto, quasi austero, da professore che preferisce passare inosservato. Eppure, da quell’austerità è nata una rivoluzione che ha cambiato per sempre la storia della conoscenza: la nascita della meccanica quantistica. Planck non cercava la fama: cercava la verità. E la verità, per lui, non era un premio o una formula perfetta, ma una condizione morale. Credeva che il mondo avesse una struttura logica, una coerenza interna, una musica che si poteva ascoltare solo nel silenzio. Diceva che la scienza era un modo per avvicinarsi all’ordine, e che quell’ordine — razionale, invisibile, armonico — era il segno di Dio. Non un Dio che interviene nei destini umani come un regista, ma un Dio che regge la scena con leggi invisibili, precise, meravigliosamente coerenti. Un Dio che non ha bisogno di apparire per essere creduto.
La sua scoperta, quella che gli cambiò la vita, arrivò quasi per disperazione. Alla fine dell’Ottocento la fisica era in crisi: c’era un problema, la “radiazione del corpo nero”, che nessuno riusciva a spiegare. Le formule classiche si scontravano contro un muro. Planck cercava solo un modo per far tornare i conti, non per rivoluzionare la fisica. Nel 1900 tentò una via che gli parve un espediente temporaneo: ipotizzò che l’energia non fluisse in modo continuo, ma a pacchetti, a “quanti”. Un piccolo gesto matematico, quasi un trucco per far funzionare la formula. E invece, con quell’atto di umiltà e di genio, aprì un varco. Il mondo non era continuo, ma granulare. La realtà non era un tessuto uniforme, ma un mosaico invisibile di frammenti energetici, pulsanti come note di una sinfonia che si accende e si spegne. La fisica classica si incrinava, e nasceva la fisica quantistica.
Planck stesso faticò a credere alla sua scoperta. Diceva che era come se avesse aperto una porta su un territorio che non voleva ancora esplorare. E infatti per anni cercò di tornare indietro, di chiudere quella porta, di rimettere ordine nel caos che aveva generato. Ma l’universo, ormai, aveva parlato. E da lì in avanti niente sarebbe stato più continuo, né prevedibile, né definitivo. Eppure Planck rimase Planck: calmo, riservato, quasi diffidente verso il clamore dei suoi colleghi più giovani. Non aveva lo slancio visionario di Einstein, né il gusto per i paradossi di Bohr. Era l’uomo del rigore, del metodo, della costanza. Pensava che la scienza fosse un avvicinamento lento, progressivo, un cammino fatto di piccoli passi. E dentro quel cammino trovava spazio per la fede. “La fede è un’eredità preziosa dell’umanità”, scrisse. “La scienza e la religione non sono in contrasto, ma si completano e si condizionano reciprocamente.” Non parlava di una fede dogmatica, ma di un atto di fiducia. Perché ogni scienziato, nel momento in cui scrive un’equazione, compie un gesto di fede: crede che l’universo abbia un senso. Crede che le leggi della natura non siano arbitrarie, ma coerenti. Crede che la mente umana sia parte di quell’ordine, non estranea ad esso. In questo senso, per Planck, la fede non era un’alternativa alla ragione, ma la sua radice. Era la fiducia che il mondo non sia assurdo, che ogni frammento di realtà porti traccia di una logica comune. Ma dietro quella calma del professore, la vita di Max Planck fu segnata dal dolore. Vide morire due figlie, una moglie, e infine il suo ultimo figlio, Erwin, giustiziato dai nazisti per aver partecipato al complotto contro Hitler. Aveva più di ottant’anni. Aveva visto crollare tutto: il suo Paese, la sua generazione, la sua fede negli uomini. Eppure non smise mai di credere, né nella scienza, né in Dio. Non alzò mai i pugni al cielo per chiedere spiegazioni. Non trasformò il dolore in rancore. Continuò a scrivere, a insegnare, a cercare. Perché la sua spiritualità era questa: resistere al buio, tenere accesa la luce dell’intelletto. C’è una sua frase che mi ossessiona: “Per credere nella scienza, bisogna credere nella razionalità del mondo”. È un manifesto, una preghiera laica. Perché ogni volta che sperimentiamo, noi stiamo già compiendo un atto di fede. Non quella dei dogmi, ma quella che ci dice che il mondo ha un senso. Che non è un gioco casuale. Che non siamo gettati nel caos, ma immersi in una logica che ci precede.
E qui, se permettete, apro una parentesi. Perché questa parte mi riguarda da vicino. Io, che racconto la fisica sui palchi, perché lo faccio? Perché non mi basta più dire le cose “fredde”, solo con i numeri. Io sono in ricerca. Mi muovo tra le equazioni e i racconti, tra gli archivi e la scena, ma quello che inseguo è un senso. Un senso che non si può scrivere con la gessata di una lavagna, ma si può intuire in un respiro, in una parola, in un gesto. La fisica, per me, non è mai stata solo tecnica: è una lente per guardare dentro, non solo fuori. È il mio modo di stare nella domanda. E la spiritualità — quella libera, senza dogmi, fatta di domande più che di risposte — è il territorio naturale in cui queste domande respirano. Io non so se troverò mai una risposta definitiva. Ma so che questo cammino, questo continuo oscillare tra particelle e mistero, è il mio modo di cercare. E ogni volta che racconto Planck, racconto anche questo: che il mistero non è un fallimento, ma un fine. Planck lo sapeva. Sapeva che non si può possedere la verità, si può solo restarle fedeli. Che la fede non è un pacchetto chiuso di certezze, ma il coraggio di continuare a cercare anche quando tutto sembra crollare. Forse la sua vera eredità non sono solo i quanti, i Nobel, le formule che portano il suo nome. Forse è questa: la certezza che scienza e fede non sono nemiche, ma sorelle. Due vie che non si annullano, ma si guardano negli occhi. Due strade che si separano e poi si ritrovano, come due onde che interferiscono e creano una figura nuova. Max Planck non parlava di miracoli. Parlava di costanza. Parlava di fedeltà. Credeva che Dio fosse la radice della logica dell’universo, il fondamento silenzioso di ogni legge naturale. E nella sua voce sobria, senza enfasi, c’era già una spiritualità profonda: credere che l’invisibile sia reale. Che la luce più forte non è quella che si vede con gli occhi, ma quella che illumina la mente e consola il cuore. La sua fede nella luce invisibile è un invito a non smettere di cercare, anche quando tutto intorno è oscurità. A credere che la conoscenza, se fatta con umiltà, è una forma di preghiera. Che ogni esperimento riuscito è una genuflessione alla bellezza del mondo. E che ogni scoperta, anche la più piccola, è un modo per dire grazie.
Domanda per noi, oggi: se persino Planck, il più sobrio dei fisici, ci ricorda che ogni conoscenza nasce da un atto di fede, siamo disposti ad ammettere che anche noi viviamo di fiducia nell’invisibile? E che forse la vera grandezza non sta nel possedere risposte, ma nel restare fedeli alla ricerca — anche quando fa male, anche quando sembra inutile, anche quando tutto intorno crolla? Perché la scienza, come la vita, non promette certezze. Promette solo che, finché continueremo a cercare, la luce invisibile non si spegnerà mai.”

Di una bellezza indefinibile

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Qualche giorno fa, subito dopo essersi svegliato dal pisolino pomeridiano, Fra ha iniziato a ridere. “Perché ridi?” gli ho chiesto. E’ vero che non ha neanche due anni, ma riesce a farsi capire bene. Solo che ha continuato a ridere. E più ripetevo la domanda, più continuava a ridere. Ridevo con lui, perché in quella risata era di una bellezza indefinibile. Siamo andati avanti una decina di minuti. Una scena che mi è tornata alla mente alla fine del terzo articolo di Gabriella Greison per la rubrica Interferenze di Avvenire (mi sa che li proporrò tutti, li trovo estremamente interessanti e fecondi).

