D’amore, di morte, di potere, ma soprattutto d’amore

Pubblico un altro editoriale di Fabio Cantelli Anibaldi scritto su Lavialibera. Parte da una considerazione della saggista Anne Applebaum (di cui ho apprezzato il libro Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici) su Vladimir Putin per poi considerare una paura che accomuna tutti gli uomini ma che viene affrontata in modi molto diversi: la paura della morte. Riflette su come il potere e il suo esercizio possano regalare l’illusione di dominare il tempo e, di conseguenza, sottomettere la morte. Solo facendo pace con il proprio limite, con le proprie paure, con il proprio bisogno d’amore, si può arrivare ad amare sorella morte e apprezzare la vita come “un’avventura di amore e di pace, di passione e di conoscenza”. Ritengo che gli spunti di riflessione siano veramente molti.

Sembra ossessionato e pieno d’odio. Sembra entrato in una fase nuova. Non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere. Di certo è vissuto isolato per due anni, a causa della pandemia. Mi chiedo cos’abbia fatto, cos’abbia letto e guardato, per tutto quel tempo, da solo. Oggi sembra un uomo malato, disturbato. Così parla di Vladimir Putin la saggista americana Anne Applebaum, vincitrice nel 2004 del Pulitzer con un monumentale studio sui Gulag sovietici, intervistata dal Corriere della Sera.
Parole che dicono l’incapacità e insieme il timore dell’Occidente a indagare le radici della guerra, limitandosi a una scontata condanna morale corroborata da manifestazioni in cui urlare la propria indignazione. Non metto in dubbio la buona fede di chi è “sceso in piazza” né la buona volontà del Papa che invita anche i non cristiani a digiunare il primo giorno di Quaresima. Penso solo che non serva a nulla, che la guerra non si ferma denunciandone l’orrore – quante migliaia di volte è stato fatto? – e che chi la fa troverà sempre una buona ragione o almeno un alibi per continuare a farla, tanto più se i suoi accusatori lo definiscono un criminale: cosa che, lungi dal ferirli, esalta i criminali.
Le parole di Applebaum sono in tal senso emblematiche. La studiosa si avvicina al nocciolo della questione quando osserva che, dopo la pandemia, Putin pare entrato in una fase nuova: ossessiva, disturbata, malata. Ma subito se ne allontana quando commenta: “non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere”.

È proprio questa presunta alternativa a impedirle di capire che le due paure sono, in realtà, una: paura della morte e di perdere il potere sono facce di una stessa medaglia quando l’esercizio del potere assume forme patologiche, ossia quando diventa, come perlopiù accade, una droga.  In tal senso per Putin – come per tutti i potenti della Terra – la lunga stagione del covid dev’essere stata un incubo. Non tanto o non solo perché ha sentito la propria incolumità in pericolo, ma perché il covid ha dimostrato un potere sulle vite degli altri infinitamente maggiore del suo. Per un uomo di potere – politico o economico che sia – la morte è pietra d’inciampo, smacco, scandalo perché è l’unica cosa sulla quale il suo potere non può nulla. La morte rivela la natura fittizia, teatrale del delirio di onnipotenza degli esseri umani quando non sono educati a riconoscere il loro limite costitutivo, il loro essere irrimediabilmente mortali. Delirio che però non riguarda solo gli uomini che concentrano su di sé enormi quantità di potere. Troppo bello se il problema fosse riducibile ai Putin, ai Bolsonaro e alle loro imitazioni in salsa pseudodemocratica tipo Johnson. O ancora, spostandosi in ambito economico-finanziario, ai vari Bezos, Musk, Zuckerberg… Il problema si estende agli innumerevoli che, se fossero al posto dei succitati, si comporterebbero allo stesso modo se non peggio. Se concentrato nelle mani di un autocrate vero o potenziale – cioè di qualunque persona si identifichi con un “io” non avendo scoperto come Rimbaud che «io è un altro» – il potere è droga che fa sentire onnipotenti perché decide sulla vita e la morte degli altri, considerati alla stregua di sudditi, soldati o impiegati di quel potere. 
Lo stesso vale per il denaro. Il time is money di Rockfeller e dei primi miliardari moderni si è capovolto in money is time: possedere denaro dà l’illusione di vivere più a lungo, accumularlo quella di vivere per sempre. Il predominio del capitale poggia su una garanzia di durata: se sono ricco potrò fronteggiare gli imprevisti della vita, se ho miliardi di euro o dollari ne uscirò indenne da quasi tutti. Quel “quasi” allude all’incontro con la morte, eventualità che i super-ricchi e gli autocrati rimuovono costantemente dal loro orizzonte psichico e esistenziale proprio perché la temono come nulla al mondo. La morte: screanzata guastafeste che osa presentarsi nella sala dove il potente e la sua cricca stanno ridendo, ballando, gozzovigliando, fornicando per ricordare a tutti che la festa un giorno finirà. Magnati e dittatori sono accomunati dalla stessa priorità: rimuovere il pensiero della morte per abbandonarsi spensierati all’ebbrezza che procura l’eccesso di soldi e di potere.
Chissà cos’ha fatto, si chiede Applebaum, Putin durante l’epidemia? Cosa avrà pensato nei momenti infinitamente lunghi in cui il suo potere non valeva quasi più nulla? In cui non poteva più addobbarsi di costumi magniloquenti o intimidatori, in cui era stato sottratto alla sua scena?  Se non fosse l’omuncolo tronfio e anche pavido che è, si sarebbe sentito mancare il terreno da sotto i piedi e, abbandonandosi al vuoto, avrebbe fatto pace con il suo limite, con le sue paure, con il suo bisogno d’amore, il bisogno d’amore che segna il soggiorno degli umani su questa Terra perché nasce dalla consapevolezza di esserne ospiti contingenti, viandanti mortali.  Ma è come togliere a un tossicomane l’eroina: superata la crisi d’astinenza si pone per lui il vero problema, cioè avere il coraggio di cambiare davvero, di andare al fondo delle sue paure – in primis quella di morire – e scoprire cosa c’è alla radice della dipendenza, il bisogno di amare e di essere amato, di sentirsi nutrito e protetto come nel grembo materno. Se questo coraggio non c’è e se non c’è nemmeno l’umiltà di chiedere sostegno affinché maturi in lui, il canto delle sirene della droga diventa richiamo ammaliante e irresistibile. Putin questo coraggio non ce l’ha avuto, come miliardi di uomini su questa Terra, ed ecco allora che il mondo dopo la pandemia si prospetta minacciosamente simile se non uguale al precedente, come se la lezione della pandemia – siete tutti interdipendenti, siete tutti vulnerabili – non fosse servita a nulla. Uscire da una crisi ma uscirne uguali è il peggio che ci si possa augurare: una crisi è, sempre, un’occasione di cambiamento cioè di vita, perché la vita è nella sua essenza divenire. La vita gira al largo dalle anime cristallizzate, si ritira dagli uomini che non mollano la presa da sé stessi, gli uomini che si preoccupano soltanto  di affermarsi e durare.
Tornando alla guerra, è la rimozione della mortalità a rendere crudele il potere e intrinsecamente violento il sistema che gli fa capo. Chi detiene il potere ma disconosce la sua mortalità per ciò stesso si costruisce un’immunità psicologica dalla morte uccidendo o facendo uccidere. La logica che, a loro insaputa – ne sono vittime ma non lo sanno – guida tutti i Putin di questa Terra può essere espressa così: ti faccio uccidere quindi prendo il posto della morte impersonale che colpisce a caso, la morte che accade a tutti e per tutti meno che a me, che la eguaglio per onnipotenza. Una civiltà che non riconosce la morte la infligge, e quel che resta dell’Occidente è un infliggere la morte per sentirsi onnipotenti e, finché si può, immortali.
Poi c’è modo e modo d’infliggere la morte e in tal senso mi pare che si debba almeno riconoscere a Putin il merito di giocare a carte scoperte, usando gli eserciti e le armi. C’è un modo più subdolo e vigliacco di uccidere con l’economia. Si parla in questi giorni di “sanzioni” contro la Russia come se il sistema economico neoliberista non fosse di per sé sanzionatorio, mosso da una logica selettiva che prevede diritti ridotti a privilegi, appannaggi riservati a chi se li può permettere, cioè a chi ha i soldi per acquisirli. Il “mercato” è una prosecuzione su vasta scala della logica dei lager o dei gulag, dove, tolti i comandanti dei campi e le loro cricche – i Rudolf Höss, gli Franz Stangl, i Naftaly Frenkel – non veniva subito ucciso solo chi era in grado di lavorare, venendo ucciso poi dal carico di lavoro, dalla fame, dalle malattie. 
In conclusione, come uscire da questo circolo vizioso che riguarda non solo autocrati e magnati ma la natura umana in generale, come ci racconta da sempre la grande arte e letteratura, affascinata di come basti un po’ di potere per corrompere l’animo dell’uomo, essere in gran parte codardo, incapace di guardare in faccia la sua fragilità?È evidente che non se ne esce senza una nuova cultura ed educazione che, a differenza di quelle tecnologiche/tecnocratiche, tutte volte a formare impiegati del “sistema mercato”, insegni a riconoscere e a rispettare la morte, a tenerne conto. E infine a volerle bene, perché è per lei, grazie a lei, che sentiamo il bisogno di amare e di essere amati, è solo per lei che la vita può essere una meravigliosa avventura di amore e di pace, di passione e di conoscenza.”

Russia loves Africa

Fonte: profilo Instagram dell’Ispi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

A inizio marzo, il voto all’undicesima sessione d’emergenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) sulla risoluzione sull’aggressione russa dell’Ucraina ha registrato che solo 5 paesi – Siria, Eritrea, Bielorussia e Corea del Nord oltre ovviamente alla Russia – si sono schierati apertamente con Mosca votando contro la risoluzione. 141 sono stati i favorevoli e 35 gli astenuti. Oltre a Cina e India, sono stati numerosi gli stati africani ad astenersi: perché? Mi soffermo su due di essi attraverso due articoli, uno sul Mali (a firma di Enzo Nucci, corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana e curatore di una rubrica su Confronti) e uno sul Sudan (a firma di Marco Cochi per il mensile Nigrizia). Inoltre torno su Kirill I, patriarca di Mosca molto legato a Putin, e sul suo ruolo proprio in Africa (articolo di Rocco Bellantone, sempre su Nigrizia).

VIA I FRANCESI, AVANTI I RUSSI

2 Febbraio 2022
di Enzo Nucci.
In Mali il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura legati al governo di Mosca. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse e vendita di armi.
Via l’esercito francese, avanti i mercenari russi della compagnia privata Wagner. Benvenuti in Mali. Il 2022 si è aperto con il dispiegamento di 450 soldati di ventura (ma legati a triplo filo al governo di Mosca) nel Paese africano, considerato strategico per fermare alla fonte una parte importante dei flussi migratori clandestini diretti verso l’Europa. Duecento di loro sono accampati a Segou, 200 chilometri a nord est della capitale Bamako, sul fiume Niger.
Il governo maliano a dicembre si è limitato a spiegare la presenza degli addestratori russi come un contributo al rafforzamento delle capacità operative delle Forze di difesa e sicurezza. E a gennaio l’esecutivo ha chiesto a Parigi di rivedere gli accordi militari firmati nel 2013 quando la Francia (guidata allora dal socialista François Hollande) lanciò l’operazione di contrasto al terrorismo islamista, estesa successivamente agli altri Paesi del Sahel (Ciad, Niger, Burkina Faso, Mauritania). Da allora molte cose sono cambiate.
L’intervento armato si è dimostrato fallimentare e oneroso dal punto di vista economico, di costi umani e ricavi politici. Tanto che si parla apertamente di un “nuovo Afghanistan” per il presidente Emmanuel Macron che si accinge a sottoporsi al test delle imminenti elezioni presidenziali. Ma il Mali resta una ferita purulenta anche per il suo eventuale successore.
Il Mali (in 9 anni di presenza militare) si è rivelato lo Stato africano con l’opinione pubblica più antifrancese tra i Paesi francofoni, tanto che un colpo di Stato militare (forse ispirato da Mosca) ha sparigliato le carte. I gruppi terroristici islamisti non hanno preso il potere ma hanno allargato la loro influenza tra la gente, rendendo instabili istituzioni già profondamente fragili. Non è certo un grande risultato.
Sul Mali (guidato dalla giunta golpista) si sono anche abbattute le sanzioni economiche della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) perché il governo di transizione ha deciso di rimandare le elezioni per un periodo variabile dai sei mesi ai cinque anni. Il dato politico è il ritorno in grande stile della Russia sulla scena africana. Gli interessi del Cremlino sono innanzitutto economici: sfruttamento delle risorse (estrazioni di minerali) e vendita di armi sono gli obiettivi principali.
La strategia fu spiegata da Putin nel summit russo-africano tenutosi a Sochi (sul Mar Nero) nell’ottobre 2019. Il presidente ribadì la sua volontà di offrire aiuti e contratti commerciali “senza condizioni politiche o di altro genere”, al contrario di quanto fanno i Paesi occidentali. E anzi affermò che la Russia sarebbe stata la migliore soluzione a cui far ricorso per resistere alle indebite intromissioni nella sovranità nazionale esercitate da europei, statunitensi e cinesi.
La presenza dei paramilitari della Wagner (fondata da un veterano delle forze speciali dell’esercito russo e da un ricco uomo d’affari legato a Putin) si conta già in 23 nazioni africane. Ufficialmente i mercenari proteggono le attività di estrazione mineraria ma in realtà svolgono training agli eserciti, forniscono scorte armate agli uomini di governo, conducono guerre informatiche, svolgono operazioni contro i ribelli nelle zone minerarie per facilitare contratti con compagnie russe, spesso connesse proprio agli azionisti della Wagner.
I mercenari sbarcarono per la prima volta in Africa nel 2013 quando in Sudan (guidato allora dal dittatore islamista Omar al-Bashir) furono utilizzati per reprimere manifestazioni di piazza. Da allora è stata una escalation in tutto il continente, ultimamente anche nella ricca regione mineraria di Cabo Delgado (Mozambico) dove operano terroristi islamisti, autori di numerosi attacchi. Mentre in Libia sostengono Khalifa Haftar con grande preoccupazione degli Stati Uniti.
I mercenari esordirono nel 2014 in Crimea a fianco dell’esercito russo che aveva occupato la penisola. Oggi conterebbero su almeno diecimila uomini contrattualizzati. Un escamotage che consente a Putin di avere le mani libere, non dover rendere conto a nessuno delle operazioni di questi “privati” che sono responsabili di abusi e crimini contro prigionieri e civili inermi. Ma Mosca ufficialmente ignora tutto questo.

RUSSIA IN AFRICA. IL SUDAN È UNA MINIERA D’ORO

09 Marzo 2022
di Marco Cochi.
La recente visita a Mosca di “Hemetti”, vicepresidente del Consiglio sovrano sudanese, ha allarmato molti paesi, tra cui Stati Uniti ed Egitto. Spaventa il progetto di una base navale del Cremlino sul Mar Rosso. E si vuole porre un freno al contrabbando di centinaia di tonnellate di oro illegale che dal Sudan finiscono nei forzieri russi.
Molti paesi africani stanno mostrando una buona dose di cautela nel rivedere le loro relazioni con la Russia per proteggere i loro interessi nazionali. Lo dimostra l’astensione di ben 17 nazioni del continente, oltre al veto dell’Eritrea, nell’approvazione della risoluzione votata, lo scorso 2 marzo, dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per condannare l’invasione russa dell’Ucraina.
Una cautela che trae origine dal fatto che negli ultimi anni il Cremlino ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. Un chiaro esempio è l’invio, a partire dal 2018, dei mercenari russi del Gruppo Wagner, oltre che in Libia, per aiutare i leader locali di Centrafrica, Mozambico e Sudan a mantenere saldo il loro potere e silenziare la dissidenza interna. E non a caso i tre paesi figurano tra gli stati africani astenuti.
A partire dallo scorso 6 gennaio, l’impegno militare della compagnia privata russa sta interessando anche il Mali, dove i paramilitari sono stati dispiegati nella città di Timbuctu. Ufficialmente, le unità della Wagner sono impegnate nell’addestramento delle Forze armate maliane e nel contrasto delle milizie jihadiste legate ad al-Qaida e al gruppo Stato islamico.
Altro aspetto saliente è da ricercare nei dati del SIPRI, che indicano Mosca come il principale fornitore di armi all’Africa, dove tra il 2015 e il 2019 ha esportato il 49% dell’equipaggiamento militare del continente, più del doppio di Cina e Stati Uniti. Per questo, è improbabile che molti leader africani aderiscano al moltiplicarsi degli appelli in corso per condannare l’aggressione della Russia in Ucraina.
Tra i paesi africani che non nascondono il loro sostegno a Mosca c’è il Sudan. Con il Cremlino, il terzo più grande paese dell’Africa intrattiene una partnership così consolidata che il 23 febbraio il vicepresidente del Consiglio sovrano di Khartoum, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemetti ha iniziato una visita a Mosca, durante la quale, poi, l’armata russa ha invaso l’Ucraina.
Dagalo è anche a capo delle Rapid support forces (Forze di supporto rapido – Rsf), un’unità irregolare al soldo di Khartoum, che durante la guerra in Darfur si rese responsabile di indicibili violenze e crimini di guerra contro gli appartenenti alle etnie non arabe fur, maasalit e zaghawa. Violenze che continuano ancora oggi.
Di recente, è emerso che le Rsf hanno avuto legami con la Wagner e anche se non ci sono statistiche ufficiali sul numero e sul luogo in cui si trovano i contractor russi in Sudan, alcune stime indicano la presenza di 300 effettivi, impegnati in attività congiunte e programmi di addestramento con la milizia di Dagalo. Nel paese, si è diffuso il sospetto che alcuni oppositori politici favorevoli a un ritorno del governo civile siano recentemente scomparsi per mano dei mercenari russi.
Nel 2017, l’interesse iniziale della Wagner nei confronti del Sudan è stato cercare i giacimenti di oro presenti nelle aree remote del paese, così cospicui che potrebbero rendere Khartoum in pochi anni il terzo produttore dell’Africa.
Secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico Telegraph, negli ultimi anni la Russia ha contrabbandato centinaia di tonnellate di oro illegale dal Sudan, nell’ambito del piano di costruire la “fortezza Russia” e difendersi dalle previste sanzioni legate all’invasione in Ucraina.
Il Cremlino ha più che quadruplicato la quantità di oro detenuto nella banca centrale dal 2010, creando un “forziere di guerra” attraverso un mix di importazioni estere e vaste riserve auree nazionali, diventando il terzo produttore mondiale del prezioso metallo e arrivando, nel giugno 2020, a detenere più oro che dollari.
Mentre le statistiche ufficiali suggeriscono che il Sudan esporta scarsissime quantità di oro in Russia, un dirigente di una delle più grandi società aurifere sudanesi ha dichiarato al Telegraph che il Cremlino è il più grande attore straniero nell’enorme settore minerario del paese. Secondo la fonte, rimasta anonima, ogni anno circa 30 tonnellate d’oro vengono trasportate dal Sudan in Russia, sebbene sia impossibile valutare la reale portata dell’operazione.
Secondo Sim Tack, cofondatore di Force Analysis, una società di consulenza con sede in Belgio specializzata nella mappatura dei conflitti, alcune società russe come M-Invest, che ha una filiale locale chiamata Meroe Gold, hanno iniziato a operare in Sudan dopo che l’ex dittatore Omar El-Bashir ha incontrato Vladmir Putin nel 2017, offrendogli concessioni minerarie e permettendogli di costruire una base navale nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. 
Una struttura in grado di ospitare fino a 300 persone, civili e militari, e 4 navi da guerra. Secondo il progetto, Mosca avrà il diritto di trasportare, attraverso porti e aeroporti sudanesi, armi, munizioni e attrezzature destinate al funzionamento della sua base. Questo sito sarà il primo del suo genere per Mosca in Africa, e il secondo al mondo, dopo quello di Tartus, in Siria.
La base servirà a coprire due dei grandi interessi russi nella regione africana. Il primo è l’export bellico, per creare dipendenza e influenza attraverso questo mercato nei paesi del continente. Il secondo è che Mosca potrà avere un peso sull’asse Mar Rosso, Suez, Corno d’Africa che connette Mediterraneo e Oceano Indiano, considerato strategico per il commercio internazionale.
Una promessa che nella sua recente visita a Mosca, il generale Dagalo ha rinnovato proprio mentre le truppe dell’Armata russa si preparavano a invadere l’Ucraina. Secondo Hemetti, la proposta russa per lo sviluppo della base navale in Sudan sarebbe all’attenzione del ministro della difesa di Khartoum, di conseguenza non direttamente sotto la sua capacità decisionale.
Secondo gli Stati Uniti, invece, l’approvazione sarebbe imminente perché la missione del generale Dagalo a Mosca avrebbe avuto come principale oggetto proprio la discussione in merito alla definizione dell’accordo per la base navale.
L’assenso di Hemetti alla costruzione della base russa ha provocato la dura reazione delle autorità egiziane, che hanno chiesto al potente generale sudanese di fornire chiarimenti sulle dichiarazioni riguardanti la base. I funzionari del Cairo hanno affermato «di opporsi alla creazione di qualsiasi base straniera vicino ai confini e alle aree di influenza del paese».
Sarà però difficile che Khartoum receda dai suoi propositi, mentre cerca aiuti economici, dopo che gli Stati Uniti hanno sospeso per intero un pacchetto di aiuti da 700 milioni di dollari, in seguito al colpo di stato del 25 ottobre.

UN CONFLITTO POCO “ORTODOSSO”

11 Marzo 2022
di Rocco Bellantone.
A fine 2021, oltre cento sacerdoti in servizio nel continente hanno lasciato il patriarcato di Alessandria (Egitto) per passare a quello di Mosca. Artefice della manovra il patriarca russo Kirill I, fedelissimo di Putin, in rotta con Tawadros II di Alessandria
Centodue sacerdoti in servizio in 8 paesi africani passati dal patriarcato greco-ortodosso di Alessandria a quello russo. Con questo cambio di casacca di massa, annunciato a Mosca nel Sinodo di fine 2021 e di cui ha dato notizia Asia News, agenzia di informazione dei missionari del Pontificio istituto missioni estere (Pime), il patriarcato russo ha creato ufficialmente un proprio esarcato in Africa. Dodici in totale le bandierine fissate nelle due diocesi dell’Africa settentrionale e meridionale: Egitto, Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Ciad, Camerun, Nigeria, Libia, Centrafrica e Seicelle. Incarico di guida assegnato al vescovo russo di Erevan in Armenia, Leonid (Gorbačev).
Con una sola mossa, l’artefice di questa manovra, il patriarca di Mosca Kirill I, ha centrato due obiettivi: ha scippato sostegno internazionale alla Chiesa autocefala di Ucraina, frutto dello scisma ortodosso del 2018 (innescato nel 2014 dall’occupazione russa della Crimea) e riconosciuta dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartomoleo I; e ha assestato un duro colpo all’autorevolezza in Africa del patriarca di Alessandria, Tawadros II, che nell’agosto scorso, sull’isola turca d’Imbros, aveva teso la mano al metropolita autocefalo di Kiev Epiphany, segnando il definitivo punto di rottura con la Chiesa russa, già maturato nel 2019.
In passato compagni di studi all’università sovietica di Odessa, Kirill I e Tawadros II sono dunque ormai ai ferri corti. Nella sua campagna di conversione in Africa, il patriarca di Mosca sa di poter contare sull’appoggio incondizionato del Cremlino. Kirill I fa parte, infatti, della cerchia dei fedelissimi del presidente russo Vladimir Putin. Ha rapporti molto stretti con oligarchi e manager delle più influenti aziende del paese, compreso il gigante petrolifero Gazprom. Una fedeltà riconosciutagli dal governo, che nel 2019 ha sborsato circa 43 milioni di dollari per ristrutturare la sua residenza nell’ex palazzo imperiale di San Pietroburgo.
Da anni la Chiesa di Mosca coltiva contatti in Africa. Ultime terre di conquista, come segnalato in un report di Africa Intelligence, sono stati Tanzania, Kenya, Uganda, Zambia e Sudafrica. Tra le parrocchie sfilate ad Alessandria c’è quella di Sergio di Radonež a Johannesburg (Sudafrica), guidata dall’arciprete Daniel Lugovoy. Altro fronte caldo è il Madagascar, dove l’ambasciatore russo Andrey Andreev sta raccogliendo fondi per affidare una nuova chiesa a sacerdoti legati a Mosca.
I centodue transfughi di fine anno sono il risultato di un pressing diplomatico istruito in occasione di un precedente sinodo che si era tenuto a Mosca il 23 e 24 settembre. Da allora l’uomo di Kirill I in Africa, il vescovo Leonid – scelto non a caso per questo ruolo dopo aver rappresentato il patriarcato russo ad Alessandria tra il 2004 e il 2013 – non si è mai fermato. A metà novembre è stato a Dar es Salaam, dove ha incontrato i metropoliti Dimitrios di Irinoupolis, referente per la Tanzania orientale, e Jeronymos di Mwanza, per la Tanzania occidentale. Nella sua visita è stato accompagnato dall’ambasciatore russo in Tanzania, Yuri Popov, che in questo paese cura in particolare gli interessi della compagnia di stato Rosatom nei locali giacimenti di uranio.
Il blitz di Leonid era stato anticipato, qualche settimana prima, da un tour di visite di Tawadros II, volato prima a Kampala (Uganda) per un incontro con il presidente Yoweri Museveni, poi in Tanzania insieme all’ambasciatore egiziano Mohamed Gaber Abulwafa e al console onorario greco William Ferentinos – dove a capo di un codazzo di imprenditori greci ha incontrato anche il vicepresidente Filippo Mpango –, infine a Johannesburg per un colloquio con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa.
La regione dei Grandi Laghi è lo scacchiere in cui la posta in palio tra le due Chiese è la più alta. Tra fine luglio e inizio settembre le morti prima del metropolita Nikoforos di Kinshasa, poi del suo omologo di Kampala Jonah Lwanga, hanno aperto una delicata partita per la loro successione. Chi riuscirà ad accaparrarsi quelle poltrone, infatti, avrà accesso a uno dei più ampi bacini di fedeli ortodossi di tutto il continente.
Mosca ci tiene moltissimo. I governi di Rwanda e Uganda sono tra i principali acquirenti africani di armi di fabbricazione russa, mentre in Rd Congo è sempre più attivo il gruppo Alrosa, specializzato in estrazione di diamanti. Sono business in forte crescita, che il Cremlino vuole tutelare garantendosi una leadership religiosa nella regione. Se in Africa meridionale Zimbabwe, Angola e Mozambico restano sotto il controllo del patriarcato di Alessandria, che in quest’area conta sull’arcivescovo cipriota Seraphim, la sfida è aperta in Repubblica Centrafricana. La piccola comunità ortodossa del paese è passata recentemente sotto la sfera d’influenza russa. E nella capitale Bangui è in fase di costruzione il settimo centro russo per la scienza e la cultura, sotto lo sguardo vigile della compagnia di sicurezza privata Wagner. Segno, anche questo, che quella in corso non è solo una campagna religiosa.

Un vicino passato per leggere il presente

Monastero dorato di San Michele a Kiev (fonte)

Se cerchiamo “Chiesa ortodossa dell’Ucraina” su Wikipedia troviamo :

“La Chiesa ortodossa dell’Ucraina (in ucraino: Православна церква України, Pravoslavna cerkva Ukraïny) è una Chiesa ortodossa nazionale ucraina. È stata fondata il 15 dicembre 2018 con un “concilio di riunificazione” tra la Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev e la Chiesa ortodossa autocefala ucraina, con l’autorizzazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ha riconosciuto alla nuova Chiesa l’autocefalia.
Tale decisione è stata però fortemente contestata dalla Chiesa ortodossa russa, che riconosce invece una differente Chiesa ortodossa ucraina, e che ha quindi denunciato lo “sconfinamento” del Patriarcato di Costantinopoli, rompendo le relazioni con esso e dichiarando il concilio “illegale” e la nuova Chiesa “scismatica”. Questa crisi religiosa, chiamata “scisma ortodosso del 2018”, è iniziata nel 2014 con l’occupazione russa della Crimea e la conseguente annessione della Crimea alla Federazione Russa. L’autocefalia della Chiesa ucraina è infatti stata fortemente voluta e supportata dal presidente ucraino Petro Porošenko, collocato su posizioni filo-atlantiste e filo-europeiste.
Il primate della Chiesa ha il titolo di metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina ed è, dal 15 dicembre 2018, Epifanij.”

La vicenda non è di facile comprensione per chi non conosce il mondo delle Chiese ortodosse, i suoi termini, le sue parole, il suo linguaggio (e non posso mettermi a spiegare qui tante cose). Però conoscere questi fatti, anche in generale, è utile per comprendere alcuni vissuti di ieri e di oggi. Per questo, essendo abbonato da anni alla rivista Confronti, ho recuperato alcuni articoli del 2018 e del 2019. Prima li elenco e poi li pubblico integralmente. Sarà un post lungo, IL PIÙ LUNGO DI QUESTO BLOG, ma per approfondire e comprendere ci vuole tempo. Specifico anche che le elezioni in Ucraina si sono tenute il 21 aprile 2019 (secondo turno): prima di quella data il presidente era, come letto sopra, Petro Porošenko.

