Il giorno di dolore che uno ha

IL GIORNO DI DOLORE CHE UNO HA (Ligabue, Secondo tempo)
Quando tutte le parole sai che non ti servon più
quando sudi il tuo coraggio per non startene laggiù
quando tiri in mezzo Dio o il destino o chissà che
che nessuno se lo spiega perché sia successo a te
quando tira un po’ di vento che ci si rialza un po’
e la vita è un po’ più forte del tuo dirle “grazie no”
quando sembra tutto fermo la tua ruota girerà.
Sopra il giorno di dolore che uno ha.
Tu tu tu tu tu tu…
Quando indietro non si torna quando l’hai capito che
che la vita non è giusta come la vorresti te
quando farsi una ragione vorrà dire vivere
te l’han detto tutti quanti che per loro è facile
quando batte un po’ di sole dove ci contavi un po’
e la vita è un po’ più forte del tuo dirle “ancora no”
quando la ferita brucia la tua pelle si farà.
Sopra il giorno di dolore che uno ha.
Tu tu tu tu tu tu tu tu tu…
Quando il cuore senza un pezzo il suo ritmo prenderà
quando l’aria che fa il giro i tuoi polmoni beccherà
quando questa merda intorno sempre merda resterà
riconoscerai l’odore perché questa è la realtà
quando la tua sveglia suona e tu ti chiederai che or’è
che la vita è sempre forte molto più che facile
quando sposti appena il piede lì il tuo tempo crescerà
Sopra il giorno di dolore che uno ha
Tu tu tu tu tu tu tu tu tu…
La canzone è stata dedicata da Luciano Ligabue al giornalista Stefano Ronzani, morto a causa della leucemia: “si ammalò gravemente e ci fu un momento della sua malattia in cui capii che le lunghissime chiacchierate sul farsi forza, sul darsi speranza, sul combattere in qualche modo il suo male in realtà avevano perso significato… Provai allora a comunicargli questa cosa nella maniera che la fortuna o il caso o qualcuno ha deciso che, tutto sommato, con me funziona: una canzone… Quindi in maniera, se vuoi, anche patetica, per il suo compleanno gli feci avere questo brano, totalmente riscritto rispetto all’originale. La canzone gli servì; mi raccontò che l’aveva aiutato ad aprire dei rubinetti che aveva bisogno di aprire. Poi era un critico musicale e vide la cosa pure sotto un altro profilo. “Questa canzone è troppo bella perché resti dentro un nastrino. Non ha senso che rimanga fra me e te, pubblicala”. Devo dire che sono molto contento del successo che ha avuto, proprio per la storia che c’è dietro.” (da “Vivere a orecchio”)
La situazione descritta, quindi, è quella di una persona gravemente ammalata per la quale non ci sono più parole per dare spiegazioni e per infondere coraggio: anzi, il coraggio più grande è quello che serve per cercare di risollevarsi e non stare nella disperazione. E’ inevitabile chiedersi perché sia capitato qualcosa di cui non si può attribuire la colpa ad alcuno: magari si possono tirare in ballo Dio, o il destino o altro. La vita sembra ingiusta rispetto ai criteri personali ed è evidente che non è possibile tornare indietro: già farsene una ragione diventa un’ottima cosa e permette di vivere più serenamente. E allora si riescono a vedere anche dei momenti migliori:
il vento si mette a soffiare e ci aiuta a sollevarci e magari a non dire “grazie, no” alla vita
il sole si fa largo tra le nubi e getta i propri raggi proprio là dove è più necessario per noi
la ferita brucia, ma il dolore è il segno che la pelle sotto è viva, pulsa e si sta ricreando
il cuore, benché ferito perché azzoppato, riesce a prendere un suo ritmo e a farci ballare
l’aria gira e soffia un po’ di aria pulita nei nostri polmoni
c’è la consapevolezza che la vita non è facile, ma è sicuramente forte e magari basta spostare un po’ il piede (dall’acceleratore?) per guadagnare un po’ di tempo.

Shomèr ma mi-llailah

Ancora un post con video (ho scelto la versione live per la gustosa intro del Guccio), testo e mia riflessione.

