Gemme n° 192

https://www.youtube.com/watch?v=9qvglWAHDak

Ascolto questa canzone quando mi sento sola o triste oppure ho semplicemente voglia di stare con me stessa; mi fa riflettere, pensare, mi dà speranza. Mi fa trovare l’aspetto positivo delle cose spiacevoli che possono accadere a chiunque, un po’ come suggerisce il titolo “Divenire”. Questa la gemma di G. (classe quinta), che ha anche consigliato di ascoltare il brano in cuffie, per apprezzarlo meglio.
Inserisco qui sotto uno dei miei “rifugi”: la musica di Roberto Cacciapaglia, e questo brano in particolare…

Gemme n° 179

«Outside the street’s on fire in a real death waltz,
Between what’s flesh and what’s fantasy
And the poets down here don’t write nothing at all
They just stand back and let it all be
And in the quick of a knife, they reach for their moment
And try to make an honest stand
But they wind up wounded, not even dead.
Tonight in Jungleland.»
Bruce Springsteen, 1975
La giungla d’asfalto non ha pietà.
Quella di Bruce è una canzone di quasi quarant’anni fa, ma a mio parere il suo significato è oggi valido più che mai.
La vita non è mai facile, per nessuno. Ognuno ha i suoi piccoli grandi drammi e tragedie da affrontare; indubbiamente viviamo in un inferno. Tuttavia, la capacità che ognuno dovrebbe sviluppare è proprio quella di individuare e dare spazio a chi e cosa, in mezzo all’inferno, non sono inferno. Questa bellissima lezione di vita mi è stata data da tre donne fondamentali nella mia vita: mia mamma, mia nonna e Regina.
Donne, persone, molto diverse tra loro, ma accomunate da una forza e da un coraggio non da poco nell’affrontare una vita non sempre così gentile con loro.
Mia mamma ha gli occhi dolci e verdi. Ha lottato tutta la vita e continua tutt’ora a lottare contro una realtà dura. Mi dice sempre di non prendere esempio da lei, perché si definisce spesso debole; continuo a non ascoltarla e a stimarla sconfinatamente.
Gli occhi di mia nonna invece sono come il ghiaccio: sembrano freddi e indomiti. Un marito difficile, una situazione difficile, una malattia difficile non sono riusciti a fermarla: a 77 anni suonati è ancora allegra e cinguettante come una quattordicenne.
Quando Regi viveva a San Cristòbal aveva tutto: una carriera, una famiglia e una casa in montagna. Nel 2003 si ritrovò qui in Italia, un Paese ostile, con una famiglia sulle spalle e spese infinite da pagare. Regina ha dovuto cominciare da zero, lavando pavimenti e facendo ripetizioni di spagnolo a poco prezzo, ma non per questo è una persona meno intelligente. Con la sua forza e il suo coraggio mi ha insegnato che la qualità della persona non dipende dai suoi soldi o dal suo lavoro, ma dal suo cuore.
Queste tre persone sono dei veri riferimenti per me. Spesso mi capita di ritrovarmi rinchiusa in una realtà che non mi appartiene e molti sono i momenti di sconforto. Poi però guardo gli occhi di queste donne, che hanno combattuto, che hanno sofferto, ma che infine hanno vinto; allora decido di andare avanti.”
Sento di aver ben poco da dire dopo queste parole di B. (classe terza). Faccio un’unica cosa: vado tre anni più indietro di lei per dedicare una canzone di Aretha Franklin cantata da Carole King alle sue tre donne.

Gemme n° 173

Quello a cui mi fa pensare questa canzone è che la vita è abbastanza breve, si deve cercare di godersela senza arrabbiarsi per stupidaggini; a volte si perde la pazienza per scemenze, bisogna apprezzare quello che si ha perché magari ci sono problemi ben più gravi di quelli che stiamo vivendo”. “It’s my life” è la gemma di A. (classe seconda). Mi è venuta in mente un’altra canzone di Bon Jovi, Everyday, in cui canta “Ero solito essere il tipo di ragazzo che non avrebbe mai lasciato guardarsi dentro, avrei sorriso quando stavo piangendo, non avevo niente ma molto da perdere anche se avevo molto da provare. Nella mia vita non c’è alcun rifiuto, addio a tutti i miei passati, addio, così lungo, sono sulla mia strada. Ne ho abbastanza di piangere, sanguinare, sudare, morire, ascoltami quando dico che vivrò la mia vita ogni giorno, toccherò il cielo, aprirò queste ali e volerò. Non sono qui per giocare, vivrò la mia vita ogni giorno […] imparare a come vivere la mia vita, imparare a come scegliere le mie lotte, a prendere un colpo mentre sto ancora bruciando…”.

Gemme n° 171

ciondoloHo portato come gemma il ciondolino regalatomi da mia nonna, che è ammalata di tumore. Pur sentendola poco, la sento molto vicina; pur non avendo ricevuto molta speranza dai medici, lei mi ha insegnato quanto sia importante lottare. Mi dà forza e mi fa capire che tutti gli ostacoli si possono superare, o quanto meno relativizzare”. Con queste parole S. (classe seconda) ha presentato il proprio lavoro ai compagni di classe.
Affermava Pier Paolo Pasolini: “La mia è una visione apocalittica. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.”