2018.10.04: Scisma tra Mosca e Costantinopoli? qui

2018.11.02: La questione ucraina innesca uno scisma qui

2019.02.07: Dopo la scelta di Kiev un futuro inquietante qui

2019.04.05: Si acuisce lo scisma tra Mosca e il Fanar qui

2019.07.15: Morire per Kiev? Un tragico duello ecclesiale qui

2019.10.03: L’autocefalia ucraina secondo Costantinopoli qui

2019.10.31: Il patriarcato russo contro gli “scismatici” ucraini qui

SCISMA TRA MOSCA E COSTANTINOPOLI?

4 Ottobre 2018

di Luigi Sandri.

L’aereo, destinazione Kiev, è già pronto all’aeroporto di Istanbul per portare il tomos (decreto sinodale) con cui il patriarcato ecumenico di Costantinopoli concederebbe la “autocefalia” alla Chiesa ortodossa ucraina, con ciò avviando una rottura che, dopo quella tra Oriente ed Occidente del 1054, innescherebbe un nuovo e più aspro scisma, stavolta intra-ortodosso, con la nuova Roma (l’ex Bisanzio) e la terza (Mosca) irriducibilmente contrapposte.

Le parole rassicuranti – «Abbiamo parlato cuore a cuore» – pronunciate il 31 agosto dai protagonisti al Fanar (il quartiere dell’antica capitale bizantina dove sorge il palazzo del patriarcato), al termine del vertice tra il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, e quello di Mosca, Kirill, giunto apposta nella metropoli turca “per discutere temi di comune interesse”, sul problema decisivo – la “indipendenza canonica” ucraina pur mai citata nei comunicati – hanno pietosamente nascosto un fallimento, esploso poi alla luce del sole nelle settimane seguenti.

KIEV, MADRE SPIRITUALE DI MOSCA

Già da tempo conosciuto attraverso mercanti e missionari che, provenienti da Costantinopoli, attraversato il Mar Nero risalivano il fiume Dniepr, a Kiev il Cristianesimo nella Rus’ divenne religione ufficiale dopo che nel 988 il principe Vladimir si fece battezzare: il che comportò la “conversione” di tutti i sudditi alla nuova religione. La reciproca scomunica del 1054 tra l’antica e la nuova Roma non scompose Kiev, che salomonicamente cercò di mantenere buoni rapporti con ambedue.

Dopo l’invasione mongola del 1240 che devastò Kiev, i metropoliti della città trovarono rifugio in varie città russe, finché non fissarono la residenza a Mosca, fondata pochi decenni prima, nel 1147. Vi erano, allora, città russe più importanti di essa: Novgorod, Iaroslavl, Vladimir; Mosca, però, s’impose, e il suo Gran Principe divenne la guida del paese, in prima fila per scuotere il giogo tartaro.

Il 29 maggio 1453 i turchi ottomani prendono Costantinopoli, ponendo fine al millenario impero romano d’Oriente. Un decennio dopo, papa Paolo II si adopera per far sposare la nipote dell’imperatore, Zoe, con il Gran Principe di Mosca: il sogno è che la principessa convinca il marito, Ivan III, a farsi cattolico e ad attaccare i turchi, mentre una crociata occidentale sarebbe accorsa per sconfiggere gli “invasori” musulmani. Il progetto, però, abortisce: la Russia, in ciò spronata da Zoe (diventata Sofia) che porta in dono allo sposo le insegne imperiali bizantine, rimane ortodossa e in comunione con il patriarcato di Costantinopoli che, tramontato il rapporto “sinfonico” Chiesa-Stato, deve muoversi sotto il potere del sultano. Nel paese, intanto, cresce il mito di Mosca “terza Roma” (“l’antica, quella del Tevere, è caduta nell’eresia del papismo; la nuova in mano ai turchi; la terza, colonna dell’Ortodossia, non cadrà mai!”).

A metà del Cinquecento Ivan il Terribile debella i tartari, e si fa “zar”. Nel 1589, ottenendo poi il consenso dei quattro patriarcali orientali (Alessandria, Antiochia, Costantinopoli e Gerusalemme), Mosca diventa patriarcato che, nel 1686, incorporerà la sostanza dell’eredità di Kiev. E – secoli dopo! – stante l’Urss l’Ucraina, dal punto di vista ecclesiastico, rimane un esarcato legato a Mosca. Ma nel 1991 – proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina e, poi, collasso dell’Urss – la Chiesa ortodossa là si spacca in tre: Chiesa ortodossa ucraina (la più numerosa), legata a Mosca, e oggi guidata dal metropolita Onufry; l’autonominatosi Patriarcato di Kiev, guidato dal metropolita Filaret, scomunicato dal patriarcato russo; la piccola Chiesa autocefala. Queste ultime due non riconosciute da nessuna Chiesa ortodossa.

Con la “nuova” Ucraina riprendono vigore i greco-cattolici (dagli ortodossi polemicamente chiamati “uniati”, perché considerati uniti con la forza al papato). Nati nel 1595-96 con l’approvazione di molti vescovi ortodossi, accolti allora da Clemente VIII, sotto l’Urss subiranno poi persecuzione. Essi ritengono di aver compiuto, a fine Cinquecento, una libera scelta ecclesiale (e senza prima mai aver rotto ufficialmente con Roma); il patriarcato russo, invece, li considera “traditori” sorti per le pressioni dei re polacco-lituani che volevano usarli come “cavallo di Troia” per distruggere dall’interno l’Ortodossia.

CHIESA AUTOCEFALA UCRAINA: LA MOSSA DEL PRESIDENTE POROSHENKO

Tra XX e XXI secolo. Bartolomeo – regna dal 1991 –, rifacendosi agli antichi Concili ecumenici, che diedero alla “nuova Roma” privilegi simili alla antica, rivendica il suo ruolo di primus inter pares tra i primati ortodossi; i patriarchi russi (Aleksij II e, poi, dal 2009, Kirill) lo accusano però di voler strafare, quasi fosse “il papa degli ortodossi”. Aspro è il loro dissenso sulla “giurisdizione” di alcuni paesi: l’Estonia, ad esempio, deve dipendere da Mosca, come questa sostiene, o da Costantinopoli, come affermano i greci? E l’Ucraina? Sullo sfondo un dato, pur non teologico, che pesa: Bartolomeo sovraintende a circa cinquemila ortodossi in Turchia (erano milioni, stante l’impero ottomano, in Anatolia) e a tre milioni tra Europa occidentale e due Americhe; il patriarcato di Mosca, invece, ha sotto di sé circa il 65-70% dei duecento milioni di ortodossi nel mondo, e un centinaio di milioni in patria. Una sproporzione invalicabile.

La questione religiosa ucraina viene poi avvelenata, e appesantita, dal contrasto politico-militare tra Mosca e Kiev, che ha portato, ancor oggi accesa, a una guerra “a bassa intensità” (ma ha fatto diecimila vittime!), nella zona del Donbass e, nel marzo 2014, alla occupazione della Crimea da parte russa. “Aggressione” la definiscono il governo di Kiev, il “patriarca” Filaret e Sviatoslav Shevciuk, arcivescovo maggiore dei greco-cattolici; “liberazione e ritorno alla patria”, secondo il Cremlino – e, implicitamente, per Kirill – perché la Crimea, russa dal 1783, era stata sbrigativamente “regalata” all’Ucraina sovietica da Kruscëv nel 1954.

Su questo sfondo si pongono gli eventi susseguitisi nei due ultimi anni. Kirill, pur dopo aver annunciato la sua partecipazione al Concilio ortodosso di Creta, che si sarebbe celebrato nell’isola greca nel giugno 2016, pochissimi giorni prima che esso iniziasse informò che lui e la sua delegazione avrebbero disertato l’appuntamento. “Un sabotaggio”, sentimmo dire, là, da molti padri “conciliari”. E, di fatto, quell’assenza amputò l’autorevolezza ecclesiale di quella pur importante Assemblea. Calò il gelo tra Costantinopoli e Mosca.

Il 9 aprile 2018 il presidente ucraino Petro Poroshenko si è recato al Fanar per chiedere il riconoscimento di una Chiesa autocefala ucraina, che raccoglierebbe le tre Chiese ortodosse del paese; il 19 aprile il parlamento di Kiev ha appoggiato la richiesta. Bartolomeo ha assicurato che lui con il suo Sinodo avrebbero studiato a fondo la questione. Allora il metropolita Hilarion di Volokolamsk, “ministro degli esteri” del patriarcato russo, ha replicato: la “pretesa” ucraina non ha fondamento canonico; e, se accolta da Costantinopoli, drammatiche sarebbero state le conseguenze per l’intera Ortodossia.

D’altra parte, un’”autocefalia” di Kiev farebbe perdere a Mosca, in prospettiva, molto suo clero, che è di origine ucraina. Kirill ritiene che l’analogia con altre Chiese autocefale – la romena, la bulgara, la greca, la serba… – che nel loro paese sono la Chiesa ortodossa nazionale, non possa valere per il caso ucraino, perché la Chiesa russa è sovranazionale, e al suo patriarcato appartengono metropoliti che guidano sue Chiese in Ucraina, Estonia, Lettonia, Kazakhstan, Uzbekistan, Azerbaigian, Bielorussia, Moldova…

LO SCENARIO DI UN EVENTUALE SCISMA TRA LA NUOVA E LA TERZA ROMA

Kirill, insieme con Hilarion, per due ore e mezza il 31 agosto scorso ha incontrato al Fanar il patriarca che era accompagnato dal metropolita Emmanuel di Francia. La delegazione, poi, non si è fermata per il pranzo, dove era attesa, ed è ripartita subito per Mosca. Le due Parti, senza entrare nei dettagli, hanno detto di aver discusso in spirito fraterno; lasciava tuttavia meravigliati che, nella sua dichiarazione prima di tornare in patria, Kirill non avesse mai pronunciato la parola “Ucraina”, come tema affrontato; mentre quel nome lo ha fatto Emmanuel, facendo intendere che la procedura per l’attesa “autocefalia” non si si sarebbe fermata.

Se, in teoria, sul “vertice” erano possibili valutazioni attendiste, a darne l’aspra interpretazione autentica ci hanno pensato i protagonisti. L’8 settembre, dopo una riunione di urgenza, il Santo Sinodo di Mosca, in una dichiarazione proclamava la “decisa protesta e profonda indignazione” per la decisione “anti-canonica” con la quale il giorno prima Costantinopoli, senza consultarsi con la Chiesa russa, nominava due suoi vescovi del Nord America – Daniil (Usa) e Hilarion (Canada) – come “esarchi” in Ucraina, cioè aventi, là, il compito di “preparare la concessione dell’autocefalia”. «Bartolomeo – chiosava il “ministro degli esteri” del patriarcato russo – risponderà della sua azione di fronte al giudizio di Dio e a quello della storia».

Poi, il 14 settembre, in una sua riunione straordinaria lo stesso Santo Sinodo – che, insieme al patriarca, ha raccolto una quindicina di metropoliti e di alti dirigenti della Chiesa russa – lanciava un solenne ultimatum a Costantinopoli. Il testo fa un’ampia ricostruzione della storia del Cristianesimo da Kiev a Mosca, e dei rapporti di questa con Costantinopoli. È vero – afferma – che la fede cristiana arrivò prima a Kiev, e poi a Mosca, rimanendo Costantinopoli il punto di riferimento ecclesiale; ma, a partire dal XV secolo Mosca si regolò da sola, fino a diventare, nel Cinquecento, patriarcato, del quale è diventata parte l‘Ucraina: questa, perciò, si trova nel “territorio canonico” del patriarcato russo; e Bartolomeo, volendo legiferare in essa, o inviandovi “esarchi”, si immischia negli “affari” interni di un’altra Chiesa ortodossa, il che – concludeva la dichiarazione – è vietato dai canoni degli antichi Concili.

Poi, venendo all’attualità, afferma:

«Nel gennaio 2016 all’incontro dei primati delle Chiese locali [presente Kirill] a Chambésy, Ginevra, Bartolomeo pubblicamente indicò il metropolita Onufryi come “il solo primate canonico della Chiesa ortodossa in Ucraina”. E allora il patriarca promise che né durante il Concilio di Creta, né dopo, avrebbe legittimato lo scisma [di Filaret e degli “autocefali”] o garantito, unilateralmente, l’autocefalia a quella Chiesa. Prendiamo atto con grande rincrescimento che quella promessa è stata violata… con una decisione anti-canonica che costituisce un diretto appoggio allo scisma ucraino».

Conclusione: «Il patriarcato di Mosca è costretto a sospendere la commemorazione liturgica del patriarca Bartolomeo. Inoltre, con grande dispiacere, sospendiamo la concelebrazione con autorità del patriarcato di Costantinopoli, e così pure la partecipazione della Chiesa ortodossa russa in Assemblee episcopali, in dialoghi teologici, in commissioni multilaterali e simili strutture presiedute o copresiedute da rappresentanti del patriarcato di Costantinopoli. Se questo prosegue le sue attività anti-canoniche nel territorio della Chiesa ortodossa ucraina [quella guidata da Onufry], saremo costretti a interrompere totalmente la comunione eucaristica con esso. La piena responsabilità di queste tragiche conseguenze e di questa divisione incombe personalmente su Bartolomeo e su quanti stanno con lui. Chiediamo alle Chiese autocefale sostegno in questo momento difficile. Facciamo appello ai primati di tutte le Chiese perché ben comprendano la nostra responsabilità condivisa per il destino del mondo ortodosso».

La Chiesa sotto accusa, però, contesta questa ricostruzione. Un autorevole rappresentante del patriarcato, l’arcivescovo Job di Telmessos, in un’intervista del 15 settembre ad una agenzia ucraina ha affermato: «Costantinopoli si è sempre considerata – canonicamente – la “Chiesa-madre” dell’Ucraina; non fu legittima la presa ecclesiale russa del paese; il Fanar, e solo lui, ha il diritto di proclamare la “autocefalia” della Chiesa ucraina, come nei secoli XIX e XX ha proclamato quelle delle Chiese di Romania, Serbia, Bulgaria; anche la Chiesa ucraina legata a Mosca, nel 1991, voleva l’autocefalia! Il patriarcato ecumenico – ha sottolineato – non propone l’autocefalia in Ucraina come arma di guerra, ma come medicina per sanare uno scisma ecclesiale che dura da trent’anni». Ed ha concluso rilevando che sarebbe increscioso che Mosca facesse uno scisma per ragioni canoniche, quando non è in questione nessun dogma di fede.

A questo punto manca un solo passo perché Mosca proclami lo scisma, cioè la cancellazione nei dittici – l’elenco, nella divina liturgia, dei capi delle Chiese sorelle con le quali si è in comunione – del nome di Bartolomeo. Sarebbe uno scisma eucaristico, dunque lacerante. Le altre dodici Chiese ortodosse dovrebbero, poi, scegliere da che parte stare. Finora, solo l’arcivescovo Hieronymos di Atene si è schierato con Costantinopoli; quasi tutti i patriarchi, invece, con Mosca: Theophilos III, di Gerusalemme; Theodoros II di Alessandria (Filaret è “scismatico”); Ilia II della Georgia; Johannes X di Antiochia; Irenej di Serbia («quanto sta succedendo in Ucraina è molto pericoloso o addirittura catastrofico, probabilmente fatale per l’unità della Santa Ortodossia»). Non si sa, per ora, la reazione del patriarca rumeno Daniel.

Gran parte dell’Ortodossia mette dunque in dubbio il ruolo di Bartolomeo come primus inter pares. E il papa di Roma? Imbarazzatissimo, e attento a non schierarsi; prudentissimi anche la Curia romana e la diplomazia pontificia. Ma se i contendenti si appellassero a lui per un arbitrato? Egli farebbe quello che, talora, il papato romano fece nel primo millennio… Se però fallisse? Intanto – primo “effetto collaterale” dello scisma, che poi lambirà anche il Consiglio ecumenico delle Chiese – va in crisi la commissione mista cattolico-ortodossa, istituita nel 1980 per affrontare i problemi teologici pendenti (primo fra tutti il ruolo del vescovo di Roma nell’ecumene); infatti, essa, con un cardinale romano, è co-presieduta da un metropolita di Costantinopoli… dunque out per Mosca.

Un terremoto ecclesiale, dalle conseguenze devastanti, incombe sull’Ekklesìa, e per ragioni estranee all’Evangelo. Ma se, stante il muro tra Mosca e Costantinopoli, il “popolo ortodosso” ucraino, il quale – lo abbiamo constatato in loco – fatica a sentirsi rappresentato da diatribe come queste, e superando le sue stesse lacerazioni interne, in ciò sollecitato da     gruppi più arditi della diaspora ortodossa in Occidente, con una pacifica e dolente insurgenza obligasse i “vertici” a un soprassalto di audacia ecclesiale, e di fantasia creativa per immaginare soluzioni canoniche mai esperimentate, pur di impedire l’irreparabile? Intanto, all’aeroporto di Istanbul l’aereo per Kiev è sulla pista, in attesa del tomos. Qualcuno lo fermerà?

LA QUESTIONE UCRAINA INNESCA UNO SCISMA

2 Novembre 2018

di Luigi Sandri.

Dopo le “sciabolate” estive, in ottobre hanno fatto un passo avanti verso lo scisma ufficiale i patriarcati di Mosca e Costantinopoli irriducibilmente divisi sulla questione della “autocefalia” della Chiesa ortodossa ucraina.

A settembre, in seguito al problematico incontro del 31 agosto, a Istanbul, tra il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, e quello di Mosca, Kirill, il primo aveva proseguito con iniziative che andavano nel senso opposto ai desiderata dei russi, che reagirono perciò con durezza [vedi Confronti 10/18].

LA STRADA DI BARTOLOMEO

Ma, convinti di fare la cosa giusta, Bartolomeo e il suo Sinodo l’11 ottobre hanno infine deciso di: 1) “procedere” alla concessione dell’autocefalia della Chiesa ucraina; 2) ristabilire nei loro ranghi gerarchici Makariy Maletich (della piccola e già esistente Chiesa autocefala ucraina) e Filaret Denisenko, l’autoproclamatosi “patriarca” di Kiev, nel 1997 scomunicato dal Santo Sinodo russo, del quale pure aveva fatto parte per tanti anni; 3) revocare il vincolo giuridico della Lettera sinodale del 1686, che dava al patriarca di Mosca il diritto di ordinare il metropolita di Kiev; 4) lanciare un appello «a tutte le parti coinvolte, perché evitino l’indebita appropriazione di chiese, monasteri e altre proprietà, e qualsiasi altro atto di violenza».

LA RISPOSTA DEL SINODO DI MOSCA

Fermissima, il 15 ottobre, la risposta del Santo Sinodo di Mosca, riunitosi a Minsk, in Bielorussia: 1) interruzione della comunione eucaristica con Costantinopoli (teologicamente, la proclamazione dello scisma), e proibizione agli ortodossi russi di partecipare alle liturgie di quella Chiesa; 2) accuse a quel Sinodo di aver violato i canoni stabiliti dai Concili ecumenici; 3) rivendicazione dell’Ucraina come proprio territorio canonico; 4) inammissibilità della revoca della lettera del 1686 (che, secondo Mosca, affidava “per sempre” a essa la metropolia di Kiev, mentre ora Costantinopoli sostiene essersi trattato di una decisione “temporanea”, e “revocabile” anche dopo secoli); 5) scandalo per la riabilitazione dello “scismatico” Filaret.

Perché la decisione “politica” del Sinodo costantinopolitano diventi concreta, occorre però che esso appronti un tomos ad hoc, cioè un documento ufficiale che stabilisce esattamente i termini dell’autocefalia. Allora sarà il momento della verità: si vedrà la “composizione” della futura Chiesa autocefala. Per ora, in Ucraina l’Ortodossia è spezzata in tre: una, legata a Mosca (un terzo delle circa trentamila parrocchie dell’intera Chiesa russa stanno in quel paese!); il “patriarcato” di Kiev; la Chiesa autocefala (del tutto distinta da quella di cui si discute). Queste due – finora non riconosciute da nessuno nell’Ortodossia – formeranno la nascente Chiesa autocefala; ma, da sole, esse rappresentano solo un terzo degli ortodossi ucraini, perché i due terzi (alcuni dicono: la metà) appartengono alla Chiesa legata a Mosca.

Quanti di questi ucraini-russi rimarranno con la Chiesa oggi guidata dal metropolita Onufry, e quanti passeranno alla neonata “autocefala”? Se i “trasmigratori” saranno davvero molti, e magari la maggioranza, avranno vinto Bartolomeo e il presidente ucraino Petro Poroshenko che il 9 aprile scorso si era recato apposta da quel patriarca, per chiedere il tomos dell’autocefalia (un auspicato traguardo che, a suo parere, rappresenterà «la caduta della Terza Roma [Mosca]); se, invece, la Chiesa ucraino-russa manterrà sostanzialmente i suoi fedeli, avrà vinto Kirill. Per chi perderà la “scommessa”, il fallimento sarà rovinoso. Al di là dei numeri, è comunque assai probabile che sorgano contrasti, per non dire atti di violenza – magari per il possesso dell’unica chiesa del villaggio – tra ortodossi “ucraini” (considerati patrioti) e “filo-moscoviti” (considerati “traditori” dal governo di Kiev). E chi dovrebbe difendere questi ultimi, se le cose prendessero una brutta piega?

LA RISPOSTA DI PUTIN

Meraviglia assai che in Occidente non si sia dato rilievo a un dettaglio: Vladimir Putin, subito dopo la decisione dell’11 ottobre, ha riunito il Consiglio russo per la sicurezza, per discutere della Ortodossia in Ucraina. Lo “zar” voleva predisporre le sue mosse nel caso in cui Poroshenko, che ha legato le sue fortune politiche alla “autocefalia”, favorisse misure repressive contro gli ortodossi ucraino-russi. E il ministro degli esteri del Cremlino, Serghiei Lavrov, ha definito quella organizzata da Bartolomeo «una provocazione con il diretto sostegno pubblico di Washington»!

Quali che siano ragioni e torti nel Da (sì) o Niet (no) all’autocefalia, su essa pesano questioni geopolitiche e nazionaliste, con risvolti militari – perché nell’Ucraina orientale continuano gli scontri tra ucraini e filo-russi (sostenuti dal Cremlino), mentre Poroshenko esige la restituzione della Crimea “brutalmente occupata”, che Putin, con la sua annessione, approvata da un referendum nel 2014 ma non riconosciuto dalla comunità internazionale, ormai ritiene “per sempre” russa.

Dal punto di vista canonico, il cuore della discordia è la questione del “territorio canonico”: per il patriarcato russo l’Ucraina fa parte del “suo” territorio e, dunque, ritiene intollerabile che Costantinopoli abbia osato intervenire in esso. Analoga contesa tra i due patriarcati per la giurisdizione sull’Estonia, nel 1996 portò Mosca a proclamare uno scisma, chiuso però dopo sei mesi con un  compromesso: la compresenza, a Tallinn, di due vescovi ortodossi, l’uno legato alla Chiesa russa, l’altro a quella di Bartolomeo. Insopportabile, per Kirill, e “inaudita interferenza politica”, è poi che la richiesta ufficiale dell’autocefalia sia stata presentata dal presidente ucraino, e confermata dal parlamento di Kiev. A tali obiezioni il Sinodo di Bartolomeo replica, apportando ampia documentazione storica: l’Ucraina è parte del “suo” territorio canonico, anche perché Bisanzio è stata la Chiesa-Madre che inviò missionari a Kiev dove infine, nel 988, portarono il principe Vladimir a farsi battezzare. Del resto, secondo il patto del 1686 il metropolita di Kiev doveva porre al primo posto, nella liturgia, il patriarca di Costantinopoli.

Catastrofica, comunque, sul fronte intra-ortodosso, è la deflagrazione della questione ucraina: le quattordici Chiese autocefale ora dovranno schierarsi. Dopo l’11 ottobre, il patriarca di Antiochia, Johannes X, ha dato torto a Bartolomeo; e così Ireneo di Serbia; pure un metropolita bulgaro si è schierato con Mosca. Qualche rara voce sostiene che dovrebbe essere un Concilio panortodosso a dirimere la vertenza: epperò Mosca non lo vuole; del resto, pur dopo aver assicurato la sua partecipazione al Concilio ortodosso di Creta del 2016, lo aveva poi disertato. Esso, comunque, non avrebbe potuto, per l’opposizione previa di Kirill, mettere in agenda i criteri per concedere l’autocefalia, sui quali russi e greci divergono. Osserva Bartolomeo: nell’Ottocento e Novecento è stato il patriarca di Costantinopoli – primus inter pares – a dare il tomos dell’autocefalia alle Chiese di Romania, Serbia e Bulgaria.

BUIO SULL’ECUMENISMO

Anche il Consiglio ecumenico delle Chiese – del quale sono membri le due Chiese in dissidio – è in enorme imbarazzo. E ancora più lo è papa Francesco (che il 19 ottobre ha ricevuto in udienza privata il metropolita di Volokolamsk, Hilarion, “ministro degli esteri della Chiesa russa”): ormai la commissione mista cattolico-ortodossa, attiva dal 1980, viene depotenziata, perché Mosca – che rappresenta quasi i tre quarti dei duecento milioni di ortodossi nel mondo – ha annunciato che non prenderà più parte a organismi co-presieduti da un rappresentante di Costantinopoli. Come, appunto, quella commissione.

Il buio scende sul cammino ecumenico di tanti anni. Forse ai semplici fedeli ortodossi dei paesi coinvolti nulla interesserà delle beghe dei loro capi; e nelle liturgie continueranno a pregare con devozione, senza preoccuparsi a quale Chiesa appartengano. Forse. Perché lo scisma in atto è potenzialmente lacerante. Infatti, le due Parti in contrasto citano, sì, canoni e eventi storici per sostenere le proprie tesi; mai, però, l’Evangelo. Che, infatti, non potrebbe essere addotto per questioni di potere ecclesiastico.

DOPO LA SCELTA DI KIEV UN FUTURO INQUIETANTE

7 Febbraio 2019

di Luigi Sandri.

Il 5 gennaio a Istanbul il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, presente il presidente ucraino Poroshenko, ha firmato il “tomos” – decreto sinodale – che concede l’autocefalia alla neonata Chiesa ortodossa d’Ucraina; e l’indomani l’ha consegnato al neo-primate Epifanyi. Che il patriarcato di Mosca, furente, considera “scismatico”.

Ora che lo “scisma” tra i patriarcati di Mosca e di Costantinopoli – irrimediabilmente divisi sulla questione dell’autocefalia (indipendenza) della Chiesa ortodossa in Ucraina – è stato consumato, ci pare utile qualche considerazione sulle ragioni apportate dai protagonisti della vicenda, e su «che cosa», ora, prevedibilmente accadrà. Lasciando sullo sfondo quanto già raccontato [vedi Confronti 10 e 11/18, 1/19], rivisitiamo i tre fronti della “battaglia”: ucraino, moscovita, costantinopolitano.

Il 5 gennaio, nella cattedrale di san Giorgio al Fanar (antico quartiere di Istanbul, residenza dei patriarchi di Costantinopoli) Bartolomeo I ha firmato il tomos – decreto sinodale – con il quale, come Chiesa-madre a una Chiesa-figlia, concedeva la “autocefalia” alla neonata Chiesa ortodossa in Ucraina.

Alla solenne cerimonia erano presenti il presidente ucraino Petro Poroshenko, e il metropolita di Kiev e primate della nuova Chiesa, Epifanyi, eletto a quella carica il 15 dicembre, da un Concilio per la riunificazione – “Conciliabolo”, secondo il patriarcato russo – formato da delegati del “Patriarcato di Kiev” e della piccola e preesistente Chiesa autocefala ucraina. Presenti anche due (due, su novanta) vescovi della Chiesa ortodossa ucraina legata a Mosca, che gode di amplissima autonomia, e fino al momento la più numerosa nel paese. Essa è guidata dal metropolita Onufryi. Il 6 gennaio Bartolomeo ha consegnato a Epifanyi il tomos che poi già l’indomani era esposto nella cattedrale di Santa Sofia, a Kiev, a perenne memoria dell’evento.

Sul lato ucraino, il protagonista principale – ci pare – è stato colui che fino al 15 dicembre 2018 era il “patriarca” di Kiev (“cosiddetto”, secondo Mosca), Filaret. Nato in Ucraina nel gennaio 1929, Mykhailo Antonovych Denysenko, diventato monaco – con il nome di Filaret – e poi prete, fece tutti i suoi studi in Russia e rappresentò poi il patriarcato di Mosca in varie missioni all’estero. Infine, fu scelto come metropolita di Kiev e, come tale, per anni fu membro permanente del Santo Sinodo di Mosca. Quando, nel maggio 1990, morì il patriarca russo Pimen, Filaret fu locum tenens del patriarcato. Egli sperava di diventare il successore del defunto, ma fu invece eletto Aleksij II, già metropolita di Leningrado. Pieno di rancore – questa l’accusa dei moscoviti – per la mancata nomina, nel ’92 (l’anno prima era collassata l’Urss e nata l’Ucraina indipendente) Filaret favorì la nascita del “patriarcato di Kiev”, al quale aderì una parte minoritaria degli ortodossi ucraini: il Concilio episcopale russo lo ridusse, allora, allo stato laicale. Ma egli nel ’95 accettò l’elezione a “patriarca” di Kiev: e perciò, nel ’97, lo stesso Concilio lo scomunicò. Bartolomeo riconobbe legittime le due punizioni.