SHOMÈR MA MI-LLAILAH (Francesco Guccini, Guccini)
La notte è quieta senza rumore, c’è solo il suono che fa il silenzio
e l’aria calda porta il sapore di stelle e assenzio,
le dita sfiorano le pietre calme calde d’un sole, memoria o mito,
il buio ha preso con sé le palme, sembra che il giorno non sia esistito…
Io, la vedetta, l’illuminato, guardiano eterno di non so cosa
cerco, innocente o perché ho peccato, la luna ombrosa
e aspetto immobile che si spanda l’onda di tuono che seguirà
al lampo secco di una domanda, la voce d’uomo che chiederà:
Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell
shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell
shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell…
Sono da secoli o da un momento fermo in un vuoto in cui tutto tace,
non so più dire da quanto sento angoscia o pace,
coi sensi tesi fuori dal tempo, fuori dal mondo sto ad aspettare
che in un sussurro di voci o vento qualcuno venga per domandare…
e li avverto (sento), radi come le dita, ma sento voci, sento un brusìo
e sento d’essere l’infinita eco di Dio
e dopo innumeri come sabbia, ansiosa e anonima oscurità,
ma voce sola di fede o rabbia, notturno grido che chiederà:
Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell
shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell
shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell…
La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato,
sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato…
Ma io veglio sempre, perciò insistete, voi lo potete, ridomandate,
tornate ancora se lo volete, non vi stancate…
Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni
e resteranno di uomini e idee, polvere e segni,
ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà,
che la risposta sull’avvenire è in una voce che chiederà:
Shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell
shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell
shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell
shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell
shomèr ma mi-llailah, shomèr ma mi-lell, shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell…

L’ispirazione è la Bibbia, e precisamente pochi versi di Isaia 21,11-12, definiti da Guccini “una pagina di un’umanità incredibile”:
Oracolo su Duma.
Mi gridano da Seir:
«Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?».
La sentinella risponde:
«Viene il mattino, poi anche la notte;
se volete domandare, domandate,
convertitevi, venite!».”
Sono versi piuttosto criptici che qualcuno non riesce neppure ad attribuire al profeta Isaia. In effetti alla domanda posta da alcuni viandanti, pellegrini o semplicemente dei passanti (potrebbero essere degli abitanti della Duma, un’oasi della parte settentrionale dell’Arabia) alla sentinella, al guardiano, si contrappone una risposta ben poco convincente: si chiede quanto manca all’alba, anzi quante ore ci sono ancora di buio (probabilmente in riferimento al dominio assiro), e si ottiene quella che pare una banalità, cioè che il mattino verrà e poi ad esso seguirà di nuovo la notte (ci sarà sollievo all’oppressione assira, ma seguirà un’ulteriore periodo buio). Nient’altro se non l’invito a continuare a domandare, a non scappare, e a convertirsi…
La canzone si apre con un’ambientazione notturna desertica aperta ai sensi: il suono del silenzio, il calore dell’aria e delle pietre, il sapore di assenzio, il buio che nasconde le palme e fa dimenticare il giorno passato. Il protagonista che parla in prima persona è la sentinella, la vedetta, il custode illuminato di non si sa cosa: è in ricerca della luna ombrosa, una ricerca che sembra vana visto il buio che inghiotte tutto. La sentinella è ferma, immobile: ci sarà una domanda come un lampo secco e accecante che genererà un’onda di tuono. “A CHE PUNTO E’ LA NOTTE?”. La sentinella è in un non-spazio (“fermo in un vuoto in cui tutto tace… coi sensi tesi fuori dal mondo) e non-tempo e non-sentire (“da secoli o da un momento fermo… non so più dire da quanto sento angoscia o pace, coi sensi tesi fuori dal tempo”) in attesa della domanda. Inizia a sentire qualcosa, confuso e vago, un brusio: percepisce anche sé non come chiara voce di Dio (il profeta), ma una sua eco infinita. Già l’eco rimanda al senso dell’eternità, del ripetersi continuo: qui è accentuato dall’aggettivo infinita. E arriva la domanda, misto di fede e rabbia, comunque non sussurrata, ma gridata: “A CHE PUNTO E’ LA NOTTE?”.

Mi vengono alla mente le parole di Turoldo nella sua “La notte del Signore” (qui per intero).
“Perfino gli olivi piangevano
quella Notte, e le pietre
erano più pallide e immobili,
l’aria tremava tra ramo e ramo
quella Notte.
E dicevi:
«Padre, se è possibile…». Così
da questa ringhiera
quale un reticolato da campo
di concentramento, iniziava
la tua Notte.
Si è levata la più densa Notte
sul mondo: tra questa
e l’altra preghiera estrema:
«Perché, ma perché, mio Dio…».
Notte senza un lume: disperata
tua e nostra Notte. «Perché…?».

Gemme n° 89

La parte finale del film “La musica nel cuore” è stata la gemma proposta da E. (classe quarta). “Non sono esperta di musica, però questo concerto mi piace molto e ho bei ricordi legati a questa sequenza. Inoltre, nel finale del film, qui non presente si dice: “La musica è ovunque, basta saperla ascoltare”. Secondo me anche nel silenzio c’è la musica, basta saperlo ascoltare.”
C’è una vecchia canzone del 1968 di Tony Del Monaco che qualche anno fa è stata reinterpretata da Andrea Bocelli (qui insieme ad Elisa): tocca l’argomento del silenzio e secondo me è molto affascinante.