Gemme n° 164

Ho sentito questo brano in una di quelle giornate particolari in cui va tutto male; incuriosita dal testo, l’ho ascoltata con attenzione ed è diventata la mia canzone anti-tristezza”. Questa la breve presentazione di L. (classe quinta).
Mi hanno colpito una frase ripetuta molto spesso “Turn the pain into power” e una delle parti finali: “Lei ha un leone dentro il suo cuore, un fuoco nell’anima. Lui ha una bestia nella sua pancia che è così difficile da controllare. Perché hanno preso troppi colpi, prendendo colpo su colpo. Ora illuminali come se stessero per esplodere”. Io non so se associare gli irlandesi The Script a un pensiero di Etty Hillesum sia azzardato, ma tant’è. Etty scrive queste parole pensando all’amica Ilse Blumenthal, i cui figli sono stati uccisi nei campi di concentramento nel 1942 (poco più di un anno dopo, la Hillesum stessa morirà ad Auschwitz): “Devi saper sopportare il tuo dolore; anche se il dolore ti schiaccia, sarai capace di rialzarti ancora, perché l’essere umano è così forte, e il tuo dolore deve diventare per così dire parte integrante di te, parte del tuo corpo e della tua anima; non c’è bisogno che tu scappi da lui, portalo in te, ma da adulta. Non trasformare i tuoi sentimenti in odio, non cercare vendetta a spese di tutte le madri tedesche, perché anche loro soffrono per i loro figli trucidati ed uccisi. Fornisci al dolore dentro di te lo spazio e il rifugio che merita, perché se ognuno accetta quello che la vita gli impone con onestà, lealtà e maturità, forse il dolore che riempie il mondo si placherà. Ma se non prepari un rifugio accogliente per il tuo dolore, e invece riservi più spazio dentro di te all’odio e ai pensieri di vendetta – dai quali sorgeranno nuovi dolori per altri – allora il dolore non cesserà nel mondo, ma sarà moltiplicato. E se avrai dato al dolore lo spazio che le sue nobili origini richiedono, allora potrai veramente dire: la vita è bella e così ricca! Tanto bella e ricca che potrebbe farti credere in Dio” (da “Uno sguardo nuovo”, Iacopini e Moser). Turn the pain into power.

C’è del buono

crocifissione bianca 240

Non so se nei prossimi giorni aggiornerò il blog. In alcuni periodi dell’anno stacco un po’. Mi piace l’idea di lasciare questa breve riflessione-citazione-abbinamento per questi giorni che precedono e poi seguono la Pasqua.
Sam: «È come nelle grandi storie, padron Frodo, quelle che contano davvero, erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi sapere il finale, perché come poteva esserci un finale allegro, come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte; ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra, anche l’oscurità deve passare, arriverà un nuovo giorno, e quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché, ma credo, padron Frodo, di capire ora, adesso so: le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto; andavano avanti, perché loro erano aggrappati a qualcosa». Frodo: «Noi a cosa siamo aggrappati Sam?». Sam: «C’è del buono in questo mondo, padron Frodo: è giusto combattere per questo!»” (‘Il Signore degli anelli – Le due torri’).
Quella narrata da J. R. R. Tolkien è una storia inventata. Leggendo questo passo mi sono venute però alla mente le parole di una pensatrice che ha vissuto realmente e di cui ho scritto già diverse volte sul blog. Etty Hillesum, da perseguitata, afferma: “La barbarie nazista risveglia lo stesso tipo di barbarie in noi […]. Dobbiamo respingere quella barbarie da noi stessi, non dobbiamo coltivare l’odio interiormente perché, altrimenti, il mondo non riuscirà a fare un solo passo fuori dalla melma. Non che la nostra condotta contro il nuovo sistema debba essere ingenua e priva di principi, ma questa è un’altra faccenda. Combattere gli istinti malvagi che quella gente risveglia in noi è qualcosa di molo diverso da un ipotetico essere «oggettivi», dal vedere il cosiddetto «bene» nel nemico – fare questo è solo tergiversare e non ha niente a che fare con ciò che voglio dire. Ma si può essere veri militanti e agire con ricchezza di principi senza essere pieni di odio” (De nagelaten geschriften, tratto da Uno sguardo nuovo, Iacopini-Moser, pag. 29).