“Oggi vi parlo di Werner Heisenberg, uno dei creatori della fisica quantistica. Werner Heisenberg non aveva bisogno di dogmi, ma di armonie. Non entrava nei templi, ma saliva sulle montagne della Baviera, violino sotto braccio, per contemplare l’alba come fosse un’equazione che si lascia intuire solo per pochi istanti, e poi svanisce. La sua preghiera era fatta di musica e matematica, di silenzi e formule, di ipotesi scritte di notte e cancellate al mattino. Il suo altare non aveva icone, ma lavagne piene di simboli che solo pochi al mondo potevano comprendere, e che lui difendeva come un linguaggio sacro. La sua vita è la prova che si può credere senza possedere, che ci si può dedicare a qualcosa di invisibile senza mai vederlo direttamente. Perché questo fa un fisico: dedica la vita a entità che non compariranno mai a occhio nudo, ma che sente presenti come presenze concrete, reali, più solide del legno dei banchi su cui scrive. La scienza, per lui, era una forma di contemplazione, non un’appropriazione. Guardava il mondo non per domarlo, ma per comprenderne la musica segreta.
Quando Heisenberg formulò il principio di indeterminazione, disse al mondo una cosa che nessuno voleva sentire: che non possiamo conoscere tutto, che non esiste la certezza assoluta. Possiamo dire dove sta una particella, oppure quanto corre, ma non entrambe le cose insieme. Non è un limite dei nostri strumenti, ma un limite della realtà stessa. Era come dichiarare che il cuore dell’universo è velato, che esiste una soglia che la mente umana non può oltrepassare. E questo, se ci pensate, ha la stessa radicalità di un annuncio religioso: non tutto ci è dato. Il mistero non è un incidente, è una struttura. Non siamo noi a decidere dove finisce la conoscenza: è la realtà stessa che ci pone un confine, e ci chiede rispetto.
Non era un mistico convenzionale, Heisenberg. Non lo trovavi inginocchiato davanti a un altare, ma potevi trovarlo in silenzio davanti a un tramonto, o al banco di un laboratorio, a osservare un esperimento che sembrava non obbedire a nessuna regola. C’era qualcosa di profondamente spirituale nel suo modo di guardare al cosmo. Credeva che l’universo fosse costruito su una bellezza matematica, e che quella bellezza non fosse un dettaglio estetico, ma una firma. Come se ogni legge fosse una frase di un poema invisibile, scritto da una mano che non smette mai di scrivere. E quando quella mano tace, resta l’eco. L’eco di un ordine che non riusciamo a spiegare, ma che riconosciamo come familiare.
C’è una sua immagine che resta scolpita: il bicchiere delle scienze naturali. Disse: “Il primo sorso ci rende atei, ma sul fondo del bicchiere ci aspetta Dio.” È la sua maniera di dirci che la scienza ci disillude, ci toglie certezze facili, ci fa scendere dal trono dell’onniscienza… ma se abbiamo il coraggio di bere fino in fondo, quello che troviamo non è il nulla: è un fondamento che ci supera. Non un Dio dei dogmi, ma un Dio delle profondità, delle domande, dell’incompletezza. La scienza, per lui, era il viaggio dell’uomo che non smette di interrogarsi, e Dio era il nome che dava al mistero che resta, anche dopo aver spiegato tutto il resto.
Heisenberg aveva due passioni parallele: la fisica e la musica. Passava ore al pianoforte, convinto che Bach e Mozart stessero dicendo con le note ciò che la fisica dice con gli integrali: che l’universo non è un ammasso caotico, ma un ordine segreto, una trama nascosta che ci avvolge. La musica era per lui una sorella della scienza: entrambe gli restituivano l’intuizione che il mondo non è mai muto, ma vibra di senso. Suonava e scriveva come chi cerca lo stesso accordo in linguaggi diversi. Diceva che un’equazione è come una fuga di Bach: inizia con un tema, poi si ripete, si intreccia, si trasforma, fino a ritrovare se stessa. Era il suo modo di dire che la verità, prima di essere capita, va ascoltata.
Ma la vita di Heisenberg non fu solo contemplazione. Venne attraversata da dilemmi morali che lo marchiarono per sempre: lavorare o no sul progetto atomico durante la guerra, scendere a compromessi con un regime che pretendeva obbedienza, salvare la scienza tedesca senza macchiarsi di sangue. Era un uomo diviso, e sapeva che nessuna formula avrebbe potuto cancellare quella divisione. Quando fu interrogato dagli alleati dopo la guerra, rispose con un’idea che ancora oggi fa discutere: che la conoscenza non è mai neutrale, ma porta con sé una responsabilità. La sua spiritualità non era evasione, ma coscienza vigile: la consapevolezza che ogni scelta scientifica è anche una scelta etica.
Heisenberg ci ha insegnato che il mistero non è quello che resta quando la scienza fallisce, ma quello che incontriamo anche quando la scienza riesce. Ogni volta che una teoria funziona, ogni volta che una previsione coincide con un esperimento, lì non troviamo la fine del mistero, ma un nuovo inizio. Ogni conquista della conoscenza apre un’altra finestra sull’infinito, e ogni risposta genera nuove domande. È come una montagna: sali, credendo di arrivare in vetta, e scopri che dietro c’è un’altra vetta, più alta e più luminosa. La conoscenza autentica non elimina la sete, anzi la accresce. Forse la sua eredità più grande non è il principio di indeterminazione, né il Nobel che lo consacrò giovanissimo. Forse tra i suoi meriti c’è quello di averci ricordato che la conoscenza non è possesso, ma umiltà. Che non si arriva mai, ma si cammina. Che la scienza e la spiritualità non sono due opposti, ma due sguardi diversi sullo stesso orizzonte. Heisenberg è la prova che si può essere razionali e mistici, rigorosi e sognatori, precisi e pieni di stupore. E allora la sua frase sul bicchiere non è solo un gioco di spirito. È un invito: a bere fino in fondo, a non fermarsi al primo sorso di scienza, a non accontentarsi delle semplificazioni. Perché in fondo a quel bicchiere non c’è la fine del pensiero, ma il suo inizio più radicale. Bere fino in fondo, in fondo, vuol dire accettare di non sapere tutto, ma continuare a voler capire.
Domanda per voi, per tutti noi: se la realtà, come ci ha insegnato Heisenberg, non si lascia mai catturare del tutto, se c’è sempre un margine di indeterminazione, siete disposti a vivere accanto a quel margine? A convivere con un mondo che non si lascia possedere ma solo contemplare? Forse la vera spiritualità, e la vera scienza, cominciano proprio lì: nel coraggio di abitare l’incertezza senza smettere di cercare. E magari, se ogni tanto l’universo ci sembra incomprensibile, ricordiamoci che anche lui, laggiù tra le montagne bavaresi, davanti a un’alba che cambiava colore ogni minuto, sorrideva. Sapendo che la bellezza più grande è quella che non si lascia definire.”

La perseveranza nella possibilità

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Una decina di giorni fa avevo pubblicato il primo articolo di Gabriella Greison per la rubrica Interferenze di Avvenire. Qualche giorno fa è uscito il secondo dedicato a Marie Curie.

“Marie Curie non aveva tempo per i dogmi. Non amava i riti, non cercava consolazioni nei libri sacri. Eppure la sua vita è una delle testimonianze più radicali di cosa significhi credere in qualcosa che non si vede. Non pregava, ma vegliava per notti intere sopra un forno improvvisato. Non cercava miracoli, ma li provocava senza saperlo. Quando scoprì la radioattività, non sapeva ancora cosa fosse. Non c’erano parole, né modelli teorici, né manuali per spiegarla. Sapeva solo che da quelle pietre di pechblenda che le arrivavano sporche di fango e carbone, in sacchi da tonnellate, si sprigionava un’energia misteriosa.  Una luce invisibile che attraversava la materia, che lasciava tracce su lastre fotografiche dimenticate in un cassetto, che si rivelava con una luminescenza tenue nei suoi laboratori scuri. Non si vedeva a occhio nudo, ma era lì, reale, tangibile. Una presenza che sembrava più spirituale che materiale.
Marie Curie non lavorava con strumenti sofisticati: aveva provette spaiate, pentole crepate, mani  segnate dalla fatica. Il laboratorio era poco più di una baracca: d’inverno il freddo entrava dalle finestre rotte, d’estate il caldo scioglieva il piombo. Eppure, in quelle condizioni, scoprì che l’universo custodiva una scintilla segreta. Una scintilla che illuminava senza fiamma, che scaldava senza fuoco, che parlava senza voce. Una dedizione totale a quello che faceva.
Forse la sua spiritualità era questa: restare fedele a una ricerca che non prometteva nulla, se non il brivido del mistero. Non cercava un Dio personale, ma neanche si accontentava di un mondo già catalogato. La sua fede era nel lavoro, nella sua dedizione, nella possibilità che dietro l’apparenza ci fosse altro. E mentre gli uomini intorno a lei facevano carriera nelle accademie, Marie continuava a rimestare tonnellate di materiale grezzo. “Ho dovuto trascinare carri, spezzare pietre, accendere forni, come un contadino”, raccontava. Eppure, mentre sudava e tossiva in quella baracca, si accorgeva che stava accendendo una luce nuova sul mondo.
C’è una frase di Marie che mi colpisce sempre: «Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire». È un manifesto che potremmo appendere ovunque. Significa che la paura nasce dal buio, e che la conoscenza è una forma di luce. Eppure, proprio lei che aveva acceso quella luce, pagò il prezzo più alto: il suo corpo assorbì lentamente la radiazione che non sapeva ancora come domare. Le sue ossa si incrinavano, le sue mani tremavano, i suoi taccuini restano ancora oggi radioattivi, custoditi in piombo nelle biblioteche di Parigi.
In questo c’è una grande lezione di spiritualità: si può credere al punto da consumarsi, si può amare il mistero fino a farlo entrare nelle ossa. Non perché si sia fanatici, ma perché si riconosce che la vita ha senso solo se ci si dona a qualcosa che ci supera. Marie Curie non parlava di Dio, ma ci ha consegnato un’idea che gli somiglia: la convinzione che nell’invisibile ci sia la verità. E che la nostra parte più autentica non si trovi in quello che possediamo, ma in quello che siamo disposti a cercare. Forse la sua eredità non sono solo l’uranio o il polonio, né i due premi Nobel, né le onorificenze che le hanno consegnato troppo tardi. Forse la sua vera eredità è averci insegnato che la luce non è solo quella che vedono gli occhi. Ce n’è un’altra, più sottile, che ci chiede di avere coraggio, pazienza, dedizione.
Perché la sua grandezza non sta solo nell’aver aperto una strada nuova alla scienza, ma nell’averci  ricordato che il mistero non si doma: lo si accompagna. Si vive accanto a lui, lo si accetta, lo si interroga. Si lascia che diventi parte di noi. Eppure, per capire Marie, bisogna tornare all’inizio. Una ragazza di Varsavia, in un tempo in cui alle donne non era concesso quasi nulla: non le aule ufficiali, non le cattedre, non il diritto a una curiosità senza permesso. Studio clandestino, libri presi di nascosto, una fame di sapere che non si spegne. È lì che nasce la sua “preghiera laica”: imparare, anche quando tutto intorno dice di no.
Poi l’incontro con Pierre: due vite che si uniscono non per completarsi, ma per moltiplicarsi. Non  un altare, ma un banco da lavoro; non promesse solenni, ma una cassa di legno piena di minerali, campioni, strumenti. L’amore, per loro, è un’alleanza con la materia. E quando la materia restituisce il suo segreto, loro lo chiamano con nomi di patria e affetto: polonio, radio. Nella scelta dei nomi c’è la loro geografia interiore: il luogo da cui si parte e il fuoco che si è trovato. E poi la perdita. Un carro, un incidente, il mondo che si spezza. Marie rimane davanti a un’assenza che non ha linguaggio. Non scrive preghiere, non chiede risarcimenti al cielo. Torna in laboratorio, accende il forno, rilegge gli appunti. È una fedeltà senza spettacolo: l’idea che la vita riprenda senso stando vicino alla sorgente di luce che si è accesa insieme. Quella fedeltà è una forma di spiritualità: restare dove arde, anche quando brucia. E arriva la guerra. Non una parentesi, ma una chiamata. Marie prende la luce invisibile e la porta dove serve: sul fronte, negli ospedali, nelle baracche di fortuna. Addestra infermiere, guida camion, spiega come mettere a fuoco un’ombra dentro un corpo per salvare un arto, una vita. Non discute teorie: accende apparecchi. La scienza, in quelle ore, è una carezza che vede ciò che l’occhio non vede. La sua spiritualità è diventata azione: non parole, ma voltaggi e immagini che rimettono insieme ciò che la guerra rompe.
E c’è la fama, che non consola. Premi, medaglie, scandali, sospetti. La diffidenza verso una donna  “troppo donna per la scienza, troppo scienza per il salotto”. Marie non risponde. Lavora. Quando la vita di superficie si agita, lei scende di un livello e tace, come fanno i minatori quando la galleria vibra. È un gesto spirituale: scegliere la profondità quando la superficie fa rumore. Se guardiamo bene, tutto in lei è un esercizio di presenza. Restare, anche quando fa male. Cercare, anche quando non c’è garanzia di trovare. Illuminare, anche quando nessuno ringrazia. È una mistica senza dogmi, una scienziata senza retorica. La sua “preghiera” è una formula semplice: “continua”. Ed è proprio in questo verbo che la scienza e la spiritualità si toccano: nella perseveranza che non pretende risultati immediati, ma tiene aperta la possibilità.
E allora la domanda diventa nostra: cosa ce ne facciamo, oggi, della sua luce invisibile? In che  modo possiamo rimanere accanto a ciò che non capiamo, senza fuggire? Possiamo imparare anche noi a “vedere dentro” — nelle cose, nelle storie, nelle persone — con un apparecchio che non ha manopole ma ha un nome antico: attenzione. Forse l’attenzione è la radiografia dell’anima: mette a fuoco l’invisibile e lo rende abitabile. Ecco perché Marie Curie appartiene a questa rubrica: perché ci ricorda che la scienza, quando tocca l’invisibile, diventa preghiera. Non detta formule, ma ci invita a restare in ascolto. Non costruisce dogmi, ma apre spazi. Non ci promette risposte definitive, ma ci regala la capacità di non smettere di domandare.