Gemme n° 45

La gemma proposta da S. (classe seconda) è composta da quattro citazioni. La prima è di Giordano Bruno: “Un’unica Forza, l’Amore, lega e dà vita a infiniti mondi”, l’amore come forza vitale e creatrice, capace di essere sostegno unico e indispensabile. La seconda è Di Jimi Hendrix: “La pazzia è come il paradiso. Quando arrivi al punto in cui non te ne frega più niente di quello che gli altri possono dire..sei vicino al cielo”. Ha detto S.:”Questa frase per me è significativa perché mi è capitato di essere esclusa e giudicata per il mio modo di essere. Ne sono uscita fortificata quando ho imparato a non badare al giudizio degli altri”. La terza frase è di Cicerone: “Finché c’è vita, c’è speranza”. S. ha valutato la speranza come uno dei valori fondamentali per lei. Infine una frase “con la quale voglio sottolineare l’importanza dell’amicizia e del riuscire a intendersi con uno sguardo, un cenno”. E’ una frase di Gandhi: “Se urli tutti ti sentono, se bisbigli ti sente solo chi ti sta vicino, ma se stai in silenzio solo chi ti ama ti ascolta..”.

Mi soffermo sulla seconda frase, quella di Jimi Hendrix, restando in ambito musicale e proponendo una vecchia canzone di Vasco Rossi. “Jenny non vuol più parlare, non vuol più giocare, vorrebbe soltanto dormire. Jenny non vuol più capire, sbadiglia soltanto, non vuol più nemmeno mangiare. Jenny è stanca, Jenny vuole dormire. Jenny ha lasciato la gente a guardarsi stupita, a cercar di capire le cose. Jenny non sente più niente, non sente le voci che il vento le porta. Jenny è stanca, Jenny vuole dormire. Jenny non può più restare, portatela via, rovina il morale alla gente. Jenny sta bene, è lontano… la curano, forse potrà anche guarire un giorno. Jenny è pazza, c’è chi dice anche questo. Jenny ha pagato per tutti, ha pagato per noi che restiamo a guardarla ora. Jenny è soltanto un ricordo, qualcosa di amaro da spingere giù in fondo. Jenny è stanca, Jenny vuole dormire.” E nel ritornello la voce di chi la conosce davvero: “Io che l’ho vista piangere di gioia e ridere, che più di lei la vita credo mai nessuno amò. Io non vi credo, lasciatela stare, voi non potete!”.

Il nostro giardino

Matrimonio Mary e Gian_192 fb

Venerdì scorso scrivevo della necessità, a volte, di fare silenzio (deserto) dentro di sé come strada verso l’autenticità. Oggi ho trovato questa citazione di Friedrich Nietzsche, sempre riguardo l’interiorità dell’uomo e la sua costruzione:

Dipende da noi modellare il nostro temperamento come un giardino. Piantarvi le esperienze, estirparne altre: costruire un tranquillo e bel viale dell’amicizia, conoscere segrete prospettive di silenzio – tenere pronti gli accessi a tutti questi begli angoli del proprio giardino perché non ci venga a mancare quando ne abbiamo bisogno.” (Friedrich Nietzsche, “Frammenti postumi – Autunno 1880″)

Un deserto da attraversare

C’è una canzone semplice semplice degli America, scritta all’inizio della loro carriera, nei primi anni ’70. Il compositore Dewey Bunnell afferma: “Ero alle prese con le accordature aperte. Ho accordato il LA giù verso il MI e ho trovato questo piccolo accordo, ho solo mosso le dita su e giù, e l’intera canzone è venuta praticamente da tra accordi. Volevo catturare l’immagine del deserto, perché stavo seduto in questa stanza in Inghilterra, ed era nuvoloso. La pioggia stava arrivando, e volevo catturare il deserto ed il caldo ed il clima secco”. L’ho riascoltata poco fa e mi sono venute in mente due cose, la prima più superficiale, la seconda meno. La prima è che si tratta di una canzone adatta a questa estate umida e fresca, come non si ricordava da anni (“Ed il cielo senza nubi, il calore era così caldo, ed il terreno secco…”). La seconda è legata all’immagine del deserto. Nella Bibbia esso è spesso il luogo della prova, della tentazione, della messa in discussione; è un luogo che non si può evitare, aggirare, sorvolare, ma solo attraversare e, addirittura, scegliere. E una volta che ci sei dentro ti ritrovi davanti a te stesso, sei tu a dover prendere in mano le redini di quel cavallo senza nome. Nessuno a indicarti o suggerirti la via per l’oasi e nessuno da accusare o su cui far ricadere le colpe dell’esserti perso: “Nel deserto puoi ricordare il tuo nome, perché non c’è nessuno che può farti soffrire”. Deserto è quello che a volte è necessario fare dentro per mettere a tacere il rumore esterno, le distrazioni, il superfluo che distoglie dall’essenziale. Il 20 agosto Paolo, un collega, scriveva su fb: “In una società così superficiale e arrogante come quella attuale e, come tale, continuamente sottoposta a un costante bombardamento di stimoli sensoriali, visivi e acustici, privi di senso profondo della vita, dove tutto deve essere il più velocemente consumato, diventa atto rivoluzionario sostare di fronte alla propria unicità per ascoltare la propria vocazione, per comprendere la propria missione e trovare la strada che ci indica il nostro cuore.” L’ultima strofa di “A horse with no name” dice: “Dopo nove giorni, ho lasciato libero il cavallo, perché il deserto era diventato un mare. C’erano piante e uccelli, e rocce e cose, c’erano sabbia e colline e spirali. L’oceano è un deserto, con la vita sotterranea ed un perfetto camuffamento sopra. Sotto le città giace, un cuore fatto di terra, ma gli umani non gli danno amore”.
(traduzione e citazioni sono prese da questo blog)

