“Caro papà… Sai che ogni tanto mi capita ancora di vederti. Quando chiudo gli occhi certe sere prima di dormire, ti sento ancora passare tra le mie giornate. A volte tiro fuori i tuoi vecchi vestiti, li guardo a lungo, ma anche se volessi non riuscirei a metterli. Gli armadi sono ancora pieni dei tuoi vestiti, la mamma dice che è perché non ha mai tempo di buttarli, ma io so che non è vero, in realtà è perché non vuole. Una volta l’ho vista accarezzare un tuo maglione dopo che ci aveva messo il tuo profumo sopra. A volte vorrei poterti re-incontrare, anche solo per cinque minuti. Ne avrei di cose da dirti che cinque minuti non mi basterebbero, ma se li avessi me li farei bastare. Ti direi che ci manchi e che senza di te a tavola si sorride un po’ meno. Ti direi che sto bene e che nonostante tutto me la cavo, anche se non è facile crescere senza i tuoi consigli. Ti direi che stanno tutti bene. F. sta diventando una donna e mamma è sempre più bella, ogni giorno che passa. Ti direi questo e ti direi grazie per quello che mi hai dato e per quello che mi stai ancora dando. Anche se fanno tutti finta di niente e fanno finta che non ci sei più, io lo so che sei ancora qui con me. So che in quelle giornate in cui tutto mi crolla addosso, sei tu a darmi la forza, sei tu a darmi quei pochi secondi in più e sei sempre tu a non farmi mollare la presa. Lo so che ci sei, che non mi hai lasciato e che mi proteggi. So che anche se sbaglio in tante cose, non sbaglio a guardare il cielo e dirti grazie quando torno a sorridere. Se solo potessi rivederti anche solo per cinque minuti, ti direi grazie per vivere ancora in me. E anche se quei cinque minuti non ce li da nessuno queste cose te le dico lo stesso, perché so che in un modo o nell’altro, le sentirai” (A. classe quarta).
“Ieri avevo scritto una lettera, ma poi l’ho riletta ed era solo uno sfogo, quindi ho portato questo. E’ un post che ho messo su una mia pagina personale due giorni dopo la morte di G. In queste poche righe c’è tutta la nostra amicizia: lui spiegava le stelle dal nulla, nei momenti vuoti tirava fuori il telefono e ci diceva che stelle avevamo sulla testa e le descriveva (poi non ho mai capito se era una sua passione o meno perché con lui non si capiva mai se era ironico o meno). La mia compagnia per i 17 anni mi ha regalato una stella; fa strano perché è un regalo grande, ma è come se si sentissero che l’anno dopo non ci saremmo stati tutti. “Tua Glory” è perché quando eravamo insieme lui dal nulla un giorno mi ha chiamato Glory invece che G. e abbiamo iniziato a chiamarci così. E questo è quello che dedico a lui, la sua stella, perché è lì, spero sia lì”.
Ho sempre pensato che quando una persona amata se ne va ci lascia una sorta di testamento spirituale: continuare ad alimentare con amore la relazione che c’era, in modo da percepirne la presenza, da sentire che vita e morte fanno parte di una stessa esistenza. Ecco, in quel “ti prometto che ogni tanto, non sempre, mi siederò su una panchina di notte e dal nulla inizierò a dire a chi ho intorno che stelle hanno sulla testa, come facevi tu” che ha scritto G. (classe quarta) vedo proprio quel testamento spirituale.
Pubblico un articolo non per studenti. E’ per addetti o appassionati. L’ha scritto Marcello Neri (professore incaricato di Teologia cattolica presso l’Università di Flensburg, Germania) e l’ho recuperato grazie a una segnalazione su Fb da Settimana News. Al centro della riflessione il rapporto tra il proemio della Veritatis Gaudium e il resto del testo.