PS: Scrivo questa rubrica anche per questo: perché sento il bisogno di rileggere figure come Marie Curie non solo come scienziate, ma come donne e uomini che hanno interrogato il mistero. Anch’io sono — come tutti, forse — alla ricerca di un nuovo significato da dare alle cose del mondo. Non basta spiegare, non basta calcolare. Voglio trovare parole che tengano insieme ragione e stupore, numeri e silenzi. In questo cammino, anche Marie Curie diventa per me una compagna di viaggio, come Einstein e altri fisici che hanno scavato nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni. Non tanto perché abbiano trovato risposte definitive, ma perché hanno avuto il coraggio di convivere con l’invisibile. Domanda per voi: qual è la vostra luce invisibile, quella a cui vi affidate nei momenti bui?”

La bellezza nella domanda

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Su Avvenire è stata inaugurata una nuova rubrica curata dalla fisica Gabriella Greison. Il nome è Interferenze e così la presenta l’autrice: “Scrivo questa rubrica perché sono — come tutti, forse — alla ricerca. Una ricerca che non è fatta solo di archivi, formule o viaggi nei luoghi dei fisici del Novecento, ma anche e soprattutto di  un bisogno interiore: dare un nuovo significato alle cose del mondo. Viviamo in un’epoca in cui le spiegazioni sembrano a portata di mano. Tutto è un link, un tutorial, un algoritmo che completa la frase al posto nostro. Eppure più le risposte si moltiplicano, più mi accorgo che le domande sono quelle che contano. Non basta dire “come funziona” — serve chiedersi “perché ci riguarda”, “che senso ha per me”. In questo cammino, Einstein è il mio faro. Non tanto per la relatività o per le fotografie spettinate che conosciamo tutti, ma per la sua capacità di tenere insieme due cose che di solito vengono separate: il rigore della scienza e il senso del mistero. Einstein non ha mai smesso di cercare, non ha mai smesso di stupirsi, non ha mai avuto paura di nominare Dio quando sentiva che le parole della fisica non bastavano più. Einstein come altri fisici (soprattutto quantistici) a cui sono legata e che scavano nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni.
Questa rubrica nasce così: dal desiderio di abitare quel confine invisibile tra scienza e spiritualità, dove i numeri non cancellano le emozioni, e le emozioni non negano i numeri. Voglio provare a raccontare storie che aprano spazi, che lascino entrare aria nuova, che mettano insieme ciò che spesso separiamo. Non so ancora dove porterà questa ricerca. Ma so che partire da Einstein significa partire da un luogo sicuro: il luogo in cui il pensiero più razionale si lascia attraversare dallo stupore, e l’uomo più logico del Novecento ammette che senza mistero la vita si spegne. Ecco cosa farò in queste righe: camminerò in quella zona di confine, raccoglierò indizi, proverò a dare voce a ciò che sfugge. Non con trattati, ma con racconti. Non con soluzioni definitive, ma con riflessioni aperte. Perché se il mondo ha ancora bisogno di senso, forse il primo passo è ricominciare ad ascoltare la spiritualità che ci abita. Domanda per voi: E voi? Quando è stata l’ultima volta che vi siete lasciati sorprendere da qualcosa che non sapevate spiegare? State sicuri che leggerò tutte le vostre risposte. Potete inviarle a
lettere@avvenire.it.

Riprendo la parola per dire che riguardo ad Albert Einstein quest’anno cadono, tondi tondi, diversi anniversari: 120 anni dalla teoria della relatività ristretta, 110 anni dalla relatività generale e 70 anni dalla morte avvenuta il 18 aprile 1955. Ma ecco il pezzo di Gabriella Greison.

“Da ragazzo Albert Einstein non aveva nessuna predisposizione al sacro. Anzi, al ginnasio di Monaco la religione gli stava stretta: dogmi, preghiere obbligate, riti che gli sembravano gusci  vuoti. A quindici anni, con la stessa radicalità con cui più tardi avrebbe spezzato le catene della  fisica classica, decise di liberarsi da ogni idea di un Dio personale. «Un’illusione infantile», la  chiamava. Poi arrivò la sua maturità scientifica, il suo trasferimento in America, e con esso l’illuminazione. Non nel senso mistico, ma in quello che appartiene a chi attraversa le profondità dell’universo e scopre che non tutto può essere spiegato con la logica. Mentre scardinava le leggi di Newton, mentre piegava lo spazio e il tempo, Einstein cominciava a percepire che c’era qualcosa di più grande. Lo chiamava «il Vecchio». Non era un Dio che ascolta le preghiere, ma un’entità più sottile: l’ordine nascosto della natura, la razionalità misteriosa dell’universo.
«Voglio sapere come Dio ha creato il mondo — scriveva — non mi interessano questo o quel fenomeno, questa o quella particella. Voglio conoscere i Suoi pensieri, il resto sono dettagli». Era un parlare con Dio senza crederci davvero. Un dialogo che somigliava più a un esercizio filosofico che a una devozione. Eppure in quelle frasi si sente il respiro di un uomo che ha visto troppo per restare ateo in senso stretto. Einstein illuminato non abbraccia mai una religione. Non si converte, non fa professioni di fede. Ma riconosce che il linguaggio della fisica, da solo, non basta. «Il misterioso è ciò che non possiamo  penetrare, e che tuttavia percepiamo come significato più profondo della nostra esistenza». È questo il suo salto: da ragazzo scettico ad adulto capace di parlare con Dio — non per ricevere risposte, ma per non smettere di fare domande.
E così, il fisico che ha dato al mondo la teoria della relatività finisce per regalarci una visione più  assoluta: un Dio senza altari, fatto di equazioni e meraviglia, un’entità che non giudica ma che  invita a guardare più in profondità. Einstein non si immaginava certo un signore con la barba bianca seduto tra le nuvole a dispensare  premi e punizioni. Eppure parlava spesso di religione. E lo faceva con una formula che spiazza  ancora oggi: «Il più bel sentimento che possiamo provare è il senso del mistero. È la fonte di ogni vera arte e di ogni vera scienza. Chi non lo conosce, chi non sa più fermarsi davanti allo stupore e restare rapito, è già come morto: i suoi occhi sono spenti». In pratica, aveva trasformato tutto questo in un sentimento di religious feeling. Non religione come  dogma, ma religione come vibrazione interiore, come consapevolezza che la realtà nasconde  qualcosa di infinitamente più grande di noi. Non un catechismo: un’emozione. Non un trattato di teologia: un brivido.
Perché lo scienziato che più di tutti ha cambiato la nostra visione del mondo — ha piegato lo  spazio, ha curvato il tempo, ha fatto ballare la luce — in fondo ci diceva che la vera radice non era la matematica, ma il mistero. E qui sta il punto. Oggi siamo così abituati ad avere risposte pronte che ci dimentichiamo la bellezza delle domande. Google risolve i dubbi, Alexa risponde in un secondo, l’intelligenza artificiale completa le frasi prima che le abbiamo pensate. Ma Einstein ci ricorda che la scienza nasce non dalle risposte, bensì dall’incapacità di smettere di stupirsi. C’è qualcosa di profondamente spirituale in questo. Non nel senso confessionale, ma in quel confine sottile dove la fisica diventa poesia. Quando Einstein diceva che «il misterioso è l’emozione fondamentale», stava riconoscendo che la realtà non è mai del tutto addomesticabile. Non tutto si lascia misurare, non tutto si lascia prevedere. Ogni volta che pensiamo di aver incasellato l’universo, lui ci sorprende con un paradosso, una particella, un lampo di inatteso. E allora la domanda che ci resta è: come risuona oggi questa idea? Forse così: la vita è meno lineare di quanto vorremmo, meno controllabile di quanto speriamo. Possiamo programmare agende, pianificare carriere, prenotare voli low cost per i prossimi sei mesi.  Ma poi arriva l’imprevisto, l’inaspettato, il salto quantico che non avevamo considerato. Ed è lì che ci accorgiamo di essere vivi.
Il senso del mistero non è una fuga dall’incertezza, ma la sua accoglienza. È accettare che non sappiamo tutto, e che va bene così. È riconoscere che c’è una bellezza nella domanda non risolta, una luce negli angoli bui. Einstein non ci stava invitando a costruire un tempio. Ci stava suggerendo di abitare la meraviglia. Di non perdere quello sguardo da bambini che si incantano davanti a una coccinella, a un’eclissi, a una formula scritta male sulla lavagna che però apre universi. Forse la sua vera eredità non è solo la relatività, ma questa: custodire il mistero come il bene più prezioso. Perché senza mistero non c’è ricerca, non c’è arte, non c’è spiritualità. E soprattutto: non c’è vita.”

Gemma n° 2110

“Per la gemma di quest’anno ho scelto un libro intitolato Siddharta, di Herman Hesse, che ho letto quest’estate. In generale, Hesse ama scrivere di grandi personaggi che nel corso della storia si imparano a conoscere e trovano se stessi, spesso senza farlo apposta. In particolare ho deciso di leggere uno dei passi più significativi, che secondo me riassume perfettamente tutto ciò che lo scrittore vuole comunicare tramite il suo breve romanzo. 
Siddharta si rivolge all’amico Govinda, parlando della ricerca e di come cercare non significhi sempre trovare.
Disse Siddharta: “Che cosa dovrei mai dirti, io, o venerabile? Forse questo, che tu cerchi troppo? Che tu non pervieni a trovare per il troppo cercare?”
“Come dunque?” Chiese Govinda.
“Quando qualcuno cerca,” rispose Siddharta, “allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori da quella che cerca, e che egli non riesca a trovare nulla, non possa assorbire nulla in sé, perché pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: esser libero, restare aperto, non avere scopo. Tu, venerabile, sei forse di fatto uno che cerca, poiché, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi.”
Siamo talmente impegnati nella nostra estenuante ricerca che spesso, alla fine, rimaniamo a mani vuote, non perché non abbiamo trovato l’oggetto della ricerca, ma proprio perché non siamo stati abbastanza liberi e abbastanza aperti da lasciare che altre cose che ci sembravano meno importanti venissero a noi. Abbiamo gli occhi talmente puntati su una cosa sola, sullo scopo, sull’obiettivo, che il nostro sguardo non cade sul resto. Il “resto” non ci interessa, è sempre lì davanti agli occhi, pare scontato. Il punto è che spesso il “resto” ci sembra avere meno valore, crediamo che non ci possa dare quanto lo farebbe lo scopo della ricerca. Però nel “resto”, si può celare l’occasione della vita, un’esperienza indimenticabile, una persona che ci sappia voler del bene: il “resto”, a cui non diamo peso o valore, potrebbe essere anche l’obiettivo stesso.
Riconosco il fatto che il mio pensiero possa essere un concetto difficile da capire, ma a volte sono spaventata dal fatto di essere capace solamente di cercare e non di trovare” (E. classe terza).