Quando Gesù tace

Bruno Maggioni è uno dei maggiori biblisti italiani. Ieri Francis, un’amica di fb, ha segnalato questo articolo di Avvenire: è piuttosto lungo ma ricchissimo di spunti di riflessione e approfondimento. L’argomento centrale è il rapporto tra Gesù e il silenzio. Mi sono permesso di evidenziare con il colore rosso due passi, il primo utile per le quinte, il secondo (brevissimo) per le seconde.
Gauguin. Getsemani“Quando si accenna al silenzio di Gesù, subito il pensiero corre al silenzio della passione. E difatti è qui che il silenzio ha raggiunto il punto più alto della sua forza espressiva. A volte il silenzio dice più della parola.
Ma i Vangeli non parlano soltanto del silenzio della passione. C’è anche il silenzio dell’uomo che resta ammutolito di fronte a Gesù, o perché la sua parola lo riempie di meraviglia, o perché la sua verità lo infastidisce. E c’è il silenzio di Gesù di fronte alle domande pretestuose, o inutili, di chi finge di interrogarlo. E c’è il silenzio che Gesù impone a chi vorrebbe parlare di Lui prima di averne intravisto la novità, che è la Croce.
Alla domanda posta da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Mc. 2,1-6), se fosse meglio di sabato, salvare una vita o perderla, i farisei, che lo stavano ad osservare, non risposero: «Ma essi tacevano». Non è il silenzio di chi non sa e si pone in ascolto, ma è il silenzio di chi osserva per accusare. È il silenzio dell’uomo il quale, non avendo ragioni da opporre a una verità che lo infastidisce, ricorre alla violenza per zittire il profeta che la pronuncia. E difatti l’episodio si conclude dicendo che «I farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio per farlo morire» (3,6). È questo un silenzio ostinato, immobile, consapevole, frutto di un cuore indurito, che non intende per nessuna ragione lasciarsi inquietare dalla domanda che lo pone in questione. Un silenzio irritante, uno di quei pochi casi in cui gli evangelisti annotano l’indignazione di Gesù: «Guardandoli tutti attorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori». Indignato e rattristato: la rabbia e la compassione. Dietro l’ostinazione che suscita lo sdegno, Gesù scopre il vuoto di quelle persone, e ne prova pena. Un uomo che si chiude all’ascolto, si chiude alla vita.
Di fronte alle domande insincere Gesù oppone il silenzio. Così di fronte ai farisei che gli chiedono “un segno dall’alto”: «E lasciatili, risalì sulla barca e si avviò all’altra sponda» (Mc. 8,13).
Dopo la purificazione del tempio (Mc. 11,27-33), pongono a Gesù una domanda importante («con quale autorità fai queste cose?»), ma insincera; ed egli non risponde. È inutile rispondere se non c’è la sincerità della ricerca. Gesù non sta al gioco di un dialogo per finta.
Commovente e maestoso è poi il silenzio di Gesù di fronte a Erode (Lc. 23,8-11), che lo interroga “con molte domande”. Ma sono domande curiose, superficiali, perché non sorgono dal desiderio della verità, ma dalla speranza di vedere qualche prodigio. E Gesù non risponde.
Più degli altri Vangeli, quello di Marco ricorda in più occasioni che Gesù imponeva il silenzio a chi voleva divulgare la sua messianità. Non permetteva ai demoni di parlare, «perché lo conoscevano» (Mc. 1,25.34). Ordina al lebbroso di non dire niente a nessuno (1,44). Raccomanda con insistenza che nessuno venga a sapere della risurrezione della figlia di Giairo (5,43). Anche ai discepoli comanda severamente di non parlare a nessuno della sua messianità (8,30). Ma poi, di fronte al sommo sacerdote e al sinedrio, sarà Lui stesso a proclamarla apertamente (14,61). Il fatto è che sono mutate le circostanze: prima la sua messianità correva il rischio di essere fraintesa, durante la passione non più. Il Messia non corre più il rischio di essere separato dalla Croce. Al contrario, è chiaro a tutti che la sua messianità va letta proprio a partire dalla Croce, sia per riconoscerla (15,39) come per rifiutarla (15,29-32). Non basta il coraggio dell’annuncio a fare un vero discepolo. Occorre anche lo spazio del silenzio necessario per cogliere la novità di Gesù. Altrimenti si parla di Lui senza comunicare quella novità che sorprende, di fronte alla quale non trova posto l’indifferenza (come sempre, invece, di fronte a ciò che è scontato), ma solo il sì e il no.