“Il proemio di Veritatis gaudium (VG) è sicuramente ambizioso, perché non mira a una semplice riorganizzazione degli studi teologici all’interno di istituzioni legate alla Santa Sede. Ben altra è la prospettiva di queste poche pagine uscite dalla penna (o mente) di Francesco: l’orgoglio di una riattivazione dell’efficacia degli studi ecclesiastici che sia all’altezza della loro migliore tradizione, in un contesto però del tutto inedito rispetto alla storia recente della Chiesa e, quindi, mancante di referenzialità esemplari. Liberare la teologia da scorie del passato che ne impediscono il passo sciolto nel presente; rammemorarle che essa non si inventa da sé a ogni dato momento, ma che può sapientemente attingere da un’intelligenza che può essere stata magari marginalizzata, ma non si è certo affievolita; esercitare con libertà e passione una forma del sapere la cui razionalità avanza la pretesa di porre la questione della verità del Dio di Gesù senza volerla imporre come sistema dominante e sintetico di ogni umana ricerca di verità. L’ambizione dell’intento inscritto in queste poche pagine va onorata, da parte della teologia, assumendosi la responsabilità di dare forma concreta all’auspicio e al desiderio di papa Francesco. Vedremo poi come una sorta di schizofrenia del registro linguistico interno del documento rappresenti proprio l’ostacolo maggiore in vista dell’attuazione effettiva dell’idea di studi ecclesiastici e di teologia contenuta nel proemio.
Mi è stato chiesto uno sguardo su VG dalla «periferia»: non solo lontano dal centro romano delle cose e vicende ecclesiali, ma anche in una condizione di estrema marginalità del cattolicesimo e della sua teologia. Come può essere quella di insegnarla in una piccola università del profondo nord tedesco, non in una facoltà ma all’interno di un dipartimento ridotto all’essenziale (dove bisogna arrangiarsi a fare un po’ di tutto, insomma), a sua volta lontano e periferico (geograficamente) rispetto alla sede della diocesi. Da un lato, a mio avviso si tratta di condizioni ideali per guardare a VG come a qualcosa di più di un bel sogno, di un «sarebbe bello, ma…». L’estrema destrutturazione, il disincanto e il realismo cui costringe un contesto di diaspora marcata in condizione di secolarizzazione avanzata, apre praterie alla fantasia della ragione teologica (ammesso che essa ne abbia ancora un po’ in riserva, e non si sia completamente esaurita nelle estenuanti polemiche interne alla compagine ecclesiale). In questo momento, proprio leggendo il proemio di VG, essere piccoli e senza storia, essere periferici e un po’ dimenticati (da Dio, dal tempo e dall’istituzione ecclesiale), essere marginali rispetto all’impianto complessivo di una già piccola università (che non vuol dire essere irrilevanti, però), può essere un vantaggio e, quindi, compete proprio a periferie simili a questa, anche in tutt’altri contesti, farsi carico esplicito dell’impegno per una riattivazione dell’efficacia culturale degli studi ecclesiastici. D’altro lato, la periferia da cui proviene questo sguardo su VG è strana – appunto, perché rimane comunque piantata nel cuore dell’Europa sebbene sia caratterizzata da disimmetrie relazionali con il «centro» – o, almeno, con quanto prima di Bergoglio era il centro effettivo del cattolicesimo; e che con lui, a mio avviso, è stato fortemente relativizzato sebbene tutti continuino a fare come se fosse ancora tale. Tutto questo diventa evidente quando si sta davvero in una periferia, quando si abita un margine reale del cattolicesimo contemporaneo: quello che si considera il «centro», nonostante l’opera di ridislocamento in atto delle coordinate fondamentali della Chiesa cattolica, appare essere immediatamente tale solo in forma nominale. In realtà, il «centro» è solo uno dei molti margini possibili attualmente che delineano l’altrove insituabile del periferico. Questa attrazione che assorbe apparentemente su di sé l’interno è, a mio avviso, ancora la funzione virtuosa del «centro» (margine fra i margini) della Chiesa cattolica, in quanto permette ampi spazi di movimento nelle sue zone periferiche.