Gemma n° 1865

“Innanzitutto vorrei proporre uno spezzone de Il giovane favoloso, film che parla della vita di Leopardi, non solo delle poesie ma anche delle sue vicende e della sua personalità.

L’ho scelto per due motivi. Il primo è che ho studiato Leopardi con una prof che mi ha insegnato un sacco di cose, il secondo è la lettura de L’arte di essere fragili di D’Avenia che ci ha consigliato la nostra attuale prof di lettere. La prof delle media mi ha fatto capire, attraverso questa poesia, un sacco di cose sull’adolescenza e su quello che può aspettarmi nella vita: nonostante ci saranno momenti difficili, saranno seguiti da momenti di felicità. Inoltre mi ha fatto capire che Leopardi non è un pessimista, ma un uomo speranzoso che celebra la vita e mi ha fatto apprezzare anche le altre poesie sue. Poi nel 2018 ho fatto delle vacanze a Recanati, prima ancora di sapere che fosse il paese di Leopardi. Ho visitato la casa ma mi hanno colpito soprattutto i luoghi delle sue poesie, la torre, la finestra da cui si affacciava, dal paesaggio che lascia senza fiato e senza parole. La passione per Leopardi mi è stata trasmessa poi da mia madre.”
E’ ricca questa gemma di E. (classe seconda) e per commentarla prendo a prestito delle parole di Alessandro D’avenia dal libro citato da lei: “Mi sono convinto che gli adolescenti non hanno domande: sono domande. Riformulano con i loro silenzi gli stessi “perché” reiterati tipici dei bambini, ma su un piano diverso: il bambino chiede come mai ci sono le stelle, l’adolescente chiede come ci si arriva, perché la speranza è desiderio (de-sidera, distanza dalle stelle), la sua mancanza è un disastro (dis-astro, assenza di stelle)”.

Gemma n° 1835

“Ho portato questo libro perché mi ha aiutata molto a trovare un’identità, cosa di cui sono sempre alla ricerca perché vado in crisi se non so chi io sia. L’ho acquistato all’inizio dell’estate, è sul metodo enneagramma, fondato su nove personalità che tendono a emergere a seconda delle esperienze che viviamo”.

La gemma di A. (classe prima) si concentra sull’argomento che, in prima, stiamo trattando dall’inizio dell’anno: l’identità. L’economista indiano Amartya Sen afferma: “La principale speranza di armonia nel nostro tormentato mondo risiede nella pluralità delle nostre identità, che si intrecciano l’una con l’altra e sono refrattarie a divisioni drastiche lungo linee di confine invalicabili a cui non si può opporre resistenza”. Porsi quindi alla ricerca di un’identità, di un’unica identità e magari definitiva, mi pare un’impresa.

Un’inesauribile ricerca di luce

Martina Spollero ha terminato il Liceo Percoto nel 2020. Poi si è iscritta a Lettere Moderne ed è allieva della Scuola Superiore dell’Università di Udine. Insieme a Gabriele Visintin, studente di filosofia, ha scritto un articolo per Il chiasmo, magazine online edito dalla Rete Italiana degli Allievi delle Scuole e degli Istituti di Studi Superiori Universitari (RIASISSU), in collaborazione con l’Istituto Treccani. Lo ripropongo qui molto volentieri e aggiungo ai suggerimenti di lettura dei due autori il libro di Massimo Recalcati “Il grido di Giobbe”, sempre sullo stesso tema (libro che ho appena terminato).

Il muto dialogo tra l’uomo e Dio

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

Se l’esperienza del quotidiano è quella di una realtà profondamente intrisa dal male e dominata dalla sofferenza, come conciliare la constatazione del dolore con un vivo rapporto di fede? È possibile un dialogo con un Dio imperturbabile davanti alla sofferenza del frutto stesso del suo amore?
La visione della fede proposta dal filosofo danese Søren Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855), sebbene influenzata dalla rigida educazione pietista impartitagli fin dalla giovinezza, risulta un tassello fondamentale nell’analisi dell’esperienza religiosa intesa come imprescindibile componente dell’esistenza umana. Il rapporto col divino che emerge dai suoi scritti viene rappresentato quanto mai distante dai dogmatismi interpretativi consueti mediante cui è percepita la fede. Essa risulta, infatti, caratterizzata da sentimenti radicalmente negativi quali l’angoscia e l’incomunicabilità, i quali isolano l’uomo entro i confini di una prospettiva che lo allontana dai suoi stessi simili.
Nell’opera Aut-Aut Kierkegaard individua differenti stadi della vita dell’uomo. Il primo di essi è quello della vita estetica, nel quale l’uomo sceglie di non scegliere, e ricerca, in tutte le loro forme, il piacere e il godimento personale. La brama della passione – inevitabilmente e per sua stessa natura – non giunge al suo pieno soddisfacimento, conducendo inesorabilmente l’uomo verso la noia e l’indifferenza. La figura esplicativa di questo stadio è appunto quella dell’esteta, del  seduttore, alla quale si contrappone l’uomo che incarna le caratterizzanti dello stadio etico e vive conformemente a una morale, inserito in una quotidianità e in una concretezza sociale e umana.  Questo momento di vita può essere rappresentato  dal marito fedele e laborioso. Come ben evidenziato da Remo Cantoni nel suo saggio introduttivo all’opera di Kierkegaard qui presa in esame, l’aut-aut denota la scelta con cui ci si sottopone al contrasto tra il bene e il male. Non accettare questa dicotomia, pertanto, non significa necessariamente propendere verso il male, bensì verso l’indifferenza etica.
La possibile comunicazione che sussiste ancora tra vita etica e vita religiosa viene definitivamente meno nel saggio che il filosofo danese pubblicherà pochi mesi più tardi: Timore e tremore. Mediante l’esempio di Abramo, rivela come l’uomo religioso, immerso in una fede totalizzante, si trovi in aspro contrasto con le convinzioni etiche e morali comunemente accettate e condivise. Il patriarca dell’ebraismo viene messo nella posizione di doversi confrontare con una richiesta assurda e irrazionale: sacrificare suo figlio Isacco. Il nodo insolubile e controverso del rapporto tra l’uomo e la spiritualità scaturisce dalla constatazione che Colui che pretende l’immolazione dell’amato risulti il medesimo che quella prole gliel’ha donata, Dio stesso. La prospettiva, annichilente e disarmante, è quella dell’innocente che si interroga circa il fondamento di un tale abominio e la richiesta di privazione dell’unico frutto d’amore concessogli attraverso il grembo della moglie Sara, simbolo di quella vita che sopravvive – oltre le soglie della morte – sotto forma di eredità nei posteri.
Il tragico dolore che Abramo si trova ad affrontare diventa icona dell’esperienza religiosa estesa a tutti gli uomini: essa risulta sconnessa – secondo Kierkegaard – dalla ragione, dalla morale, dalla razionalità. La fede è un salto nel buio, è un cieco abbandono a una volontà che non è conforme e coincidente a quella umana, e che per questo motivo non è comunicabile agli altri individui. Ne deriva un’esperienza di fede profondamente soggettiva e assolutizzante, una frattura che allontana l’uomo dal divino, il quale vive un rapporto assoluto con l’assoluto. “Chi si trova nel mare della disperazione trova l’assoluto”, asserisce Cantoni. L’uomo, dunque, incontra Dio proprio nella sofferenza più totale.

L’esempio letterario in cui confluiscono tutte queste considerazioni è quello del romanzo Giobbe, frutto del genio e della penna di Joseph Roth (Brody, 2 settembre 1894 – Parigi, 27 maggio 1939). Potremmo considerare Mendel Singer (protagonista del romanzo) come il tipico uomo morale kierkegaardiano che vive nella convinzione di incarnare una fede sincera, la quale si manifesta – nei limiti dell’illusione generata dalla sua soggettività – in un rapporto diretto con Dio, dinanzi al quale si genuflette e si abbandona completamente, togliendo a se stesso qualunque prospettiva di azione, nell’attesa che si portino a compimento i piani a lui destinati (il tutto fondato su preconcetti di matrice quasi fideistica che vedono un Dio dispensatore di beni ai giusti e di dolori a coloro che non si incamminano lungo la via della rettitudine). Il suo atteggiamento nei riguardi della fede è duplice e fortemente problematico: da un lato nega la necessità di intermediari, rivendicando la possibilità di instaurare un rapporto intimo con l’Assoluto, dall’altro non cerca mai veramente un dialogo con Dio. Nel momento in cui il concatenarsi di spiacevoli eventi imprevisti lo costringe a uscire dai binari della quotidianità e a fare esperienza di un dolore che attanaglia anche le vite degli innocenti, si avvia il turbolento processo di demistificazione dei pregiudizi sui quali si fonda il suo fragile credo, e che lo porteranno via via a prendere le distanze da una fede vissuta meccanicamente, in una sua forma sterile e semplicistica.
Proprio l’esperienza diretta con il dolore lo getta nella condizione di interrogarsi sul suo sentimento religioso. Il personaggio viene portato a mettere in discussione la volontà di Dio, il suo rapporto con esso e a prendere in mano le redini di una vita sino a quel momento vissuta come passivo spettatore. Davanti alle disgrazie che lo colpiscono, il suo diviene il grido ancestrale dell’innocente che lamenta l’ingiusta punizione di cui non coglie le ragioni, che rivendica – quasi portavoce degli interrogativi di ogni uomo – il diritto alla felicità. La rabbia si tramuta in rigetto totale della fede, la quale, in quanto elemento costitutivo della sua intera esistenza, porta il personaggio in qualche misura a rinnegare sé  stesso e ad abbandonarsi in un tetro nichilismo rassegnato e rancoroso.
Se il Giobbe biblico accetta il male così come accoglie il bene, in quanto si percepisce come ente infinitesimale rispetto a ciò che lo sovrasta e non vacilla mai nei suoi intenti – poiché caratterizzato da un rapporto con Dio genuino sin da principio – il personaggio rothiano compie un’evoluzione inversa. Il suo è un percorso che va dall’illusione di una fede sincera che, messa in discussione dalle prove cui si vede suo malgrado sottoposto da Dio, approda al termine del romanzo a un rinnovato dialogo più consapevole e autentico – e dunque più sincero – con il Creatore. Nel racconto si osserva, pertanto, la fede come sentimento profondamente umano che, proprio in quanto tale, manifesta i tratti di quelle stesse debolezze e inquietudini caratteristiche dell’uomo.