Stupisce il silenzio di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro (Gv. 11). Gesù lascia cadere nel silenzio la domanda delle sorelle: «Signore, ecco, il tuo amico è malato» (11,2). Gesù tace di fronte a una domanda che nasce dall’angoscia, a una domanda posta da una persona amata. Questo comportamento può sembrare sconcertante. In realtà è lo specchio del silenzio di Dio, un silenzio che lo stesso Gesù incontra nella sua preghiera nel Getsemani e nella sua domanda sulla Croce.
Il racconto del Getsemani (Mc. 14,32-42) è apparentemente un dialogo. Gesù parla cinque volte, sempre rivolgendosi a qualcuno: ai discepoli o al Padre. Ma nessuno gli risponde, quasi fosse un monologo. Le cinque parole di Gesù cadono nel vuoto, persino la sua preghiera al Padre.
Ma vogliamo commentare questo testo con una poesia di padre Davide Turoldo. Le sue ultime poesie sono state raccolte in un volume dal titolo Canti ultimi (Garzanti, Milano 1991). Ultimi perché sono gli ultimi canti della sua vita, ma ultimi anche perché dicono l’esperienza ultima dell’uomo, la più profonda, la più rivelatrice: l’uomo davanti alla morte, l’uomo nella sua nuda verità. Padre David ha vissuto la sua lunga esperienza di dolore con lo sguardo fisso alla Croce di Gesù. Nella sua poesia l’esperienza di Gesù e la propria si sovrappongono, vicendevolmente rischiarandosi. Fra le sue poesie più belle è forse da annoverare questa rilettura del Getsemani: «Ti invocava con tenerissimo nome:/ la faccia a terra/ e sassi a terra bagnati/ da gocce di sangue:/ le mani stringevano zolle/ di erba e fango:/ ripeteva la preghiera del mondo:/ “Padre, Abba, se possibile”…/ solo un ramoscello d’olivo/ dondolava sopra il suo capo/ un silenzioso vento…».
Il motivo del silenzio di Dio è ricorrente nella poesia di Turoldo: lo scorge nella passione di Gesù e lo ritrova in se stesso: «Ma non una spina Tu/ gli levasti dalla corona… e non una mano/ gli schiodasti dal legno…». L’esperienza del silenzio di Dio non dice la debolezza della fede, ma la profondità e l’umanità della fede, e porta al centro dell’uomo e della storia, là dove Dio e l’uomo sembrano contraddirsi, dove Dio sembra assente o distratto, dove la morte sembra avere l’ultima parola sulla vita e la menzogna sulla verità. Ma se compreso nel mistero di Cristo, allora il silenzio di Dio appare nella sua realtà, cioè come un diverso modo di parlare.
Difatti nel Getsemani il Padre ha parlato: non con il miracolo che libera dalla morte, ma con il coraggio di affrontare la morte, attraversandola. Se all’inizio Gesù è angosciato e impietrito, alla fine, dopo aver pregato, Egli è tornato sereno e pronto: «Alzatevi, andiamo! Colui che mi tradisce è vicino» (14,42).
Il momento più espressivo del silenzio di Gesù è la passione. Qui il silenzio è veramente più denso delle parole. Nella passione Gesù parla poche volte, mai per difendersi, ma soltanto per spiegare la sua identità. Il silenzio è una parola importante per spiegare chi Egli è.
Sollecitato dal sommo sacerdote a rispondere alle molte accuse, Gesù tace (Mc. 14,60). È il silenzio di chi anche nell’umiliazione conserva intatta la sua dignità. È il silenzio di chi è lucidamente consapevole dell’insincerità dei giudici, che fingono un interrogatorio, in realtà avendo già deciso la condanna: inutile difendersi. La verità tace di fronte alla violenza, non perché non abbia nulla da dire, ma perché ha già detto tutto ed è inutile ridire. Soprattutto è il silenzio del giusto, che di fronte alle accuse non si difende, perché ha posto interamente la sua fiducia nel Signore, che non abbandona.
Questo silenzio di Gesù suggerisce diverse allusioni anticotestamentarie. La più nota è Isaia 53,7: «Maltrattato accettò l’umiliazione e non aprì la sua bocca». Di fronte agli uomini che lo condannano a motivo della sua giustizia, il silenzio del servo del Signore esprime dignità; e di fronte a Dio esprime accettazione e fiducia: «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci» (Sl 39,10). Questo silenzio di Gesù è stato poi ripreso e interpretato in un inno della prima comunità cristiana: «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2,23).