Il giorno di dolore che uno ha

IL GIORNO DI DOLORE CHE UNO HA (Ligabue, Secondo tempo)
Quando tutte le parole sai che non ti servon più
quando sudi il tuo coraggio per non startene laggiù
quando tiri in mezzo Dio o il destino o chissà che
che nessuno se lo spiega perché sia successo a te
quando tira un po’ di vento che ci si rialza un po’
e la vita è un po’ più forte del tuo dirle “grazie no”
quando sembra tutto fermo la tua ruota girerà.
Sopra il giorno di dolore che uno ha.
Tu tu tu tu tu tu…
Quando indietro non si torna quando l’hai capito che
che la vita non è giusta come la vorresti te
quando farsi una ragione vorrà dire vivere
te l’han detto tutti quanti che per loro è facile
quando batte un po’ di sole dove ci contavi un po’
e la vita è un po’ più forte del tuo dirle “ancora no”
quando la ferita brucia la tua pelle si farà.
Sopra il giorno di dolore che uno ha.
Tu tu tu tu tu tu tu tu tu…
Quando il cuore senza un pezzo il suo ritmo prenderà
quando l’aria che fa il giro i tuoi polmoni beccherà
quando questa merda intorno sempre merda resterà
riconoscerai l’odore perché questa è la realtà
quando la tua sveglia suona e tu ti chiederai che or’è
che la vita è sempre forte molto più che facile
quando sposti appena il piede lì il tuo tempo crescerà
Sopra il giorno di dolore che uno ha
Tu tu tu tu tu tu tu tu tu…
La canzone è stata dedicata da Luciano Ligabue al giornalista Stefano Ronzani, morto a causa della leucemia: “si ammalò gravemente e ci fu un momento della sua malattia in cui capii che le lunghissime chiacchierate sul farsi forza, sul darsi speranza, sul combattere in qualche modo il suo male in realtà avevano perso significato… Provai allora a comunicargli questa cosa nella maniera che la fortuna o il caso o qualcuno ha deciso che, tutto sommato, con me funziona: una canzone… Quindi in maniera, se vuoi, anche patetica, per il suo compleanno gli feci avere questo brano, totalmente riscritto rispetto all’originale. La canzone gli servì; mi raccontò che l’aveva aiutato ad aprire dei rubinetti che aveva bisogno di aprire. Poi era un critico musicale e vide la cosa pure sotto un altro profilo. “Questa canzone è troppo bella perché resti dentro un nastrino. Non ha senso che rimanga fra me e te, pubblicala”. Devo dire che sono molto contento del successo che ha avuto, proprio per la storia che c’è dietro.” (da “Vivere a orecchio”)
La situazione descritta, quindi, è quella di una persona gravemente ammalata per la quale non ci sono più parole per dare spiegazioni e per infondere coraggio: anzi, il coraggio più grande è quello che serve per cercare di risollevarsi e non stare nella disperazione. E’ inevitabile chiedersi perché sia capitato qualcosa di cui non si può attribuire la colpa ad alcuno: magari si possono tirare in ballo Dio, o il destino o altro. La vita sembra ingiusta rispetto ai criteri personali ed è evidente che non è possibile tornare indietro: già farsene una ragione diventa un’ottima cosa e permette di vivere più serenamente. E allora si riescono a vedere anche dei momenti migliori:
il vento si mette a soffiare e ci aiuta a sollevarci e magari a non dire “grazie, no” alla vita
il sole si fa largo tra le nubi e getta i propri raggi proprio là dove è più necessario per noi
la ferita brucia, ma il dolore è il segno che la pelle sotto è viva, pulsa e si sta ricreando
il cuore, benché ferito perché azzoppato, riesce a prendere un suo ritmo e a farci ballare
l’aria gira e soffia un po’ di aria pulita nei nostri polmoni
c’è la consapevolezza che la vita non è facile, ma è sicuramente forte e magari basta spostare un po’ il piede (dall’acceleratore?) per guadagnare un po’ di tempo.

Gemme n° 147

fiabrusse

Ho portato un libro di fiabe di una collana che mia madre mi leggeva quando ero piccola. Non dormivo senza fiaba. Il libro mi ricorda i tempi dell’infanzia, mia madre quando ero piccola. Era tutto senza i problemi di adesso”. Sono state le parole con cui I. (classe terza) ha presentato la propria gemma. Tengo sempre conservata nel cuore l’idea di portarmi sempre dietro un po’ della mia infanzia, del mio essere bambino.
Dice Clelia Canè: “I bambini devono poter credere che la magia esiste, esiste in ognuno di noi, nei nostri ideali, nelle scelte che ci guidano e negli insegnamenti che ci aiutano a crescere. La magia è la vita e l’amore è il motore della vita. Amare, credere, sognare e sperare sono le ali che ci permettono di spiccare il volo. Ai bambini dico «Abbiate il coraggio di aprire le vostre ali e volate in alto, sempre più su! Prendete in mano il vostro sogno e fatene una grandiosa realtà!»”.

Gemme n° 146

marco

All’inizio dell’estate mia cugina ha avuto un brutto incidente in cui ha perso la gamba e il suo fidanzato; eravamo come fratello e sorella. Ha lasciato un grande vuoto e tanti ricordi, emozioni ed esperienze. E’ come una gemma per me e lo porterò sempre nel cuore”.
Questa è stata la commovente gemma di G. (classe seconda). Riporto questo pensiero di Charles Péguy, mi ha consolato in alcuni momenti della mia vita: “La morte non è niente. Sono solamente andato nella stanza accanto. Io sono io, voi siete voi. Quello che eravamo gli uni per gli altri lo siamo sempre. Datemi il nome che mi avete sempre dato. Parlate con me come avete sempre fatto. Non adoperate un tono diverso. Non abbiate un’aria triste e solenne, continuate a ridere di quello che ci faceva ridere insieme. Che il mio nome sia pronunciato come lo è sempre stato, senza enfasi di alcun tipo, e senza traccia d’ombra. La vita significa quello che ha sempre significato. E’ quella che è sempre stata, il filo non è tagliato. Perché dovrei essere fuori dai vostri pensieri? Semplicemente perché sono fuori dalla vostra vita? Io vi aspetto, non sono lontano, semplicemente dall’altra parte del cammino. Vedete, tutto è bene.”