Filaret, sdegnato, rifiutò quei provvedimenti, e continuò a ordinare preti e vescovi. Si adoperò perché Costantinopoli riconoscesse il “patriarcato” di Kiev; infine è stato il massimo sostenitore del “Concilio” del 15 dicembre. Bartolomeo e il suo Sinodo l’11 ottobre ‘18 gli avevano tolto le censure comminategli dall’episcoparo russo; una provocazione intollerabile, per quest’ultimo. I critici di Filaret sostengono che, stante l’Urss, egli fosse legato al Kgb: accusa, a dire il vero, rivolta a tutto l’establishment della Chiesa russa del tempo sovietico; e quindi da valutare criticamente e imparzialmente (tutti gli ecclesiastici di alto rango che viaggiassero all’estero, rientrati in patria dovevano in qualche modo riferire ai servizi di sicurezza russi). Gli ucraini fautori della nuova (quindicesima) Chiesa autocefala, considerano Filaret un padre della patria e della Chiesa. I suoi avversari, invece, ritengono che egli abbia agito per orgoglio. Il “Concilio” gli ha attribuito il titolo di “patriarca emerito di Kiev”. Il quale conta ancora molto perché l’ora quarantenne Epifanyi è una sua creatura, quasi un alter ego.

Sul fonte politico, è Poroshenko il grande vincente per la nascita della Chiesa indipendente.

Egli, in opposizione a Mosca (suo lo slogan: «Via da Putin, via da Kirill»), si è battuto con energico e pubblico impegno per la “autocefalia” ucraina, e vorrebbe che la Chiesa filorussa esprimesse anche nel nome… che dipende da una autorità straniera, il patriarcato russo. Ma la sua trasbordante presenza – al “Concilio” e alle cerimonie del Fanar – hanno impresso un tale sigillo politico e nazionalista alla vicenda da esacerbare i russi e, forse, infastidire i gerarchi di varie Chiese ortodosse. Però – salvo possibili differimenti – il 31 marzo si vota in Ucraina, per l’elezione presidenziale. A dicembre i sondaggi davano appena il 10% dei voti a Poroshenko: a questi, eletto nel giugno 2014, si rimprovera di non aver recuperato la Crimea, occupata e poi annessa dai russi nel marzo di quell’anno; di non aver sconfitto la Russia nel Donbass (dove la guerra “a bassa intensità” in cinque anni ha fatto diecimila vittime); di non aver tratto l’Ucraina fuori dalla sua grave crisi economica. Lui, però, è convinto che la sua battaglia per la “autocefalia” convincerà il popolo a rieleggerlo presidente. Le urne, tra poche settimane, diranno…!

Sul fronte russo, la vicenda ucraina ha visto la costante presenza del patriarca di Mosca, Kirill; e poi un convitato di pietra, il presidente Vladimir Putin. Dopo vari altri interventi, il 31 dicembre il capo della Chiesa russa ha scritto una lettera, dai toni drammatici, a Bartolomeo, ritenuto reo, con la sua iniziativa “scismatica”, per: 1) aver interferito nel “territorio canonico” della Chiesa russa, dato che proprio un suo predecessore, Dionigi IV, nel 1686 aveva affidato a Mosca la metropolia di Kiev; 2) aver restituito dignità ecclesiale a Filaret, pur scomunicato dal Concilio episcopale russo, come se questo nulla contasse; 3) aver sostenuto il “Conciliabolo” del 15 dicembre 2018. Conclusione: Kirill scongiurava Bartolomeo di annullare il programma annunciato per il 5 e 6 gennaio a Istanbul: «Non è troppo tardi per fermarlo». Al di là di queste motivazioni, ve ne è una, inespressa, che molto preoccupa Kirill: se la Chiesa ucraina guidata da Onufryi iniziasse a sgretolarsi, con intere parrocchie e diocesi che passassero alla neonata Chiesa autocefala, gravissime sarebbero, per i filorussi, le perdite di edifici, personale, strutture.

E se un domani – questa la domanda cruciale – facessero lo stesso le Chiese, oggi legate al patriarcato di Mosca, di Bielorussia, Lituania, Lettonia, Estonia, Kazakhstan, Uzbekistan, Moldova? La rivendicata “sovra-nazionalità” del patriarcato russo andrebbe in frantumi. È vero che i legami storici ed ecclesiali tra Mosca e Kiev non hanno paragoni, per la loro unicità; e, tuttavia, guardando in lunga prospettiva, la frana avviata con l’Ucraina potrebbe riproporsi in altri casi.

Versante politico: a differenza dell’“onnipresente” Poroshenko, Putin formalmente ha mantenuto un low profile. Ma già da ottobre aveva fatto sapere che non avrebbe tollerato violenze contro ucraini filo-moscoviti. I quali, se considerati in patria “traditori”, potrebbero ora trovarsi in situazioni spiacevolissime. In effetti, è sul filo del rasoio, a Kiev, la distinzione tra amore per la patria, scelta della propria Chiesa, libertà religiosa, separazione tra Chiesa e Stato. In ogni caso, il capo del Cremlino conta che gli ortodossi filorussi non mettano in discussione quella che lo “zar” considera “liberazione della Crimea” mentre per gli ucraini filo-Kiev si tratta di brutale “occupazione e annessione illegale”, da rovesciare. Ad aggrovigliare l’aspetto politico vi è Donald Trump, favorevolissimo alla Chiesa di Epifanyi, un tassello in più – egli pensa – per dare comunque addosso alla Russia.

Saranno i fatti, adesso, a premiare speranze o a stroncarle. Se la Chiesa ucraina filorussa rimarrà sostanzialmente compatta, l’intero disegno Filaret-Pososhenko-Bartolomeo andrà in fumo. Se invece essa iniziasse a sgretolarsi, esso sarebbe premiato. Ma, intanto, come si porranno – tolte la russa, la costantinopolitana e la neonata ucraina – le rimanenti dodici Chiese ortodosse autocefale?

Al momento il panorama è nebbioso: a favore di Kirill si è schierato il metropolita di Varsavia, Sawa, primate della Chiesa ortodossa di Polonia. Da parte sua, il metropolita di Volokolamsk, Hilarion, il “ministro degli esteri” del patriarcato di Mosca, il 10 gennaio a Gerusalemme ha incontrato il patriarca greco di quella città, Theophilos III, per convincerlo a porsi pro-Kirill: ci è riuscito? Non si sa. Chrysostomos II, capo della Chiesa autocefala di Cipro, pare aver scelto Mosca; così, anche l’arcivescovo di Tirana, Anastasios. Filo-Kirill il patriarca serbo Irenei, e quello di Antiochia, Johannes X: questi ha poi proposto che sia un Concilio panortodosso a dirimere la questione ucraina (ma chi potrebbe convocarlo, e su quale ordine del giorno, stante il dissidio in atto, e dato che la Chiesa russa rifiuta assolutamente un Bartolomeo che faccia “il papa degli ortodossi”?). Anche Bartolomeo dunque, rischia credibilità e autorità. Ma, il suo, era un rischio obbligato. Umiliato da Kirill che, nel giugno 2016, all’ultimo momento aveva disdetto la partecipazione della Chiesa russa al Concilio di Creta, con la vicenda ucraina ha cercato di rientrare in scena.

Infatti una forte Chiesa ucraina autocefala sarebbe un contraltare alla straripante Chiesa russa che, da sola, conta il 70% dei duecento milioni di ortodossi nel mondo; infatti, se essa raccogliesse tutti gli ortodossi ucraini, sarebbe la seconda Chiesa ortodossa al mondo, per numero di fedeli, e dunque capace di aprire un’efficace dialettica con Mosca.

In Turchia il patriarcato ecumenico – primus inter pares nell’Ortodossia – ha meno di cinquemila fedeli: una piccolezza numerica che rischia di diventare irrilevanza ecclesiopolitica.

Se l’operazione ucraina si imporrà, si rafforza il ruolo di Costantinopoli, e gli ucraini – che aspettano Bartolomeo a Kiev per accoglierlo trionfalmente – saranno riconoscenti in eterno alla “Chiesa-madre” che li ha liberati dal “giogo” di Mosca; altrimenti, dolorosa sarebbe la sconfitta.

La lite tra la “seconda” Roma, Costantinopoli, e la “terza”, Mosca, pone in estremo imbarazzo la “prima” Roma, cioè il papato (non a caso Francesco, finora, non ha mai parlato!). Ma, in realtà, il Vaticano si esprime. Infatti, monsignor Andrea Palmieri, sottosegretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, su L’Osservatore romano del 19 gennaio, in un articolo dedicato al dialogo teologico tra le Chiese cattolica e ortodossa – dal 1980 in mano ad una commissione mista – scrive:

«Nonostante la posizione di assoluta neutralità della Chiesa cattolica sulla questione dell’autocefalia ucraina, è gravida di conseguenze potenzialmente negative la decisione del Santo Sinodo del patriarcato di Mosca, del 14 settembre».

Il quale, quel giorno, ha stabilito: la Chiesa russa diserterà ogni commissione (come la citata!) che preveda la co-presidenza di un delegato del patriarcato di Costantinopoli. E lo scisma – forse più aspro di quello del 1054, che separò le due Rome di allora – taglia come una spada l’intera oikoumene, che inevitabilmente dovrà schierarsi per l’una o l’altra parte.

Saprà, l’Ortodossia, superare la sua crisi? Oppure Mosca non citerà più Bartolomeo nei dittici, le preghiere della divina liturgia in cui si ribadisce la comunione con i singoli capi delle Chiese sorelle autocefale, rimanendo dunque in stato di scisma con lui? O, invece, esso sarà ricucito? Lo chiederebbero la ragionevolezza e, anche, molti semplici fedeli sconcertati da un tale asperrimo contrasto; e l’Evangelo, questo sconosciuto nella disputa ucraina.

SI ACUISCE LO SCISMA TRA MOSCA E IL FANAR

5 Aprile 2019

di Luigi Sandri.

Piervy sriedì ravnikh oppure Piervy biez ravnykh? Questi, in russo, i lemmi giuridici latini Primus inter pares (primo tra pari) o Primus sine paribus (primo senza pari, cioè senza uguali)? La divergente risposta che danno all’interrogativo il Patriarcato di Mosca, oggi guidato da Kirill, e quello di Costantinopoli, retto da Bartolomeo I, fonda il loro irriducibile contrasto sulla autocefalia (indipendenza) della Chiesa ucraina. Una drammatica disfida che ha spinto i vertici della Chiesa russa a proclamare l’interruzione della comunione eucaristica – cioè lo scisma in senso stretto – per le scelte della consorella che ha la sua base a Istanbul, nel quartiere del Fanar.

Riassumiamo una vicenda tormentata, di cui abbiamo scritto più volte su Confronti. Il 19 aprile 2018 la Verkhovna Rada (parlamento di Kiev) aveva fatta sua la richiesta del presidente Petro Poroshenko al Fanar di concedere l’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina. Bartolomeo, senza rispondere con un rotondo “sì”, lo lasciava balenare, allarmando così Mosca. In settembre, poi, accettava la proposta, per finalmente – sosteneva – riunire le tre Chiese ortodosse del paese:

  1. Chiesa ortodossa, legata a Mosca, e guidata dal metropolita di Kiev, Onufry;
  2. Patriarcato di Kiev, in mano a Filaret;
  3. Chiesa autocefala ucraina, una modesta comunità.

La prima è la più numerosa; le altre due, sorte nel 1992 dopo il collasso dell’Urss e la nascita dell’Ucraina indipendente, sono considerate scismatiche da Mosca (che già nel 1995 aveva ridotto allo stato laicale, e nel ’97 scomunicato Filaret, l’autoproclamatosi “patriarca” di Kiev). Kirill, il 31 agosto ‘18 si recava da Bartolomeo, per fermarlo: ma questi con il suo Sinodo procedeva, infine “benedicendo” un “Concilio per la riunificazione” – considerato illegale da Mosca – che il 15 dicembre ha poi dato vita, a Kiev, alla Chiesa ortodossa d’Ucraina, formata dal Patriarcato di Kiev e dalla Chiesa autocefala ucraina, e eletto come primate Epifany. Poroshenko si è speso moltissimo per l’intera operazione: una pressione politica assai indigesta per i russi. Poi il 5 gennaio Bartolomeo ha firmato il tomos (decreto sinodale) dell’autocefalia e l’indomani lo ha consegnato al nuovo primate.

Ai russi che contestavano la legittimità canonica della decisione, il patriarcato ecumenico replicava invocando il suo diritto di concedere l’autocefalia agli ucraini: come dimostrerebbe la storia ecclesiale dei Balcani – della quale qui diamo una nostra sintesi.

Quando la Bulgaria, nel 1393, cadde in mano turca, perse la sua autocefalia. Cinque secoli dopo, nel 1870 il governo ottomano permise la ricostituzione di una Chiesa nazionale bulgara; ma il Fanar la dichiarò scismatica, e solo nel 1945 esso riconobbe l’autocefalia della Chiesa bulgara, e pose fine allo scisma. Altro caso: nel 1922 la Chiesa ortodossa albanese si proclamò autocefala, decisione non riconosciuta da Costantinopoli e da gran parte dell’episcopato greco (irritati che a Tirana si usasse l’albanese, invece del greco, come lingua liturgica). Ma, infine, nel 1937 il patriarcato ecumenico concesse l’autocefalia agli albanesi.

Ancora: dopo la fusione dei principati di Valacchia e Moldavia, la Romania divenne indipendente nel 1878. Il Fanar, sotto la cui giurisdizione stavano quando facevano parte dell’impero ottomano, riconobbe l’autocefalia della Chiesa romena nel 1885. Esso già nel 1879 aveva riconosciuto l’autocefalia della Chiesa serba. Invece contrasto vi fu, dopo il 1945, tra il Fanar e Mosca, per la concessione dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa cecoslovacca e, con la divisione nel 1993 di quel paese, a quella che è diventata la Chiesa delle terre céche e della Slovacchia il cui primate dal 2014 è Rostislav. L’autocefalia delle Chiese balcaniche iniziò, a quanto pare, senza obiezioni da parte di Mosca. Va però ricordato che dal 1721 al 1917 la Chiesa russa – per decisione di Pietro il grande, e poi dei successivi zar – rimase senza patriarca; e di nuovo senza, per volontà dei sovietici, dal 1925 al ’43. In ogni modo, rifacendosi a questi precedenti, ora Bartolomeo ribadisce di avere solo lui, e non altri, il diritto di concedere l’autocefalia. A Kiev, intanto, nella neonata Chiesa è stato istituito il Sinodo, di cui fa parte il “patriarca d’onore Filaret”. Il quale, novantenne, l’indomani del “Concilio” ha precisato che lui «rimane patriarca, perché questi è a vita e, insieme col primate, governa la Chiesa ortodossa d’Ucraina». Non solo: il 5 febbraio il Sinodo lo ha nominato vescovo della diocesi di Kiev (escluso il monastero di san Michele). Rimane però un mistero che cosa ciò significhi, dato che Epifany è metropolita di Kiev.

Affermando che Bartolomeo è “primo” sriedì ma non biez ravnykh, il santo Sinodo russo gli nega il diritto di prendere, da solo, decisioni riguardanti l’intera Ortodossia: egli può coordinare il lavoro degli “uguali a lui”, mai però interferendo negli affari interni delle altre Chiese sorelle, o addirittura ignorando il loro parere. Perciò, ribadisce Kirill: solo la Sinassi (riunione) dei capi delle Chiese autocefale – oggi quattordici, perché la quindicesima, l’ucraina nata il 15 dicembre 2018, non è riconosciuta da Mosca – potrebbe concedere a una Chiesa l’autocefalia.

Per i russi, il “come” siano nate le Chiese autocefale balcaniche non prova nulla; d’altronde nessuna di esse è paragonabile alla situazione ucraina, dove la maggior parte degli ortodossi, per ora, si riconosce nella Chiesa filo-russa che considera anti-canonico e scismatico il “Concilio” del 2018. Il 31 gennaio scorso a Mosca è stato solennemente celebrato il decimo anniversario dell’elezione di Kirill a patriarca. In un discorso ai rappresentanti di Chiese autocefale presenti (mancava Costantinopoli!) egli ha ironizzato sul “nuovo” principio del piervy biez ravnykh: per i russi – sottinteso – non può esistere un “papa” degli ortodossi.

Serbia. Come si è posizionata l’Ortodossia di fronte alla lacerazione in atto? Vediamo, per ora, la risposta di alcune Chiese europee. Il patriarca serbo, Irenej – che era stato a Mosca per il decennio di Kirill – e il suo Sinodo a fine febbraio hanno emesso una dichiarazione ufficiale. Premesso che lo stesso Irenej si era recato a Salonicco, per invitare il primus inter pares a tornare sui suoi passi, vista l’inutilità di questi sforzi «la Chiesa ortodossa serba:

  1. Non riconosce l’anti-canonica “invasione” del patriarcato di Costantinopoli nel territorio canonico della santa Chiesa russa, dato che la metropolia di Kiev, che include dozzine di diocesi, nel 1686, sulla base di decisioni del patriarca di Costantinopoli, Dionigi IV, fu posta sotto quello di Mosca.
  2. Non riconosce la “Chiesa autocefala d’Ucraina” che, dal punto di vista canonico, non esiste. Gli scismatici rimangono scismatici, a meno che, con una sincera confessione, non si pentano.
  3. Non riconosce il “Concilio” di Kiev. Esso è erroneamente chiamato di “riunificazione” e ha disintegrato ancor più l’infelice Ucraina.
  4. Non riconosce un episcopato scismatico, che appartiene all’ala di Denishenko [Filaret, ndr], ridotto [da Mosca, ndr] allo stato laicale e scomunicato.
  5. Raccomanda ai gerarchi e al clero di astenersi da ogni comunione liturgica e canonica non solo con il Signor Epifany e con altri come lui, ma anche dai vescovi e chierici che concelebrano con loro… La Chiesa serba implora sua Santità il patriarca ecumenico di riconsiderare la decisione presa».

Romania. Più sfumata la posizione del Sinodo romeno, riunitosi il 21 febbraio:

  1. Per circa trent’anni il problema della divisione [della Chiesa ortodossa, ndr] in Ucraina non è stato risolto.
  2. Il patriarcato ecumenico ha deciso di uscire dall’impasse e ha concesso il tomos dell’autocefalia. Ma esso è stato accolto solo dall’Ortodossia ucraina non in comunione con Mosca; e così la questione dell’unità della Chiesa in Ucraina rimane non del tutto risolta.
  3. Si raccomanda al patriarcato ecumenico e a quello di Mosca di trovare le vie per risolvere il contenzioso, per preservare l’unità nella fede, rispettare la libertà pastorale e amministrativa di clero e fedeli di quel paese (compreso il diritto all’autocefalia) e di ristabilire la comunione eucaristica.
  4. Nel caso fallisca il dialogo bilaterale, è necessario riunire la Sinassi dei primati delle Chiese ortodosse per risolvere il problema pendente».

Il Sinodo insiste poi perché alle 127 parrocchie rumeno-ortodosse in Ucraina, soprattutto in Bukovyna (regione già della Romania, durante la Seconda guerra mondiale passata all’Ucraina sovietica) sia garantita piena libertà, e l’uso del rumeno nella liturgia. Proposte che Epifany – in procinto di recarsi a Bucarest – ha assicurato di accogliere (del resto nel paese opera un Vicariato ucraino ortodosso libero di organizzarsi).

Albania. Già il 4 gennaio il Sinodo della Chiesa albanese aveva invocato la Sinassi: una proposta che l’arcivescovo di Tirana, Anastasios, aveva comunicata a Bartolomeo, dieci giorni dopo, con una lettera resa nota solo il 7 marzo e, tradotta in russo, a Mosca pubblicata tre giorni dopo.

Il primate albanese deplora che la Chiesa russa abbia disertato il Concilio di Creta; e che abbia rotto la comunione eucaristica con il Fanar. Ma, insieme, critica a fondo Filaret (uno scomunicato che – ricorda – ha consacrato perfino vescovi, che perciò tali non sono!); e rifiuta di riconoscere la canonicità della Chiesa ucraina nata dal Concilio di dicembre.

E allora? Bartolomeo, che ha questo “privilegio esclusivo”, convochi una Sinassi, o un Concilio, «per scongiurare l’evidente pericolo dell’avvio di un doloroso scisma, che minaccia la solidità dell’Ortodossia e la sua persuasiva testimonianza al mondo d’oggi». Bartolomeo, ha risposto ad Anastasios il 20 febbraio (ma la lettera è stata pubblicata settimane dopo), ribadendo le proprie tesi (in particolare, la validità dell’ordinazione dei vescovi della nuova Chiesa d’Ucraina). Ma ignora del tutto l’auspicata riunione della Sinassi. In merito, dato che le decisioni di questa vanno prese all’unanimità, e siccome Mosca e Costantinopoli divergono sui criteri per concedere l’autocefalia, in passato si era stabilito di sottrarre la questione all’esame del Concilio ortodosso (poi celebrato nel 2016 a Creta: ma, all’ultimo momento, la Chiesa russa – che pur rappresenta circa il 70% dei duecento milioni di ortodossi nel mondo – rifiutò di partecipare).

Domanda: ciò che fu improponibile tre anni fa, sarà possibile adesso? Intanto, hanno condiviso le tesi russe Rostislav («Filaret è un impostore»), e Sava, primate degli ortodossi polacchi. Da altre Chiese autocefale vi sono state dichiarazioni di singoli gerarchi, spesso nebulose – come quelle di Theophilos III, patriarca greco di Gerusalemme. Si attendono impegnative parole dei vari Sinodi: saranno filo-russe le Chiese slave, e filo-Fanar quelle greche? Non è detto. Intanto si fa più profonda la faglia aperta nell’Ortodossia dal terremoto ecclesiale ucraino. 

MORIRE PER KIEV? UN TRAGICO DUELLO ECCLESIALE

15 Luglio 2019

di Luigi Sandri (Redazione Confronti) e Paolo Emilio Landi (Regista teatrale e giornalista, rubrica Protestantesimo Rai 2).

[da Kiev, Ucraina]

Irrisolvibile. Questa, per ora, la nostra “diagnosi” – dopo aver ascoltato in loco le Parti contrapposte – del puzzle delle Chiese ortodosse ucraine, dove la maggioritaria [Cou], legata al patriarcato di Mosca, guidato da Kirill, considera “scismatica” la neonata e autocefala Chiesa ortodossa d’Ucraina [Codu], benedetta dal patriarcato di Costantinopoli, guidato da Bartolomeo, ma già insidiata dell’autoproclamatosi “patriarca” di Kiev, Filaret, pur sponsor, con il presidente Petro Poroshenko, della “indipendenza” ecclesiale ucraina.

LE TAPPE DELLO SCISMA

Con una troupe di Protestantesimo (Raidue), guidata dal regista Paolo Emilio Landi, dal 22 al 25 giugno siamo stati a Kiev per meglio capire l’intricata vicenda: di essa molto ha già scritto Confronti, e qui riepiloghiamo per flash.

09/04/2018: Poroshenko si reca al Fanar, la residenza a Istanbul dei patriarchi di Costantinopoli, per chiedere la concessione dell’autocefalia alla Chiesa ucraina. Il 19 la Verkhovna Rada (parlamento di Kiev) appoggia la proposta.

31/08: Kirill, accompagnato dal metropolita di Volokolamsk, Hilarion, “ministro” degli esteri del patriarcato russo, raggiunge il Fanar per ribadire il secco “no” della Chiesa russa all’ipotetica “autocefalia”. Bartolomeo rimane vago.

07/09: Il Fanar annuncia l’invio di due suoi vescovi a Kiev per preparare la concessione dell’autocefalia.

14/09: il Santo Sinodo di Mosca riconosce che quella di Kiev è anche la Chiesa-madre della Chiesa russa, ma ricorda che nel 1686 Costantinopoli affidò a lui la metropolia di Kiev; dunque il Fanar non può interferire nei suoi affari interni. Se Bartolomeo procederà con la “indipendenza” ucraina, Mosca sospenderà la sua partecipazione in Assemblee e commissioni presiedute o copresiedute da rappresentanti del patriarcato di Costantinopoli; e interromperà totalmente la comunione eucaristica con esso. E precisa: nel paese è canonica solo la Chiesa ortodossa ucraina [Cou], guidata dal metropolita Onufriy di Kiev, legata a Mosca.

15/09: l’arcivescovo Job di Telmessos (Fanar), ribadisce: Costantinopoli ha il diritto di proclamare la “autocefalia” dell’Ucraina, come nei secoli XIX e XX ha proclamato quelle delle Chiese di Romania, Serbia, Bulgaria.

11/10: Bartolomeo e il suo Sinodo decidono di: 1) “procedere” verso la “indipendenza” ucraina; 2) ristabilire nei loro ranghi gerarchici Makariy Maletich [della piccola e già esistente Chiesa autocefala ucraina] e Filaret Denisenko [l’autoproclamatosi “patriarca” di Kiev, nel 1992 ridotto allo stato laicale e nel 1997 scomunicato dal Santo Sinodo russo, del quale pure aveva fatto parte per tanti anni]; 3) revocare il vincolo giuridico della Lettera sinodale del 1686.

15/10: il Santo Sinodo di Mosca: 1) interrompe la comunione eucaristica con Costantinopoli (teologicamente, la proclamazione dello scisma); 2) rivendica l’Ucraina come proprio territorio canonico; 3) rifiuta la revoca della lettera del 1686; 4) esprime sconcerto per la riabilitazione dello “scismatico” signor Filaret.

15/12: a Kiev Concilio della riunificazione tra la Chiesa di Makariy e quella di Filaret. Creata la Chiesa ortodossa d’Ucraina [Codu], autocefala, e di essa è eletto primate Epifaniy. Dei 90 vescovi della Cou, solo due vi entrano. L’ambasciatore Usa a Kiev plaude alla nuova Chiesa. Il Cremlino tace.

05/01/2019: Bartolomeo, presente Poroshenko, firma il tomos – decreto sinodale – dell’autocefalia alla Codu. E il 6 lo consegna a Epifaniy. Per Mosca lo scisma è consumato.

LA PAROLA ALLA CHIESA UCRAINA FILORUSSA

In una piccola cappella alla periferia di Kiev incontriamo l’arciprete Nikolay Danilevich, portavoce della Cou. Parla un po’ italiano e un po’ russo: «Fino al 1992 in questo paese vi era, in pratica, una sola Chiesa Ortodossa, inserita in un esarcato del patriarcato di Mosca. Metropolita di Kiev era Filaret: questi, e altri, dopo il collasso dell’Urss, volevano assolutamente la “autocefalia”». La Chiesa russa non era, di per sé, contraria all’ipotesi; ma rilevava: «La situazione ora è molto confusa, occorre aspettare».

Ma lui ha proceduto, appoggiando l’autoproclamato Patriarcato di Kiev di cui nel ’95 sarà eletto titolare. Una realtà non canonica, come lo era la piccola Chiesa di Makariy… Con il cosiddetto Concilio della riunificazione, benedetto dal Fanar, queste due Chiese si sono sciolte, formando la Codu. A essa il 5 gennaio Bartolomeo ha dato l’indipendenza canonica. Ma la Cou non è entrata in questa nuova Chiesa, per noi scismatica. E finora nessuna delle quattordici Chiese ortodosse autocefale l’hanno riconosciuta come la quindicesima autocefala. Essa ha circa 4mila parrocchie; la nostra, 12.500.

Non si mescolano troppo, nella vicenda, questioni religiose e politiche?

Certo che sì. Poroshenko è stato presente a tutte le tappe che hanno portato alla “autocefalia”. È stato al Fanar a perorarla. Gestiva il “Concilio” di dicembre. Sperava forse che questo suo impegno, più la retorica nazionalista antirussa, lo portasse a vincere le elezioni presidenziali di due mesi fa; ma le ha perse, e ha vinto Volodymyr Zelenskij. Insomma, la strumentalizzazione politica della religione non ha funzionato. D’altronde, la Chiesa non è un dipartimento dello Stato e non è legata alle sue ideologie. Noi non siamo né contro l’Est né contro l’Ovest.

Perché rifiutate il metodo del Fanar per la concessione della “autocefalia”?

Perché esso porta allo scisma, come dimostra quanto accaduto, il 20 giugno. Filaret, malgrado le vibranti proteste della Codu, quel giorno ha convocato un suo proprio Concilio locale per proclamare che il “patriarcato di Kiev”, di cui si proclama titolare, continua a esistere: siamo a uno scisma nello scisma della Chiesa “autocefala”! Comunque, noi non riconosciamo validi i sacramenti della Codu: se una persona là battezzata viene da noi, la ribattezziamo.

Padre Nikolay, come si esce da questo groviglio?

Non sono un profeta, e non so come finirà. Molte Chiese ortodosse locali (=autocefale) propongono di celebrare una sinassi – vertice dei vari primati – , oppure un Concilio ortodosso per risolvere una questione che interpella l’intera Ortodossia. I responsabili della “indipendenza” ucraina debbono venire al Concilio, e pentirsi di quello che hanno fatto. Li aspettiamo a braccia aperte. Dimentichiamo le loro male parole contro di noi.

LA PAROLA ALLA NUOVA CHIESA AUTOCEFALA

Brillano al sole del tramonto le cupole dorate della Lavra di san Michele, dove incontriamo l’arcivescovo Yevstratiy, portavoce della Codu:

Cosa è successo in Ucraina negli ultimi trent’anni?

Abbiamo una ferita, e occorre tempo per guarire.