Nei racconti della passione, accanto ai personaggi espressamente nominati, è sempre presente – apparentemente in ombra, ma in realtà luminosissima – la figura del Giusto sofferente, che Gesù rivive e ingigantisce. È una figura senza tempo, presente in ogni momento della storia e in ogni luogo. Gesù ne è la gigantografia. È la figura dell’uomo che annuncia la verità e proprio per questo è colpito. Come già notato, un tratto importante di questa figura è il silenzio. Non esprime indifferenza, ma dignità. Ed è un silenzio che parla più di molte parole.
La scena degli oltraggi (Mc. 14,65) è di sorprendente densità. Non c’è una parola di troppo, né un aggettivo, né una ridondanza, né una qualche parvenza di retorica. Ma proprio per questo la figura di Gesù insultato e percosso è scolpita al vivo, come su una pietra. In una specie di gioco a mosca cieca, col volto coperto, schiaffeggiato, Gesù deve indovinare chi lo colpisce. Ha preteso di essere Messia e profeta, lo dimostri! Ma Gesù sta in silenzio e non indovina. E così da una parte, la pretesa di essere il Messia che siede alla destra di Dio e viene sulle nubi del cielo; dall’altra il silenzio di un pover’uomo che neppure (sembra) sa indovinare chi lo percuote. L’evidenza contro la pretesa, qui sta il contrasto che tanto fa ridere. Ma qui sta anche la ragione che fa credere. Il silenzio di Gesù può infatti essere letto in due modi: come la prova della totale infondatezza della sua pretesa messianica, o come la rivelazione della sorprendente e affascinante novità del suo essere Messia. Un Messia che sta al gioco e indovina chi lo percuote è una assoluta ovvietà. Un Messia, invece, che sta al gioco a modo suo e non indovina chi lo percuote, ma rimane nel silenzio, svela tutta la sua differenza, una differenza teologica, la differenza che corre tra il modo con cui l’uomo immagina Dio e il modo in cui Dio è veramente.
Anche nel racconto giovanneo del processo romano si fa menzione del silenzio di Gesù (19,9). Egli ha risposto alla domanda sulla sua regalità, persino indugiandovi per metterne in chiaro la diversità. La novità di Gesù non può fare a meno della parola che la spiega. Ma ha anche bisogno del silenzio. Gesù rimane in silenzio nei due momenti culminanti: quando la sua regalità è derisa (19,1-3), e quando essa è mostrata in pubblico (19,5). Proprio quando la sua regalità, derisa e rifiutata, aveva maggior bisogno di una parola o di un segno, Gesù non dice una parola, né compie un gesto.
Ma l’annotazione esplicita del silenzio di Gesù Giovanni la riserva per la domanda più importante (19,6): «Di dove sei?». Qui non è più in discussione semplicemente la sua regalità, ma il mistero più profondo della sua origine. E su questo Gesù tace. Non collabora, lasciando Pilato solo di fronte alla domanda che lo turba: o perché è inutile dire dal momento che tutto è già stato detto; o perché la risposta va cercata nei fatti che Pilato vede e non nelle parole che potrebbe sentire; o perché è una domanda alla quale può rispondere soltanto chi la pone. Di fronte al mistero che lo interpella e lo inquieta, ogni uomo deve trovare personalmente la risposta. È una decisione personale che non si può delegare a nessuno, una risposta che neppure Dio può dare al tuo posto.
Nei racconti di Marco (15,24-39) e Matteo (27,32-50) attorno al Crocifisso sono in molti a parlare: i passanti, i sacerdoti, le guardie, i due ladroni. Tutti parlano di Gesù e contro Gesù, ma Lui tace. Rivolge una domanda al suo Dio (‹‹Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?››) che cade nel silenzio. Muore con un grido senza parole: ‹‹Ma Gesù, dato un forte grido, spirò››. E sullo sfondo, più nitida che mai, la grande figura del Giusto sofferente, evocata dal Salmo 22.
Il Padre parlerà, ma dopo, con la risurrezione. La Croce è il momento in cui tocca al Figlio manifestare tutta la sua fiducia nel Padre. Tocca al Crocifisso manifestare fino a che punto un Figlio di Dio condivide l’esperienza del silenzio che l’uomo incontra davanti al suo Dio. Tocca al Crocifisso rivelare fino a che punto giunge l’amore di Dio. Tutta questa sorprendente rivelazione è racchiusa nel silenzio di Gesù sulla Croce.”