Gemme n° 145

Questa canzone da piccola mi accomunava a mia cugina; la ascoltavamo, ma non capivo cosa dicevano i Tokio Hotel. In autunno ho letto il testo e mi è venuto da piangere. La ascolto quando ho bisogno di conforto. Il testo dice “quando niente va più, sarò il tuo angelo”. In relazione a questo ho portato quanto ho scritto due anni fa; nel percorso di preparazione alla Cresima stavamo trattando l’argomento della speranza…
Avere la forza di ribellarsi,
di battere un piede per terra
e, per una volta, dire “no, non ci sto!”.
Credere in qualcosa
e non smettere di dirlo,
credere nella libertà
e lottare per ottenerla,
avere una luce negli occhi
in grado di sciogliere
anche l’anima più ghiacciata.
Sorridere
di fronte al nostro riflesso;
sorridere, anche se quel riflesso
è il più triste del mondo.
Lasciare che le lacrime
ci accarezzino dolcemente
il viso, le guance,
e pensare che presto
tutto sarà finito,
e pensare che presto
tutto andrà bene.
Avere un’esplosione di vita, di gioia
nel cuore
e nel profondo dell’anima,
dove la Speranza
possa germogliare indisturbata…
Avere un sogno,
anzi,
migliaia di sogni
e cercare di raggiungerli ogni giorno.
Guardare al Futuro,
senza scordarsi del Passato,
ed essendo consapevoli
del Presente.
Sperare.
Illudersi.
Deludersi.
Per tornare poi a sperare.
Amare.
Amare tanto.
Amare gli amici, i genitori, i fratelli,
i parenti, le persone;
Amare la Vita, le stelle, i tramonti,
il mare;
Amare il sole, che scalda l’anima
e rallegra i volti;
Amare la Luna, muta confidente
dei nostri segreti più irrivelabili…
Amare Lui,
Dio,
l’unica vera Speranza dell’uomo.
Amarlo per tutto questo.
Amarlo per le piccole cose
di ogni giorno.
Prenderlo per mano,
Fidarsi di Lui,
lasciarsi guidare lungo la via.
E non importa
quanto possa essere in salita
o faticosa,
non importa né come né quando.
L’importante è non arrendersi mai,
è arrivare dove Lui
vuole farci arrivare.
L’importante è avere fiducia
in Lui, e nel futuro.
L’importante è avere Speranza,
la Speranza di un mondo migliore.”
Ascoltando e leggendo le parole di A. (classe terza) mi sono venute alla mente le parole di un libro di André Frossard che ho appena terminato: “… chi entra nel Vangelo dalla porta giusta vedrà invece nel Cristo un essere eterno che a poco a poco acquisisce una conoscenza della condizione umana fondata sull’esperienza, fino all’agonia sulla croce, fino al grido straziante: «Dio mio , Dio mio, perché mi hai abbandonato?» che segna, se posso esprimermi così, la fine della lezione, il momento preciso in cui l’incarnazione, abolita l’ultima scintilla di luce soprannaturale, si compie nell’indigenza dell’abbandono. E chi avrà intuito l’immensità di un simile dono sentirà crescere dentro di sé un sentimento ignoto, il puro amore dell’amore: la definizione stessa dello Spirito Santo, che può nascere in noi solo dalla divinità del Cristo, umilmente racchiusa nella sua umanità” (André Frossard, Dio. Le domande dell’uomo, pag. 50)

Vanità

VANITÀ

maceriefbD’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensità

E l’uomo
curvato
sull’acqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
un’ombra

Cullata e
piano
franta

Vallone il 19 agosto 1917
(Giuseppe Ungaretti)

Gemme n° 141

https://www.youtube.com/watch?v=fXz3vhbrbj4

La gemma di J. (classe terza): “Grazie all’ultima edizione di «Ballando con le stelle» ho avuto la fortuna di conoscere il mio idolo, una delle persone più coraggiose, dinamiche, forti e da un carisma e un’energia innati: lei è Giusy Versace, atleta paralimpica italiana, nonché vincitrice di «Ballando». Ciò che la rende così straordinariamente unica e speciale è sicuramente il grande messaggio di vita e felicità che vuole lanciare, nonostante le sue condizioni fisiche di disabile, poiché nel 2005 ha perso entrambe le gambe in seguito ad un grave incidente in macchina. Lei è la mia gemma, perché mi fa riflettere e sentire in colpa ogni volta che il mio turbinio di pensieri contorti si dirama verso una prospettiva di vita negativa caratterizzata dagli esiti scolastici deludenti, dalla solitudine e dai dolori muscolari e talvolta un po’ dall’ipocondria, paura di cui soffro da quando ho scoperto che mia mamma era ammalata di cancro. Giusy Versace è la mia eroina, e ogni volta che la penso mi viene da associarle una particolare frase della canzone «Gioia» dei Modà, ossia «pensare di star male è non avere rispetto per chi sta peggio»: proposizione vera e realistica, poiché ogni volta che penso di star male, mi sento in colpa e mi vergogno pensando a Giusy Versace che nonostante la tragedia successa, ha sempre quella luce negli occhi che mette allegria e quell’amore per la vita che tutti dovrebbero avere.
Infine, il fatto che Giusy abbia vinto «Ballando con le stelle» contro concorrenti in condizioni fisiche migliori, se non veri e propri sportivi come Andrew Howe, sta a dimostrare che la disabilità è negli occhi di chi guarda e che con la buona volontà e la determinazione si può raggiungere qualsiasi cosa!”.