La prospettiva religiosa fin qui delineata ribalta la concezione odierna della fede come palliativo verso la sofferenza. Non è grazie alla morte e alla paura verso di essa che l’uomo, anelando a un’eternità metafisica, si rifugia nell’eternità per definizione (Dio), che risulta però inconsistente illusione, inconsciamente creata dall’uomo stesso. Fu il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872) a teorizzare che senza la morte come limite naturale non esisterebbero le religioni, così come Dio. La fede vista in questa prospettiva assumerebbe caratteri prettamente utilitaristici: l’individuo è costretto ad affidarsi a una figura ultraterrena e soprannaturale per sperare in una vita che possa superare la morte. Presentata in tal modo, l’adorazione religiosa è legata esclusivamente alla promessa di immortalità. Senza questa promessa, se dell’uomo, delle sue opere e del frutto delle sue fatiche nulla rimane, allora Dio non solo sarebbe “inutile”, ma non avrebbe senso neppure porsi la questione della sua esistenza. La fede esisterebbe fintanto che da essa si può ottenere un profitto reale e tangibile.
Nel suo senso antropologico, il dolore si manifesta nell’estrema concretezza di un’esperienza in grado di produrre quella discontinuità necessaria a rompere il ritmo abituale dell’esistere e a trasfigurare sotto una rinnovata luce le esperienze caratterizzanti del quotidiano. Risulta al contempo patimento e rivelazione: il suo porre inesorabilmente l’uomo dinanzi la cocente presa di consapevolezza dei suoi limiti e della sua fragilità, lo predispone all’analisi di sé e alla messa in discussione dei paradigmi interpretativi a lui consueti. Chiuso entro i confini del suo microcosmo esistenziale, l’individuo acquisisce paradossalmente una prospettiva privilegiata per meditare sulla natura e sullo scopo della sua stessa sofferenza in quanto «prezzo dell’esistenza e sapore dell’istante che passa» (Le Breton, 2007). L’impressione è quella di un patimento tutto individuale, incomunicabile agli altri e a loro incomprensibile che alimenta il ripiegamento in una dimensione inedita dell’esistenza. Il dolore può assumere un valore solo nel preciso istante in cui ad esso viene attribuito, quando diviene cioè epifania di un disegno ultimo che va al di là dei confini di quel frammento di vita che è l’uomo. Imprescindibile punto di partenza per il maturare di una fede viva e sincera è proprio l’esperienza del più profondo e totale abbandono, di quel tetro silenzio di un Dio che apparentemente tace davanti alla sofferenza umana. La visione screditante della fede come comodo palliativo non è altro che la distorsione derivante da un’interpretazione fortemente semplicistica del sentimento religioso e implica il rischio di deresponsabilizzazione dell’uomo e dell’agire: il sacrificio umano non è la sopportazione del dolore, è l’accoglienza di un messaggio di fede capace di farsi propulsore all’azione e occasione per una riscoperta sincera della presenza di un essere Altro, esterno ma allo stesso tempo componente intrinseca di sé.
Ciò che si è voluto dimostrare con quest’analisi è come l’esperienza religiosa, generata da un bisogno naturale e innato di assolutezza divina, divenga quotidiana riscoperta del rapporto autentico con l’Assoluto attraverso l’intima esperienza del dolore. L’essenza del sentimento di fede risiede nella tensione di un’inesauribile ricerca della luce tra le pieghe in ombra dell’esistenza, nel perpetuarsi di un’insaziabile esplorazione profonda della vita interiore spinta dalla volontà di dare risposte circa il senso dello stare al mondo e di quel fine ultimo verso cui la vita dell’uomo è volta teleologicamente a tendere.

Per saperne di più:
GIOVANNI PAOLO II, Salvifici doloris. Lettera Apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, Roma, Paoline Editoriale Libri, 2015.
KIERKEGAARD, Aut-Aut, Milano, Mondadori, 2016.
KIERKEGAARD, Timore e tremore, Milano, Mondadori, 2016.
KOLAKOWSKI, Se non esiste Dio, Bologna, Il Mulino, 1997.
LE BRETON, Antropologia del dolore, Roma, Meltemi editore, 2007.
ROTH, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Milano, Adelphi edizioni, 2014.

La figura di Adriana Zarri

Su Settimana News ho recuperato un articolo di Giannino Piana (pubblicato sulla rivista Il gallo) sulla figura di Adriana Zarri, che nel mese di aprile avrebbe compiuto 100 anni.

“Il mondo interiore di Adriana Zarri, una vera mistica del nostro tempo, non è facile da decifrare. Sebbene siano molti i testi di spiritualità che ci ha lasciato – alcuni dei quali di rara intensità (È più facile che un cammello… Gribaudi, Torino 1975; Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera, Cittadella, Assisi 1978; Erba della mia erba. Resoconto di vita, Cittadella, Assisi 1981; Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino 2011; Quasi una preghiera, Einaudi, Torino 2012) – la sua figura di donna votata alla vita monastica risulta a chi l’ha conosciuta da vicino (e per un lunghissimo periodo della sua esistenza) caratterizzata da mille sorprendenti sfaccettature che non si lasciano imbrigliare dentro una scrittura, sia pure carica sempre di un’impronta fortemente personale, come la sua.
La ricchezza della personalità e la estrema varietà degli interessi coltivati confluivano in lei attorno a un asse fondamentale, che dava unità alla sua esistenza: la ricerca insonne di Dio in un rapporto stretto con la terra in tutte le sue componenti, dagli uomini agli animali al mondo vegetale, aderendo alle radici contadine, che hanno segnato profondamente la sua identità umana e religiosa (Cf. Con quella luna negli occhi, Einaudi, Torino 2014). È sufficiente ricordare la passione di Adriana per i gatti e, finché le è stato concesso dalla salute, l’allevamento degli animali da cortile e la coltivazione dell’orto.

Ad avvalorare questa visione vi è poi il suo essere donna: l’appartenenza di genere si riflette decisamente anche sulla sua spiritualità, che ha i connotati di una spiritualità al femminile. Anche a questo proposito emerge tuttavia l’originalità di Adriana: la sua adesione alle lotte femministe è stata infatti sempre contrassegnata da un vero (e profondo) coinvolgimento e insieme dalla rivendicazione di una grande libertà e indipendenza di giudizio.
La spiritualità di Adriana coinvolge dunque – come si è accennato – la realtà in tutte le sue dimensioni. Il profumo dei campi nelle diverse stagioni, il colore variegato dei fiori, il fruscio delle fronde e il verso degli animali e, soprattutto, le vicende degli uomini, quelle dei poveri in particolare, segnano l’incontro con un Dio che è dentro la storia: il Dio che si è definitivamente manifestato nella persona di Gesù di Nazaret. Ma l’aspetto che contraddistingue, in modo speciale, il suo approccio, e che la avvicina alla spiritualità francescana, è l’accento posto sull’importanza che ha avuto, nel «farsi carne» (sarx) del Figlio di Dio, la dimensione «spaziale», e non solo «temporale»; il «divenire natura», e non solo storia.
Il creato, in tutta la ricchezza delle sue espressioni, assume il carattere di habitat (spazio opportuno) che, rapportandosi al kairòs (tempo opportuno), conferisce alla dimensione contemplativa un orizzonte cosmico. L’esperienza di Dio nel mondo fa della vita quotidiana, nella molteplicità delle sue espressioni, non solo la sorgente, ma anche la modalità secondo la quale vivere la relazione con il divino. Vi è dunque una profonda continuità tra vita spirituale e vita quotidiana, perché il Dio della rivelazione è – come ci ricorda la lettera ai Filippesi da Adriana spesso citata – colui che in Gesù Cristo «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» e «facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8).
Dio e mondo sono dunque per Adriana in un rapporto di circolarità: da un lato, la immagine del Dio cristiano non può prescindere dalla sua relazione con il mondo di cui è entrato a far parte; dall’altro, il mondo è da questa relazione riscattato; diviene anticipazione del Regno. Questa visione della realtà, che sollecita l’impegno nel presente e l’attesa del futuro, ha per Adriana una perfetta esplicitazione nella preghiera del Padre nostro, dove alla richiesta del pane quotidiano («Dacci oggi il nostro pane quotidiano») corrisponde l’invocazione del compiersi del Regno («Venga il tuo Regno») e dell’adempimento della volontà del Padre («Sia fatta la tua volontà») (Mt 6, 9-13).

La dinamica relazionale, che è l’asse portante della spiritualità di Adriana, ha poi nel mistero trinitario le sue radici. Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, che Gesù di Nazaret ha reso trasparente nella sua persona e attraverso la sua azione, è il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo: un Dio nel quale la relazione coincide con la stessa natura: le persone che costituiscono il mistero divino sono in quanto si rapportano tra loro.
La definizione che di Dio fornisce la prima lettera di Giovanni: «Dio è carità» (1Gv 4,8) ha qui la sua più profonda motivazione. Trinità e carità sono strettamente correlate e interdipendenti. Solo di un Dio che vive in comunione di persone è infatti possibile dire che è Amore (e non semplicemente che ha l’amore), perché l’amore implica la relazione tra persone, che si costituiscono nel reciproco donarsi. In un libro di preghiere (o di quasi preghiere) che reca significativamente il titolo Tu (Tu. Quasi preghiere, Gribaudi, Torino 1973), Adriana si rivolge a Dio come a Qualcuno cui è possibile dare del tu, giungendo a livelli di intimità che ricordano le grandi esperienze mistiche – da maestro Eckhart a Giovanni della Croce e a Teresa d’Avila – alle quali spesso Adriana fa riferimento nei suoi scritti.
L’incontro profondo, ma sempre inevitabilmente limitato, con il tu divino – la conoscenza di Dio è quaggiù parziale («per speculum et in aenigmate») – è la molla che spinge Adriana ad accostarsi alla morte, che ella considera una componente essenziale della vita – il contatto con la natura cui è stata abituata fin dall’infanzia facilitava la consapevolezza di questa continuità – come al passaggio da questa vita alla vita nuova, nella quale diviene finalmente possibile entrare in una relazione «faccia a faccia» con il Signore, che consente di conoscerlo come egli è («sicuti est»).

La spiritualità di Adriana non si esaurisce tuttavia nella sola adesione ai presupposti fondativi ricordati; si rende concreta in una serie di attitudini esistenziali, due delle quali meritano di essere particolarmente ricordate.
La prima è l’ascolto. Le religioni del Libro sono religioni dell’ascolto: «Ascolta Israele» è l’invito che, fin dall’inizio, Dio rivolge al suo popolo. Ma l’ascolto – Adriana lo mette bene in evidenza – non si esaurisce (e non può esaurirsi) in un semplice sentire; esige un ridimensionamento dell’io per fare spazio all’accoglienza dell’altro e alla comprensione del suo messaggio. Esige la creazione di un clima di silenzio e la disponibilità a fare propria la povertà evangelica, che è insieme sobrietà nei confronti delle cose e apertura fiduciale alla grazia divina. La scoperta del mondo degli altri e dell’Altro è legata all’abbandono di ogni forma di autoreferenzialità, quale frutto di una profonda trasformazione interiore, una vera metanoia.
Una seconda attitudine, particolarmente cara ad Adriana, è la ricettività, che considera un habitus esistenziale in stretta sintonia con il vissuto femminile. Destinata a essere custode della vita, la donna ha sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti di tale attitudine, la quale, lungi dall’identificarsi con la passività, è l’espressione (forse) più alta di attività, in quanto esige, per potersi esplicare, un processo di interiorizzazione, che consenta di riconoscere l’altro nella sua alterità, senza proiezioni mistificatorie. D’altra parte, la ricettività non è soltanto una virtù umana, per quanto grande; è anche – a questo va soprattutto ricondotta l’importanza che Adriana le attribuisce – la condizione fondamentale per vivere la relazione con il Dio cristiano, il quale viene costantemente incontro all’uomo, andando alla sua ricerca anche quando si è colpevolmente allontanato da Lui. La fede non comporta dunque un andare verso Dio, ma un disporsi a riceverlo, creando le condizioni per accoglierlo, lasciandosi fare e amare da Lui.