Persone silenziose

In questi giorni vedo passare molto spesso il video della canzone “Persone silenziose” sui canali che si occupano di musica. Lo trovo un ottimo testo, una poesia in musica scritta da quello che ritengo uno degli autori più sensibili del panorama italiano, Luca Carboni (che qui canta con la partecipazione di Tiziano Ferro). Mi vengono in mente molti studenti, quelli più taciturni, che abbassano lo sguardo se il mio si posa su di loro, che non alzano mai la mano, che preferiscono essere impallati da qualche compagno mentre i prof scannerizzano la classe… e che custodiscono dentro di loro un mondo prezioso fatto di perle di incredibile valore. Questo pezzo è per loro.

Di persone silenziose ce ne sono eccome
sono timide presenze nascoste tra la gente
Ma il silenzio fa rumore e gli occhi hanno un amplificatore
quegli occhi ormai da sempre abituati ad ascoltare
Persone che non san parlare che mettono in ordine i pensieri
persone piene di paura che qualcuno possa sapere
i loro piccoli e grandi contraddittori pensieri
E all’improvviso scappi via senza salutare
i tuoi occhi scendono le scale non so cosa vanno a fare
se a commuoversi o a sognare ad arrabbiarsi o a meditare
ma nell’anima si sa c’è sempre molto da fare
Persone che non san parlare che mettono in ordine i pensieri
persone piene di paura che qualcuno voglia giocare
coi loro piccoli e grandi contraddittori pensieri
All’improvviso scappi via senza salutare
… vorrei essere un angelo per poterti accompagnare

Ascolto dal silenzio

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“Prima ancora di metterci in ascolto dobbiamo saper fare silenzio dentro di noi, far tacere le tante parole che giudicano, che stigmatizzano, che interpretano, che a tutti i costi vogliono trovare soluzioni veloci. Le parole che presumono di aver già capito senza prima aver affiancato, condiviso, amato. Solo da questo silenzio può nascere l’ascolto, un silenzio che è spazio, apertura all’altro. Un silenzio che ci permette di cogliere verità che altrimenti resterebbero celate per sempre. Solo allora capiremo che ascoltare non è solo porgere l’orecchio ma aprirci al mondo che ci circonda.” (Simone Weil)

Un deserto di silenzio

Le tentazioni di oggi sono ambientate nel deserto. Trovo in rete queste parole di Fabrizio Fabroni:

“Da sempre mi entusiasmano i viaggi in zone desertiche e remote della terra, angoli del pianeta che sembrano apparentemente dimenticati dal tempo. Immense distese di sabbia che possono addirittura trasmettere un senso di inquietudine e smarrimento… All’inzio mi chiedevo cosa esattamente mi coinvolgesse così tanto di questi luoghi e soprattutto cosa mi legasse ad essi così profondamente. Ho trovato dentro di me la risposta…; senza dubbio si tratta di una sorta di correlazione tra il silenzio del deserto e la necessità di un silenzio interiore; affinché tutti i rumori nascosti in me, dati dai pensieri continui, da quelli associativi e da quelli avversi, cessino anche solo per pochi istanti di invadere me stesso. Ed è allora, in quegli attimi silenziosi, che riesco a gustare una nuova vita, un nuovo mondo, quello reale, privo di immaginazioni e di inganni, privo di illusioni e inutili tormenti.”

Inevitabile, per me, pensare a Franco Battiato:

“Quanta pace trova l’anima dentro
scorre lento il tempo di altre leggi
di un’altra dimensione
e scendo dentro un Oceano di Silenzio
sempre in calma.”

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Dalla clausura al web

Vi sono delle monache di clausura che dialogano con gli utenti della rete sul sito dalsilenzio. Ne scrive su Avvenire Laura Badaracchi.

clausura, suore, trappisti, internet, silenzio“… C’è chi chiede se le monache piangono e colpisce la schiettezza della risposta: «Certamente sì. Dipende dalle persone e dai momenti della vita. Si piange per ciò che fa soffrire, o commuovere, come ogni essere umano. Le ultime arrivate per nostalgia del mondo o fatica a entrare nella vita». Un altro internauta scrive: «Non le piacerebbe veder crescere un suo ipotetico nipote?» e la trappista al pc risponde teneramente: «Grazie a Dio ce li portano ogni tanto. Ci piace molto vederli, anche sentire le loro vocine in chiesa». Fino a chi si domanda se, in tempo di crisi, anche le monache facciano sacrifici: «Oppure pensate che il vostro impegno nella clausura sia già sufficiente?». Da Valserena arriva una replica pragmatica: «Come tutti, abbiamo i nostri problemi per far quadrare il bilancio, migliorare i nostri prodotti per riuscire a venderli. Alla vita semplice siamo abituate e non sentiamo la differenza, almeno per ora. Ma abbiamo meno risorse per aiutare le nostre sorelle in Africa».