Prima del Concilio di riunificazione di dicembre qui v’erano tre Chiese ortodosse; poi due si sono unite, mentre la Chiesa filorussa è rimasta fuori. Nel ’91 era stata proclamata l’indipendenza dell’Ucraina. Ma il patriarcato di Mosca crede ancora che l’Ucraina non sia uno Stato reale ma solo una parte della Grande Russia. Ha una mentalità imperiale… Da noi il sentimento religioso e quello nazionale sono molto intrecciati: come vi è una Chiesa autocefala in Romania, Serbia, Bulgaria… perché Mosca non vuole una Chiesa autocefala ucraina?

Per ora, tuttavia, nessuna Chiesa ortodossa riconosce la Codu.

Abbiamo avviato un processo; occorre pazienza e fiducia. Il consenso arriverà. Prima o poi le circostanze politiche più complicate cambieranno, come avvenne nel ’91 con la fine dell’Unione sovietica. Quando il regime del Cremlino crollerà, anche la posizione del patriarcato di Mosca cambierà. In ogni caso, è innegabile che, dal punto di vista religioso, quella ucraina è una “figlia” – nata nel 988 – della Chiesa-madre di Costantinopoli. Perciò a essa abbiamo chiesto l’autocefalia. Aggiungo che la Chiesa di Mosca non ha mai condannato l’aggressione russa contro la Crimea e le interferenze russe nel nostro paese. Per Kirill quella in atto dal 2014 in Ucraina orientale [ha provocato, finora, oltre 13mila vittime eingentissimi danni anche ecologici] è una “guerra civile” intra-ucraina!

E il recentissimo (20 giugno) miniscisma di Filaret?

È una vicenda personale.

Ma non così piccola – rileviamo – se il 24 giugno il Sinodo della Codu si è riunito, sotto la guida di Epifanyi, per precisare quanto già detto in un comunicato del 20 giugno: 1) il Concilio convocato da Filaret è illegale; 2) non si può parlare di “scisma” (perché – sottinteso – non ha avuto un seguito significativo); 3) le parrocchie già legate al “patriarcato di Kiev” passano tutte alla Codu; 4) nel Concilio di riunificazione il “patriarcato” di Kiev aveva accettato di confluire nella neonata Chiesa autocefala; 5) «Riconoscendo i suoi speciali meriti, nel passato, verso la Chiesa ortodossa ucraina, il Sinodo ha deciso che il patriarca Filaret rimane parte del suo episcopato». Rileviamo, infine: fonti della Codu ci hanno detto di non vedere possibile un Concilio che smentisse l’operato di Bartolomeo.

Poi, sia p. Nikolay che il vescovo hanno ammesso che la gente ortodossa ucraina poco sa di queste diatribe; spesso frequenta la chiesa più vicina senza domandarsi a che giurisdizione appartenga (ma i filorussi rischiano di passare per “traditori della patria!”). E, ancora, i due ci hanno confermato che, a parte contributi per mantenere o restaurare opere d’arte preziose – chiese, monasteri – non ricevono aiuti dallo Stato.

PUTIN DAL PAPA: IRRISOLTO IL NODO UCRAINO

Il 4 luglio il presidente russo Vladimir Putin è stato ricevuto in udienza (era la terza volta) dal papa. Espressa soddisfazione per lo sviluppo delle relazioni bilaterali – ha affermato poi un comunicato – «sono state affrontate alcune questioni di rilievo per la vita della Chiesa cattolica in Russia.

Ci si è poi soffermati sulla questione ecologica e su alcune tematiche dell’attualità internazionale, con particolare riferimento alla Siria, all’Ucraina e al Venezuela».

Sul Medio Oriente, i due – si è appreso – concordano nell’urgenza di difendere laggiù le minoranze cristiane, messe in pericolo da conflitti e persecuzioni da parte di gruppi estremisti islamici. Ma sull’Ucraina? Il comunicato non specifica: forse Putin e Francesco non concordano. Infatti, per la Santa Sede, la questione della Crimea, e dell’Ucraina orientale, va risolta in base al diritto internazionale; per il capo del Cremlino un ritorno della penisola all’Ucraina non è più pensabile.

E l’ipotesi di un viaggio del papa in Russia? Il Santo Sinodo russo, oggi, è contrario all’idea; e Putin, per ora (per ora!), non vuole imporsi. Il 12 febbraio 2016 si ebbe, all’Avana, il primo incontro di un papa con un patriarca di Mosca: incontro malvisto da settori importanti – come il mondo monacale – della ortodossia russa. D’altronde, alla vigilia dell’evento del 4 luglio, un portavoce del patriarcato, Vladimir Legoyda, precisava: «la Chiesa russa non ha commenti da fare sull’incontro tra i due capi di Stato». Tuttavia, aggiungeva, esso è «importante e utile dato che il Vaticano e la Russia sostengono il matrimonio tradizionale e la famiglia, e proteggono i diritti dei cristiani in regioni dove sono perseguitati».

Comunque, Francesco, sulla questione dell’ipotetico viaggio in Russia non vuole forzature, come invece fece Giovanni Paolo II. Questi, malgrado l’esplicito “no” di Aleksij II, allora patriarca di Mosca, nel giugno del 2001 visitò l’Ucraina; e, nell’incontro ecumenico con lui, chi lo salutò a nome di tutti? Il “patriarca” Filaret: uno schiaffo per i russi. Due anni dopo Wojtyla aveva progettato di andare, in agosto, a Ulan Bator, in Mongolia e, per l’occasione, contava di fare uno scalo a Kazan, nel Tatarstan – 800 km a est di Mosca – per consegnare nelle mani di Aleksij una preziosa icona, in Vaticano ritenuta l’originale scomparso da Kazan all’inizio del Novecento e, dopo varie peripezie, giunto da New York come regalo al papa polacco. Al netto rifiuto del patriarca, quel pontefice annullò l’intero viaggio.

IL CONTROCANTO DEI GRECO-CATTOLICI UCRAINI

Dopo la ouverture del vertice papa-Putin, i due giorni successivi ve ne è stato un altro in Vaticano, già preannunciato da due mesi: Francesco, con tre cardinali di Curia (Parolin, tra essi), insieme a Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc, e i membri permanenti del suo Sinodo, più i metropoliti. Scopo della riunione quello di «individuare i modi con cui la Chiesa cattolica in Ucraina, e in particolare la Chiesa greco-cattolica, sempre più efficacemente può dedicarsi alla predicazione del Vangelo, contribuire al sostegno di quanti soffrono e promuovere la pace, d’intesa, per quanto è possibile, con la Chiesa cattolica di rito latino e con le altre Chiese e comunità cristiane».

A proposito di aiuti unitari verso Kiev, va ricordato che con il progetto Il Papa per l’Ucraina, avviato nel 2016, Francesco e organismi vaticani hanno inviato là sedici milioni di euro in viveri, materiali, soccorsi vari.

A incontro avvenuto, la sera del 6 luglio, un comunicato vaticano ne riassumeva i risultati. Dopo aver detto che il papa ha molto apprezzato la fedeltà dei greco-cattolici «alla comunione con il Successore di Pietro, confermata e sigillata con il sangue dei martiri», precisava: «Particolare attenzione è stata dedicata al lavoro pastorale, all’evangelizzazione, all’ecumenismo, alla vocazione specifica della Chiesa greco-cattolica nel contesto delle sfide odierne della situazione socio-politica, in particolare della guerra e della crisi umanitaria in Ucraina».

La “guerra” in Ucraina è, dunque, nominata: ma chi l’ha provocata? Il testo non lo dice. Invece, alla vigilia dell’incontro, Shevchuk aveva dichiarato: «La guerra non può terminare con una pace a tutti i costi; sarebbe una capitolazione. È impossibile la pace senza giustizia». E il 28 gennaio 2018, al papa in visita alla basilica di Santa Sofia – a Roma il centro dei greco cattolici ucraini – aveva ricordato la “aggressione” russa contro la Crimea.

FRA RELIGIONE E POLITICA

Qualche flash storico, per capire tale atteggiamento. Alla fine del Cinquecento l’Ucraina centro-occidentale era in mano ai re polacco-lituani, cattolici, mentre la parte orientale del paese era legata agli zar, ortodossi. Nel 1595 due vescovi ucraini a Roma riconobbero l’autorità di papa Clemente VIII, e l’anno dopo al Sinodo di Brest Litovsk la maggioranza dei vescovi confermò questa scelta degli “uniati” (così gli ortodossi chiamano i greci riuniti a Roma). Nel 1946 uno pseudo-Sinodo a Leopoli, imposto da Stalin, dichiarò “nulla” l’unione del 1596: dunque i grecocattolici tornavano, per legge, ortodossi: chi non accettò, iniziando da vescovi e preti, subì persecuzione e carcere. Poi, nell’Ucraina indipendente essi furono e sono la punta di lancia per distanziare il paese dalla Russia. Shevciuk si considera di fatto “patriarca” greco-cattolico (e ha diocesi non sono solo in patria, ma anche all’estero, in particolare nelle Americhe. Nell’insieme 5 milioni di fedeli), il che indispettisce Mosca e dispiace anche a Roma.

Avrà soluzione il conflitto ecclesiale ucraino? Intanto, esso si mescola con la politica. Se l’Ucraina vuole diventare l’avamposto dell’Occidente, e la sentinella della Casa Bianca e della Nato per tenere sulla corda la Russia, tutto peggiorerà; solo un nuovo corso tra Kiev e Cremlino, e viceversa, potrebbe avviare una schiarita. E sul fronte religioso? Hilarion, in questi mesi, a Damasco, Gerusalemme e Atene ha perorato, con i rispettivi patriarchi e primati, la causa russa.

Ma l’arcivescovo ortodosso di Cipro, Chrysostomos, si dà da fare per riconciliare Kirill e Bartolomeo: impresa forse possibile, in futuro, ma non oggi: insieme a ragioni storiche e canoniche, a minare il terreno ora gravano rivalità personali e istituzionali che complicano il tutto. Kirill non accetterà mai che uno scomunicato dal Santo Sinodo sia stato da Bartolomeo riabilitato.

Fino a che un personaggio oscuro e inquietante come Filaret continua a tessere le sue trame, la soluzione del tragico conflitto intra-ortodosso sarà impossibile. Poi, per la gioia della Prima Roma, la Seconda (Costantinopoli) e la Terza (Mosca) forse – nulla, però, è scontato – troveranno pace.

L’AUTOCEFALIA UCRAINA SECONDO COSTANTINOPOLI

3 Ottobre 2019

di Luigi Sandri, redazione Confronti, e Paolo Emilio Landi, regista teatrale e giornalista, rubrica Protestantesimo RAIDUE.

Bartolomeo, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, rivendica le radici antiche del suo patriarcato per sostenere il diritto a concedere l’autocefalia alle Chiesa Ucraina – che il patriarcato di Mosca considera, invece, scismatica. Solo la Chiesa greca, per ora, appoggia questa decisione. Il Fanar rifiuta l’ipotesi della “sinassi”, o di un Concilio, per risolvere il caso.

Portata da missionari e marinai bizantini, la religione cristiana nel 988 fu accolta dal principe Volodymyr (Vladimir in russo) che si fece battezzare e, di conseguenza, dalla popolazione della Rus’. Passati i secoli, con le loro mille turbinose vicende, oggi la Chiesa “figlia” della “nuova Roma” è al centro di un’asperrima disputa tra il patriarcato di Costantinopoli e quello di Mosca a causa della “autocefalia” (indipendenza) della Chiesa ortodossa in Ucraina. Per cercare di meglio capire l’intricata questione, il 7 settembre siamo andati pellegrini al Fanar – l’attuale residenza, a Istanbul, dei patriarchi ecumenici – per intervistare il suo titolare, Bartolomeo. La chiesa di san Giorgio, al Fanar, non ha certo la solennità di Santa Sofia; eppure è là che il patriarca celebra l’Eucaristia, e dove la domenica convengono alcuni greco-ortodossi di Istanbul (sono, nell’insieme, circa duemila; altri due/tremila nell’intera Turchia); e dove, in una situazione geopolitica pur diversissima dal lontano e glorioso passato, egli rivendica il suo permanente ruolo di primus inter pares (primo tra eguali) tra i gerarchi dell’Ortodossia.

BIZANTINI. OTTOMANI. IMPERO. REPUBBLICA

Verso il 330 Costantino aveva deciso di trasformare l’antica Bisanzio in Costantinopoli; perciò anche l’importanza del vescovo della “nuova Roma” crebbe in modo esponenziale, divenendo il primo, nell’ordine onorifico, tra i patriarcati orientali: Alessandria, Antiochia, e poi Gerusalemme. Proclamerà, nel 381, il Concilio di Costantinopoli I, secondo ecumenico (il primo fu a Nicea nel 325): «Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma»

[can. III]. E il Concilio di Calcedonia, del 451, nel canone XXVIII – non accolto dai papi – preciserà: «Giustamente i padri [nel 381] concessero privilegi alla sede dell’antica Roma, perché questa città era imperiale. I padri hanno accordato uguali privilegi alla santissima sede della nuova Roma, la città onorata dalla presenza dell’imperatore e del senato». Inoltre, «i vescovi delle parti delle diocesi del Ponto, dell’Asia [in Anatolia] e della Tracia poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla Chiesa di Costantinopoli».

Costantino costruì la prima basilica di Santa Sofia; essa rovinò, come un’altra, costruita un secolo dopo. L’imperatore Giustiniano, negli anni 532-37, ne fece costruire una terza: una grandiosità senza pari, cuore religioso dei cristiani greci (là, nel luglio 1054, ci fu lo scambio di scomuniche tra il cardinale Umberto di Silva Candida, e il patriarca Michele Cerulario: l’avvio del reciproco scisma tra la Chiesa latina e quella greca) ma, anche, potente simbolo politico perché in essa venivano incoronati gli imperatori bizantini. La “sinfonia” – lo stretto intreccio tra trono e altare, non raramente in claudicante simbiosi – terminò, dopo mille anni di vita, quando il 29 maggio 1453 il capo degli ottomani Mehmet II conquistò Costantinopoli: la croce che spuntava sull’ardita cupola di Santa Sofia fu sostituita da una mezzaluna, e la basilica divenne moschea. Crollato, dopo la prima guerra mondiale, l’impero ottomano, e finito il sultanato, sulle sue ceneri nascerà la moderna Turchia, portata all’indipendenza da Mustafa Kemal, Atatürk. Il quale nel 1935 trasformò Santa Sofia in museo: da allora è rimasta così. Rispetto ai tempi ottomani, lo status giuridico del patriarcato è mutato: per molte questioni deve regolarsi come ente di diritto turco. Ma, dal punto di vista ecclesiale, il suo titolare si considera sempre primus inter pares tra i gerarchi ortodossi. Quello attuale, Bartolomeo, nato come Demetrios Archondonis nel 1940 a Imbro, un’isoletta turca del Mar Egeo, dopo i normali studi liceali entrò nella Facoltà teologica ortodossa di Halki (nel Mar di Marmara) e quindi prestò servizio militare, per due anni, nell’esercito turco. Ripresi gli studi – specializzazioni a Monaco di Baviera e al Pontificio Istituto Orientale di Roma, con laurea all’università Gregoriana – tornò a Istanbul, dove divenne prete, e poi vescovo. Nel ’91, alla morte del patriarca Demetrios, fu eletto suo successore. Ha dato molto impulso ai rapporti ecumenici e inter-religiosi; e invitato tutti a una nuova consapevolezza sulla necessità di salvaguardare la creazione.

AUTOCEFALIA UCRAINA: IL RUOLO DI BARTOLOMEO

Bartolomeo è stato più volte a Roma, incontrando i successivi papi. Conversando con noi, ha sottolineato con gioia particolare il fatto di essere stato, nella storia, l’unico patriarca di Costantinopoli presente alla “incoronazione” di un papa, quella di Francesco, il 19 marzo 2013. Poi il nostro dialogo si è addentrato nel nodo cruciale dell’Ucraina. Sul quale, per “situare” alcuni riferimenti, ricordiamo qui alcuni fatti essenziali (per approfondire, cfr.: Confronti, 7-8/19).

Con il crollo dell’Urss, la Chiesa ortodossa in Ucraina, prima esarcato del patriarcato russo, si spaccò in tre parti: Chiesa ortodossa ucraina [Cou], legata a Mosca, la maggioritaria; l’autoproclamato patriarcato di Kiev, dal 1995 guidato poi da Filaret, già membro del Santo Sinodo di Mosca, e da questo prima ridotto allo stato laicale, e poi scomunicato; la piccola Chiesa autocefala ucraina: due comunità, per il patriarcato russo, “scismatiche”.

Nel settembre 2018 Bartolomeo e il suo Sinodo, richiesti dal presidente e dal Parlamento ucraino, avviarono le procedure per concedere la “autocefalia” alle Chiese ucraine riunite: iniziativa che il patriarcato di Mosca, guidato da Kirill, considerò “anti-canonica”. Ma il 15 dicembre, nella cattedrale di Santa Sofia a Kiev, in un Concilio per la riunificazione (un “Conciliabolo”, per i russi) le due citate Chiese non moscovite hanno formato la Chiesa ortodossa d’Ucraina (Codu), autocefala, avente come primate Epifany. Il 5 gennaio 2019, al Fanar, alla presenza dell’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, e di Epifany, il patriarca ha firmato il tomos, documento che attesta l’ autocefalia; e l’indomani l’ha consegnato ai due. In giugno Filaret ha tentato di ricostituire il “patriarcato di Kiev”: ipotesi stroncata dal Sinodo della Codu. Bartolomeo, da parte sua, ha anche respinto l’idea di una “sinassi” (riunione dei capi delle Chiese autocefale).

GLI SCHIERAMENTI DELLE CHIESE ORTODOSSE

Dovendo, il titolare del Fanar, essere cittadino turco, ma essendo pochissimi gli ecclesiastici grecoortodossi nati in Turchia, sarebbe arduo avere un adeguato “corpo” elettorale per scegliere il capo della Chiesa di Costantinopoli. Ma, ci dice Bartolomeo (cfr. intervista a pag. 19), «il presidente Recep Tayyip Erdogan ci ha fatto un regalo, dando la cittadinanza turca a una trentina di nostri vescovi e metropoliti nati in Europa occidentale o nelle Americhe, e che là vivono. Alla loro cittadinanza originaria è stata, dunque, aggiunta quella turca: così l’assemblea che eleggerà il mio successore è formata, ora, da una cinquantina di persone».

E veniamo a un tema spinoso: la “sinassi”. Se si computa anche Epifany (tesi del Fanar), i primati delle Chiese autocefale sono quindici; ma se lo si rifiuta (Mosca), sono quattordici. Il patriarca romeno, Daniel, e l’arcivescovo di Tirana, Anastasios, hanno proposto una “sinassi” (o – il primate albanese – un Concilio), per affrontare la questione di Kiev. Anche altri capi hanno visto con favore l’ipotesi, che però Bartolomeo rifiuta. A proposito poi del riconoscimento, da parte del Sinodo della Chiesa ellenica, guidato dall’arcivescovo di Atene, Hieronymos II, del diritto del Fanar di concedere l’autocefalia ucraiina, esso è venuto il 28 agosto; ma non è stato – per così dire – sbandierato. Forse perché in Grecia, accanto a canonisti e teologi e concordi con tale posizione, ve ne sono di contrari. A metà settembre, infatti, è stata diffusa una lettera aperta, firmata da centosettantanove archimandriti, sacerdoti, monaci e laici, i quali ritengono del tutto illegale l’iniziativa del Fanar. E – altro quadro – in settembre anche la diaspora ortodossa russa in Francia, finora legata a Costantinopoli, è passata a Mosca.

GEOPOLITICA DELL’ORTODOSSIA

Ma – non c’entra con la “autocefalia”, però arricchisce lo scenario – il 28 giugno scorso il papa aveva consegnato, a una delegazione del Fanar, delle reliquie ritenute ossa dell’apostolo Pietro rinvenute nelle grotte vaticane. Gesto che Francesco ha spiegato in una lettera a Bartolomeo del 30 agosto; e che il patriarca ha salutato con gioiosa gratitudine. Sempre a Roma, il 16 settembre Bartolomeo si è incontrato con Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc dei greco-cattolici ucraini. Secondo agenzie di stampa, il prelato ha riconosciuto che il patriarca aveva il pieno diritto di concedere l’autocefalia alla Chiesa ucraina; e ha auspicato il rafforzamento del dialogo tra la sua Chiesa, la Codu e quella di Costantinopoli.

Infine: sulle schermaglie ecclesiali tra Costantinopoli e Mosca, gravano pesanti questioni geopolitiche di un paese – l’Ucraina – schiacciato tra l’Occidente (e la Nato) che vorrebbe inglobarlo nella sua area, e il Cremlino contrarissimo all’ipotesi. E in Ucraina orientale continua la guerra “a bassa intensità” tra le regioni separatiste di Donetsk e Lugansk, sostenute dai russi, e l’esercito di Kiev: il conflitto, dal 2014 a oggi, ha fatto più di tredicimila vittime, e ingentissimi danni materiali.

Poi c’è la questione della Crimea, annessa dei russi nel 2014. Il neopresidente ucraino Volodymyr Zelenski e Vladimir Putin hanno – finalmente! – raggiunto un accordo per lo scambio di prigionieri: riusciranno ora a stipulare la pace? Non sarà facile. Le Chiese ucraine, nel frattempo, sono dilaniate e divise dal “con chi” stare, e “come”, perdurando la guerra. E così Bartolomeo; e così Kirill.

LE DUE SANTA SOFIA

E torniamo al Fanar, il 7 settembre. Dopo l’intervista Bartolomeo ci ha affidati al suo autista che, in macchina, e avendo come cicerone uno studente statunitense di origine greca, ci ha fatto attraversare ripide stradine, arroccate attorno al patriarcato, che sarebbe stato impervio percorrere da soli. Siamo entrati nel liceo greco di Istanbul: dal suo cortile si gode uno spettacolare panorama, che spazia sull’intero Corno d’oro e sul quartiere di Galata. Poi abbiamo visitato tre “perle” straordinarie che documentano lo splendore dei mosaici bizantini, e la pietà popolare dei greci: la chiesa della Madonna Mouchliotissa (dei Mongoli), della Vergine Vlachernitissa (dei Valacchi), e di San Salvatore in Chora.

Domenica 8 abbiamo assistito a una divina liturgia celebrata in una chiesetta nel centro di Istanbul: difficile da raggiungere, perché dalla strada non si vede. Si entra in un portone – come quello di un qualsiasi condominio – e ci si trova in un giardino. Era stato Atatürk a volere che, nella “laica” Turchia, possibilmente i luoghi di culto non fossero visibili. Bartolomeo ha assistito alla liturgia da un tronetto. Poi, con la cinquantina dei presenti, nel giardino vi è stato un simpatico aperitivo. Quindi, per noi, velocissima partenza verso l’aeroporto, destinazione Roma. Dal taxi, scorgiamo un’ultima volta la cupola e i minareti del museo di Santa Sofia risplendere al sole; e il pensiero va alla decisione che, benedette da Bartolomeo, nella cattedrale di Santa Sofia a Kiev due Chiese ucraine hanno preso nel dicembre scorso. Malgrado il no di Kirill.

IL PATRIARCATO RUSSO CONTRO GLI “SCISMATICI” UCRAINI

31 Ottobre 2019

di Luigi Sandri, redazione Confronti, e Paolo Emilio Landi, regista teatrale e giornalista, rubrica Protestantesimo RAIDUE.

In un’intervista a Confronti, in settembre, il metropolita Hilarion, “ministro degli esteri” della Chiesa russa, ha ribadito che quella “autocefala” ucraina è “scismatica”. Ma, in ottobre, questa è stata riconosciuta dal primate greco; il patriarca russo Kirill, allora, ha tagliato la comunione eucaristica anche con lui.

Gospodi pomilui (Signore, pietà) canta il coro, ripetendo l’invocazione decine di volte, andando dal fortissimo al pianissimo, mentre il metropolita Hilarion di Volokolamsk innalza verso ogni punto cardinale una croce, circondata da una ghirlanda di fiori; poi si abbassa fino a prostrarsi, mentre i molti fedeli convenuti anch’essi si inginocchiano. Siamo a Mosca, nella chiesa della Madonna “consolatrice di tutti gli afflitti”, che è come la parrocchia del metropolita. È la festa dell’esaltazione della Santa Croce, che nell’Ortodossia, legata al calendario giuliano, si celebra il 26 settembre (il 14 del mese di quello gregoriano). Terminata l’affascinante cerimonia, negli uffici “parrocchiali” incontriamo il metropolita, dal 2009 presidente del Dipartimento degli affari ecclesiastici esterni del patriarcato di Mosca: il numero due di una Chiesa al cui vertice vi è il patriarca Kirill (era, a fine settembre, in visita pastorale a Samara, città sul Volga). Per situare alcuni cenni del “ministro degli esteri” del patriarcato russo, scattiamo qualche flash: per approfondimenti, si vedano recenti servizi su Confronti [7-8, e 10/19].

MOSCA, LA “TERZA ROMA”

Il Cristianesimo nella Rus’ di Kiev era entrato ufficialmente nel 988 con il battesimo del principe Vladimir; a quel tempo Mosca non esisteva – sarà fondata nel 1147. Dopo che nel 1240 i tartari assaltano la Rus’, il metropolita di Kiev troverà riparo in Russia, a Vladimir e, dal 1325, a Mosca. Dunque, la Chiesa russa è “figlia” di Kiev. Nel 1380, battendo i tartari nella piana di Kulikovo, sul Don, il principe Dmitri avvia il declino degli invasori che, infine, saranno debellati a metà Cinquecento da Ivan IV il Terribile che ormai è zar, imperatore. Su questo sfondo cresce il mito di Mosca “terza Roma”, “colonna dell’Ortodossia, che non cadrà mai” (la prima, quella sul Tevere, è caduta – questa l’accusa – nell’eresia del papismo; la seconda, Costantinopoli, è in mano turca).

Nel 1589 la Chiesa russa – con il consenso (obtorto collo?) di Costantinopoli, dal 1453 conquistata dagli ottomani – diventa patriarcato. Nel 1686 il patriarca ecumenico Dionigi IV affida a Mosca la metropolia di Kiev – “temporaneamente”, sostiene oggi il Fanar (il quartiere di Istanbul ove risiedono i suoi successori); “per sempre”, affermano invece i russi. E… saltiamo tre secoli: dopo che, nel 1991, crolla l’Urss e l’Ucraina diventa indipendente, la Chiesa ortodossa del paese, fino ad allora esarcato del patriarcato russo, si spacca in tre: Chiesa ortodossa ucraina (Cou), legata a Mosca; “Patriarcato di Kiev”, la cui anima sarà Filaret – dalla Chiesa russa nel ‘92 ridotto allo stato laicale, e nel ‘97 scomunicato; piccola Chiesa autocefala. Nel 2018 il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, favorisce la nascita della Chiesa autocefala d’Ucraina (Codu), in realtà formata solamente dalle ultime due appena nominate, e creata il 15 dicembre di quell’anno dal Concilio di Kiev (“Conciliabolo”, secondo Mosca, che considera “scismatica” la nuova Chiesa, e che taglia la comunione eucaristica con il Fanar). Il 5 gennaio ’19 Bartolomeo firma il tomos, il documento ufficiale con il quale lui e il suo Sinodo concedono la “autocefalia” alla neonata Chiesa; su novanta vescovi della Cou, solo due vi aderiscono. In giugno, a Kiev, avevamo ascoltato il punto di vista della Chiesa autocefala e di quella moscovita; il 7 settembre, a Istanbul, Bartolomeo; e, il 26 del mese, il metropolita Hilarion, a Mosca, dove ci siamo documentati sulla “rinascita” della Chiesa russa: devastata, ma non cancellata, sotto il potere sovietico, essa ora è punto di riferimento per i due terzi dei centocinquanta milioni di russi; il patriarcato di Mosca considera suo “territorio canonico”, oltre la Russia, anche le altre ex repubbliche sovietiche. Il presidente Vladimir Putin è ortodosso, e nelle feste importanti si fa vedere in chiesa; forte è l’alleanza tra lui e Kirill. Ma la secolarizzazione percorre anche la Russia: grande sfida per la sua Chiesa ortodossa è saldare l’ancoraggio al passato con la modernità che pone domande inedite e difficili.

Due settimane dopo che siamo tornati dalla Russia, a metà ottobre il primate greco Hieronymos – smentendo le speranze di Hilarion – ha riconosciuto la Codu [vedi scheda pag. 22]. Ma che ci aveva detto, in settembre, il metropolita di Volokolamsk?

HILARION: «L’EVIDENTE ERRORE DI BARTOLOMEO»

La contestazione dell’“autocefalia” non esaurisce, infatti, però, i problemi della Chiesa russa, stretta tra tradizioni del passato, modernità e incombente secolarizzazione della società. Il “ministro degli esteri” della Chiesa russa denuncia nell’intervista gli “errori” del patriarca di Costantinopoli. E affronta poi il desiderato ruolo del Cristianesimo in un’Europa che “dimentica” le sue radici e che su alcuni temi (difesa della sua eredità di fronte all’islam che avanza, famiglia, aborto), lui sottolinea, è del tutto secolarizzata.

Vostra eminenza, noi ci incontrammo per la prima volta a Harare (Zimbabwe), alla VIII Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, che molto ribadì l’impegno per l’unità visibile tra i cristiani. Come vede lei, oggi, l’ecumenismo?