L’esperienza della periferia da cui si muove la mia prospettiva è come quella di chi è uscito da lungo tempo da casa e ha percorso molti sentieri non lineari (alcuni anche interrotti, come è bene che sia), e che ora – voltandosi indietro – non riesce a intravedere più o non ha alcuna memoria della porta dalla quale si è usciti. Letta a partire da questa esperienza di periferia, VG è come se si stesse ancora cercando la porta giusta da cui uscire; fino al passo decisivo che compie il proemio di Francesco di decidere che, piuttosto che continuare a tergiversare in attesa della giusta via di uscita, è molto meglio fare un bel buco nel muro (anche perché molto probabilmente quella porta non esiste affatto). Poco importa dove si faccia saltare il bastione per generare un’apertura, perché sarà sempre più fruttuoso che estenuarsi nel trovare l’uscita che non c’è. Il proemio di VG rappresenta la consapevolezza raggiunta da papa Francesco che, per quanto riguarda gli studi ecclesiastici, o si procede un po’ brutalmente in questa maniera oppure essi perderanno definitivamente il treno che potrebbe condurli nell’aperto della loro destinazione (anziché continuare a stare comodamente in pantofole nell’ambiente familiare in cui abitano oramai solo loro – e, al più, i cloni che essi auto-generano). Ma è proprio qui che la contraddizione tra proemio (ispirativo, pronto a sparigliare senza timore le carte in gioco) e il resto del documento (giuridico, preoccupato di organizzare l’esistente) si fa non solo più evidente, ma appare quasi comica. Alla fin fine, sembra di essere dentro un cartone animato di Willy il Coyote: mentre il nostro anti-eroe sfortunato ci ha messo l’anima, e ogni ingegno possibile, per aprire una breccia nel muro di cinta, il perfido Road Runner del massimalismo normativo-giuridico ha già provveduto a costruirne un altro tutt’attorno – più alto e più solido di quello così faticosamente abbattuto. L’ampliamento caparbiamente voluto dal buon Willy-Francesco è ridotto a semplice illusione ottica dall’ossessione di controllo del Road Runner vaticano di turno (in questo caso la Congregazione per l’educazione cattolica).
Qual è il testo di Veritatis gaudium?
Si pone, quindi, la questione di quale testo sia VG: il proemio o la parte normativo-canonica? O l’adesione degli studi ecclesiastici al vissuto quotidiano della fede, nel quale il «perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture» è già «messo in atto dal popolo di Dio» (VG 3), oppure l’indistinzione onnipervasiva del dettato giuridico che omologa centralmente gli studi ecclesiastici stessi? Non si tratta solo del fatto che i due testi parlano di cose diverse e inconciliabili fra di loro, ma anche che con l’attuale impianto normativo (che fa il secondo testo) degli studi ecclesiastici la figura del poliedro, così centrale nella visione ecclesiologica e culturale di Francesco, è semplicemente impossibile: per la forma canonica asserita, esso è semplicemente inconcepibile. Non solo gli studi ecclesiastici vengono considerati come una sfera indifferenziata, ma tutti i punti della superficie che la compongono sono dei cloni del centro onnipresente. Questo effetto artificiale di rispecchiamento narcisistico permette al centro di immaginarsi di poter essere efficacemente presente ovunque; ma appunto, si tratta solo di un’illusione che può essere tenuta in vita unicamente mortificando la realtà delle cose.