L’esperienza spirituale fin qui evocata ha per Adriana il suo momento più alto nella preghiera, o meglio nel pregare, il quale, lungi dal ridursi a fare o a dire preghiere, è un vero e proprio modo di essere-al-mondo. Il Dio della rivelazione biblica è il Dio dell’alleanza, che entra in comunione vitale con l’uomo, ma che, al tempo stesso, gli impone di non raffigurarlo né nominarlo, rivendicando in questo modo la sua assoluta Alterità.
La preghiera è dunque ascolto, incontro e relazione, ma è anche rispetto di una distanza che non può mai essere del tutto colmata. È un vivere alla presenza di Dio, fare esperienza dell’essere abitati da Lui, ma è anche riconoscimento dell’assenza; è rifiuto di catturarlo per servirsene, evitando di assumersi fino in fondo la propria responsabilità nel mondo.
La preghiera è una cosa seria che non deve essere separata dal contesto in cui si sviluppa l’esistenza e che implica la confidenza, ma che non può essere viziata da sdolcinature impudiche: il tema del pudore ricorre con frequenza nei testi spirituali di Adriana come un’istanza che deve connotare ogni espressione religiosa.
L’incontro con Dio rinvia all’impegno nel mondo; l’atto cultuale non ha alcun significato se non si traduce in culto spirituale, nella capacità di coniugare incontro con Dio e fedeltà all’uomo e alla terra, immettendo nel dialogo religioso le inquietudini e le speranze umane. La preghiera di Adriana ha questo timbro; da essa scaturisce la militanza che ha contrassegnato l’intera sua esistenza, con la partecipazione diretta alle battaglie contro le diseguaglianze sociali e per la promozione dei diritti civili. L’eremo non è stato per lei un luogo separato dal mondo, ma un angolo appartato dal quale guardare con lucidità e partecipazione le vicende umane e mondane. La solitudine del monaco – Adriana preferiva definirsi così, al maschile, per l’accezione equivoca acquisita dal termine femminile – non è isolamento; è un processo di riappropriazione del mondo interiore, che restituisce all’uomo la libertà, rendendolo capace di esercitare il discernimento profetico nei confronti della realtà.
Una spiritualità, quella di Adriana, la cui grande linearità e coerenza ha suscitato talora forti contestazioni da parte di ambienti ecclesiastici tradizionalisti; ma che ha, nel contempo, favorito la nascita di profonde amicizie religiose e laiche – come non ricordare dom Benedetto Calati e Rossana Rossanda? – che hanno concorso ad arricchire la sua esperienza religiosa e civile (e di cui hanno fruito quanti hanno frequentato i suoi incontri). Una spiritualità, soprattutto, nella quale la tensione alla trascendenza, lungi dal vanificare la dedizione nei confronti dell’uomo e della terra, ha fornito piuttosto lo stimolo all’esercizio di una limpida e feconda testimonianza in favore della città degli uomini.”

La verità in una relazione

Carlo-SiniQualche giorno fa Alessandro Zaccuri ha pubblicato sulle pagine di Avvenire un articolo sul filosofo bolognese Carlo Sini. Molte sono le suggestioni presenti.
“Tra un paio di giorni il piccolo supermercato vicino alla casa milanese di Carlo Sini chiuderà i battenti. «Per fare la spesa dovrò fare un pezzo di strada in più – commenta il filosofo –. Nuove abitudini, nuovi incontri. Un nuovo inizio, in un certo senso. Pensare, del resto, significa sempre iniziare da capo, a partire dalle occasioni che la vita ci offre».
Negli ultimi tempi Sini non fa altro: inizia, in continuazione. Classe 1933, a lungo docente di Filosofia teoretica alla Statale, di recente ha avviato le attività di Mechrí, un laboratorio di studi transdisciplinari i cui materiali sono pubblicati da Jaca Book in un’apposita collana, “Mappe del pensiero”: il primo volume, incentrato sul binomio Vita, conoscenza, (a cura di Florinda Cambria, pagine 352, euro 28,00), viene presentato oggi alle 18,30 presso la Libreria Città Possibile in via Frua 11, a Milano.
Non si tratta di un saggio unitario, ma di una raccolta di contributi variamente ispirati alle originali tavole concettuali elaborate dallo stesso Sini. «L’obiettivo – insiste – è lo stesso dei miei ultimi libri: far uscire la filosofia dall’isolamento specialistico in cui si è confinata e restituirla alla sua funzione originaria». L’unità dei saperi, niente meno. «Certo – sottolinea Sini –, altrimenti la filosofia non sarebbe una disciplina, ma soltanto una carriera accademica».
È uno sviluppo che, per quanto coerente rispetto alla riflessione precedente di Sini, ha subìto un’accelerazione nel 2016 con la comparsa di Inizio, la cui «conseguenza», come la definisce l’autore, è ora rappresentata da Trittico (pagine 80, euro 12,00: l’editore è sempre Jaca Book, che ha in catalogo l’opera omnia di Sini). Questa volta il linguaggio dell’argomentazione sembra cedere il passo al racconto, con una serie di apologhi dal vero che hanno per protagonisti Giovanni Gentile e Benito Mussolini, Richard Wagner e Francesco De Sanctis, senza dimenticare il padre della semiotica, Charles Sanders Peirce, che negli ultimi anni della sua esistenza si mantiene compilando voci di enciclopedia.
«Ho cominciato a ragionare seriamente sull’inizio quando mi sono accorto di essere vicino alla fine del mio cammino – ammette sorridendo Sini – e per me è stato naturale spostarmi sul terreno della biografia, che è sempre in qualche misura un’autobiografia. Riusciamo a dire degli altri ciò che abbiamo appreso di noi stessi. Di questo, a mio avviso, occorre avere consapevolezza: del potere invisibile che le esperienze di vita e, più ancora, l’opinione comune esercitano sulle nostre convinzioni, sul nostro modo di pensare e di esprimerci. Il fatto strano, invece, è che oggi la filosofia non mette affatto in questione quella che i greci indicavano con il termine di doxa: il sentire comune, appunto, sul cui ruolo determinante si erano già concentrate le riflessioni dell’ultimo Husserl. Una trascuratezza che ha spesso sviluppi paradossali, come quando ci si intestardisce nel sostenere che il razionalismo, così come è stata codificato dall’Illuminismo francese, non sia un momento della storia d’Europa, ma la risposta definitiva a ogni domanda dell’umanità».
Il “potere invisibile” al quale Sini fa riferimento non va inteso come un’entità occulta e malevola. «Al contrario – ribadisce il filosofo – è il potere della realtà che si trasforma davanti a noi in un processo non prevedibile e non dominabile, ma che di solito è sovrastato dalla presunzione di un sapere che dovrebbe prescinderne. E non si capisce come mai, fra tutte le esperienze umane, solo questa del pensiero dovrebbe essere immune dalla dimensione del discorso, che ci caratterizza come specie fin dai tempi in cui i nostri antenati lasciarono l’Africa».
Un altro elemento fondamentale, ricorda Sini, è rappresentato dalla cognizione della morte. «Vico e Foscolo ci avevano già avvertiti: dove si trova una tomba, lì c’è la civiltà, che presuppone la comunità tra i vivi e i morti. È l’orizzonte della celebrazione e del sacro ed è la comprensione di come fine e inizio siano indissolubilmente legati tra loro. Il sapere, di per sé, segna di norma la fine di un’avventura, collocandosi nell’istante in cui Orfeo si volta per guardare Euridice, la vede e, vedendola, la perde per sempre».
A dispetto delle apparenze, quella di Sini non è una prospettiva rinunciataria, né tanto meno relativista in senso tradizionale. «Quando affermo che la verità è “relativamente assoluta” intendo dire che la ricerca della verità, alla quale non possiamo rinunciare, avviene sempre all’interno di una relazione. E la verità, essendo a sua volta dinamica, suscita in noi un dovere morale, un’interrogazione ininterrotta che non può mai accontentarsi di un un sapere particolare. Stephen Hawking, per esempio, era persuaso che la fisica potesse risolvere ogni problema, ma non si rendeva conto che questa stessa pretesa esulava del tutto dalle competenze della fisica. La ricerca della verità è per sua natura simbolica, perché si realizza nel tentativo di ricomporre un’unità che non è mai astratta, ma si manifesta nell’atto stesso della ricomposizione. Siamo sempre alla fine di qualcosa, per questo non possiamo fare a meno di iniziare».
Pur non muovendo da un’esplicita istanza religiosa, la proposta di Sini si confronta necessariamente con la fede. «La mia impressione – dice – è che per il credente l’itinerario della mente sia sempre in Deo, e cioè nel corpo stesso di Dio, anziché in Deum, come si ripete abitualmente con un’espressione fin troppo umana, che riduce Dio a un oggetto remoto e trascendente, da conoscere mediante una sorta di attraversamento. Il cristianesimo, anche in questo caso, mette a disposizione l’intuizione formidabile dell’Incarnazione, in virtù della quale Cristo diventa un concreto modello di vita. Dio si consegna all’uomo con quella formula abissale dei Vangeli, il “tu l’hai detto” che è il rovesciamento della domanda di Pilato su che cosa sia la verità. Gesù non risponde con una nozione astratta, ma istituisce una relazione. Aprendo la strada, una volta di più, a un nuovo inizio».”

Rabbi Bunam, i Metallica, Leopardi e Lucio Dalla

E’ venerdì, il mio giorno libero. Il sabato lavoro. Alle 8.00 ho messo il guinzaglio a Mou e siamo andati a fare una passeggiata nel fresco e nel chiarore della luce del mattino di questa bellissima giornata di inizio primavera. Nelle orecchie avevo una puntata di Uomini e profeti in cui il filosofo e psicanalista Romano Madera, ad un certo punto, cita un racconto di Martin Buber tratto da Il cammino dell’uomo:
Ai giovani che venivano da lui per la prima volta, Rabbi Bunam era solito raccontare la storia di Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale. Quando il sogno si ripetè per la terza volta, Eisik si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Eisik gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin li dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: “E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Eisik, figlio di Jekel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Eisik e l’altra metà Jekel!”. E rise nuovamente. Eisik lo salutò, tornò a casa sua e dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga intitolata “Scuola di Reb Eisik, figlio di Reb Jekel”. “Ricordati bene di questa storia – aggiungeva allora Rabbi Bunam – e cogli il messaggio che ti rivolge: c’è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare”.
Ho tolto gli auricolari dalle orecchie perché percepivo che la memoria stava cercando di suggerirmi qualcosa, ma non riuscivo a darle ascolto. E poi è arrivato il flash! THROUGH THE NEVER! La canzone dei Metallica!