Ritengo che dobbiamo essere realisti e non vivere di sogni, immaginando che si possano fare, presto, grandi passi, e soprattutto che si possa presto raggiungere l’unità eucaristica. Purtroppo, oggi siamo molto lontani da questa meta. Dobbiamo dunque misurarci serenamente con queste difficoltà e vivere in modo consapevole tale situazione. Tuttavia, esistono non pochi àmbiti dove cattolici e ortodossi, o ortodossi, cattolici e altri cristiani, possiamo collaborare: ad esempio, nel settore degli aiuti umanitari, in quelli dell’istruzione, nella difesa dei diritti dell’uomo e, ovviamente, e nella protezione di quei cristiani che in Medio Oriente, in Africa e in altre regioni del mondo subiscono emarginazione, persecuzione, o addirittura genocidio.

Tra gli eventi positivi di questi ultimi anni si potrebbe ricordare quello tra il papa e Kirill all’Avana. Lei ritiene che sia possibile un altro incontro analogo?

Non penso che il primo incontro tra Francesco e il patriarca Kirill [a Cuba, il 12 febbraio 2016] debba essere anche l’ultimo! Dunque, essi potranno ancora incontrarsi: quando le due Parti riterranno che sia arrivato il tempo e ci siano le condizioni adatte, noi lo prepareremo.

In merito alla dolorosa divisione nell’Ortodossia, a causa del contrasto in atto tra il patriarcato di Mosca e quello di Costantinopoli, per quali motivi voi considerate “scismatica” la neonata Chiesa ortodossa d’Ucraina?

Riassumo in due parole la storia dello scisma ucraino. Nel 1991, all’allora metropolita di Kiev, Filaret [da anni membro del Santo Sinodo di Mosca, e capo dell’esarcato ucraino legato alla Chiesa russa], fu tolta quella carica: lui però ignorò la decisione, e collaborò per la formazione di una Chiesa parallela e contrapposta a quella canonica, il cosiddetto Patriarcato di Kiev, indipendente, del quale poi divenne “patriarca”, e dunque capo degli scismatici. Egli sostenne, cioè, in senso proprio, uno scisma. Nessuna Chiesa ortodossa ha mai riconosciuto quella Chiesa come legittima. La Chiesa russa, che già nel ’92 aveva ridotto Filaret Denisenko allo stato laicale, nel ’97 lo scomunicò: decisioni riconosciute canoniche da tutte le Chiese ortodosse, inclusa la costantinopolitana. Nel 2016 si è svolto il Concilio di Creta [Confronti 7-8/16], organizzato dal patriarca Bartolomeo: a esso la Chiesa russa non partecipò, perché anche diverse altre Chiese ortodosse [antiochena, bulgara e georgiana] avevano deciso di non andare. E le decisioni riguardanti l’intera Ortodossia debbono essere prese con il consenso di tutte le sue Chiese, non solo quelle presenti in un Concilio. Dopo che la Chiesa russa fece quella scelta, il patriarca Bartolomeo ha cambiato radicalmente la sua precedente posizione sulla questione ucraina, riconoscendo la legittimità delle Chiese ucraine scismatiche. Ma l’unica Chiesa canonica a Kiev è quella ortodossa ucraina, legata al patriarcato di Mosca, ma autonoma e indipendente nelle sue decisioni; a essa appartiene l’assoluta maggioranza degli ortodossi ucraini. E né i vescovi né i semplici fedeli di questa Chiesa – l’avevamo detto a Bartolomeo! – sarebbero stati disposti a confluire nella Chiesa scismatica.

Quindi, non ci sarebbe bisogno di una Chiesa nazionale in Ucraina, perché là quella ortodossa è già tale?

La Chiesa ortodossa ucraina è una chiesa nazionale della quale fa parte il popolo ucraino e, quando l’ex presidente Poroshenko disse che si doveva formare una Chiesa nazionale ucraina, gli abbiamo risposto che già esisteva.

Questo conflitto ecclesiale è inserito in un conflitto più grande, politico, tra due parti dell’Ucraina, che storicamente appartengono a due parti dell’Europa e, per così dire a due parti del mondo. Lei che ne pensa?

La divisione ecclesiale avviata dall’ex metropolita Filaret, e poi dal potere politico ucraino, ha portato alla divisione del popolo ucraino e a una polarizzazione tra la parte orientale e quella occidentale del Paese. Non a caso la maggioranza degli scismatici si trova nella parte occidentale. Ma invece la Chiesa canonica dell’Ucraina è diffusa in tutto il Paese, soprattutto a Oriente.

Vostra eminenza, vi è un’uscita da questa situazione?

Dobbiamo avere pazienza. La soluzione non arriverà presto. L’errore compiuto da Bartolomeo è ora davanti a tutti. Del resto finora nessuna delle Chiese ortodosse ha riconosciuto la “autocefala” e, invece, riconoscono il metropolita Onufry come capo della Chiesa ortodossa ucraina – fino al 2017 riconosciutala come legittima dallo stesso patriarca di Costantinopoli.

Qual è la sua risposta all’affermazione che Bartolomeo ci fece: «Mosca può contare su potere, denaro, mentre la Chiesa di Costantinopoli può contare su un potere diverso, ecclesiale»?

Quello che Lui ha fatto in Ucraina lo ha compiuto seguendo i consigli dell’ex presidente Poroshenko, il quale pensava che ottenendo il tomos dell’autocefalia sarebbe rimasto al potere a Kiev. Ma si è sbagliato: infatti, nelle elezioni [dell’aprile 2019, vinte da Volodymyr Zelensky] ha ottenuto una percentuale molto bassa: e questo non a caso. Lui voleva una Chiesa tutta sua, che avrebbe potuto manipolare. Una Chiesa tascabile. Bartolomeo, d’altronde, si era affrettato a concedere l’autocefalia, temendo che, se Poroshenko non avesse vinto, sarebbe stato per lui molto più difficile realizzarla. E questo ha provocato un serio problema ecclesiale.

Vostra eminenza, sta forse mettendo in discussione lo status del patriarca ecumenico come primus inter pares, e quindi il suo ruolo nella creazione di Chiese nazionali ortodosse?

Noi non abbiamo mai rifiutato il ruolo del patriarca ecumenico come primus inter pares; quello che ha fatto Bartolomeo negli ultimi mesi esce, però, da questo quadro, perché ha agito da primus sine paribus (primo senza pari). Egli ha assunto quasi un ruolo di papa della Chiesa orientale: ora vogliamo ricordare che questa non ha mai avuto papa. Per i cattolici va bene avere un papa; ma non certo per noi. Il sistema papale che in Occidente ha quasi duemila anni, in questi ultimi anni si vorrebbe forse crearlo in Oriente!?

Ha parlato della delicata relazione del patriarca di Costantinopoli con Poroshenko e il suo uso della religione per avere potere politico. Qual è la sua risposta alle persone che in Ucraina dicono – cito – «la Chiesa russa sta dalla parte di Putin, quindi in un certo senso sta dalla parte della Federazione russa e non della Chiesa»?

La questione ecclesiale ucraina non ha nessun rapporto con il problema tra lo Stato della Federazione russa e quello dell’Ucraina: sono due problemi distinti. Per capire perché i credenti e i vescovi ortodossi ucraini desiderano rimanere con la Chiesa russa, bisogna chiedere a loro e non a noi. Il patriarca Bartolomeo ha sempre detto che era il patriarca Kirill che non voleva dare l’autocefalia; dunque pensò: «Preparate il documento e vedrete che tutti aderiranno alla nuova Chiesa». Ciò, però, non è avvenuto; sono rimasti solo gli scismatici con le loro strutture.

Parliamo di Europa. Qual è la sua maggiore preoccupazione per essa? Che cosa dovrebbero fare le chiese per creare un continente migliore?

Intanto, voglio fare riferimento alla dichiarazione comune del papa e del patriarca Kirill a Cuba, che ci offre una base comune per valutare il rapporto Cristianesimo- Europa. Molti paesi del continente cercano di emarginare il Cristianesimo; noi non siamo assolutamente d’accordo. Infatti, essendo l’Europa la casa di diverse Confessioni cristiane, le basi della sua identità sono cristiane. Andate in qualsiasi città europea, guardate la sua architettura, i suoi monumenti, e vedrete l’influenza cristiana.

Quando parla di Stati cristiani, sembra che Le dispiaccia che non esistano più questi Paesi in cui la religione e lo Stato erano dalla stessa parte e uniti nel potere. Forse bisognerebbe tornare indietro: Italia cattolica, Russia ortodossa, Germania protestante?

Noi diciamo che i paesi d’Europa dovrebbero custodire la loro eredità cristiana. La religione cristiana ha fondato l’identità dell’Europa. Ovviamente non richiediamo privilegi ma quando accade che, invece del Christmas si celebra il Xmas, e invece di augurarsi «Buon Natale», si dice «Buone feste» [in sostanza si usano forme più generiche che vanno bene per tutti, cristiani e non], allora non siamo d’accordo. Queste abitudini provano la marginalizzazione del Cristianesimo.

Veniamo all’etica. Ci sono valutazioni comuni tra Chiesa cattolica e Ortodossia su problemi come l’aborto, il divorzio e altri. La Chiesa dovrebbe avere un’influenza sulle leggi dello Stato circa tali questioni critiche?

Vorremmo, prima di tutto, che la voce delle Chiese fosse ascoltata quando si tratta di leggi riguardanti la vita. Noi diciamo: ogni persona ha diritto a nascere e a vivere. Siamo in linea di principio contro l’aborto, tanto più se la sua pratica è pagata dallo Stato, con i soldi di tutti. Anche in Russia esiste l’aborto legale. Io sono disposto a pagare per guarire le persone, ma no a pagare per ucciderle. L’aborto è la diretta conseguenza di una ideologia secolarizzata che ha distrutto la vera idea di famiglia. Certo, sappiamo che non sarebbe realistico pensare che tutti i paesi d’Europa siano contro l’aborto (come è accaduto in Polonia). Ma speriamo che le voci dei credenti e le posizioni delle Chiese siano ascoltate.

L’islam è il pericolo più grande per l’Europa? Magari un giorno, Notre Dame a Parigi sarà trasformata in moschea, come è successo sei secoli fa a Costantinopoli con la chiesa di Santa Sofia?

Non si può escludere l’ipotesi…, se le cose continueranno come vanno adesso! Intanto, i musulmani non vogliono in alcun modo perdere la loro religione. Guardate negli aeroporti: quando è l’ora della preghiera, essi tirano fuori il loro tappeto e pregano, pubblicamente. Ho parlato di queste cose con il cardinale Koch [presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani] quando lui non aveva ancora la porpora. Diceva: «Non dobbiamo temere un islam forte ma un cristianesimo debole».

Quali sono i punti fondamentali di cui dovrebbe occuparsi la Chiesa in Europa?

La cosa più importante è darsi da fare perché l’Europa si ricordi di chi l’ha nutrita nella sua crescita. È vero che la situazione economica in Europa è migliore di quella dell’Africa, dell’America Latina e dell’India, ma qui in Europa l’ideologia laica distrugge la comprensione della famiglia. Dicono, infatti, che la famiglia non è l’unione di un uomo e di una donna, ma può essere anche l’unione di persone dello stesso sesso. Da queste premesse deriva una crisi demografica.

Lui chiamare me fratello

“laggiù dove le montagne si tuffano nel mare e la gente non ha mai sentito parlare della guerra e del fratello che uccide il fratello…”
Utilizzo Twitter in maniera poco social: praticamente non ho interazioni. Ogni tanto pubblico qualcosa, la maggior parte delle volte lo uso come strumento di scoperta. Come in questo caso… Grazie a un articolo di Maria Elena Murdaca su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa ho scoperto il libro Inseparabili. Due gemelli nel Caucaso di Anatolij Pristavkin, la storia di due orfani russi che si ritrovano coinvolti nelle tragiche vicende del 1944 conseguenti alla deportazione forzata dei ceceni ad opera di Stalin.

“… è un romanzo di recupero della memoria, ambientato all’epoca di una delle pagine più nere della storia dell’Unione Sovietica: le deportazioni staliniane durante la Seconda guerra mondiale. Gli spostamenti obbligati di intere popolazioni, ancora oggi, rimangono un evento poco conosciuto dal grande pubblico. L’opera, ricca di spunti autobiografici, racconta l’esodo di massa dal punto di vista di una categoria particolare di deportati: i russi. Le varie etnie caucasiche tramandano l’epopea di generazione in generazione, alimentandone il ricordo: ogni nazionalità ha il proprio giorno della memoria (il 23 febbraio per i ceceni, l’8 marzo per i balkari).
Diversamente, il trasferimento forzato, o quantomeno fortemente incentivato, dei russi non è rimasto impresso nella memoria nazionale collettiva, né gode della considerazione di tragedia. Ciò non cambia il fatto che lo fu. A essere trasferiti nel Caucaso, per modificarne la composizione etnica, dopo lo sradicamento delle popolazioni autoctone, furono gli indifesi. Sfilano, nella narrazione, orfani, vedove, mutilati, invalidi, persone sole, ognuna di loro con una storia di miseria e solitudine, come l’educatrice Regina Petrovna:
“Le mogli degli aviatori rientrati a casa dovevano andare dalle famiglie di quelli che non erano tornati. Era la regola. La cosa più terribile era entrare in una casa, dove ancora non sapevano niente, e far finta di esserci capitate per caso. […] E le mogli degli altri piloti vennero da me […] I tedeschi si avvicinavano: il nostro villaggio di aviatori fu trasferito. Non avevo nessun motivo per seguire gli altri. Ero vedova e per di più con la responsabilità dei due piccoli… Sono andata all’orfanotrofio, dove i miei bambini sarebbero stati insieme a quelli degli altri, e io me la sarei cavata più facilmente. Si faceva la fame! Poi ho deciso di venire quaggiù… pensando che sarebbe stato un po’ più semplice”
O, ancora, Demjan, un altro diseredato:
“Si ricordava del giorno in cui, ricoverato in un ospedale militare nei dintorni di Bijsk, una città della regione dell’Altaj, era andato al fiume con l’intenzione di annegarsi: aveva ricevuto una lettera dove gli comunicavano che sua moglie e i suoi figli erano stati bruciati vivi dai nazisti nella loro isba… E lui era storpio e ormai non serviva più a nessuno […] Ad un tratto la dottoressa disse che nel Caucaso c’erano terre fertili e disabitate. Aspettavano gente che le lavorasse. Perché non provare!…”
Attraverso le rocambolesche avventure dei gemelli Saška e Kol’ka Kuz’min, due scavezzacollo russi spediti in Caucaso alla colonia, Pristavkin rielabora e ripropone la propria esperienza.
“Naturalmente i Kuz’min non sapevano che gli organi regionali avevano avuto la bella idea di decongestionare gli orfanotrofi dei dintorni di Mosca – nella primavera del ’44 ce n’era un centinaio sparso per la regione. A questi ragazzi andavano aggiunti i besprizornye, che vivevano alla bell’e meglio dove capitava.”
I Kuz’min, Saška e Kol’ka, pur essendo identici, indistinguibili e inseparabili, non conoscono il significato del termine “famiglia”, che a loro risulta sempre ostile. In compenso, tutto il loro notevole ingegno è teso al procacciamento di generi alimentari allo scopo di non morire di inedia, tanto a Tomilino, nei dintorni di Mosca, quanto nel fertile e ricco Caucaso. Per questo motivo le loro trovate e la loro inventiva non suscitano il riso: la morte per fame incombe ad ogni momento su di loro, e per il lettore è impossibile dimenticarsene.
Con l’intento di recuperare un tassello, Pristavkin sottolinea vigorosamente come la sofferenza e le prevaricazioni subite da russi e ceceni siano parallele e di eguale intensità. Il “gemellaggio” fra russi e ceceni, entrambi vittime del medesimo tiranno, è incarnato dal personaggio di Alchuzur, giovane ceceno, orfano a causa dei soldati russi, che subentra a Saška, a sua volta vittima della crudele rappresaglia cecena, fino ad assumerne la funzione di “gemello” e persino il nome, al fianco del superstite Kol’ka.
“Nel nostro dormitorio c’erano anche due fratelli, i Kuz’min, che noi chiamavamo i gemelli Kuz’min. E benchè non si somigliassero affatto: uno era un vero russo, biondo col naso all’insù, l’altro era scuro e aveva i capelli neri, corti, gli occhi neri e spiccicava soltanto qualche parola in russo… ma i gemelli Kuz’min affermavano, anche se nessuno glielo chiedeva, di essere fratelli di sangue!”
Lo struggente sodalizio fra Kol’ka e Alchuzur-Saška, in uno scenario desolato e dolente, è il mezzo che assicura a entrambi la sopravvivenza, in una realtà di guerra, in cui essere bambini e innocenti non offre alcuna garanzia, e russi e ceceni possono essere egualmente crudeli.
“- Giù! – gridò forte l’uomo. O sparo!
Puntò nuovamente il fucile su Kol’ka e Kol’ka si distese a faccia in giù. Rimase immobile e sentiva urlare l’uomo e Alchuzur. Ma Alchuzur gridava forte nella sua lingua e l’uomo rispondeva in russo, sicuramente perché voleva che anche Kol’ka sentisse. Perché gli fosse chiaro che adesso l’avrebbe ucciso. […]- Ma tochna cumna!- gridava Alchuzur. -Non ucciderlo! Lui salvato me da soldati… Lui chiamare me fratello…”

Scene oniriche e di fantasia intridono tutta la narrazione, che ha un tono malinconico e nostalgico: mentre la nostalgia del ceceno Alchuzur ha per oggetto la famiglia e il villaggio, distrutti dalla guerra, quella di Saška e Kol’ka è universale, per una condizione umana da paradiso perduto in cui tutti gli uomini sono fratelli:
“- Ho fatto amicizia con Alchuzur – avrebbe detto Kol’ka.- Anche lui è nostro fratello!
– Penso che tutti gli uomini siano fratelli – avrebbe risposto Saška, e loro sarebbero andati lontano lontano, laggiù dove le montagne si tuffano nel mare e la gente non ha mai sentito parlare della guerra e del fratello che uccide il fratello”

Un concilio poco conciliante?

Risultati immagini per Petro Oleksijovyč Porošenko

Poche ore fa il Presidente ucraino Petro Oleksijovyč Porošenko ha annunciato che il concilio per l’unificazione della Chiesa ortodossa autocefala dell’Ucraina si terrà il 15 dicembre. Proprio domenica mi è capitato di leggere sul numero de La Lettura del 25 novembre un articolo di Marco Ventura che trattava l’argomento. Vi sono vari passaggi che mi lasciano perplesso, ma, come ho spesso fatto, sul blog do spazio a chi fa pensare e stimola la riflessione. Ecco dunque il suo pezzo che ho reperito qui.

Il Concilio annunciato in Ucraina rischia di determinare una rottura traumatica fra il patriarca di Costantinopoli, che ha un primato d’onore in quella confessione, e il patriarca di Mosca, che vanta il maggior numero di fedeli. La posta in palio è il diritto all’autogoverno, «autocefalia», delle autorità ecclesiastiche schierate con Kiev.
È annunciato per le prossime settimane il Sobor, il santo Concilio che cercherà di dare all’Ucraina un’unica Chiesa ortodossa. Competono le tre maggiori Chiese del Paese. Quella fedele al Patriarcato di Mosca, circa il 20 per cento dei credenti sul totale, e le due vicine al governo ucraino presiedute rispettivamente dal patriarca di Kiev Filarete e dal metropolita Macario. La tensione ha raggiunto livelli clamorosi dopo che l’11 ottobre il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, primo tra pari tra i patriarchi del mondo ortodosso, ha ammesso Filarete e Macario alla comunione con le altre Chiese.
Tecnicamente non è il «riconoscimento» delle due Chiese di cui ha parlato la stampa internazionale. Costantinopoli ha invece preannunciato in un comunicato del 19 novembre il rilascio del tomos, il documento specifico con cui si riconoscerà il diritto all’autogoverno, l’«autocefalia» ortodossa, della Chiesa che nascerà dal Concilio. Il passo è grave per il Patriarcato di Mosca, che si sente debole nel processo verso un’unica Chiesa autocefala ucraina. «È stata attraversata la linea rossa», ha dichiarato il portavoce del patriarca Kirill, che ha anche parlato di «catastrofe»e di rischio che si interrompa la comunione eucaristica tra Mosca e Costantinopoli.
Il conflitto ucraino ha gli ingredienti delle grandi storie di religione e potere. I protagonisti si sfidano in ambizione e avidità: ricattano e comprano,sussurrano e gridano, trattano e sparano. Tutti vanno a letto con tutti; tutti avvelenano tutti. Il copione potrebbe funzionare sempre, ovunque. In questo inizio di terzo millennio, tra Kiev, Mosca e Istanbul, esso prende una forma peculiare. Lo spazio è decisivo. Il controllo del territorio attribuisce proprietà e finanze, popolazione e cariche, ricchezza economica e politica. Nel mondo ortodosso la questione è particolarmente cruciale.
Dalla sua ridotta di Istanbul, il patriarca di Costantinopoli ha un primato di onore e non di giurisdizione. Le Chiese sono autocefale, hanno ciascuna un proprio vertice, un capo. Lo spazio dell’ortodossia è concepito come diviso infette controllate dall’una o dall’altra Chiesa. Il territorio canonico è un sofisticato congegno teologico e giuridico il cui funzionamento implica una feroce lotta contro ogni rivale interno al mondo ortodosso ed esterno ad esso,specie cattolici e musulmani. La coesistenza nello stesso territorio di più di una Chiesa, e di più di un capo, è una patologia. L’unità del potere politico segue il medesimo principio: un sovrano, una Chiesa, un territorio.
Le condizioni in cui nei secoli si sono trovati a vivere gli ortodossi hanno spesso contraddetto il principio. Nell’Impero ottomano, gli ortodossi arabi e serbi, greci e bulgari hanno formato comunità mobili e sparse, sotto governanti musulmani. Nel corso delle guerre russo-polacche, l’Ucraina è stata fatta a pezzi tra cattolici e ortodossi. Mentre il puzzle si disfaceva e si ricomponeva, ogni volta in modo nuovo, ogni volta in riferimento a un mitico passato, mentre nell’era della comunicazione digitale il territorio si disperdeva online, l’unità di potere politico ed ecclesiastico sul territorio canonico diveniva tanto più ambita quanto più lontana dalla realtà.
Dopo il crollo del comunismo, gli ortodossi si sono dovuti impegnare soprattutto contro i nemici atei e musulmani. Al centro della battaglia, il patriarca di Belgrado resisteva sotto le bombe degli occidentali secolarizzati e dava battaglia in Bosnia contro i mujaheddin venuti dall’Afghanistan, dalKashmir e dall’Algeria. Lo schema dello scontro mondiale tra cristiani e musulmani ha dominato negli ultimi trent’anni la percezione del ruolo geopolitico degli ortodossi. È stato il caso delle Chiese ortodosse che non accettano il Concilio di Calcedonia (451 d.C.), gli armeni sotto costante minaccia azera e turca, e i copti egiziani. È stato il caso dei russi che,dalla guerra contro i musulmani ceceni e dal controllo dei musulmani nelle proprie frontiere, il 10 per cento del totale della popolazione russa, hanno tratto le risorse per la strategia di influenza sul mondo islamico culminata con l’intervento in Siria.
Il grande scontro con l’islam di cui sono stati protagonisti gli ortodossi ha lasciato in secondo piano altre tensioni. Dei 25 mila morti in Croazia tra il 1991 e il 1995, dei 55 mila caduti in Bosnia tra il 1992 e il 1995, delle centinaia di morti della guerra in Georgia, Ossezia del Sud e Abcasia tra 1988 e 1993 non si è parlato in termini di vittime di una guerra tra cristiani.Invece lo erano. Nel caso della Croazia e almeno in parte della Bosnia, le violenze ebbero luogo tra cristiani di diversa confessione, cattolici e ortodossi. In Georgia, ortodossi uccisero ortodossi. La pace intervenuta successivamente,negli stessi mesi degli accordi che misero fine al conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti, rese le violenze tra cristiani ancor più invisibili.Se c’erano state, e se anche si fossero davvero potute catalogare come«violenze tra cristiani», il loro tempo era finito.
A vent’anni di distanza, l’esplosione della guerra del Donbass nell’Ucraina orientale, ha nuovamente sfidato la convinzione che la violenza religiosa contemporanea abbia soltanto a che fare con l’islam. Come in Georgia negli anni Novanta, e con una magnitudine enormemente maggiore, cristiani hanno ucciso cristiani; addirittura, cristiani ortodossi hanno ucciso cristiani ortodossi. E continuano a farlo.
Il conflitto tra patriarchi e Chiese ortodosse in Ucraina mette allora davanti a un bivio. Lo scontro può essere visto e gustato quale lotta di potere politico ed economico, come fa la maggior parte degli osservatori. Si inseguono le sfumature, si pesano le mosse, si stringe il microscopio sugli attori locali, si allarga il campo a Kirill e a Bartolomeo. Ecco irrompere gli alleati: gli ortodossi americani in gran parte vicini a Costantinopoli, i serbi tradizionalmente amici di Mosca. Ecco i governi mettere mano al portafoglio: a Kiev per strappare qualche vescovo al Patriarcato di Mosca o per far sedere i dignitari filorussi al tavolo del Consiglio interreligioso; a Mosca per boicottare l’imminente Concilio. Ecco pesare gli interessi economici, i gasdotti, le risorse naturali e la diplomazia internazionale, l’Unione Europea, la Nato.
Solletica, questo modo di leggere la crisi ecclesiastica ucraina, ma resta in superfice e induce a sbagliare sui dettagli. La grande stampa internazionale lo fa proprio: perciò commette l’errore di annunciare un inesistente«riconoscimento» delle Chiese ucraine da parte del patriarca di Costantinopoli e trascura la posta in palio nel prossimo Concilio. Appiattiti su polemiche e trame, si resta ciechi davanti alla grande questione per i cristiani in Ucraina, dove dal 2014 sono morti in quasi 10 mila, e le violenze continuano. S’ignora cioè il nesso tra la crisi delle Chiese e questi morti, le migliaia di feriti, gli sfollati: i cristiani ucraini e russi, greci e serbi, appaiono privi di responsabilità, impotenti; in balia della politica e dell’economia,locali e globali.
Ecco il punto. Il processo che condurrà al Concilio sarà il test della capacità degli ortodossi, in Ucraina e altrove, di essere plurali e uniti, senza violenze. Sbaglierebbe, in proposito, chi snobbasse la vicenda come solo ortodossa. L’onda delle decisioni delle prossime settimane a Kiev, Mosca e Istanbul investirà in pieno tutti i cristiani che in Europa e in America, in Asia e in Africa, cercano il proprio posto nel futuro.”

Preoccupazioni

bab

Pubblico quasi per intero l’articolo di Nicola Pedrazzi pubblicato ieri su Riforma.it (qui quello intero). Si tratta di un’intervista all’ostetrica Ludovica Tosolini, presidente di Mam Beyond Borders.
Nonostante il “cessate il fuoco”, la guerra in Siria non si arresta, prosegue sulla pelle dei civili. Nei giorni scorsi, raid missilistici russi hanno colpito duramente diverse strutture mediche del nord del paese, mietendo decine di vittime. Ne parliamo con Ludovica Tosolini, ostetrica e presidente dell’associazione Mam Beyond Borders che dal 2014 cura progetti socio-sanitari in aree di conflitto: principalmente in Africa e anzitutto a protezione dei bambini. Due anni fa Ludovica ha lavorato tra Turchia e Siria, lungo una porzione di confine che al momento le autorità turche hanno deciso di chiudere.
Quando è arrivata in Siria? Dove lavorava?
«Sono arrivata in Siria nel 2013. Al campo profughi di Bab al Salam seguivo un programma di screening della malnutrizione, in collaborazione con lo staff di Medici Senza Frontiere di Azaz, cui trasferivamo i bambini gravi, i casi di malnutrizione severa. Una collaborazione che una volta avviata funzionava anche a distanza, dall’Italia. Noi volontari stranieri non dormivamo in Siria ma in Turchia, attraversavamo il confine ogni mattina per raggiungere il campo. Un’attività che non abbiamo più potuto svolgere sul terreno dall’estate del 2014 ».
Ovvero dal rapimento di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. In Italia da quel momento è cambiata la percezione della Siria.
«Io sono rientrata in Italia nel luglio 2014, la settimana prima del rapimento. Un anno dopo, nel settembre 2015, la Farnesina ha convocato tutti i presidenti delle associazioni con progetti umanitari in Siria e in altri paesi consegnandoci un decalogo di regole da seguire. L’ente che assicura per la Farnesina è la Siscos, e al momento non assicura più gli operatori umanitari per la Siria. Risultato: noi non mandiamo più nessuno. Stando così le cose, l’unica attività che possiamo svolgere è tenere contatti con le persone e i referenti che abbiamo conosciuto in loco oramai tre anni fa».
Dove lavorano i medici con cui siete in contatto?
«Non operano più nell’ospedale dove andavamo noi perché è stato bombardato due volte, si sono spostati tutti nell’ospedale di Medici senza Frontiere. La sala parto che avevamo avviato assieme a We Are Onlus era gestita già allora da personale locale, da ragazzi siriani cui facciamo ancora riferimento (mi piace ricordare in particolare Zakarya Ebraheem, un’anestesista che lavora anche per Ocha). La sala parto di cui ti parlo è stata distrutta in un raid aereo, era il giorno di Natale. Sono morte sei persone, tra cui un neonato e i suoi genitori. I media italiani non ne hanno parlato, non si è saputo nulla. Quegli stessi locali sono stati presi di mira lunedì scorso, da quanto sappiamo in entrambi i casi erano bombe russe».
Com’è quel tratto di confine turco-siriano?
«Quello che ho visto io nel 2013 non conta, perché oggi la situazione è cambiata completamente. La Turchia ha blindato quella porzione di confine con la Siria: andando verso Kilis, la prima cittadina turca dopo la frontiera, non è più possibile lasciare il paese, tuttavia a seguito dei massicci bombardamenti su Aleppo una calca di sfollati continua ad accumularsi su quella direttrice, tra Azaz e Bab al Salam. Bab al Salam era e sta tornando a essere un campo profughi, una prigione a cielo aperto. È da qualche settimana che stiamo mandando aiuti economici ai ragazzi che gestivano l’ospedale che avevamo contribuito a organizzare. Ora lavorano tutti per la mezza luna rossa. Cerchiamo di garantirgli quantomeno i farmaci essenziali per i bambini, per le bronchiti».
Che idea si è fatta della situazione politica?
«Non un’idea diversa da quella che può farsi chiunque leggendo i giornali. Le “grandi potenze” si sono incontrate a Monaco l’11 febbraio scorso. Si sono accordate su un generico “cessate il fuoco” ma per la Russia questa misura non può interrompere la lotta al terrorismo: all’Isis, ad al Nusra e ad altri gruppi legati ad al-Qaeda. Ora, se l’Isis è territorialmente riconoscibile nell’est del paese, altri gruppi sono difficilmente circoscrivibili, mischiati come sono al Free Syrian Army, ovvero ai ribelli che combattono i lealisti di Assad. Ecco perché Aleppo e Azaz continuano a essere colpite: perché sono zone ancora contese tra lealisti e ribelli, e com’è noto, al di là della lotta al terrorismo, la Russia è schierata con i primi. Dal punto di vista umanitario, quello che mi compete, in Siria la “linea rossa” così come l’ha chiamata Obama è stata oltrepassata da troppo tempo, da prima degli attacchi chimici. Ieri il «Corriere della Sera» ha addirittura parlato di “deportazione”, riportando la notizia della polizia turca che ha imposto con la forza ai profughi siriani di firmare un “consenso di rimpatrio” (peraltro scritto in turco) prima di rispedirli oltre confine.”