Non nascondo che mi piaccia ascoltare storie come quella di Giusy o di Alex Zanardi o di Stephen Hawking e sicuramente fungono da stimolo e da sprone ad affrontare la vita con coraggio, energia ed entusiasmo. Eppure il mio pensiero va sempre contemporaneamente a tutte quelle persone che stanno vivendo un disagio fisico o psichico o entrambi e che non hanno all’interno della loro cartucciera un colpo speciale da sparare. Quantomeno lo “speciale” che risponde al pensiero della maggior parte delle persone e che significa “straordinario, fuori dall’ordinario, incredibile, utile, di successo”. Penso a chi fa fatica a percepirsi come essere speciale, unico, irripetibile, che sia diversamente abile o meno, ed è nella sofferenza. Ha scritto Diego Cugia: “La vita e la morte fanno di noi quello che vogliono. L’unica carta che possiamo giocare è stabilire che cosa noi vogliamo dalla vita e dalla morte e questo io l’ho già scelto da bambino: tutta la luce e tutto il buio che io potessi sopportare, e allora devi accogliere e devi reggere, accogliere e reggere, solo questo puoi fare. E la felicità e il dolore ti porteranno su e giù come gli oceani le navi. E il dolore ti insegnerà ogni volta a contenere ancora più oceano e il tuo pianto non lo tratterrà, lo restituirà fino a che sarai parte di un unico respiro e imparerai a raccordarti col fiato lungo delle maree. E’ qui che credi di morire, mentre è qui, se sei riuscito a reggere tutte le bordate senza colare a picco, che comincia la vera vita. Perché resistere alla morte non serve a nulla, a niente servono i lifting, le bugie, i colpi di testa, i viaggi del miracolo, a niente serve resistere se non impari anche ad assecondare. E come si impara questo? non lo so, accogliendo il dolore degli altri, per me è così. La mia bussola siete solo voi. Chi soffre più di me, e c’è sempre purtroppo, lui è il mio medico, gli altri. Tutto quello che ho, e non è poco, l’ho sempre ricavato per sottrazione, guardando chi aveva molto di meno. Solo questo è l’amore che torna, l’amore che dai”.

Gemme n° 137

Mi piace il messaggio che emerge da questo spezzone di film: nonostante ostacoli e difficoltà non si deve mollare e cercare scuse, ma trovare la forza per andare avanti e sopravvivere”.
Le parole di P. (classe terza) fanno riferimento a un video che è già stato presentato come gemma. Questa volta mi soffermo sulla genitorialità, riportando un passo che amo molto de “Il profeta” di Kahlil Gibran, in cui il poeta si rivolge proprio ai genitori:
Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suoi vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo.”

Gemme n° 136

noiHo portato un libro che mi è stato consigliato: «Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino». All’inizio non mi diceva nulla, poi mi sono ricreduta: è scritto in modo coinvolgente e ho apprezzato le dettagliate descrizioni dello stato d’animo della protagonista Christiane. E’ la storia vera di una vita disastrosa, una storia di droga, ambientata a Berlino. Viene descritto un mondo in cui si diventa adulti da piccoli (lei ha iniziato a drogarsi a 12 anni). Descrive anche la gioventù della Berlino anni ’70-’80: si cercava qualcosa che desse un segno alla vita. Mi hanno colpito queste parole: «Spesso riflettevo sul perché noi giovani eravamo così miseri. Non riuscivamo ad avere gioia di niente. Un motorino a 16 anni, una macchina a 18, questo era quasi ovvio. E se questo non c’era allora uno era un essere inferiore. Anche per me, nei miei sogni, era stato naturale pensare che un giorno avrei avuto un appartamento e una macchina. Ma ammazzarsi di lavoro per un appartamento, per un nuovo divano, come aveva fatto mia mamma, questo non esisteva. Questi erano stati gli ideali sorpassati dei nostri genitori: vivere per poter tirare su dei soldi. Per me, e credo anche per molti altri, quel paio di cose materiali erano il presupposto minimo per vivere. Poi doveva esserci qualche altra cosa. Esattamente quello che dà un significato alla vita. E questo non si vedeva. Un paio a scuola mia, tra cui mi ci mettevo anche io, erano ancora alla ricerca di quel qualcosa che dà significato alla vita». Ecco la gemma di J. (classe seconda).