Quella canzone si apre con queste parole: “Tutto ciò che esiste, è esistito ed esisterà, l’universo è troppo grande per conoscerlo, tempo e spazio sono infiniti. Sorgono pensieri inquietanti, domande restano in sospeso, i limiti della comprensione umana”. E poi ancora: “Nell’oscurità, guarda oltre i nostri sguardi alla ricerca della verità non importa dove sia, fissando la brezza dei cieli alla ricerca del senso, della ragione, perché sia arrivato ad esistere, come sia cominciato”.
E così Martin Buber e James Hetfield hanno iniziato a dialogare nella mia mente: in questi giorni da molte riflessioni svolte nelle seconde e nelle quinte sono emersi molti interrogativi. Domande simili a quelle che si poneva pure Leopardi nel suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?”.
Mi piace pensare che una possibile risposta sia insita nella domanda che un altro cantante si pone. Questa volta si tratta di Lucio Dalla e della sua canzone Le rondini (tra l’altro stanno per arrivare!): “Vorrei seguire ogni battito del mio cuore per capire cosa succede dentro e cos’è che lo muove, da dove viene ogni tanto questo strano dolore, vorrei capire insomma che cos’è l’amore, dov’è che si prende, dov’è che si dà”.

I Dire Straits, mio nonno e l’Epifania

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“Uffa, non riesco a trovare Making Movies dei Dire Straits”
“Ti ricordi la voce del nonno? A volte provo a cercarla nella memoria, ma faccio così fatica a trovarla”
“Sono alla ricerca di Dio”

Ho voluto buttare giù in maniera molto diretta e semplice tre frasi che hanno la caratteristica di avere un tratto comune, quello della ricerca. Direi però che le somiglianze si fermano a questo.
La prima rimanda alla ricerca di un oggetto perduto, un qualcosa che si conosce molto bene e che si ha magari anche la possibilità di recuperare (o di ricomprare se non si ha un attaccamento o un ricordo particolare legato allo specifico oggetto). Di certo ho ben presente davanti agli occhi il cd, so bene cosa sto cercando, tanto che i miei occhi filtrano lo scaffale alla ricerca di un dorsetto color rosso. Ho delle aspettative specifiche che so esattamente come verranno soddisfatte al momento del ritrovamento.
La seconda rimanda a un’esperienza, a una persona che so già di non poter più riavere con me. Posso avere la speranza che in un vecchio filmino ci sia la voce registrata di mio nonno. Ho un ricordo di voce forte, tonante, piena, ma non riesco a risentirla nelle orecchie. E se anche trovassi quella registrazione so che non sarebbe come sentirla dal vivo, così scorporata da quell’uomo alto, robusto e dal volto gentile. Saprei tuttavia anche qui cosa cercare.
La terza mi è venuta in mente pensando alla festa cristiana di domani. Di cosa vanno alla ricerca i Magi? Che ricerca è la loro? Non sanno cosa aspettarsi, non stanno cercando qualcosa che hanno perso o che appartiene già alla loro esperienza. Può essere benissimo che la soluzione alla loro ricerca, la meta del loro cammino, sia molto diversa da quello che si aspettavano.

Appunto

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“La nostra speranza è che il nuovo assomigli a ciò che già conosciamo almeno quel tanto da poterlo comprendere. E questo sempre succede… Al contrario. Più scendiamo nell’infinitamente piccolo, meno comprendiamo. Ci sono dei fisici che hanno spinto la loro sottile analisi delle cose tanto in là da perdersi in un mondo in cui la stessa, vecchia Casualità non li seguiva più… Che fare, in un ordine di grandezza dove non si pone più il problema delle immagini?… Se le cose hanno un fondo, questo fondo non assomiglia a nulla… La similitudine sparisce… La profondità è insignificante. Ma quanto è curioso questo ricercare, nell’estrema divisione, la chiave dei problemi del nostro ordine!…”