Possibili conseguenze

Sultanahmet square

Dimitri Bettoni ha scritto questo articolo il giorno dopo l’attentato di Istanbul. Ha evidenziato quattro conseguenze. Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Camminare per le strade di Istanbul, lungo il lastricato di Sultanahmet, il giorno dopo. Vedere la città che cerca di ricominciare, pur ancora stordita, confusa, impaurita. Istanbul è mescolanza di odori, voci e colori, qui caos significa casa. Il vuoto ed il silenzio, invece, inquietano.
Mancano le code davanti a Santa Sofia e alla Basilica Cisterna, il frenetico andirivieni dei camerieri nei locali, manca persino l’assalto dei proprietari dei ristoranti, lo ammetto, solitamente quasi molesto, che provano a trascinarti ai loro tavoli. L’invito, se arriva, è apatico, sono molto di più gli occhi puntati verso le strade semivuote, le mani incrociate dietro la schiena, gli sguardi al cielo plumbeo che rotola sul Bosforo che ribolle.
Non fraintendiamoci, questa città è enorme, interi quartieri perseverano nelle proprie abitudini. Sultanahmet, però, è un punto sensibile: per gli strati e strati di Storia sotto la patina da agenzia pubblicitaria, e perché questi viali sono calpestati, ogni anno, da dodici milioni di turisti.
Undici di loro hanno perso la vita nell’attentato suicida, un numero minuscolo rispetto alla massa di persone che calca quotidianamente queste strade, eppure enorme se ci si sofferma a riflettere sulle molte conseguenze di quanto accaduto.
La prima è che undici esseri umani non torneranno a casa. La nazionalità tedesca di dieci di essi, l’undicesimo era peruviano, ha spinto molti a cercare un retroscena. Senza però una dichiarazione d’intenti esplicita, difficile stabilire con certezza l’intenzionalità di colpire cittadini di quella Germania che ha così stretti legami con la Turchia.
Più giusto soffermarsi sulle conseguenze: la Germania, i tedeschi, si sentono colpiti comunque, sia che siano stati scelti deliberatamente come bersaglio, sia che la statistica sia solamente una coincidenza figlia del fato. Tedeschi che, tra l’altro, sono il gruppo più consistente di quei dodici milioni di visitatori a cui accennavo prima.
In seconda posizione, i russi. E qui arriviamo alla seconda conseguenza di questo attentato: il danno economico e, soprattutto, d’immagine. Difficile pensare che questo 2016 sarà un anno roseo, per il settore turistico turco. “Sapevamo che sarebbe successo, era solo questione di quando”, raccontano i ristoratori di Sultanahmet, con il sospiro di chi ha visto concretizzarsi le proprie paure. “Ora è bassa stagione, si lavora comunque poco, ma quando arriverà la primavera, che succederà?”. Il fascino di Istanbul avrà la meglio sulla paura e sulla follia del gesto omicida? Quanto tempo servirà alla ferita per rimarginarsi?
La Turchia non è solo un paese che convive accanto ad un conflitto, quello siriano-iracheno. È un paese che la guerra ce l’ha in casa, con un sudest curdo messo a ferro e fuoco ormai da mesi. Le fotografie che arrivano da alcuni distretti di Diyarbakir o Cizre somigliano fin troppo a quelle di Aleppo o Homs.
La terza domanda che aleggia sul dopo attentato è quindi, quale sarà la risposta di Ankara? Se si presta orecchio alla narrativa del governo e dei media che lo sostengono, a questa violenza si aggiungerà altra violenza, non c’è spazio per distinguo e sottigliezze. Nel calderone con l’etichetta “terrorista” sono stati gettati ogni sigla o gruppo ritenuti responsabili di voler smembrare la Turchia, come già è stato fatto con Siria e Iraq: militanti dell’ISIS, gulenisti, curdi del PKK turco o del PYD siriano, insieme alla longa manus russa evocata invece da alcuni editorialisti favorevoli al governo: tutte minacce all’integrità della nazione turca.
Il 14 gennaio si è avuta la prima reazione ufficiale post-attentato dell’esercito: raid aerei sull’area di Qandil in Iraq, dove il PKK ha numerose basi logistiche e di addestramento. Sia nelle settimane precedenti l’attentato, sia nelle ore successive, sono stati eseguiti diversi arresti di presunti appartenenti allo Stato Islamico, cinque dei quali accusati di essere legati a Nabil Fadli, l’attentatore.
Di Fadli si sa che aveva nazionalità saudita. L’uomo aveva attraversato la Siria per raggiungere la Turchia, dove aveva ottenuto supporto logistico da complici ancora non identificati. Soprattutto, aveva richiesto asilo politico alla Turchia in qualità di rifugiato.
La quarta conseguenza del suo gesto riguarda perciò proprio la situazione di quegli oltre due milioni di rifugiati che la Turchia, impartendo una severa lezione di dignità e umanità all’Europa, ospita oggi sul proprio territorio. Riuscirà la coraggiosa politica di accoglienza a sopravvivere alla bomba di Sultanahmet?”

Panorama siriano

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Capire quale sia la situazione in Siria penso sia una delle sfide più grandi per i non addetti. Questo articolo della redazione di OasisCenter cerca di fare un po’ di chiarezza con il contributo di Paolo Maggiolini.

La recente decisione russa di impegnarsi militarmente in Siria sta riportando l’attenzione sul conflitto che da quattro anni infiamma il Paese mediorientale e sembra aver messo fine a quella condizione di stallo che ne ha determinato le dinamiche sino a questo momento. In tale contesto è fondamentale capire quali sono, dove operano e da chi sono sostenuti i protagonisti del conflitto.

LE FORZE PRO-ASSAD
Il regime di Assad è sostenuto internazionalmente dalla Russia e dall’Iran. Sul campo operano gli effettivi dell’esercito governativo siriano, varie milizie legate al presidente e le milizie di Hezbollah e di altri gruppi sciiti. La Russia, che dispone in Siria dell’importante porto di Tartus (l’unico sbocco sul Mediterraneo per la flotta militare russa), ha finora colpito soprattutto le zone occupate dai ribelli, in particolare la regione di Idlib, recentemente conquistata dalla coalizione formata da Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham.
L’esercito siriano
Le forze del regime di Bashar al-Assad sono concentrate lungo una dorsale che corre da sud a nord e controllano i territori che guardano al Libano e al Mar Mediterraneo e includono le città di Damasco, Homs, Hama e Latakia.
Nei mesi passati, diverse fonti sottolineavano la debolezza dell’esercito siriano, ridotto ormai alla metà della sua forza originale (300.000 uomini) e limitato dalla presenza sempre più rilevante di soldati di leva. Il presidente siriano ha potuto ovviare a parte di queste criticità grazie alla messa in campo di milizie irregolari (le famigerate Forze di Difesa Nazionale) e, soprattutto, al supporto di forze esterne, come quelle di Hezbollah.
Altre milizie
A sostegno di Assad operano altri gruppi poco conosciuti, di estrazione sunnita, alawita, curda e cristiana. Tra queste si possono menzionare la Muqawama Suriya, la Liwa’ Dir’ al-Sahel e Dir’ al-Watan.
Hezbollah
Hezbollah è la principale milizia sciita impegnata in Siria. Essa giustifica il suo intervento come jihad difensivo per la protezione del santuario di Sayyida Zaynab a Damasco e per combattere le forze takfîrî, cioè i gruppi sunniti estremisti che accusano i musulmani devianti, e in particolare gli sciiti, di miscredenza. Sostenuta dall’Iran, coordina altri gruppi sciiti presenti sul territorio, tra i quali vi sono anche contingenti iracheni e addirittura pakistani. Hezbollah opera principalmente nei territori confinanti con il Libano da Qalamoun a Homs.

LE FORZE ANTI-ASSAD
A livello internazionale, le principali forze che operano per la caduta di Assad sono l’Arabia Saudita, la Turchia, il Qatar e gli Stati Uniti. Esse sostengono sul campo una molteplicità di attori che si distinguono sia sotto il profilo tattico-strategico che per quello ideologico-politico. L’Arabia Saudita è il principale fornitore di aiuti militari e finanziari di diversi gruppi ribelli, e in particolare di quelli salafiti. Gli Stati Uniti forniscono assistenza militare a diverse formazioni ribelli, non escluse quelle islamiste e jihadiste. La CIA ha lanciato un programma di addestramento mirato di 5000 ribelli anti-Assad, poi fallito.
Jabhat al-Nusra
Partendo dalle realtà non collegabili a ISIS, la formazione sicuramente più nota è Jabhat al-Nusra. Costola siriana di al-Qaida, essa opera nella regione di Idlib, lungo il corridoio che separa Hama e Homs, nei pressi di Damasco e sul fronte meridionale, in particolare sulle alture del Golan. È sostenuta e finanziata dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e da altri Paesi del Golfo.
Ahrar al-Sham
Meno noto di al-Nusra, esso rappresenta in realtà il movimento di opposizione forse più importante per effettivi e partecipazione popolare. Di ispirazione salafita, punta al rovesciamento del regime di Assad per istituire uno Stato fondato sulla sharî‘a, tanto che dottrinalmente non è facile distinguerlo da Jabhat al-Nusra, anche se a differenza di quest’ultima non è classificata dagli USA come organizzazione terroristica. Opera nelle aree di Aleppo, Idlib, Homs e Hama. Nel 2012 Ahrar al-Sham ha dato vita al Fronte Islamico Siriano, un sigla in cui sono confluite diverse milizie affini, tra cui Jaysh al-Islam, forza che agisce principalmente a Damasco e Liwa’ al-Tawhid, impegnata soprattutto a Aleppo. È sostenuta finanziariamente dai Paesi del Golfo.
Jabhat Ansar al-Din
È una coalizione jihadista che agisce nella Siria settentrionale autonomamente da altri gruppi come ISIS, Jabhat al-Nusra o Ahrar al-Sham. È formata dalla Harakat Fajr al-Sham e dalla Harakat Sham al-Islam. Originariamente ne faceva parte anche il Jaysh al-Muhajirin wa-l-Ansar, che forniva alla coalizione i contingenti più cospicui, ma se ne è recentemente distaccato per unirsi a Jabhat al-Nusra. Prima di questa scissione, Jaysh al-Muhajirin era collegata tramite il suo leader Salah al-Din al-Shisani all’emirato del Caucaso ed era composta soprattutto da combattenti caucasici. Ora è invece perlopiù formata da militanti arabi ed è guidata da un saudita.
Esercito Siriano Libero (Free Syrian Army)
All’inizio della rivolta siriana è stato il braccio armato della Rivoluzione. È composto da formazioni di estrazione esclusivamente siriana e in particolare da disertori dell’esercito governativo. Non essendo classificato come gruppo estremista è destinatario di finanziamenti internazionali, ma è difficile valutare la sua reale capacità operativa.

Le “operation room”
Davanti a una tale complessità ed eterogeneità di gruppi combattenti, il fronte delle opposizioni ha cercato di creare delle ‘camere operative’ con lo scopo di aggregare differenti formazioni all’interno di fronti specifici, ritrovando nell’opposizione al regime di Assad il comune denominatore. Queste sinergie operative sono emerse anche in funzione anti-ISIS, come dimostrato nel dicembre 2013 nel nord-ovest della Siria quando le forze di diverse formazioni confluite nell’“Esercito Islamico” (Jaysh al-Islam) riuscirono a infliggere gravi perdite alle forze del Califfo. Su questa linea è anche interessante ricordare la creazione dell’“Esercito della Conquista” (Jaysh al-Fatah) grazie a cui diversi gruppi si sono coalizzati, in particolare Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham, riuscendo a creare e mantenere una zona di influenza nel contesto di Idlib.

I curdi del PYD
Esistono infine altri due attori rilevanti del conflitto civile siriano che però si distinguono rispetto alle precedenti formazioni per specificità ideologiche e strategiche: l’ala militare del PYD (Partito dell’Unità Democratica, secondo alcuni diretta emanazione del PKK) e ISIS. Per quanto concerne la prima formazione, le forze curde si sono distinte sul campo riuscendo a bloccare l’avanzata di ISIS nel gennaio del 2015 a Kobane e tuttora controllano due ampie sacche a nord della Siria con lo scopo finale di unificare l’intera regione di Rojava, ad oggi interrotta nella sua parte centrale.
ISIS
Infine, presenti sul territorio siriano fin dall’inverno del 2013, le forze di ISIS hanno il loro punto nevralgico nella città di Raqqa. Nonostante si insista a comparare ISIS a uno stato con frontiere e un territorio ben delimitato, la sua presenza in Siria si articola piuttosto lungo corridoi strategici, che permettono i collegamenti con le città irachene occupate (Ramadi e Mosul in particolare) e con le altre aree siriane sotto controllo (tra cui Palmyra e parzialmente Deir ez-Zor) o attacco (tra cui Aleppo e Damasco).”

Storia di un’elicotterista (no, l’apostrofo non è un errore)

Nadyia

Una storia dalle tinte fosche e cupe all’interno delle tensioni russo-ucraine, a firma di Danilo Elia su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Il tenente Nadiya Savchenko è la donna pilota più famosa d’Ucraina. Una carriera di oltre dieci anni nelle forze armate di Kiev, prima come paracadutista e poi come elicotterista sui Mi-24. Il 30 luglio scorso Nadiya è comparsa davanti ad un giudice russo per rispondere di omicidio. L’udienza preliminare si è tenuta a porte chiuse nella cittadina di Donetsk, a un tiro di schioppo dai territori in guerra dell’Ucraina, da non confondersi con l’omonima città sotto il controllo dei separatisti, al di là del confine. Nadiya è stata portata lì dalla prigione di massima sicurezza di Novocherkasska, vicino Rostov sul Don, dove era stata trasferita pochi giorni prima dopo più di un anno trascorso a Mosca, tra il carcere n. 6, l’ospedale penitenziario Matroskaya Tishina e il famigerato istituto psichiatrico Serbsky.
All’udienza per la prima volta non è stata ammessa la stampa, e tutto quello che sappiamo lo dobbiamo alle parole del suo difensore, Mark Feygin, e ai suoi tweet. Come quello in cui ha scritto che “il tribunale di Donetsk oggi sembra Fort Knox”, mandando una foto dei corpi speciali Omon della polizia fuori dall’edificio. Per Feygin, e non solo, la mossa delle autorità russe di spostare il processo da Mosca a questa sperduta periferia è l’ennesimo bastone fra le ruote alla difesa di Nadiya. Per il suo difensore il processo contro di lei è montato senza la minima prova, un caso altamente politicizzato, perché “in Russia non esistono tribunali indipendenti. Il sistema giuridico della federazione dipende da un potere autoritario, è solo un’appendice repressiva del governo”. E ancora, “L’unica cosa che può aiutare Nadyia è una forte pressione internazionale. Nient’altro”.
Nadiya è accusata dell’omicidio di Igor Kornelyuk e Anton Voloshin, due giornalisti della tivù di stato russa Rossiya 1 uccisi da colpi di mortaio il 17 giugno 2014 a Metalist, vicino Lugansk in Ucraina. Stavano filmando un posto di blocco separatista preso di mira dall’artiglieria ucraina. Secondo il Comitato investigativo russo, una specie di superprocura alle dirette dipendenze del Cremlino, che ha condotto le indagini, sarebbe stata proprio lei dal suo elicottero a dare le coordinate a terra per sparare i colpi mortali.
La tesi accusatoria e la versione difensiva, però, raccontano due storie completamente diverse. Nadiya è caduta prigioniera dei miliziani filorussi a giugno dello scorso anno nelle vicinanze di Lugansk. Secondo i ribelli, è stata catturata durante uno scontro con le truppe ucraine del battaglione Aydar. La stessa Nadiya però ha raccontato una versione differente in un’intervista a un giornalista russo della Komsomolskaja Pravda, Nikolai Varsegov, quando era ancora prigioniera dei miliziani in Ucraina. Ha detto di essere stata catturata insieme ad altri commilitoni sul campo di battaglia di Shchastya, mentre cercava di soccorrere i feriti. Non era cioè in missione di combattimento col suo elicottero, ma stava partecipando come volontaria in supporto a medici e infermieri militari. I suoi carcerieri l’hanno filmata ammanettata a un tubo mentre si rifiutava di rispondere alle loro domande e hanno caricato il video sul web. Nadiya è rimasta in prigionia nelle loro mani con certezza dal 18 giugno 2014, data della sua cattura e della diffusione del video, al 24 giugno, giorno in cui Varsegov l’ha intervistata. Ma poi di lei non si è saputo più niente. Finché non è ricomparsa davanti a un giudice a Voronezh, in Russia, il 9 luglio 2014, con l’accusa di immigrazione clandestina. Secondo il procuratore, era stata arrestata casualmente durante un controllo di routine perché trovata senza documenti. In un secondo tempo la polizia si sarebbe accorta di avere tra le mani un ufficiale dell’esercito ucraino. Le indagini del Comitato investigativo avrebbero poi ricondotto Nadiya all’uccisione dei due giornalisti russi. Secondo l’accusa, Nadiya, dopo essere stata catturata a Lugansk, sarebbe sfuggita ai suoi carcerieri, avrebbe disertato dall’esercito ucraino e cercato rifugio illegalmente in Russia attraversando il confine senza documenti. Lei invece racconta di essere stata consegnata ai russi, che l’hanno incappucciata e portata al di là del confine, dove ha avuto inizio il suo incubo.
Finora Nadiya ha passato più di un anno in detenzione cautelare, senza cioè che la sua colpevolezza fosse dimostrata. In ogni udienza di proroga della carcerazione, le richieste della difesa sono state puntualmente rigettate. A dicembre dello scorso anno, quando era ormai chiaro che non sarebbe uscita di galera tanto presto, Nadiya ha iniziato uno sciopero della fame. Non ha mangiato per 83 giorni. Ha perso quasi 20 chili ed è arrivata a un passo dalla morte. Ha anche stracciato ogni record del penitenziario. “Nessuno ha mai resistito tanto”, ha detto il medico della prigione a Feygin. “Di solito, dopo un paio di settimane la loro volontà crolla”. Per tutta risposta il giudice ha disposto il suo internamento nell’istituto psichiatrico Serbsky, una struttura statale tristemente famosa dai tempi dell’Urss come centro di detenzione dei dissidenti, che spesso erano dichiarati mentalmente infermi e sottoposti a inumani “trattamenti psichiatrici”. Nel frattempo, anche grazie al suo sciopero della fame, il caso di Nadiya è diventato internazionale. Manifestazioni per la sua liberazione si sono tenute in tutto il mondo, l’hashtag #FreeSavchenko si è diffuso sul web e la rappresentante degli Usa all’Onu, Samantha Power, ha portato il caso all’attenzione delle Nazioni Unite.
In patria Nadiya è diventata un’icona. Alle ultime elezioni parlamentari è stata candidata a distanza da Yulia Tymoshenko nel suo partito Batkyvshchyna, è stata eletta alla Rada. L’immunità parlamentare che le spetta è risultata ovviamente inutile in Russia, così come l’essere rappresentate dell’Ucraina presso la Pace, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Nadiya resta in carcere. L’avvocato Feygin dice di aver raccolto prove a sufficienza della sua innocenza, aggiungendo però che “i fatti non contano niente in questo processo”. Il portavoce del Comitato investigativo, Vladimir Markin, ha detto invece che “le prove raccolte dagli investigatori sono abbondanti e dimostrano la colpevolezza dell’accusata nell’uccisione di due o più persone sulla base di odio sociale e di un piano premeditato”.
Nadiya sarà giudicata in base dell’articolo 105 del codice penale russo, che prevede la condanna all’ergastolo per l’omicidio volontario. “Ma lo stesso codice penale proibisce la condanna a vita per le donne”, ha aggiunto Markin. “Nadiya Savchenko può essere condannata a un massimo di 25 anni”. Quello che non ha detto Markin è che la riduzione della pena massima consente di svolgere il processo senza l’ausilio di una giuria popolare. A giudicarla saranno tre giudici a porte chiuse, e la sentenza potrebbe arrivare in tempi rapidissimi.

Beslan

Un salto all’indietro di quasi undici anni con questo articolo di Cecilia Tosi su Limes, col quale si inaugura anche una nuova rubrica di cui si può leggere sul sito originale. E’ la storia della lotta solitaria di una donna per ricordare e cercare di chiarire le responsabilità della strage di Beslan. Se poi qualcuno è interessato a conoscere ancora meglio la storia di questa donna, Ella Kesaeva, suggerisco di leggere la presentazione del suo libro “Beslan nessun indagato” sul sito di Mondo in cammino. La foto è di Massimo Bonfatti.

Beslan
A prima vista, Ella Kesaeva sembra una donna qualunque, più avvezza ai lavori domestici che alla politica. Invece è una leader, la più coraggiosa del sud della Russia. Sulla cinquantina, piccola e rotondetta, vestita in modo severo e ordinato, Ella ha un profilo decisamente caucasico. Infatti proviene dall’Ossezia del Nord, quella repubblica che ha ottenuto il privilegio dei riflettori solo una volta nella sua vita, quella più tragica: il massacro di Beslan. Ella Kesaeva è il capo dell’unica associazione rimasta a difendere i diritti delle vittime, i parenti di quei bambini che nel 2004 furono massacrati nella scuola elementare numero uno. Un gruppo di terroristi, subito bollati dalle autorità come fondamentalisti ceceni, prese in ostaggio l’istituto il primo settembre, quando si festeggiava l’inizio delle lezioni. L’esercito russo intervenne con spietata violenza e il bilancio finale delle vittime raggiunse quota 308. Da allora, Mosca non ha ancora fatto chiarezza sugli autori del massacro né sulle vere cause della morte dei bambini e dei loro genitori. Ella sostiene che fu l’intervento dell’esercito a mietere i morti e che tutto l’attacco era stato preordinato. Per questa sua posizione, viene minacciata ogni giorno e rischia la galera, ma lei non ha paura.
LIMES: Cosa è successo veramente a Beslan?
ELLA KESAEVA: Centinaia di bambini che potevano salvarsi sono stati uccisi per dare una dimostrazione della forza del Cremlino e della necessità di combattere più aspramente il terrorismo. Finché la scuola è stata in mano ai sequestratori, seppur in condizioni disperate, tutti i bambini erano vivi tranne una ragazzina diabetica che aveva finito l’insulina. Ma con l’intervento dell’esercito, un terzo delle persone che erano nella scuola è stato ucciso. Mia figlia e mio nipote sono usciti da una finestra mentre è avvenuto l’assalto, ma mio nipote non è mai riuscito ad arrivare: l’hanno ucciso tre pallottole dei soldati mentre stava scappando. Le autorità avevano fatto circondare la scuola da tre anelli di agenti che ci impedivano di avvicinarci. Quando siamo riusciti a penetrare nel primo cordone ci hanno stretto tra un cerchio e l’altro, ci hanno imprigionati. In quei trenta minuti alcuni degli ostaggi si sono trasferiti nel refettorio, poi le Forze di sicurezza russe hanno cominciato a lanciare razzi sulla palestra, e infine su tutto l’edificio. Alla fine per terra c’era un mare di bossoli, che le autorità hanno fatto sparire. Erano bossoli di lanciarazzi piazzati sui tetti delle case vicine. Proiettili esplosivi i che raggiungono la temperatura di 800 gradi in un secondo e che bruciano i corpi esternamente mentre fanno letteralmente bollire le viscere. È questa la morte che hanno ricevuto le vittime di Beslan.
Quindi il massacro non è colpa dei sequestratori?
Ovviamente è colpa anche dei sequestratori, ma chi li ha manovrati? Della banda di attentatori, 7 dovevano essere in prigione in quel momento e invece erano stati liberati alla vigilia del massacro. Ho visto personalmente i documenti in cui un colonnello dell’esercito russo autorizzava la liberazione di questi prigionieri. Poi si è aggiunta la violenza dell’incursione, sferrata con carri armati e lanciarazzi, un’attrezzatura da guerra, non da intervento di polizia.
Sperate ancora nella giustizia?
Per qualche mese ci abbiamo sperato, ma poi ci siamo resi conto che dietro il massacro c’erano i generali e dietro di loro il governo. Quel massacro serviva al potere per varare una legge più repressiva sulla libertà d’espressione. Nessuno ha mai ammesso che c’era stata della premeditazione nel massacro, anche se noi abbiamo i testimoni. Sulle responsabilità dell’esercito si è pronunciato anche Savelyev, matematico esperto di balistica che faceva parte della commissione di inchiesta istituita dal governo, ma il Cremlino ha dichiarato che non c’era nessun lanciafiamme. Allora abbiamo seguito il consiglio di Anna Politkovskaya e ci siamo appellati alla Corte di Strasburgo, che non si è ancora pronunciata. L’Osce intanto ha affermato che le autorità russe non hanno fatto chiarezza sull’accaduto.
Come si vive oggi in Caucaso?
I ceceni stanno mandando i loro estremisti nelle altre repubbliche del Caucaso, destabilizzando le aree fuori dai propri confini e migliorando la situazione all’interno, dove si gode anche di un certo grado di libertà. In Cecenia, ad esempio, c’è la libertà di registrarsi come ong. In Ossezia, invece, visto che è da sempre considerata la repubblica più fedele del Cremlino, non è ammessa nessuna apertura e nessuna critica. Non ci sono organizzazioni non governative a parte la mia, che non è autorizzata a registrarsi. Ci sono controlli a tappeto, non c’è telefono che non sia intercettato e non c’è giornalista libero di scrivere.
Eppure lei e sua sorella lottate ancora…
Io resisto, anche se le forze di sicurezza hanno fatto varie incursioni nei nostri uffici e ci impediscono di lavorare liberamente. Qualche anno fa è venuto un gruppo di storici dalla Repubblica Ceca per fare delle interviste. Volevano visitare un monastero, ma la polizia li ha fermati, ha detto che c’erano delle segnalazioni su stranieri pericolosi. È arrivato un funzionario dell’Fsb e non solo ha bloccato l’escursione, ma ha espulso i cechi per 5 anni! Mia sorella, dopo aver perso sia i figli che il marito, sta cercando di ricostruirsi una vita e ora ha preso in affidamento un bambino.
Sua figlia si è salvata e oggi vive a Mosca, ma i Suoi due nipoti sono morti: come ha reagito sua sorella?
Dopo i funerali non riusciva più a dormire. Cominciò a frequentare le madri delle vittime, ma la mia famiglia era molto in ansia per lei. Impossibile anche soltanto concepire come un dolore simile possa rovesciarsi su di un’unica persona, tanto era pesante il fardello che le toccava sopportare. Ma lei era sorprendente, quasi stoica nell’affrontare un dolore così grande. Di giorno cercava di sbrigare qualche faccenda, poi le commemorazioni settimanali la distraevano. Non l’ho mai sentita dire: «Ecco, i terroristi erano musulmani». Un vero fedele, diceva, non ucciderebbe mai un uomo. Tantomeno un bambino. Una volta, durante una notte insonne, mi ha detto: «Eppure non riesco a capire perché Dio non abbia preso anche me, perché mi ha lasciata qua?». «Significa che tu hai un altro destino di fronte, significa che devi ancora fare qualcosa su questa terra», le ho risposto.
Secondo alcuni critici del Cremlino, anche l’omicidio Nemcov fa parte della strategia repressiva del governo, Lei cosa pensa?
Nemcov era un uomo molto rispettoso con i musulmani e non è credibile che sia stato ucciso per oltraggio all’islam. In realtà il suo errore è stato di pubblicare su internet le minacce di morte che aveva ricevuto. In Russia queste cose non si fanno, perché si squarcia un velo che deve rimanere chiuso. Penso dunque che i ceceni lo abbiano ucciso per ordini ricevuti dall’alto, perché lui metteva a rischio il sistema. Nemcov era un’ottima persona, che nelle sue argomentazioni contro Putin non mancava mai di citare il massacro di Beslan, al contrario di molti oppositori che non hanno il coraggio di affrontare una questione tabù come la nostra. Noi ci rivolgevamo spesso a lui perché non aveva paura di difenderci, anche se in Russia nessuno difende le vittime. Adesso i progressisti non sanno più cosa fare. Il clima in Russia è durissimo, i giornali non hanno libertà d’espressione e il Cremlino esercita un potere assoluto.”