Dalla teologia della liberazione alla liberazione della teologia
Se e in quale misura papa Francesco sia influenzato dalla teologia della liberazione è questione che può rimanere tranquillamente aperta per quanto riguarda queste considerazioni su VG (ritengo quindi che il testo di VG sia esclusivamente il proemio). Tenendo conto di alcuni aspetti di semplice correttezza metodologica. In primo luogo, che il singolare sotto cui si sussumono tutta una serie di percorsi teologici, pastorali e personali è un raccoglitore ideal-tipico che non rende ragione alla vivacità del dibattito critico acceso da quegli stessi diversi itinerari della fede. In secondo luogo, bisognerebbe chiedersi se il termine «teologia della liberazione», così come esso viene usato nell’Occidente europeo, non sia alla fin fine una sorta di denominazione colonizzante di un pensiero non omologabile a quello del centro europeista. Fatte queste brevi premesse, mi sembra possibile affermare che VG miri esplicitamente alla liberazione della teologia da se stessa; il che vuol dire anche dall’apparato istituzionale e canonico che le sta impedendo di essere quello che Francesco si auspica che essa sia. VG non dice cosa la teologia deve essere dopo questo processo di liberazione; non lo dice perché, una volta che esso si sia effettivamente realizzato, non sarà possibile definire univocamente la teologia approdata a questo esito (se non in termini così generici e astratti da non voler dire sostanzialmente nulla). Piuttosto, VG si limita, con un gesto tipico di Francesco, a indicare un metodo procedurale che necessariamente si realizza in una multiformità di modi concreti: gli studi ecclesiastici «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo (…)» (VG 3). Se così si pratica la teologia, allora è chiaro che essa, entrando nel laboratorio della vita umana cui si destina l’evento cristiano, non sa né come ne uscirà lei, né cosa ne uscirà da questa impresa performativa della fede. Ossia, la teologia non sa mai a monte come di fatto si realizza, in un dato luogo e tempo, la realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo. E non lo sa neanche a valle, perché questa realtà è, come la sua adeguata interpretazione teologica, squisitamente performativa: ossia, si genera in atto; si dà in quanto pratica di vissuti umani contingenti.
Per una declericalizzazione degli studi ecclesiastici
Ogni possibile riattivazione degli studi ecclesiastici che voglia essere all’altezza di una destinazione che non si consuma nel proprio rispecchiamento e auto-conferma, passa attraverso la possibilità, capacità e volontà di disinnescare la simbiosi con l’itinerario di formazione al ministero ordinato, che ne ha sequestrato in toto la loro ragion d’essere. In questo momento, tale sovrapposizione non fa bene né al sapere teologico né al ministero ordinato; lasciando da parte la questione scottante del fatto che gli studi ecclesiastici sono al massimo «sopportati», ma non certo supportati, dalle istituzioni ecclesiali attuali preposte alla formazione di quello che sarà il corpo clericale della comunità cristiana (seminaristi inclusi). Nella direzione di uno scioglimento della cattiva simbiosi fra studi ecclesiastici e introduzione allo stato presbiterale della vita cristiana muove, con estrema chiarezza e lucidità, il proemio stesso di VG: «il vasto e pluriforme sistema degli studi ecclesiastici è fiorito lungo i secoli dalla sapienza del popolo di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo e nel dialogo e discernimento dei segni dei tempi e delle diverse espressioni culturali» (VG 1). Francesco auspica dunque una restituzione degli studi ecclesiastici al loro soggetto generatore, ossia al popolo di Dio nella sua sagacia, che nella prospettiva di Bergoglio è sicuramente una categoria non immediatamente definibile, ma plastica e storicamente determinata. La forza che istituisce questo luogo genetico degli studi ecclesiastici è quella dello Spirito Santo, attualizzazione e concretizzazione dell’evento cristiano di Dio nel distendersi della storia umana. Infine, la loro ragion d’essere è quella del discernimento dei segni dei tempi, ossia dell’attualità evangelica della storia nelle sue molte complessità, e di un’intelligenza delle esperienze culturali, cioè della pluralità e multiformità di cui deve essere capace la performatività dell’evento cristiano. Riconsegnati a questa scena originaria della loro genesi, quindi a un’attuazione non servile né funzionale, gli studi ecclesiastici nella loro riattivazione efficace faranno bene anche al momento di introduzione al ministero ordinato nella Chiesa, educato da essi a non comprendersi come corpo separato, o a sé stante, all’interno della comunità cristiana. L’ordinamento canonico che non solo garantisce, ma addirittura richiede una separazione clericale degli studi teologici risulta incompatibile non solo con questo quadro di restituzione allo spazio genetico dell’insieme degli studi ecclesiastici, ma rende di fatto impraticabile un’effettiva introduzione al criterio della «inter- e trans-disciplinarietà», da esercitare «con sapienza e creatività nella luce della rivelazione» (VG 4c), che dovrebbe organizzarne l’architettura complessiva.