Paul Valéry, L’idea fissa

Una stagione di ricerca assoluta

9788833928234_0_0_1603_80Priyamvada Natarajan è indiana, insegna a Yale e ha da poco scritto il libro “L’esplorazione dell’universo. La rivoluzione che sta svelando il cosmo”. Guido Tonelli insegna fisica all’Università di Pisa e ha scritto “Cercare mondi. Esplorazioni avventurose ai confini dell’universo”, che sarà nelle librerie dal 23 febbraio. La Lettura ha pubblicato una conversazione tra i due: molti e interessanti i temi trattati e un bellissimo ed entusiasmante invito alle giovani menti. Ho reperito in rete il brano intero su PressReader.
PRIYAMVADA NATARAJAN – Mi sono occupata principalmente di cosmologia ma ho coltivato da sempre una grande passione per la storia e la filosofia della scienza. Da studente del Massachusetts Institute of Technology ho addirittura preso una laurea su questi temi. Poi ha prevalso la passione per astrofisica e cosmologia, ma il vecchio entusiasmo giovanile è rimasto. Ora è come se fosse riemerso qualcosa di quell’antica infatuazione. Le scoperte degli ultimi decenni hanno modificato cosi radicalmente la nostra comprensione del cosmo che ho sentito il bisogno di raccontare questo cambiamento a un pubblico più vasto.
GUIDO TONELLI – Mi sento in totale sintonia con questa impostazione. Ho scritto Cercare mondi per far conoscere, a un pubblico di non specialisti, cosa sappiamo della nascita dell’Universo e della sua fine. Sono le domande che mi sono state rivolte più spesso, ogni volta che ho fatto incontri con il pubblico. Nel libro ho scelto di non usare formule, ma di far leva sull’immaginazione; quasi di prendere per mano il lettore e portarlo con me a scoprire che cosa è successo, sequenza dopo sequenza, in quell’epoca primordiale. Vorrei davvero che questo grande racconto delle origini fosse accessibile a tutti.
PRIYAMVADA NATARAJAN – Un altro aspetto da sottolineare è che dietro ogni nuovo paradigma scientifico ci sono uomini e donne che vivono grandi passioni, e che talvolta entrano in conflitto fra loro. Ci sono anche persone che svolgono un lavoro eccellente, ma che rimangono dietro le quinte. A loro ho voluto dare voce. Mi piace raccontare il processo complicato con il quale una nuova idea, radicalmente diversa dalle precedenti, si afferma. Ritengo fondamentale che il grande pubblico conosca il lato umano della ricerca scientifica, l’altalena di emozioni che si vive quando si lavora ai confini della conoscenza. Considero tutto questo molto importante soprattutto per gli Stati Uniti dove, ancora oggi, gli atteggiamenti di diffidenza se non di rifiuto della scienza sono molto radicati.
GUIDO TONELLI – In Italia per certi versi la situazione fino a qualche tempo fa era anche più difficile, perché non è mai esistita una tradizione di divulgazione scientifica paragonabile a quella dei Paesi anglosassoni. E tuttavia, da alcuni anni, c’è un interesse strabiliante per tutti i temi scientifici. Il punto di svolta è stata l’attenzione mediatica attorno al nostro acceleratore di particelle Lhc al Cern di Ginevra a partire dal 2008, che è continuata con la
scoperta del bosone di Higgs e quella delle onde gravitazionali. Ricordiamoci che, prima di allora, raramente i risultati scientifici apparivano sulle prime pagine dei giornali. Il successo del bel libro di Carlo Rovelli ha fatto il resto. Ha costretto anche il mondo della cultura e delle case editrici a considerare interessanti questi lavori.
PRIYAL-R’ADA NATARAJAN – Ciò deriva anche dal fatto che viviamo in un’era di progressi scientifici formidabili. Guardate come è cambiata la nostra visione del mondo negli ultimi vent’anni: energia oscura, bosone di Higgs, onde gravitazionali, per citare alcune delle scoperte più eclatanti. Non mi stupisco che il pubblico sia curioso e voglia capire. L’impulso ad alzare gli occhi al cielo e chiedersi da dove viene la meravigliosa distesa di stelle che ci sovrasta è vecchio quanto l’umanità.
GUIDO TONELLI – Ogni società si costruisce in qualche modo attorno a una cosmologia. Nessuna civiltà, 9788817092258_0_0_768_80grande o piccola che sia, può reggersi senza porsi la grande questione: da dove veniamo e che ruolo abbiamo nel mondo. Intorno ad essa si costituisce l’impalcatura che regge i rapporti fra i vari gruppi sociali e regola quelli fra individui. Quella storia, sia essa mitica o materiale, fantastica o concreta, dona un senso alle nostre fragili esistenze, colloca in un contesto più ampio la nostra vita individuale. La ricerca scientifica più avanzata ci fornisce oggi un racconto meraviglioso delle nostre origini; ci costringe ad avventurarci in territori nei quali la mente rischia di perdersi, ma contiene visioni capaci di togliere il respiro.
PRIYAMVADA NATARAJAN – Sono d’accordo sull’osservazione che dentro ciascun essere umano è tuttora forte il bisogno di capire il nostro ruolo in questa specie di dramma cosmico che si sviluppa intorno a noi. Negli ultimi anni è anche successo che un discreto numero di scienziati, ancora attivi nella ricerca, hanno sentito il bisogno di utilizzare un linguaggio comprensibile per un pubblico più vasto. Per guanto mi riguarda lo ritengo in qualche modo anche un nostro dovere. Fisica delle particelle e astrofisica sono due branche della big science, richiedono cioè apparati estremamente complessi, che comportano grossi investimenti e notevoli quantità di risorse umane e intellettuali. Personalmente sento una specie di obbligo morale a condividere gli scopi di quello che facciamo con i cittadini del mondo intero; perché sono loro a finanziare le nostre ricerche attraverso le tasse che pagano.
GUIDO TONELLI – Forse c’è anche un altro elemento da prendere in considerazione, a questo punto della nostra conversazione. Mi piace pensare che l’interesse per la scienza abbia a che fare, in qualche modo, con la caducità degli argomenti del normale dibattito pubblico. Se guardiamo al sistema della comunicazione, il tempo medio di persistenza di una notizia o di un argomento di dibattito è spesso poche ore, a volte qualche giorno, al massimo una settimana. Poi si passa oltre. Evidentemente, invece, c’è una parte della società – minoritaria certo, ma non minuscola – che ha bisogno di confrontarsi con questioni più persistenti, argomenti che si sviluppano su tempi più lunghi, che si misurano in decenni.
PRIYAMVADA NATARAJAN – E poi va aggiunto che cosmologia e astrofisica vivono una specie di età dell’oro. C’è stata un convergenza incredibile di sviluppi teorici e di progressi sperimentali. Nel passato si producevano teorie che era difficile verificare perché i nostri strumenti di osservazione non erano sviluppati a sufficienza. Negli ultimi vent’anni i progressi della tecnologia sono stati così profondi che oggi si possono fare misure di precisione considerate impossibili fino a poco tempo fa; così riusciamo a verificare i modelli teorici più sofisticati. Disponiamo di computer molto più potenti e veloci, con i quali si eseguono calcoli estremamente raffinati e si possono visualizzare fenomeni estremamente complessi. Questo allineamento di idee, strumenti e mezzi di calcolo fa sì che la nostra sia un’epoca molto speciale.
GUIDO TONELLI – Direi che tutta la fisica sta vivendo un momento magico. Basti pensare che, negli ultimi cinque anni, abbiamo avuto la fortuna di assistere a due scoperte epocali – bosone di Higgs e onde gravitazionali – che stanno rivoluzionando in profondità la nostra concezione del mondo. Ancora non ne abbiamo capito tutte le implicazioni e già succede quello che abbiamo visto accadere più volte in passato: le scoperte di ieri diventano i nuovi strumenti di indagine dell’oggi. Per esempio al Cern stiamo cercando eventi in cui il bosone di Higgs potrebbe disintegrarsi in particelle di materia oscura. Un decadimento così esotico non sfuggirebbe ai sofisticati apparati di Lhc; purtroppo, per ora, non se ne è trovata traccia.
PRIYAMVADA NATARAJAN – Senza dubbio i problemi aperti sono ancora molti. Anzitutto è imbarazzante ammettere che ancora non conosciamo la vera natura di materia e energia oscura, qualcosa che costituisce il 95% della densità di energia totale dell’universo. Ci sono molti esperimenti che stanno cercando di identificare le particelle che compongono la materia oscura ma, per ora, nessuno ha prodotto risultati convincenti. Qualcosa del genere vale per l’energia oscura, una misteriosa forza repulsiva che si oppone all’attrazione gravitazionale su distanze cosmiche. Sappiamo che questa strana forma di energia produce un’espansione accelerata del nostro universo che è stata osservata e misurata da molti esperimenti, ma siamo ancora ben lontani dall’aver capito la sua origine.
GUIDO TONELLI – Questa faccenda della materia oscura è particolarmente imbarazzante per noi fisici delle particelle. Più di un quarto di tutto quello che ci circonda è fatto di questa sostanza sottile, invisibile e impalpabile, che ci accompagna ovunque; occupa gli spazi interstellari, entra nelle nostre stanze, si infiltra persino nei laboratori sotterranei che le stanno dando la caccia, senza risultato, da decenni. Personalmente sono quasi irritato per il fatto che la materia oscura non si nasconde, anzi, avvolge i nostri strumenti, li inonda, senza che nessuno dei rilevatori più sensibili che l’ingegno umano sia riuscito a sviluppare sia stato in grado, finora, di registrarne il tocco leggero. Ora che Lhc ha raggiunto il suo record di energia e possiamo esplorare una regione di massa fino a oggi inaccessibile, spero davvero che possa succedere qualcosa. Qualunque novità che apparisse nei dati del Cern potrebbe di colpo portarci in un mondo materiale finora completamente sconosciuto. PRIYAMVADA NATARAJAN – Anch’io da tempo sto affrontando un aspetto di questo problema. Mi sto occupando di ricostruire la mappa dettagliata della materia oscura nell’universo usando il fenomeno delle lenti gravitazionali, già predetto da Albert Einstein, nella sua teoria della relatività generale. Le grosse concentrazioni di questo strano materiale si possono ricostruire osservando la deviazione dei raggi luminosi emessi da altri corpi celesti quando attraversano zone dello spazio-tempo deformate dalla grande massa. Impazzirei di gioia il giorno in cui la particella – o le particelle – responsabili della materia oscura venissero scoperte.
GUIDO TONELLI – Fare luce sul lato oscuro dell’universo è sicuramente il sogno di tutti noi. A questo scopo anche noi fisici delle particelle stiamo progettando nuovi esperimenti. Forse, fra qualche anno, si darà il via alla costruzione di un nuovo acceleratore: Fcc, un gigante da cento chilometri di circonferenza che oscurerebbe per dimensioni e prestazioni, lo stesso Lhc. Ma mi piace immaginare un futuro nel quale una generazione di interferometri più avanzati degli attuali Ligo e Virgo (quest’ultimo riparte il 20 febbraio nella versione Advanced) potranno registrare le primissime onde gravitazionali, quelle veramente primordiali, emesse 13,8 miliardi di anni fa, quando l’oggetto minuscolo e insignificante che era il nostro Universo si è improvvisamente gonfiato a dismisura. Quella tempesta perfetta delle origini continua a soffiare debolmente intorno a noi, anche se è diventata un sussurro, quasi impercettibile. Chi riuscisse a spingere la sensibilità degli strumenti al punto da poterlo registrare potrebbe ricostruire in tutti i dettagli quel momento eccezionale; captando il sottile bisbiglio che echeggia ancora attorno a noi potremmo ascoltare il racconto della nascita dell’universo.
PRIYAMVADA NATARAJAN – A proposito di onde gravitazionali, io lavoro anche sui meccanismi di formazione, crescita ed evoluzione dei buchi neri supermassicci; oggetti che sono un milione di volte più pesanti del buco nero, pure gigantesco, che si trova al centro della nostra Via Lattea. Sarebbe fantastico poter assistere alla fusione di due di questi super-giganti e registrare le onde gravitazionali prodotte in questo sconquasso cosmico. Sarebbe meraviglioso poter assistere a questo evento nel corso della mia vita; tra l’altro questo è un campo nel quale l’Europa e l’Italia stanno facendo un ottimo lavoro. Non c’è che dire: la ricerca scientifica è un’attività che richiede dedizione, ma sa dare anche grandi ricompense. È una carriera ideale per giovani curiosi e appassionati. Li aspettano sfide incredibili e tremende opportunità. Noi umani siamo un «nulla» rispetto al cosmo ma quella cosa gelatinosa, quell’organo dalle dimensioni di un melone che proteggiamo nel cranio ci può portare molto lontano, a scoprire cose inimmaginabili. Non si può resistere, soprattutto se si è giovani, alla tentazione di lanciarsi in questa avventura meravigliosa.
GUIDO TONELLI – Neanch’io ho dubbi per quanto riguarda le prospettive che questo campo riserva ai giovani. Chi sente dentro di sé curiosità e passione, non deve scendere a compromessi. Deve seguire questo richiamo e lanciarsi all’inseguimento di un sogno che potrebbe cambiare la sua vita e forse quella di tutti noi. Lo dico sempre ai ragazzi e alle ragazze che mi fanno domande su questo argomento. Non ascoltate nessuno, non date retta neanche a me: ascoltate solo voi stessi, cercate di capire se c’è davvero, dentro di voi, questa passione bruciante per la conoscenza; se qualcosa vi dice: «Sento che questa è la mia vita». A quel punto buttatevi, nessuno vi può garantire che realizzerete i vostri sogni, ma state sicuri che non rimpiangerete mai di avere fatto questa scelta.

E noi lo cerchiamo

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Giotto, Natività, Basilica Inferiore di Assisi, Transetto destro

 

E noi lo cerchiamo
e vorremmo che passasse
sulle strade
come uno di noi, e dietro
gli andrebbe perfino
la pietra in questo
bisogno d’amore
sensibile, in questa
tangibile fame.

Intanto che Lui risalta
sopra l’errore
necessario.

(David Maria Turoldo, “O sensi miei… Poesie 1948-1988”, pag. 52)

La luce nello sguardo

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A tredici, a quattordici anni io vivevo prevalentemente per strada. Ogni tanto passavo la notte da qualche amica che abitava in campagna. Invece di dormire, trascorrevamo il tempo sdraiate nei campi, incuranti del freddo, dell’umido, e interrogavamo per ore la volta celeste. Importava qualcosa di noi alle stelle lassù? Il fuoco che ardeva in loro era per noi inimmaginabile: quei piccoli soli dal basso della terra sembravano soltanto dei puntini di ghiaccio. Da qualche parte nello spazio siderale era nascosto il nostro destino? O invece era scritto solo nel nostro cuore? Come sarebbe stata la nostra vita adulta? Avremmo fatto un lavoro che ci piaceva? E avremmo trovato prima o poi il grande amore? E i figli? Quel cielo che, da parte a parte, colmava l’orizzonte era la nostra sfera di cristallo.
Nell’adolescenza la grazia delle domande bussa per l’ultima volta spontaneamente alla porta. In un’epoca di rare distrazioni come quella in cui sono cresciuta, bussava quasi con irruenza. Ora invece deve sgomitare nel frastuono per riuscire a farsi aprire se non una porta, almeno uno spiraglio. Ma sicuramente bussa e continua a bussare e, ai ragazzi che osano porsi in ascolto, offre da subito un dono straordinario – la luce che a un tratto irrompe nello sguardo”.
Susanna Tamaro, Avvenire, 21 novembre 2014

Cerca l’acqua

desert

C’è un pezzo di deserto, tutto sabbia e morte, tutt’al più qualche spino. Gli uomini vogliono trasformare il deserto in un’oasi verdeggiante. Incominciano a lavorare. Si fanno strade, stradette, canali, ponti, case, ecc. ecc. Non cambia nulla: tutto rimane deserto. Manca l’elemento base: l’acqua. Allora chi ha capito (è strano che si capisca bene nel mondo fisico e poco bene in quello soprannaturale) incomincia non a lavorare in superficie, ma si mette a scavare in profondità. Cerca l’acqua. Fa un pozzo, la fecondità dell’oasi non dipenderà dai canali fatti, dalle strade, dalle case, ma da quel pozzo. Se sgorgherà l’acqua tutto si vivificherà, se no niente”. (Carlo Carretto)

Gemme n° 494

Amo questo film: penso che attraverso la risata insegni tantissime cose. L’ho rivisto spesso e molti aspetti non riesco ancora a comprenderli bene. Una delle cose che mi ha trasmesso è l’importanza di cercare di cambiare fino a quando non si trova la propria strada. Penso che cambiare sia bellissimo e porti sempre a qualcosa di buono. E poi, quando abbiamo trovato la soluzione, non è detto che sia quella definitiva: possono arrivare vicende che rimettono in discussione tutto. E penso che ciò sia il bello e il brutto della vita.” Con queste parole L. (classe terza) ha presentato la sua gemma.
La scrittrice statunitense Elizabeth Gilbert (quella di Mangia, prega, ama, per capirci) ha scritto: “Se sei abbastanza coraggioso da lasciarti dietro tutto ciò che è familiare e confortevole, e che può essere qualunque cosa, dalla tua casa ai vecchi rancori, e partire per un viaggio alla ricerca della verità, sia esteriore che interiore; se sei veramente intenzionato a considerare tutto quello che ti capita durante questo viaggio come un indizio; se accetti tutti quelli che incontri, strada facendo, come insegnanti; e se sei preparato soprattutto ad accettare alcune realtà di te stesso veramente scomode, allora la verità non ti sarà preclusa”.