Ebrei di Odessa

odessa

Un articolo che ho trovato ieri sera in tarda serata su Rainews24.
“Nella guerra di propaganda che accompagna la crisi ucraina, le prese di posizione spostano consensi e influenzano la situazione sul terreno. Sono diverse le componenti della complessa società di un paese da sempre sospeso tra mondi contrapposti a esprimere paure e tensioni. Non ultima la comunità ebraica, tradizionalmente forte in tutta l’Europa orientale, vittima di persecuzioni da parte di tutti i totalitarismi. I leader della comunità di Odessa intervengono in queste ore.
In un’intervista concessa al quotidiano israeliano The Jerusalem Post il rabbino Refael Kruskal, direttore generale della filiale di Odessa dell’associazione caritatevole ebraica Tikva (Speranza), ha detto che lo scorso week-end la Grande sinagoga corale è rimasta chiusa, mentre ai membri della comunità ebraica sono stati inviati gli SMS con il consiglio di astenersi dall’uscire dalle proprie abitazioni senza necessità. Secondo il rabbino e altri leader della comunità ebraica, tra le vittime degli scontri dello scorso venerdì a Odessa c’erano anche alcuni ebrei. Gli ebrei non vengono presi espressamente di mira, ma si teme che se la regione dovesse precipitare nel caos, le violenze potrebbero anche colpire la comunità, che si prepara anche ad allontanare i membri, soprattutto dei bambini, verso altre città e forse anche un altro paese, probabilmente nella vicina Moldova. 70 pullman sarebbero pronti in qualsiasi momento a effettuare l’evacuazione d’urgenza di tutti coloro che lo vorranno. Particolarmente delicata potrebbe essere la Giornata della Vittoria sul nazifascismo che si festeggia il 9 maggio. “Il prossimo week-end potrebbe essere molto violento”, – ha detto il rabbino di Odessa.
Secondo il Jerusalem Post, a Odessa attualmente vivono 30 mila ebrei. Nel censimento ucraino del 2001 gli ebrei erano12,4 mila, ossia l’1,2% della popolazione. Prima della Seconda guerra mondiale la popolazione ebraica a Odessa era il 40% del totale. Da Mosca, il vice-presidente del Congresso delle associazioni religiose e comunità ebraiche russe (KEROOR), accusa i politici ucraini: il rogo di Odessa – sostiene il rabbino Zinovij Kogan – sarebbe stato causato da un’impennata del fascismo e della russofobia. Le comunità ebraiche di Ucraina invece appoggiano il governo filo-europeo di Kiev. Uno degli esponenti della comunità ebraica ucraina più in vista, il milionario Igor Kolomojskij, è stato nominato dalle autorità di Kiev governatore della regione di Dnepropetrovsk. L’Ucraina è sempre sospesa sull’orlo della guerra. Anche la comunità ebraica aggiunge i suoi pesi sulla bilancia che separa i nazionalisti, da una parte, e i filorussi, dall’altra.”

Iegor me l’aveva detto

UKRAINE-EU-OPPOSITION-PROTESTChi frequenta il blog sa ormai che amo gli articoli di approfondimento contestualizzati. E’ il caso di questo pezzo di Paolo Bergamaschi, originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso. L’argomento è l’Ucraina, con una parte specifica dedicata alle diversità religiose.

«Iegor me l’aveva detto già a novembre: “Questa protesta durerà a lungo, siamo disposti a rimanere in piazza fino a primavera”. Pensavo scherzasse ma è stato di parola. Ormai sono di casa a Kiev. I tassisti dell’aeroporto hanno volti famigliari e so perfettamente come comportarmi quando mi circondano a caccia di clienti negoziando con loro un prezzo equo per il trasporto in città.

“Il centro è bloccato, siamo costretti a lunghi giri su strade secondarie per arrivare al suo hotel”, si lamentano per alzare la tariffa, “scaricatemi a ridosso delle prime barricate”, rispondo, “ci penso poi io a raggiungere a piedi l’albergo”, mostrando assoluta padronanza della situazione per abbassare il compenso.

Speravo, o forse inconsciamente mi ero illuso, che l’inverno monsonico che ristagna in Europa avesse addolcito anche il clima ucraino ma mi sbagliavo. La stagione fredda qui è veramente polare con temperature che non superano mai i meno dieci nonostante il sole splendente. Ne risente, ovviamente, anche il numero dei manifestanti che stazionano in permanenza sul Maidan sempre consistente ma ridotto rispetto alle occasioni precedenti. Constato, però, la diffusa presenza di giornalisti, telecamere e foto-reporter accorsi in massa dopo l’improvvisa svolta violenta assunta dagli avvenimenti a metà gennaio. Le cariche delle forze anti-sommossa e le prime vittime hanno lasciato il segno ma nemmeno le leggi speciali imposte da Yanukovic per intimidire e schiacciare la protesta sono riuscite a piegare la determinazione dei dimostranti che in risposta hanno provveduto a rafforzare le difese della piazza.

E’ oramai una vera tendopoli quella che occupa il centro della capitale. Si estende ben oltre piazza Indipendenza protetta da una doppia cinta di barricate intervallate da una fascia di “terra di nessuno”. Occasionali incrostazioni di neve e ghiaccio rendono meno spettrali il filo spinato, i reticolati e i cavalli di Frisia che blindano l’accampamento sorvegliato nei punti di passaggio dai discreti controllori che si avvicendano a turno.

All’interno dei tendoni centrali riposano gli uomini del servizio d’ordine inquadrati in strutture paramilitari. Letti a castello e brande sono riscaldati nel mezzo da stufe da campo che mitigano appena con le ruvide coperte di lana grezza le rigide temperature esterne che nella notte scendono oltre i meno venti gradi. Al di là del freddo, però, mi chiedo come si possa dormire tra i decibel degli altoparlanti che per tutte le ventiquattro ore sparano musica ad alto volume che, nelle pause fra un discorso e l’altro, rimbomba ovunque.

Non c’è traccia di polizia a Maidan ma tutto attorno gli agenti presidiano i punti nevralgici della città. Lo schieramento delle forze dell’ordine si fa più compatto nei pressi degli edifici governativi e del parlamento. Qui le vie di accesso sono ostruite dai blindati. E’ un giorno importante, forse decisivo, per alcuni, in vista di un possibile sblocco della crisi. Dopo lunghi e concitati negoziati, sotto la pressione dell’opinione pubblica e della diplomazia europea, i deputati della maggioranza hanno accettato di abolire le leggi speciali adottate solo qualche giorno prima che limitano la libertà di espressione e mettono la museruola al mondo non governativo.

Sono almeno quaranta gli autobus parcheggiati sul viale che porta alla Verkhovna Rada (Parlamento) da cui scendono disciplinati i manifestanti del Partito delle Regioni trasportati dalle provincie orientali per esprimere sostegno alle forze di governo. Marinsky Park, il parco di fronte all’edificio parlamentare, è tutto occupato da tende dove i dimostranti si rifocillano sulla falsariga di quanto avviene a poche centinaia di metri di distanza a Maidan con rivendicazioni opposte. E come a Maidan, nello spiazzo di fianco all’area verde è stato allestito un grande palco con schermo dove gli oratori si alternano sbraitando dai microfoni per catturare l’attenzione degli infreddoliti astanti avvolti in drappi blu, il colore del partito di maggioranza.

Il poliziotto non vuole saperne di farci passare. Nonostante fossimo intruppati e mimetizzati nel flusso dei manifestanti l’agente ci individua e vuole impedirci di avvicinarci all’ingresso del parlamento. A nulla valgono, nella ressa, le rimostranze di Rebecca Harms che mostra il suo badge di eurodeputata e un documento che attesta l’invito della Verkhovna Rada.

Solo l’arrivo della collaboratrice di un deputato ucraino ci sottrae dall’attenzione delle forze dell’ordine determinate a prevenire ogni infiltrazione di persone ostili al governo in carica. Ci ritroviamo così in galleria fra ambasciatori e giornalisti dove assistiamo alla breve sessione in cui all’unanimità i deputati cancellano le leggi vergogna che avevano suscitato l’indignazione generale. Qualcuno ha definito il parlamento ucraino come “il più grande comitato di affari del continente” a sottolineare il legame diretto o indiretto di buona parte dei suoi membri con i vari oligarchi che monopolizzano l’economia del paese.

E gli oligarchi hanno deciso che non è opportuno tagliare i ponti con l’Unione Europea il cui mercato, per alcuni, rappresenta una consistente fetta dei propri affari. ” Business is business “, direbbero gli anglosassoni, meglio allora mettere da parte le ragioni ideologiche per concentrarsi su quelle del portafoglio anche e soprattutto in considerazione del fatto che i cospicui conti correnti sono al sicuro presso le banche dei paesi occidentali.

“L’Ucraina è uno stato artificiale”, dichiarò nel 2008 Vladimir Putin gelando gli altri capi di Stato al vertice NATO di Bucarest cui era stato invitato come ospite d’onore per un incontro bilaterale più di facciata che di sostanza. Le parole dell’uomo forte di Mosca chiamavano in causa l’identità nazionale di un paese profondamente diviso sia dal punto di vista etnico che da quello linguistico. E il terzo elemento che abitualmente viene preso in considerazione nella definizione del profilo di un popolo, quello della religione, rende la situazione ancora più ingarbugliata. Il fattore religioso ha giocato un ruolo primario nella rivoluzione del Maidan.

Sulla piazza si trovano icone e croci un po’ dappertutto: tra il filo spinato delle barricate, appese agli angoli di strada, in edicole improvvisate nei punti di passaggio e, ovviamente, sul palco principale dove campeggia una statua della Madonna affiancata da un grande crocifisso e dall’immagine di Gesù Cristo. Una delle tende sul Maidan è stata riadattata in cappella. Tra la folla si notano spesso sacerdoti che si intrattengono con i dimostranti con vescovi e patriarchi che si alternano al microfono ai leader politici. Ma in Ucraina non c’è una confessione prevalente. Anche se la maggioranza della popolazione, secondo recenti indagini, si dichiara ancora non credente in continuità con l’ateismo di stato del periodo sovietico, il fervore religioso è in rapida crescita. E la politica non può non tenerne conto specialmente se ci si trova in un paese a tradizione ortodossa dove potere temporale e potere religioso vanno sempre a braccetto. “La nazione ucraina è unita al cospetto di Dio nonostante le diverse identità regionali”, dice Filaret, Patriarca della Chiesa Ortodossa Ucraina di Kiev durante un incontro fra i leader religiosi ed alcuni eurodeputati, “i giovani che affollano il Maidan non hanno memoria del passato”, continua, “l’Europa deve sostenere la trasformazione democratica del paese”. Per il Patriarca la sollevazione in corso segna un profondo cambiamento di mentalità. “Nelle province orientali”, afferma, “resiste ancora la cultura sovietica, ma non nel resto del paese”. Filaret rappresenta per numero di fedeli la confessione maggioritaria, seppur di poco, dell’Ucraina. La sua chiesa è nata dopo l’indipendenza ed è quindi idealmente legata a doppio filo con gli sviluppi più recenti della storia del nuovo stato.

Non così la Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca, la più radicata sul territorio, il cui Metropolita Volodymir durante la riunione si limita laconicamente ad affermare che la gente non è sufficientemente a conoscenza di cosa comporta l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea e avrebbe bisogno di più informazioni. I seguaci di Volodymir si trovano soprattutto nella zona orientale dell’Ucraina dove sono più forti i legami con la Russia. Di tutt’altra opinione è l’arcivescovo Sviatoslav in rappresentanza della Chiesa Greco-Cattolica di Ucraina messa al bando durante il periodo sovietico e ritornata alla legalità nel 1987. “Quello del Maidan è un progetto sostanzialmente pacifico anche se a volte la voce dei moderati viene messa a tacere dagli estremisti”, osserva, “occorre, però, fermare i provocatori del governo e la violenza delle forze dell’ordine”.

I Greco-Cattolici, conosciuti anche come Uniati, sono in netta maggioranza nella parte occidentale del paese e rappresentano l’anima più sensibile al richiamo europeo. “L’Ucraina è tagliata dalla linea che divide l’est dall’ovest”, evidenzia, “Dio sta mettendo alla prova la nazione che deve dimostrare di meritare i valori europei”. “E’ una lotta fra impero e democrazia”, conclude. E’ una gelida serata invernale in una sala d’hotel a pochi passi da Piazza Maidan che si conclude con una solenne preghiera ecumenica per invocare la protezione dall’alto dell’Ucraina. Che ne ha davvero bisogno.

La sinagoga Brodskij è situata nella zona centrale della capitale. Restituita alla comunità ebraica alla fine degli anni novanta è stata ricostruita ed inaugurata solennemente nel 2000. E’ il tempio più importante dell’ebraismo ucraino, che si colloca al quinto posto nel mondo per numero di affiliati. Il rabbino capo ce lo illustra, durante una visita guidata, con un certo orgoglio tra i banchi in legno che luccicano ancora di smalto fresco e gli addobbi dalle tinte gravi. Sono più di 100.000 gli ebrei a Kiev e anche loro in larga parte hanno sostenuto le rivendicazioni della protesta. Collegato al retro della sinagoga si trova l’unico ristorante kosher della città, il King David, dove ci intratteniamo amabilmente attorno ad un grande tavolo imbandito di specialità della tradizione locale accompagnate da vino israeliano. Contrariamente a quanto pubblicato dalla stampa occidentale la comunità non si sente minacciata anche se i leader di Svoboda, uno dei partiti che siedono alla Verkhovna Rada, sono spesso accusati di anti-semitismo.

Mi sono ormai abituato a calcolare i tempi di viaggio con precisione maniacale. Cerco di evitare i tempi morti delle attese negli aeroporti e di organizzarmi in modo da sfruttare anche le piccole pause per leggere documenti o rispondere alla posta elettronica che mi insegue ovunque. Non mi era mai capitato di perdere un aereo. C’è sempre una prima volta.

Eppure, nonostante la telefonata da Bruxelles che mi avvisava dell’invio di una nuova delegazione parlamentare in Ucraina fosse arrivata solo tre ore prima della partenza dell’aereo, ero giunto a Malpensa in tempo utile, anche se al pelo. Non fosse stato per l’impiegata allo sportello che ha confuso Kiev con Chisinau ce l’avrei fatta anche stavolta. Fatale, poi, nella concitazione dell’errore, la caduta dell’apparecchio del pagamento bancomat che finisce in mille pezzi sul pavimento ritardando irrimediabilmente l’emissione dei documenti di viaggio.

Nel consegnarmi un nuovo biglietto con un itinerario alternativo per Francoforte che mi obbligherà ad un’odissea di dodici ore, la signorina mi saluta con un sorriso. “Mi fa piacere non si sia arrabbiato con me; altri l’avrebbero fatto”, mi dice dopo essersi scusata per lo sbaglio. Le stringo la mano con distacco zen. E’ la quarta volta in quattro mesi che torno in Ucraina e so già cosa mi aspetta.

Yanukovic è fuggito da poche ore facendo perdere la tracce. Yulia Tymoscenko è già stata liberata e si è subito recata sul Maidan per ringraziare la folla. La morsa del gelo è svanita restituendo al fiume Dnipro il suo aspetto imponente e pacioso. L’Ucraina volta pagina anche se tante, troppe facce sono i volti conosciuti di una vecchia politica che aveva contribuito ad affossare il paese portandolo sull’orlo dell’abisso. Quattro viaggi e quattro fasi distinte di una rivoluzione destinata a ribaltare di nuovo i rapporti fra oriente e occidente in una versione aggiornata del risiko della geopolitica.

A fine novembre dello scorso anno erano i giovani e gli studenti a monopolizzare spontaneamente la piazza con canti e balli per protestare contro il voltafaccia filo-russo del presidente. A dicembre, poi, la mobilitazione ha toccato tutte la fasce sociali in difesa delle libertà civili contro le manganellate brutali della polizia. Le prime vittime, in seguito, hanno trasformato con il nuovo anno la gente di Piazza Indipendenza in un movimento di resistenza alle forze speciali, libere di agire impunemente in ogni angolo della capitale .

Adesso è il momento del lutto, del dolore e del ricordo. Più di cento persone, tra cui molti ragazzi, sono state trucidate a metà febbraio dai cecchini sul Maidan e nelle vie collaterali. E’ domenica e una processione incessante di gente comune, giovani, anziani, intere famiglie con i bimbi in spalla arrivano in piazza portando mazzi di rose a garofani rossi in memoria degli scomparsi. Le fotografie dei morti contornate da ceri costellano via Gruscevskaia ed il Maidan che porta evidenti i segni degli scontri. I marciapiedi si mostrano nudi, scorticati dai manifestanti che hanno utilizzato le pietre come armi improprie per difendersi dalle cariche delle forze anti-sommossa.

Dell’edificio dei sindacati, il quartiere generale della sollevazione, rimangono solo le pareti annerite dall’incendio appiccato dolosamente dalla polizia per snidare i rivoltosi. L’acre puzzo dei roghi non ancora estinti pervade l’aria. Le barricate sembrano discariche a cielo aperto con cumuli di rifiuti e scarti di ogni tipo ammassati alla rinfusa tra reticolati, pile di copertoni e blocchi di cemento. C’è tanta commozione ma si avverte anche un senso di sollievo. E’ caduto il regime ed è cominciata, fra mille incognite, la quarta fase della rivolta, quella della liberazione.

La residenza di Yanukovic si trova a una decina di chilometri dalla capitale. Nel primo fine settimana dopo la fuga dell’ex-presidente si è trasformata in meta di svago per i cittadini di Kiev fino ad allora ignari delle abitudini “a cinque stelle” del capo di stato. Con un tassista concordo a gesti e mugugni ed una stretta di mano il prezzo. Io non parlo ne’ ucraino ne’ russo, lui non sa ne’ inglese ne’ francese ma ci intendiamo subito. Si chiama Yuri ed è curioso come me di visitare la dacia in cui Yanukovic era solito trascorrere le ore di relax lontano dai palazzi del potere.

E’ lunedì ma l’affluenza della gente non si è ridotta. Lunghe file di auto intasano già un paio di chilometri prima tutte le strade di accesso. Siamo costretti ad un parcheggio di fortuna e ad una tranquilla camminata tra gruppi di comitive festose in libera uscita come fosse una gita fuori porta. Tutti vogliono vedere e toccare con mano i lussi e gli eccessi dell’uomo più odiato del Maidan. La residenza è situata in un grande parco sulla riva del fiume Dnipro.

Ci sono diverse palazzine in stile presumibilmente per i vari momenti della giornata con un grande edificio centrale in legno tra stagni artificiali popolati da cigni e prati provvisti meticolosamente di irrigazione a spruzzo. La gente sciama ovunque cercando di sbirciare dalle finestre all’interno della villa per catturare i segreti della vita intima dell’ex-uomo forte del paese. Osservo Yuri sgranare gli occhi incredulo. Possibile che in Ucraina nessuno fosse al corrente di tale sfarzo? Dove erano stampa e opposizione quando fu costruita la dacia? Da qualche parte saranno pur state messe a bilancio le enormi cifre di spesa.

Difficile credere che Arseny Yatseniuk, il nuovo primo ministro, possa rispecchiare fedelmente l’immagine del Maidan. Nonostante abbia solo solo trentanove anni è uno dei politici di più lungo corso della scena di un Paese sceso in strada per invocare rinnovamento e cambiamenti radicali. Con lui al potere la rivoluzione del Maidan sembra assumere i contorni di una restaurazione. Come fosse un rito scaramantico tutti i leader di partito compresi il Partito delle Regioni, quello di Yanukovic, e il Partito Comunista ripetevano che era escluso il pericolo di secessione.

Ci ha pensato, poi, Putin a muovere le sue pedine sulla scacchiera calibrando in Crimea hard e soft power con l’utilizzo sapiente di vecchie e nuove tecnologie a sostegno di un’efficace campagna di propaganda a livello internazionale. Le nuove autorità di Kiev vacillano sotto i colpi della Grande Madre Russia, la stessa che nel 1994 aveva sottoscritto a Budapest con Stati Uniti e Gran Bretagna un memorandum dove si impegnava a garantire la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio dello smantellamento dell’arsenale nucleare ereditato dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Nemmeno i trattati internazionali hanno più valore ormai. Per il nuovo zar di Mosca sono carta straccia. E non sono certo le blande sanzioni euro-atlantiche a rendere trasparente all’opinione pubblica il vestito dell’imperatore. Yatseniuk, intanto, va in parlamento e promette al paese lacrime e sangue in cambio di un consistente pacchetto di aiuti finanziari dall’occidente per evitare la bancarotta. Qualcuno malignamente sostiene che ha vinto la piazza ma ha perso l’Ucraina. Io, però, mi rifiuto di crederci anche se gli ambulanti a Kiev vendono già i gadget in memoria della rivoluzione del Maidan.»

Parola d’ambasciatore

Dopo i vari articoli cui ho rimandato per cercare di sapere qualcosa della situazione in Ucraina, stasera pubblico un documento proveniente da una voce ufficiale e piuttosto autorevole. L’ambasciatore ucraino in Italia, Yevhen Perelygin, ha infatti scritto a Limes questa lettera:

“Da due settimane ormai il conflitto per la Crimea e l’Ucraina è al centro dell’attenzione dei ambasciatore_ucraina-309x203mass media occidentali e degli esperti di tutto il mondo, Italia compresa. E non c’è niente di sorprendente.
Più interessante è invece il fatto che gradualmente, ma in maniera molto decisa durante l’ultima settimana, sono cambiati i titoli dei giornali e le valutazioni degli esperti. Come mi ha detto un mio vecchio amico – un esperto autorevole di un paese occidentale – l’Ucraina sta perdendo la guerra dell’informazione contro la Russia. Anche qui, non c’è niente di cui meravigliarsi.
In primo luogo, noi – come si è visto in Crimea – seguiamo la tattica dell’opposizione pacifica. In secondo luogo, è facile convincere un partner per il quale, dati i suoi interessi, i tuoi argomenti sono una specie di ciambella di salvataggio. Infine, è molto difficile resistere a una macchina di propaganda affinata durante alcuni decenni.
Qual è il movente principale di questa campagna mediatica? Secondo alcuni esperti occidentali la Russia, invadendo la Crimea, si sta semplicemente difendendo: sta protteggendo i suoi legittimi interessi nella regione, interessi che per molti anni sono stati ignorati dai partner occidentali. Questa interpretazione delle azioni della Russia indubbiamente rispecchia la formula “la miglior difesa è l’attacco”. Tuttavia fino all’ultimo momento sono rimasto convinto che esistessero formule più civili per risolvere problemi, tra cui la più importante è il dialogo.
Cerchiamo di capire quali sono, secondo le opinioni degli esperti occidentali, questi legittimi interessi della Russia. Il più importante è l’opposizione a un ulteriore allargamento della Nato e il suo avvicinamento ai propri confini. A tale riguardo all’Ucraina si propone di valutare la cosiddetta “finlandizzazione”, cioè la politica della neutralità. Voglio ricordare che nel 2010 l’Ucraina ha dichiarato il suo status di paese “fuori dai blocchi militari”, affermandolo a livello legislativo nei “Principi della politica interna ed esterna”.
La possibilità di una nostra adesione alla Nato o all’Organizzazione del trattato della sicurezza collettiva era stata quindi esclusa a livello legislativo: la Russia non doveva preoccuparsene. Lo status di paese fuori dai blocchi, inoltre, non è stato scelto a caso. Si dà il caso che il concetto classico di “neutralità” non prevede la possibilità di un collocamento sul territorio del paese neutrale delle basi militari di uno Stato estero.
Ma come ben sapete a Sebastopoli si trova la base della Flotta del Mar Nero della Federazione Russa. Anzi, proprio nel 2010 il termine del collocamento della Flotta sul territorio dell’Ucraina è stato prolungato per un periodo da record fino al 2042. Quando abbiamo adottato queste misure senza precedenti eravamo senza dubbio convinti che la Russia avrebbe garantito la nostra sicurezza e l’integrità territoriale, in conformità al Memorandum di Budapest (1994). Ma come hanno dimostrato gli avvenimenti delle ultime settimane ci sbagliavamo profondamente.
La Russia ha rinunciato a svolgere le consultazioni con altri paesi-garanti in conformità all’art. 6 di questo trattato, con la scusa che il Memorandum è stato firmato con un’altra Ucraina e che con l’Ucraina di oggi Mosca non avrebbe alcun impegno. Come si suol dire, no comment…
Negli ultimi anni l’Ucraina si stava preparando alla firma dell’Accordo di associazione con l’Unione Europea. L’Ue non è la Nato e qui non si trattava di una membership, ma di un approfondimento della collaborazione economico-commerciale. Ciononostante, abbiamo riscontrato dei forti contrasti da parte della Russia. Considerato che – appunto – non si trattava della Nato ma dell’Ue, i nostri partner russi avevano poche argomentazioni.
La loro tesi principale era che, dopo la firma dell’area di libero scambio con l’Ucraina, ci sarebbe stato un flusso di prodotti europei di bassa qualità verso la Russia. Come se le norme sull’origine del prodotto fossero abolite. Per quanto riguardava l’Ucraina, secondo i russi questa avrebbe sostenuto perdite enormi perché la creazione dell’area di libero scambio con l’Ue avrebbe comportato automaticamente la rinuncia ai legami con Mosca e con l’Unione doganale.
Abbiamo cercato in tutti i modi possibili di spiegare ai partner russi che non si trattava della scelta tra l’uno o l’altro. Proponevamo di esaminare la possibilità di approfondire la collaborazione tra l’Ucraina e l’Unione doganale nel formato 3+1 (senza la membership) oppure nell’ambito dell’area di libero scambio tra i membri della Comunità degli Stati Indipendenti. Ma tutti i nostri tentativi sono stati vani.
Il perché è presto detto: l’avvicinamento di Kiev a Bruxelles non rientrava assolutamente nei piani della Russia. Mosca ci proponeva di entrare nell’Unione doganale; poi i negoziati con l’Ue sarebbero stati condotti dall’Unione Doganale, non direttamente dall’Ucraina. Per i russi, entro il 2015 deve essere formata l’Unione Euroasiatica e l’Ucraina deve esserne parte integrante.
Per noi invece il problema non è che la Russia abbia lanciato un suo progetto: ne ha tutto il diritto. Tra l’altro, se questo progetto si dimostrasse efficace e attraente, non escludo che l’Ucraina possa esservi interessata. Ma il problema riguarda la sostanza del progetto stesso. Ultimamente si ha l’impressione sempre più solida che non si tratta di un tentativo di creare qualcosa di nuovo, ma di un desiderio tenace di ricostruire il vecchio. I metodi, gli strumenti e la retorica stessa (vedi le ultime dichiarazioni del ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa sulla questione ucraina) dei dirigenti russi ci fanno tornare ai tempi dell’Unione Sovietica.
Ma per il popolo ucraino, sopravvissuto alla tragedia dell’Holodomor (la carestia artificiale), non esiste niente di più terribile di un possibile ritorno al passato sovietico. Proprio per questo molti monumenti dedicati a Lenin in Ucraina sono stati abbattuti nei giorni della rivolta di piazza Maidan.
Alla luce di quanto sopra, è chiaro che in Ucraina non c’è una lotta tra Oriente e Occidente, come scrivono alcune testate italiane, ma tra passato e futuro. La comprensione degli obiettivi di Mosca ci fa concludere che la crisi non si limiterà alla Crimea.
La Crimea senza le regioni orientali dell’Ucraina è distinata a morte lenta. La penisola dipende profondamente dall’Ucraina continentale: per quanto riguarda l’energia elettrica all’85%, per l’acqua potabile al 75%, senza parlare delle infrastrutture di trasporto. Perciò impostare una trattativa nei termini “prendete la Crimea e lasciate tutto il resto” non ha nessun senso, sopratutto per la Russia.
I tentativi persistenti di destabilizzare tutto il territorio ucraino – con l’obiettivo di crearci gli stessi problemi che l’Ue affronta ai suoi confini meridionali – si spiegano così. Ciò non significa che l’Ucraina non sia pronta a sedersi a tavolo delle trattative. Anzi, sosteniamo animatamente il dialogo e chiediamo ai nostri partner occidentali, Italia compresa, di fare il possibile per promuoverlo. Siamo inoltre consapevoli che il dialogo presume dei compromessi reciproci.
Tuttavia, ogni compromesso ha le sue “linee rosse”. Per noi, la sovranità e l’integrità territoriale d’Ucraina sono una linea rossa.”