Ho letto anche io il libro quando ero al liceo, ovviamente in un tempo più vicino agli eventi (inizio anni ’90), e mi ricordo il senso di angoscia nel leggere una realtà tanto distante dalla mia e soprattutto la percezione di mancanza di futuro di cui sono intrise quelle pagine. Il viaggio di Christiane è un percorso tra eroina e prostituzione, disperazione e delusioni affettive, dosi di droga e periodi di astinenza forzata per mancanza di soldi: per tornare alla citazione riportata sopra, i soldi che ai genitori erano serviti per il divano, a lei erano necessari per la dose. Difficile trovare in tutto questo qualcosa che dà significato alla vita.

Gemme n° 135

Questa canzone è stata scritta dal fratello di un ragazzo che era in classe con me: gliel’ha dedicata perché ne sentiva la mancanza. Evidenzia quanto una persona può stare a cuore a un’altra anche dopo tutti gli sbagli che ha fatto.” A queste parole di S. (classe seconda) mi è venuta in mente la frase di Dylan Thomas: “Ha nevicato anche l’anno scorso: ho fatto un pupazzo di neve e mio fratello l’ha buttato giù e io ho buttato giù mio fratello e poi abbiamo preso il tea insieme”.

La tempesta

LA TEMPESTA (Angelo Branduardi, Senza spina)
Non c’è più vento per noi tempo non ci sarà
per noi che allora cantavamo con voci così chiare.
Non c’è più tempo per noi vento non ci sarà
per noi che abbiamo navigato quel mare così nero.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Non c’è più vento per noi tempo non ci sarà
per noi che stelle cercavamo sotto quel cielo scuro.
Si alzerà il vento per noi tempo per noi sarà
il nostro viaggio, la guida, la mano del destino.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà
Un vento poi soffierà dentro le nostre vele
qual è la rotta giusta solo il Signore lo sa
Un vento poi si alzerà dentro le nostre vele
è perché la rotta giusta solo il Signore la sa.
Non c’è più vento per noi tempo non è per noi
che nella notte senza luce misuravamo il mare.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Un vento poi soffierà dentro le nostre vele
qual è la rotta giusta solo il Signore lo sa
Un vento poi si alzerà dentro le nostre vele
perché la rotta giusta solo il Signore la sa.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Branduardi dedica questo brano “a tutti coloro che hanno affrontato la tempesta, rischiando di perdere la rotta, ed hanno saputo attendere che il vento buono gonfiasse le loro vele ed hanno ripreso le vie del mare, verso nuove tempeste”. Quindi, una prima cosa da notare è che la tempesta va affrontata e non evitata: siamo lontani dal protagonista dell’epitaffio dell’“Antologia di Spoon River” di cui si legge:
Una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione ma la mia vita.
Perché, l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio;
è una barca che anela al mare eppure lo teme.”
(E. L. Masters, Antologia di Spoon River)
Questa, semmai, è la situazione cantata all’inizio da Branduardi, quella di coloro per i quali non c’è più né vento né tempo; la differenza è che, per i protagonisti di questo brano, la navigazione c’è stata e ha riguardato un mare buio, “nero”, che loro hanno tentato di scrutare col canto di voci “chiare”. Oltre al mare nero c’era anche un “cielo scuro” dove cercavano di intravvedere le stelle che potevano dar loro la rotta. Ne “La linea d’ombra” canta Jovanotti: “è dolce stare in mare quando son gli altri a fare la direzione, senza preoccupazione, soltanto fare ciò che c’è da fare, e cullati dall’onda notturna sognare la mamma, il mare”.
Infine, c’è un’altra cosa che facevano i marinai descritti nella canzone con il “noi”: nella notte buia e senza luce misuravano il mare. Già misurare il mare è impresa ardua se non impossibile vista la vastità, farlo senza alcuna luna o stella presente in cielo è del tutto inutile. Calcolare l’infinito non ha senso, non tutto può essere calcolato dall’uomo. Ma ecco che il vento si alza a segnare la possibilità del viaggio: con la bonaccia non si naviga, serve il vento che soffi dentro alle vele e le gonfi (come fa un cristiano a non pensare allo Spirito?).
A questo punto dobbiamo però introdurre due elementi importanti: la tempesta e la guida del viaggio. Branduardi non ha paura della tempesta, non la fugge, sa che sarebbe inutile. Viene in mente un personaggio biblico che, in fuga da Dio, si imbarca a bordo di una nave e durante una tempesta si rifugia nel ripostiglio più remoto e si addormenta profondamente. In questo caso Dio non è colui che salva dalla tempesta, ma colui che l’ha mandata per suscitare una reazione nel suo profeta, cosa che effettivamente accade. Giona spiega ai marinai della nave che la tempesta è causa sua perché egli è in rotta con Dio e li invita a gettarlo in mare, dimostrando pentimento per la sua fuga e anche la volontà di gettarsi a corpo nudo nella tempesta tra le braccia di Dio.
E poi c’è la guida: “la rotta giusta solo il Signore la sa” canta Branduardi. Tre immagini mi si formano davanti agli occhi:
1. Marco 4, 35-41: «In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”.»
Gesù non evita che la tempesta si costituisca e che le onde riempiano di acqua la barca; averlo dalla propria parte, averlo a bordo, non è garanzia di pace e tranquillità, di assenza di difficoltà. Gesù, mentre sulla barca possiamo immaginare il lavorio frenetico dei pescatori per cercare di governarla e di buttare in mare l’acqua, dorme (come Giona)! Egli, poi, addirittura rimprovera i suoi compagni per averlo costretto a riportare la calma. La tempesta con la fede si può affrontare, ma forse la fede dei discepoli non è ancora abbastanza salda.
2. Matteo 14, 22-33: «Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra sponda, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro, scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”.»
La tempesta diventa il luogo dove la fede è necessaria, il luogo dove l’uomo sperimenta che non ha più mezzi utili per uscire dalla situazione in cui è finito se non l’affidarsi a colui che salva.
3. Infine un frammento di “Novecento”, il film di Giuseppe Tornatore tratto dall’omonimo libro di Alessandro Baricco
«Quella notte, nel bel mezzo della burrasca, con quell’aria da signore in vacanza, mi trovò là, perso in un corridoio qualunque, con la faccia di un morto, mi guardò, sorrise, e mi disse: “Vieni”.
Ora, se uno che su una nave suona la tromba incontra nel bel mezzo di una burrasca uno che gli dice “Vieni”, quello che suona la tromba può fare una sola cosa: andare. Gli andai dietro. Camminava, lui. Io… era un po’ diverso, non avevo quella compostezza, ma comunque… arrivammo nella sala da ballo, e poi rimbalzando di qua e di là, io ovviamente, perché lui sembrava avesse i binari sotto i piedi, arrivammo vicino al pianoforte. Non c’era nessuno in giro. Quasi buio, solo qualche lucina, qua e là. Novecento mi indicò le zampe del pianoforte.
Togli i fermi,” disse. La nave ballava che era un piacere, facevi fatica a stare in piedi, era una cosa senza senso sbloccare quelle rotelle.
Se ti fidi di me, toglili.”
Questo è matto, pensai. E li tolsi.
E adesso vieni a sederti qua, mi disse allora Novecento.
Non lo capivo dove voleva arrivare, proprio non lo capivo. Stavo lì a tenere fermo quel pianoforte che incominciava a scivolare come un enorme sapone nero… Era una situazione di merda, giuro, dentro alla burrasca fino al collo e in più quel matto, seduto sul suo seggiolino – un altro bel sapone e le mani sulla tastiera, ferme.
Se non sali adesso, non sali più,” disse il matto sorridendo.
Okay. Mandiamo tutto in merda, okay? tanto cosa c’è da perdere ci salgo, d’accordo, ecco, sul tuo stupido seggiolino, ci son salito, e adesso?”
E adesso, non aver paura.”
E si mise a suonare.
Ora, nessuno è costretto a crederlo, e io, a essere precisi, non ci crederei mai se me lo raccontassero, ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava, non smetteva un attimo, ed era chiaro, non suonava semplicemente, lui lo guidava, quel pianoforte, capito?, coi tasti, con le note, non so, lui lo guidava dove voleva, era assurdo ma era così. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l’Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte. Oh yes.»