Altre alle risposte emerse dal web, colpiscono la lucidità e la capacità di arrivare al cuore delle questioni cruciali per l’esistenza, senza spiritualismi a buon mercato. In un tempo frenetico e distratto, in una società globalizzata, la clausura «non si trova in un centro commerciale, ma proprio il consumismo esasperato lascia quel senso di vuoto e quel desiderio di autenticità che ci pone alla ricerca di qualcosa per cui vale la pena vivere – confida suor Maria Giovanna –. Spesso all’inizio c’è un desiderio del cuore, il desiderio di qualcosa di più che possa dare senso alla propria vita. Poi un incontro con qualcuno che ci ha parlato del monastero, per altre una pagina di internet, per altre ancora un’amica. Nasce il desiderio di venire a vedere, l’incontro con la bellezza della preghiera liturgica, con uno spazio di silenzio tanto ricercato, con una sorella dal cui sguardo traspare un vita piena e vera». Le fa eco suor Federica: «Ero una professionista discretamente affermata nel mio piccolo ambito lavorativo e avrei potuto essere felicemente anche moglie. Madre non so, perché è dono di Dio. Ma lui è intervenuto nella mia vita con un altro dono, quello della chiamata». E suor Petra sintetizza il senso della castità: «Amore purificato dal possesso, dall’egoismo, dalla tentazione di ridurre a sé l’altro, se non addirittura di “usarlo” per sé. La castità è il mezzo, la via, per assomigliare al modo con cui Dio ci ama, e questo è necessario proprio per tutti, nello stato specifico di vita in cui ognuno si trova». Pensieri non di super-donne, ma di persone che cercano il senso autentico dell’esistenza.

Come suor Vera: «Mi rendo conto che molta parte del nostro mondo sia come malato di infantilismo e che la “mania” di mantenersi giovani sia la proposta che si riceve nella vita. Lo si nota sia a livello di cura del corpo, di abbigliamento, di possibilità infinite di svago, vacanza e divertimento, di mancanza d’iniziativa a livello sociale e d’impegno personale nelle scelte della vita. Ci si trova poi pieni di paura per la vecchiaia e per la morte. Paura che si manifesta anche nella ritrosia ad affrontare qualsiasi difficoltà».”

Dalla Verna all’Europa

San Francesco, il silenzio, la natura, la Verna, De Gasperi, l’Europa: tutto in questo breve articolo. Ne leggo il nome dell’autore e scopro che è una donna dal cognome “noto”. E’ Maria Romana De Gasperi, la figlia dello stesso politico di cui parla nel pezzo.

0537.jpg“A mille e cento metri, dopo aver attraversato grandi boschi, si vede alto sulla roccia il santuario de La Verna. L’uomo di oggi si può chiedere perché san Francesco avesse scelto per la sua preghiera un luogo tanto difficile da raggiungere, allora, a piedi. Era davvero necessario in un tempo già di per se stesso senza rumori se non quelli della natura stessa, delle ruote dei carri sul selciato, degli animali di cui erano abitati i boschi, andare a cercare quell’altezza per una più intensa preghiera? Noi che ci siamo costruiti una civiltà del frastuono ci sentiamo perduti di fronte al silenzio, lo fuggiamo perché non ci dà pace, ma paura. Il silenzio ci mette di fronte allo specchio della nostra anima e pretende quel tipo di verità che non siamo più abituati ad affrontare: quanto di noi sia reale, non teatro per gli altri, non costruzione di fatti sovrapposti per necessità o per convenienza. Il Convento anche nella maestosità delle sue proporzioni assunte negli anni e nella presenza di pellegrini sa offrire, come nella buona pittura, angoli e scorci di solitudine e di silenziosa preghiera. Di fronte al saio di san Francesco martoriato dall’amore di Cristo, ci sentiamo spogliati delle nostre vanità mentre i frati cantano le antiche parole del Cantico delle creature entrando nella chiesa con i piedi scalzi nei sandali che non fanno rumore. Fuori sul grande terrazzo il sole quasi acceca i nostri occhi venuti dall’ombra, cancella le case e le strade laggiù nella campagna e ci dà l’illusione di essere ancora ai tempi del santo frate quando l’orizzonte era segnato solo dai boschi e dalla linea del cielo. Faticoso rientrare nella realtà il 29 settembre quando il «Circolo verso l’Europa» ha voluto ricordare la visita di De Gasperi nel 1952 in questo luogo mettendo assieme vecchi e nuovi amici per un incontro con la storia. C’era allora un discorso non facile tra i giovani che si erano dati il nome di “Terza Generazione” e avevano fretta di cambiare e rinnovare la politica e il Presidente, che conosceva i tempi e la fatica di governare con la presenza di forti avversari e l’inevitabile equilibrio e la fede da mantenere nei confronti di un’Europa che stava appena nascendo. Eppure alla fantasia dei giovani, al loro coraggio egli aveva lasciato la costruzione di una Europa unita nelle leggi della democrazia, nella sicurezza della pace, per un nuovo ordine sociale contro il materialismo, contro le illusioni delle dittature. «Un lavoro imponente, che non potrà essere esaurito forse nel giro di una sola generazione, ma che bisogna intraprendere con coscienza e fermezza». Queste parole mi vengono alla mente quando tolgo il drappo a una lapide messa su queste mura a suo ricordo. I frati mi accompagnano con una melodia che non conosco. Una donna si asciuga le lacrime.”