La lingua batte tra Russia e Ucraina

firma-putin-Ancora qualche contributo sulla questione ucraino-russa.
Il primo articolo che ho già proposto stamattina in due quinte è di particolare interesse per il liceo linguistico perché riguarda proprio la questione linguistica: un bilinguismo di fatto si contrappone a una volontà politica monolinguistica che vede proprio nell’idioma un simbolo dell’identità nazionalistica. L’articolo è tratto da Il Manifesto di oggi: questione-linguistica-uno-strumento-di-incomprensione-politica
Il secondo è tratto da Rainews24 e riguarda un possibile allargamento dello scontro: la Moldavia con le due regioni della Gagauzia e della Transnistria: Accanto all’Ucraina, la Moldavia_ tra incudine e martello – Rai News

Ancora su Ucraina, Russia, Crimea e non solo

putin-boardtable-reutersMentre il presidente russo Vladimir Putin sta parlando alla Duma, pubblico degli articoli in pdf molto vari e che ho raccolto da internet. Negli allegati si trovano i rimandi ai siti originali. Il tutto va ad aggiungersi al post Piazza Piazza del 5 marzo.

Antonello Folco Biagini_ uno sguardo storico sulla crisi ucraina

Il bivio di Putin, tra sete di potere e diplomazia _ Europa Quotidiano

Il referendum in Crimea_ scenari per un’era post-imperiale _ FuturAbles

Rabbino pestato a Kiev, in aumento atti razzisti – Rai News

Romania-160-miglia-marine-dalla-Crimea-149285

Tatari di Crimea, il fattore islamico tra Russia e Ucraina

Piazza Piazza

Ucraina mapHo appena letto due articoli molto interessanti sulla questione Ucraina e visto che non voglio traumatizzare nessuno (soprattutto per la lunghezza apparente del secondo) li metto in allegato come pdf. Il primo, decisamente più breve, è opera di Marcello Foa ed è comparso originariamente su Il Giornale ieri pomeriggio: la focalizzazione è sullo scontro Obama-Putin. Il secondo, più lungo, è un alto volo sulla crisi ucraina, quindi con una prospettiva più ampia. Va detto che è stato scritto il 22 febbraio, quindi non tiene conto, pur prospettandola, della crisi in Crimea. L’ho preso da Limes, che non ne è la fonte originaria, come si evince dall’allegato. L’autore è Dario Quintavalle. L’ho trovato molto piacevole e di facile lettura: dovete affrontarlo se desiderate capire il senso del titolo di questo post 😛

Crisi Ucraina, quello che non viene detto – Vatican Insider

Due o tre cose che so sull’Ucraina

Tra critica e apologia

In Georgia, terra natale di Stalin, forte è ancora la discussione attorno alla considerazione del dittatore. Ne scrive Lorenzo Cremonesi su Il club de La lettura del Corriere.

“Tornare a Stalin per superarlo, e finalmente seppellirlo. È schizofrenico il rapporto dei Workers-remove-the-statue-006.jpggeorgiani con il loro «piccolo padre», simbolo imbarazzante di un passato che tanti vorrebbero morto e sepolto, ma che in realtà non passa affatto. Anzi, torna adesso a rinfocolare le polemiche sull’onda del progetto, in occasione dei 60 anni della morte, di riportare in pubblico quella massiccia statua in bronzo alta quasi sette metri che tre anni fa fu rimossa dal centro di Gori, la sua città natale, per erigerla — questa volta —proprio di fronte al museo a lui dedicato. Un trasloco di 500 metri, dal sito originario del 1952 fino alla piazza principale. Ma, seguendo l’intensità del dibattito, pare che ogni metro misuri decine di chilometri e soprattutto rappresenti visioni opposte della memoria collettiva, del rapporto con il gigante russo dall’altra parte del Caucaso e della narrativa fondante l’identità georgiana dagli anni insanguinati del Novecento profondo a oggi. «Stalin si può amare, oppure odiare. Ma raramente lascia indifferenti. Subito dopo la rivoluzione delle Rose, nel 2003 i fedelissimi del presidente filo-americano Mikhael Saakashvili hanno cercato di cancellarlo. Però senza successo. Ora gli uomini nuovi della svolta filo-russa voluta dal neopremier Bidzina Ivanshivili, vincente alle elezioni dell’ottobre 2012 (controlla 85 seggi dei 150 complessivi, ndr), vorrebbero riproporlo con la stessa retorica della dittatura di mezzo secolo fa. Il che è egualmente assurdo», sintetizza Lasha Bakradze, direttore del museo della Letteratura georgiana e docente di Storia dell’Urss all’università di Tbilisi.

Dittatori, storia e memoria nazionali: il tema gli sta a cuore. Due anni fa è stato a Braunau, cittadina natale di Hitler in Austria, dove ha incontrato il sindaco assieme a quello di Predappio. «Stalin, Hitler e Mussolini hanno tanto in comune. Non ultima la necessità di riflettere sul racconto storico alle nuove generazioni», sostiene. La sera del 30 gennaio, Bakradze ha reso pubblici i risultati del sondaggio sponsorizzato dal noto istituto statunitense, Carnegie Endowment for International Peace, in cui risulta che circa un quarto dei quasi cinque milioni di georgiani si esprime senza riserve a favore dell’era staliniana e giustifica il Gulag. Una percentuale simile è all’opposto assolutamente negativa. E così si spiega: «I più anziani sono nostalgici, rimpiangono Stalin come un’icona della loro gioventù. Sono le vittime imbelli della modernizzazione, cresciute nel regime garantista socialista, e si sono impoveriti nel nuovo sistema economico liberale. Altri lo ammirano non in quanto leader comunista, ma perché fu un georgiano che acquistò fama mondiale. Stalin è il nostro georgian boy che si è fatto rispettare all’estero, un atteggiamento provinciale, tipico dei nazionalisti nei Paesi piccoli e insicuri. In verità,manca un processo di revisione critica approfondito. E senza ripensare, studiare, tornare alle fonti della propria storia, non si va lontano. Si è cercato di rimuovere Stalin e lui ci sbarra la strada. Perché la storia non va dimenticata, altrimenti torna a condizionare con un effetto boomerang che sorprende gli impreparati». Parole puntualmente confermate dalla visita ai luoghi più noti che vorrebbero rappresentare la memoria recente della Georgia. Vai a Tbilisi, la capitale, e il Museo dell’occupazione sovietica raffigura Stalin come una sorta di Satana in Terra, il persecutore numero uno del popolo georgiano, così crudele e implacabile che al momento delle grandi purghe, a metà degli anni Trenta, decise di massacrare anche i vecchi compagni che l’avevano conosciuto giovanissimo tra le cellule di cospiratori comunisti di Gori. «Avrebbero potuto contraddire la narrativa agiografia ufficiale del regime, andavano eliminati», dice una delle giovani guide. La prima sala dell’esposizione documenta i massacri dei nobili e degli ufficiali georgiani ai tempi dell’invasione sovietica del 1921. Foto ingiallite di intere famiglie spazzate via. I resti bucherellati da raffiche intense di proiettili di un vagone in legno dove i difensori dell’indipendenza nazionale furono uccisi a centinaia. Viene automatico il parallelo con la narrativa polacca dell’eccidio dei propri quadri militari a Katyn, un ventennio dopo. «La propaganda sovietica ha avallato quei bagni di sangue», sottolinea Giorgi Kandelaki, eletto giovanissimo nel 2008 (aveva solo 25 anni) al Parlamento tra le file del Movimento unito nazionale, il partito di Saakashvili. «Dopo la caduta dell’impero zarista, la Georgia era rapidamente assurta alla dignità di Paese indipendente, pienamente inserito nella tradizione democratica occidentale. Stavamo entrando nella Lega delle Nazioni. Poi ci fu l’invasione e per quieto vivere l’Europa, a cui guardavamo con tante speranze, ci abbandonò al nostro destino», aggiunge per spiegare i motivi del radicato filo-americanismo tra i ranghi del suo partito sin dall’indipendenza guadagnata a fatica dopo il crollo dell’Urss, ormai oltre vent’anni fa. Da qui al parallelo con le recenti tensioni, che segnano il braccio di ferro con Mosca per il controllo dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud, il passo è breve. «Nel 2008 siamo entrati in guerra per difendere i nostri confini. Non dobbiamo farci illusioni. Le aspirazioni imperiali russe sulla Georgia non sono mai scemate. La nostra unica speranza è il sostegno occidentale», ribadisce. Nella seconda sala del museo i morti tra i soldati delle unità georgiane inquadrate nell’Armata rossa e spedite a contrastare l’invasione italo-tedesca nella Seconda guerra mondiale vengono equiparati alle vittime politiche della persecuzione comunista. «Partirono in 700 mila, 400 mila non sono tornati. Mandati a morire per ordine di Mosca», denunciano le didascalie in toni che però sollevano non poche perplessità anche tra quei circoli intellettuali georgiani che sono ben contenti di prendere le distanze dalla Russia di Putin.

Tutto diverso invece il museo dedicato a Stalin nel centro di Gori, fossilizzato nell’immagine del dittatore mummificata dalla ben nota coreografia trionfante e ossessiva dell’Unione Sovietica al tempo della sua massima potenza. Dista solo una settantina di chilometri dalla capitale, ma è come se fossimo in un Paese totalmente altro. Tbilisi e Gori, la critica radicale da una parte e l’apologia adorante dall’altra: le due «narrative» fanno a pugni tra loro in modo talmente stridente, estremo, persino paradossale, da far quasi credere sia una scelta voluta. «E invece no. Siamo alla guerra di propaganda, non c’è stato ancora alcun tipo di riflessione sistematica. Di fronte alle contraddizioni si lasciano le cose come stanno, anche a costo di cadere nel ridicolo», confessa la direttrice del museo di Gori, Liana Okropiridze. Qui permane praticamente immutata l’esaltazione tradizionale sovietica prima maniera dello Stalin figlio del popolo, costruttore dell’economia nazionale e condottiero vittorioso contro la barbarie nazista. Il museo venne eretto nel 1957, quattro anni dopo la sua morte. Lo volle Krusciov, che pure aveva già da tempo avviato la destalinizzazione, per accattivarsi i comunisti georgiani. Nel giardino sono ancora esposti la semplice abitazione in legno a un piano dove lui nacque nel 1879 e il vagone ferroviario attrezzato come ufficio in cui viaggiava spesso. «Stalin aveva paura di volare, preferiva il treno. A costo di passarvi settimane intere», spiega puntigliosa e con un inglese da manuale Olga Topchisheili, la guida che lavora qui da tre decenni e si dice «entusiasta» del ritorno della statua in città: «Così attirerà più turisti». I numeri parlano chiaro dal registro del museo: i visitatori sono in crescita e in grande maggioranza stranieri. Nel 2011 sono stati oltre 24.500, di cui solo il 10 per cento georgiani. Nel 2012 la cifra è salita a 31.655, gli stranieri a quasi 27 mila. Al visitatore italiano mostra fiera i doni arrivati negli anni dai «compagni» che militavano nel più grande Partito comunista occidentale. «Dalle donne italiane di Mantova a Giuseppe Stalin campione della pace», si legge cucito a mano in filo rosso su una colomba di pezza bianca conservata in una bacheca di vetro. In un’altra sta una botticella di vino in legno chiaro con la dicitura: «Dai comunisti milanesi». Unica concessione al mutare dei tempi è una stanzuccia nel sottoscala, dove nell’ultimo anno è stata organizzata frettolosamente una minuscola esposizione in ricordo delle vittime dello stalinismo originarie di Gori. C’è la ricostruzione di una cella dal soffitto basso con accanto l’ufficio degli interrogatori della polizia segreta, sul muro si leggono i nomi di una trentina di deportati mai più tornati dalla Siberia. «In effetti non tutto era perfetto. Ci furono anche ingiustizie», ammette la guida arrossendo imbarazzata. Poco lontano, nella piazza centrale dove stava la statua di Stalin, adesso c’è un grande parcheggio. Le auto sono per lo più Suv giapponesi, Bmw e Skoda da decine di migliaia di euro; stridono con la povertà delle abitazioni. Un paio di strade oltre la zona del centro i quartieri appaiono decrepiti, i muri scrostati, i palazzi sono casermoni grigi in perfetto stile sovietico anni Cinquanta. Il vecchio e il nuovo convivono spalla a spalla senza che uno prevalga sull’altro, sono lo specchio di questa fase di transizione caotica, dominata dall’incertezza. «La sera tra il 24 e 25 giugno 2010 arrivarono le ruspe senza preavviso. Faceva buio. Illuminarono la scena con gigantesche lampade al fosforo appese allo stabile del municipio appena di fronte. La statua era il simbolo della nostra città. Venne imbragata e smontata rapidamente. La portarono via come ladri nella notte. Vergogna. Avevano paura della reazione della popolazione. Noi bambini ci giravamo attorno in bicicletta. Era un punto di ritrovo per tutti. Non l’hanno neppure cancellata dalle cartoline. Per distruggere il piedestallo di marmo e pietra ci vollero altri due giorni», ricorda Lella Bedoshvili, 39 anni, cameriera al Cafè Hause, il bar che si affaccia direttamente di fronte al municipio, scontenta che la statua non torni esattamente dove stava prima.

Furiosamente avverso a qualsiasi forma di commemorazione è per contro il 41enne Jacob Jugashvili, pronipote del dittatore e uno dei pochi familiari ancora in vita, che viaggia di continuo tra Mosca e Tbilisi. «Ipocriti coloro che vogliono la statua. Stalin venne tradito e ucciso dal suo partito. Siamo vittime di una gigantesca cospirazione», afferma aggressivo, a testimonianza di quanto sia emotivamente difficile essere discendenti di un personaggio famoso. Favorevole al compromesso per motivi di opportunità si dice invece il sindaco di Gori, il 51enne David Raznadze, strenuo militante della svolta pro-russa voluta da Ivanishvili. «Ero contrario alla rimozione della statua. Fu una decisione imposta da Saakashvili. Non che io sia stalinista, tutt’altro. Ma alla maggioranza dei quasi 60 mila abitanti di Gori la statua piaceva. E, soprattutto, perché offendere i vicini russi? Sono i nostri partner economici naturali. Io penso a un modello di integrazione nel Caucaso che si rifaccia a quello tra i Paesi dell’Europa unita. Sovranità politiche separate, ma stretta cooperazione economica. Ora è giusto erigere la statua di fronte al museo, una soluzione che dovrebbe accontentare un po’ tutte le parti», spiega nel suo ufficio. A conferma della sua argomentazione sottolinea l’importanza del nuovo accordo per la ripresa dell’esportazione del vino georgiano sul mercato russo, che era stata bloccata da Mosca nel 2006. «Meglio vendere il nostro vino ai russi, che fare la fila per entrare nella Nato», aggiunge, in aperta polemica con l’atlantismo del presidente. Ben venga dunque il gigante di marmo. Un accomodamento che raccoglie consensi anche tra i più critici a Gori. Dopo tutto Stalin era uno di loro. «I russi ci hanno fottuto», esclamano sarcastici. «Ma Stalin ha fottuto i russi».”

Due pronomi e un verbo

Ci sono articoli che corrono il rischio di passare inosservati. Questo, di Chiara Mariani per Sette del 7 dicembre, è uno di quelli. Come pure questo post che pubblico quasi all’una di notte. Eppure sarebbe un peccato perché vi si racconta di un libro che ora ho desiderio di leggere e che tratta di una grande storia di amore, dolore, attesa, morte e resurrezione. Parla di come hanno fatto 1246 lettere a salvare un uomo passato da Buchenwald al gulag…

Il 1917 non è solo la data della Rivoluzione di Ottobre. E’ anche l’anno di nascita di Lev (il Orlando-Figes-Qualcosa-di-piu-dell-amore_main_image_object.jpgleone) e Svetlana detta Sveta (la luce), uno dei momenti più infausti per venire al mondo in Russia. “Qualcosa di più dell’amore” di Orlando Figes racconta la storia della loro straordinaria passione attraverso 1246 lettere, scritte dal 1946 al 1954, che i due si scambiano tra il Gulag di Pechora, a pochi chilometri dal Circolo Polare Artico dove Lev è rinchiuso, e Mosca dove abita Sveta: due epistole la settimana. I due giovani si incontrano nella capitale, nelle aule del prestigioso Istituto di Fisica Lebedev. Tra loro vi è uno sconosciuto Andrej Sacharov. Si nutrono delle note del violino di David Oistrach, dei versi dell’Achmatova, Blok, Pushkin e Majakovsky, sono fiduciosi nel futuro radioso del paradiso del lavoratore dove l’ottimismo è d’obbligo e la parola depressione è bandita. Sono gli anni delle prime ondate del Terrore staliniano che culmineranno tra il 1937 e il 1938, quando un milione e trecento mila nemici del popolo sono arrestati e mezzo milione fucilati, tra questi militari d’alto rango, insegnanti, sacerdoti. Troppi per poter affrontare con fiducia di lì a poco una guerra che mobiliterà tutti e costerà all’Unione Sovietica 27 milioni di cittadini. Il mite e poetico Lev Mischenko, come la bella e brillante Svetlana Ivanova, è un membro del Komsomol, la gioventù comunista, crede nell’idea socialista del progresso attraverso la scienza e la tecnologia e ritiene suo dovere servire la Patria minacciata dall’invasore. Imbracciate le armi è fatto prigioniero dai tedeschi, è trasferito a Buchenwald, dove si rifiuta di collaborare con il nemico. Capita nelle mani degli americani che gli offrono di impiegare il suo talento negli Stati Uniti, come fisico nucleare. Rifiuta, l’amore lo richiama in patria. La fine del conflitto mondiale per Lev segna però l’inizio di un nuovo incubo. Le autorità sovietiche lo condannano a dieci anni di gulag con la falsa accusa di aver collaborato con il nemico durante la prigionia. Da adesso in poi lo distingue un numero: l’articolo 58-1(b), riservato ai soldati traditori della patria, l’imputazione più ingiuriosa che priva il condannato del rispetto e della fiducia altrui persino a fine pena.

Il suo animo è troppo delicato, non se la sente di turbare Sveta, che non vede e di cui non sa niente da cinque anni, con notizie sulla sua sorte. Lui non ha fratelli o genitori con cui comunicare, è orfano dall’età di tre anni, da quando in ospedale vede un’infermiera portare tra le mani un oggetto rosso palpitante: il cuore della mamma che è appena stata fucilata. Il papà fa la stessa fine condivisa da molti altri “borghesi”. Lev preferisce così scrivere a una zia. Quest’ultima si affretta a fare quello che farebbe ogni donna: se ne infischia dell’eventuale turbamento ed informa la ragazza degli ultimi eventi. Nasce una corrispondenza preziosa, uno squarcio nell’anima di due innamorati che per troppo pudore non menzionano quasi mai la parola amore. Dirà lei in un commiato: “Il fatto è che voglio dirti soltanto tre parole: due sono pronomi e una è un verbo”. Quando Sveta lo interroga sulle sue necessità urgenti, se abbia bisogno di medicine, vestiti, cibo, carta o penna, Lev risponde laconico, certo di chiedere l’indispensabile, unica fonte di sostentamento e di speranza: “mandami parole, parole, parole”. In apparenza la scrittura di lei è priva di sfumature romantiche. Appartiene all’intelligenzia tecnica sovietica oppressa dal Diamat, il materialismo dialettico, il fondamento “scientifico” del marxismo-leninismo che denuncia il persino i fisici sedotti dalla teoria della relatività e la fisica quantistica perché idealiste e incompatibili con il credo del momento. Per superare il condizionamento culturale si affida così ai versi dei poeti russi, alla propria tenacia pratica e al proprio coraggio: scrive, scrive, scrive fino a quando trova il modo, illegale ed estremamente pericoloso, di raggiungerlo. Anche solo per pochi momenti. Ci saranno cinque incontri in quasi nove anni. Ogni volta percorre tra andata e ritorno 4340 chilometri. Lo stile di Lev ricorda la scrittura del XIX secolo con slanci lirici sorprendenti, soprattutto perché pronunciati da un uomo condannato ingiustamente alle crudeltà del gulag in una zona immersa nell’inverno nove mesi l’anno: “Tutto quello che è rimasto è il cielo… le stelle sono emerse dalla loro ibernazione estiva (la fine delle notti bianche ndr) e anche di questo sono grato”.

Il libro di Figes non ha solo il merito di riportare alla luce un carteggio, contrabbandato pezzo per pezzo dalla guardie e dai lavoratori volontari del campo di lavoro, che rivela a quali vette sia capace l’animo umano. Lo scambio epistolare di questi due giovani brillanti racconta senza sconti la realtà ai tempi di Stalin, il cui sistema si basava sulla graduale fusione tra Gulag ed economia civile, un’economia di schiavi che permetteva la creazione a basso costo delle grandi opere divenute il simbolo dei risultati postbellici dell’Unione Sovietica. Nelle sue lettere Lev racconta gli sforzi per attivare con l’ingegno, a discapito dei pochi mezzi, la centrale in cui lavora, descrive i caratteri dei suoi amici, le piccole gentilezze che rendono la vita possibile tra burocrati crudeli e incompetenti, le meschinità che conducono al crimine. Sopporta le atrocità grazie alle missive di lei perché ogni sua parola è una resurrezione e le sue lettere “sono tutta la mia biblioteca”. Sveta ragguaglia sulla nuova vita nella capitale, “Una buona metà della popolazione adesso vive in condizioni peggiori di quando eravamo in guerra”, e sui cambiamenti nelle abitudini. Sappiamo come si veste (“il cappotto verde è ancora vivo”), come si reca all’Istituto di ricerche, quali sono i rapporti tra le persone, cosa può dire e cosa deve celare. Neppure l’amnistia concessa dopo la morte di Stalin nel 1953, che liberò ladri e assassini, accorcia l’agonia di Lev, liberato solo alla fine del 1954 a fine pena. Il Leone e la Luce si sposano nel 1955, l’anno in cui nasce Anastassja (la Ressurezione). Più tardi nascerà anche Nikita, forse in omaggio a quel Kruschev che nel 1956 aveva denunciato Stalin e il suo culto della personalità, cancellando con un colpo di spugna l’onta di un tradimento mai commesso che pesava sul cuore di Lev, e che anche da uomo libero condizionava pesantemente tutta la sua vita. Forges va a trovare la coppia a Mosca nel 2008, un anno dopo aver scovato incidentalmente il carteggio quasi negletto, l’anno in cui morirà Lev. Sveta lo segue nel 2010. Riposano l’uno accanto all’altra.

22.000 colpi di pistola

Nella notte tra venerdì e sabato della scorsa settimana (erano le 4.15 quando ho guardato la sveglia) ho finito di leggere “L’inverno del mondo” di Ken Follett, il secondo libro della trilogia The Century (l’ultimo volume dovrebbe uscire tra due anni). Si parla, in breve, della II guerra mondiale e dintorni e l’autore sta ben attento a creare una ricostruzione storica che non condanni i disastri del nazismo senza stigmatizzare la realtà russa (e ciò che fecero i soldati russi alla popolazione tedesca, di Berlino in particolare). Tutto questo mi è venuto in mente leggendo, oggi, la posta del Corriere, in cui Sergio Romano risponde a un lettore. Ne parleremo, dopo le vacanze di Natale, nelle quinte.

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Lettore: “Perché sull’eccidio di Katyn, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, calò il silenzio? Anche gli Stati Uniti hanno coperto ciò che Stalin e Beria avevano fatto nel 1940. Perché preferirono tacere? Perché si è voluto coprire una azione di cui tutti sapevano e mettendo in evidenza solamente i crimini contro gli ebrei? Perfino Gorbaciov sapeva. Eltsin fu forse l’unico che ha tentato di far luce.”

Sergio Romano: “Caro Binelli, dopo la fine della guerra, gli Alleati vollero che la vittoria fosse coronata da un processo che avrebbe condannato le guerre di Hitler e rivelato al mondo la spietata politica con cui il regime nazista, tra l’altro, aveva sterminato circa sei milioni di ebrei. Occorreva che alla punizione politica e militare si accompagnasse una punizione giudiziaria. Se gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia avessero ufficialmente sollevato il problema dell’eccidio degli ufficiali polacchi seppelliti nelle fosse di Katyn, scoperte dalle forze armate tedesche nella fase iniziale del conflitto, il processo di Norimberga non avrebbe avuto luogo. Mosca aveva attribuito il massacro alla Germania hitleriana e non avrebbe mai permesso che la liturgia processuale di Norimberga mettesse l’Unione Sovietica, sia pure incidentalmente, sul banco degli accusati. Aggiungo che accanto a questa motivazione etica e giuridica vi fu anche, forse soprattutto a Washington, un calcolo politico. Alla conferenza di Yalta del febbraio 1945, due mesi prima della sua morte, Franklin D. Roosevelt aveva discusso con Stalin la creazione di una nuova Società delle nazioni — l’Organizzazione delle nazioni unite — e aveva raggiunto l’accordo sulla composizione di un organo direttivo, il Consiglio di sicurezza, in cui le maggiori potenze avrebbero avuto il diritto di veto. Nel futuro sognato dal presidente americano vi era quindi, alla fine della guerra, il sogno di una gestione concordata degli affari mondiali. Una pubblica discussione sulla responsabilità del massacro di Katyn avrebbe reso questa prospettiva impossibile. Se la Guerra Fredda fosse scoppiata subito dopo la fine del conflitto, anziché tra la fine del 1947 e gli inizi del 1948, la rottura dell’alleanza avrebbe certamente influito sull’impostazione del processo di Norimberga. L’uomo che maggiormente si prodigò perché l’Urss riconoscesse le sue colpe fu Aleksandr Jakovlev (1923-2005), un comunista eretico e coraggioso che aveva preso posizioni eterodosse ancor prima di Gorbaciov ed era stato allontanato da Mosca con un incarico diplomatico. Durante la perestrojka ebbe compiti che gli permisero di allargare considerevolmente i confini della glasnost; e dopo la morte dell’Urss, Eltsin lo chiamò a presiedere una commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche. Quegli incarichi gli permisero di riaprire il «caso Katyn» e di rendere noti molti documenti segreti, fra cui il verbale della riunione del presidium del Comitato centrale del Partito comunista dell’Urss durante la quale fu autorizzata l’esecuzione degli ufficiali polacchi. Di quel verbale esistono fotocopie che circolavano a Mosca nel 1992. Riuscii a procurarmene una.”

Degna della mia voce interiore

«Ah, Marija Veniaminovna, noi la porteremmo in trionfo se solo… se solo Lei non credesse in Dio!». Ieri sera stavo sfogliando “Io donna” e mi sono imbattuto in un articolo su Marija Veniaminovna Judina, probabilmente la più grande pianista del ‘900. Le parole con cui ho iniziato il post sono di Pavel Fedorovic, uno degli esponenti del Partito Comunista russo. A lui risponde la Judina: «Non si darà mai il caso che mi portiate in trionfo, Pavel Fëdorovic. Non rinnegherò la fede e Dio. Sarete voi, invece, a venire tutti dalla nostra».

Da adolescente scrive: «Conosco solo una strada che porta a Dio, l’arte. Non voglio affermare che la mia strada sia universale, so che ne esistono altre. Ma sento che questa è per me. Questa è la mia vocazione. Io ci credo e credo anche nella forza che mi è data nel percorrerla. Io sono un anello di congiunzione nella catena dell’arte»

Scrive nel suo diario: «Una sera in cui il pubblico si ostinava a non volersi alzare al termine di un mio concerto nella sala Glinka dopo aver suonato già vari bis esco per l’ennesima volta e li vedo tutti lì seduti. “Ma siete ancora qui?”; e tutti di nuovo ad applaudire. “In questo caso vi reciterò delle poesie”. E recito Zabolockij, e poi Pasternak e si leva un uragano di applausi. Ma a causa dell’ottusità di qualcuno si vendicarono di me e i miei concerti a Leningrado si interruppero»

Nel 1933 la Judina viene assunta dal Conservatorio di Mosca e nel 1943 parte per il fronte, ma con come infermiera o interprete, come in un primo tempo avrebbe voluto, bensì per tenere concerti benefici alla radio o nelle sale della Leningrado stretta dalla morsa dei tedeschi. «È a questi anni che risale il leggendario episodio narrato dall’amico Sostancovic. Stalin ascolta alla radio il secondo movimento del concerto numero 23 K 488 di Mozart eseguito dalla Judina e ne rimane così colpito da chiedere immediatamente il disco, che però non esisteva trattandosi di un concerto eseguito in diretta. Convoca allora d’urgenza la pianista e l’orchestra in una sala di registrazione e ottenuto il disco invia in ringraziamento alla Judina ventimila rubli, una cifra da capogiro per l’epoca. E la pianista risponde: “La ringrazio per il Suo aiuto, Iosif Vissarionovic. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso. La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della chiesa in cui vado”. Si dice che quel disco venne trovato sul grammofono la notte che trovarono Stalin morto nella sua dacia. Ma pochi sanno che la Judina aveva sempre suonato quel secondo movimento interpretandolo come un requiem per le vittime del gulag».

«Sì, voglio mostrare alla gente che si può vivere senza odiare, pur essendo liberi e indipendenti. Sì, voglio cercare di essere degna della mia voce interiore».

Una storia tutta da scoprire:

http://www.tempi.it/onda-speciale-su-marija-judina-la-pianista-che-ha-commosso-stalin#.UJ932oawXw8

http://www.ilsussidiario.net/News/Storia-della-Settimana/2009/3/30/MARIJA-JUDINA-La-pianista-che-commosse-Stalin/15235/

http://www.ilsussidiario.net/News/Musica-e-concerti/2010/8/17/MARIJA-JUDINA-La-pianista-dimenticata/106653/

http://www.meetingrimini.org/default.asp?id=673&item=4991

http://www.ilsussidiario.net/News/Musica-e-concerti/2010/8/23/MARIJA-JUDINA-Piero-Rattalino-la-pianista-immortale-all-ombra-del-regime/107574/

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