https://www.youtube.com/watch?v=DGCrx4y-bkw

Gemme n° 125

caramella1

Questa caramella di Helloween è stata la gemma di F. (classe quarta). “Ricordo una giornata stortissima, sono al supermercato con mia madre, e davanti a noi c’è una bimba con in mano un pacchetto di queste caramelle. Il papà non se ne accorge. Alla cassa la bimba appoggia il pacchetto di caramelle sul nastro suscitando la contrarietà del padre. “A scuola facciamo una festa, tutti portano qualcosa e io non ho niente da portare”. Il papà fa la faccia brutta e le dice “Sai che ora che non c’è la mamma non penso di potertela comprare”. Mi prende un groppo in gola, guardo mia madre e prendo io le caramelle. Li rincorro fuori dal supermercato pensando fra me e me “ma cosa ho fatto?”, li raggiungo, li fermo, il padre mi fulmina con lo sguardo, ma la bimba mi dà un abbraccio fortissimo: me lo porto ancora nel cuore”.
La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l’amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l’anima respira e grazie alla quale vive.” (Banana Yoshimoto, “Un viaggio chiamato vita”)

Gemme n° 124

Di questa canzone amo sia il genere rap e il cantante Clementino, sia il messaggio: non tutti i ragazzi di strada sono delinquenti per loro natura. La camorra ha inciso sulla loro esistenza distruggendo la loro famiglia. Questo è anche un aspetto che sento mio e mi ricorda le mie origini: sarebbe potuto capitare anche a me e invece ho una vita normale con amici fantastici.” Così L. (classe seconda) ha presentato la propria gemma.
Verso la fine del brano si ascoltano queste parole: “Non è la fine del mondo ma quella del rispetto, la fine dei ragazzi, la fine della vita per chi rimane in strada ancora carenza d’affetto”. Penso sia stata questa la preoccupazione maggiore di L.: la vita in generale continua sopra la vita in particolare di chi vive quella realtà e che sembra essere abbandonato a se stesso e al proprio destino. E’ lecita la domanda del ritornello: “Dimmi adesso dove andrai, dimmi che succederà quando le vele saranno ormai tutte spiegate. Dimmi poi cosa sarà di chi profuma di strada quando le vele saranno ormai tutte spiegate”.

If God will send his angels

IF GOD WILL SEND HIS ANGELS (U2, Pop)
Nessun altro qui, baby, nessun altro da biasimare
Nessuno su cui puntare il dito… Solo tu ed io e la pioggia
Nessuno te l’ha fatto fare Nessuno ti ha messo le parole in bocca
Nessuno qui prendeva ordini
Quando l’amore ha preso un treno per il Sud
E’ il cieco che guida la bionda E’ roba, roba da canzoni country
Ehi se Dio mandasse i suoi angeli E se Dio mandasse un segno
E se Dio mandasse i suoi angeli Sarebbe tutto a posto?
Dio ha il telefono staccato, bimba Prenderebbe mai su se potesse?
E’ passato un po’ di tempo da quando si è visto quel bimbo
In giro da queste parti. Vedi Sua madre spacciare in un portone
Vedi Babbo Natale con un piattino dell’elemosina.
Gli occhi della sorella di Gesù sono piaghe…
La strada maestra non è mai sembrata così meschina
E’ il cieco che guida la bionda Sono i poliziotti che riscuotono i soldi delle truffe
Così dov’è la speranza e dov’è la fede… e l’amore? Cos’è che mi dici?
L’amore… accende il tuo albero di Natale? Un minuto dopo, ti scoppia un fusibile
Ed il “cartoon network” diventa il telegiornale
Ehi se Dio mandasse i suoi angeli Ehi se Dio mandasse un segno
Beh se Dio mandasse i suoi angeli Dove andremmo?
Gesù non lasciarmi mai andare Sai che Gesù mi spiegava come stanno le cose
Poi hanno coinvolto Gesù nello “show business”
Adesso è difficile entrare da quella porta E’ roba, è roba da canzoni country
Ma immagino che fosse qualcosa per cui continuare
Ehi se Dio mandasse i suoi angeli Sicuramente potrei usarli qui proprio adesso
Beh se Dio mandasse i suoi angeli Dove andremmo?…
(…)
Le cose non stanno andando affatto bene e sorge la classica domanda contenuta nei libri dei Profeti: Dio che fa? Beh, la risposta di Bono è durissima: Dio ha il telefono staccato. Ricorda molto il Dio di Ligabue a cui viene chiesto un momento per rispondere a tre domande; il rocker di Correggio conclude con “quanto mi conta una risposta da te, di su, quant’è? ma tu sei lì per non rispondere… perché nemmeno una risposta ai miei perché”. Certo, un telefono staccato è angosciante: la possibilità di comunicazione c’è, il mezzo c’è e potrebbe pure funzionare, ma colui che è all’altro capo del filo ha deciso di non voler essere disturbato, o comunque di non voler parlare. Il verso successivo degli U2 è una domanda che spalanca un’altra serie di interrogativi: “prenderebbe mai su se potesse?”. Dio non può rispondere? Non è onnipotente? E’ onnipotente ma non si immischia? E potendo, perché non rispondere? Non vuole? Non ascolta per non essere angustiato nella sua impotenza? Non ascolta perché non gli interessa?
Il bambino che non si vede in giro da un po’ di tempo è Gesù; seguono due figure legate chiaramente a lui nel testo, “Sua madre” e una sorella, e un personaggio che pare non c’entrare nulla come Babbo Natale ma che colpisce in quanto Babbo posto tra una madre e una figlia: insomma può apparire un ritratto di famiglia! Certo “decadentino”: Maria che spaccia, Babbo Natale che invece di donare i regali agli altri fa l’elemosina e la sorella di Gesù con gli occhi piagati! Insomma il panorama non è per nulla godibile, tanto che gli U2 si chiedono dove siano finite le tre virtù teologali: “Così dov’è la speranza e dov’è la fede… e l’amore (carità)?”.
L’unica possibilità resta Gesù, quello vero però, e non quello dei telepredicatori e delle show business.

Gemme n° 119

La gemma di M. (classe quarta) è stato un pezzettino del film d’animazione “Fantasia 2000”: “Innanzitutto mi piacciono gli effetti speciali. La gemma è però centrata sulla natura che secondo me comprende tutto e interviene sempre nel nostro mondo, se ne appropria. E’ un ciclo continuo. Poi, in riferimento allo spezzone proposto, vorrei anche dire che all’inizio la natura sembra giovane, mentre dopo appare più matura: trasportando questo in ambito umano mi viene da pensare che quando uno è nato per una cosa, la fa indipendentemente dal percorso seguito.”
Propongo un pensiero dello studioso delle religioni Raimon Panikkar che mi è venuto in mente guardando la sequenza proposta da M.: “Io vivo costantemente la morte. La morte è un problema per l’individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d’acqua. Cosa capita a questa goccia d’acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? La goccia d’acqua sparisce, ma all’acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura. Ciò che sparisce, sono le difficoltà di comunicare, di abbracciarsi, di amarsi, che nascono grazie all’individualismo.”