Non c’è possibilità di riattivare l’efficacia storica degli studi ecclesiastici se non si lascia spazio a un «tentare» che non può controllare, né predeterminare, l’esito dell’impresa a cui si mette mano. Francesco parla esplicitamente della forma «aperta, cioè incompleta» (VG 3) del buon pensiero che scaturisce dall’intelligenza storica del vangelo di Gesù. Ancora una volta, tra il testo di VG e quello che chiamerei l’apparato canonico a lui giustapposto c’è una sostanziale contraddizione di termini – dove il secondo ha esattamente l’ossessione di non lasciare aperto alcuno spazio, né indeterminata alcuna possibilità. Senza dover scendere in questioni di merito sicuramente decisive, come quella di cosa voglia dire dal punto di vista canonistico la libertà accademica, cui a questo punto neanche gli studi ecclesiastici possono rinunciare se vogliono essere riattivati nel senso di VG, è proprio la forma mentis di base che porta all’elisione di una delle due parti del documento. Detta in altre parole: il proemio richiede in questo momento agli studi ecclesiastici uno scarto che si può realizzare solo nella forma della loro anomia, stante il quadro giuridico preposto al loro governo. Non vi è altro modo di esercitare effettivamente un pensiero incompleto, esattamente perché l’iper-tonicità del quadro giuridico-canonico mira a eliminare qualsiasi possibile incompletezza. Solo assumendo il dovere di questa anomia, gli studi ecclesiastici verranno finalmente liberati dall’ossessione di essere il tutto (del sapere) e di avere l’ultima parola da dire (sulla verità).
«Che l’immagine dell’uomo non vacilli, si offuschi e
sbiadisca, che gli uomini non si riducano a formiche tecnologiche o edonisti
senza anima o marionette frastornate dal nostro furibondo potere». Ritengo queste
parole decisamente interessanti e da esse si potrebbe partire per una
discussione sui tempi attuali. Colpisce scoprire che siano state scritte nel
1955… Da almeno dieci anni nelle classi quinte faccio conoscere Hans Jonas e,
in particolare, il suo scritto “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” per avviare
una discussione e una riflessione sul tema del male. Un annetto fa ho messo da
parte un articolo
pubblicato da Avvenire che presentava il libro Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti dal
quale sono tratte proprio le parole con cui ho aperto questo post. Ecco il
pezzo per intero:
«Che l’immagine
dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano
a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal
nostro furibondo potere». A cosa attingere per evitare questa deriva?
All’uso adeguato della filosofia che instrada verso la vita buona e
all’esercizio della virtù? Sono dilemmi che hanno il sapore dell’attualità
benché sollevate da Hans Jonas nel 1955. Potrebbe d’altro canto essere
diversamente se «le questioni filosofiche – puntualizzava il pensatore sei anni
prima – si ripropongono ad ogni nuova epoca tanto daccapo, quanto alla luce
della loro intera vicenda storica antecedente?». Le citazioni provengono dalle
annotazioni del filosofo appartenenti alla sua stagione canadese, dal 1949 al
’55.
A lungo conservate all’Hans Jonas Nachlass dell’università di Konstanz sono
state ripescate e raccolte in anteprima mondiale da Fabio Fossa in questo libro
(Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti, Ets, pp. 120,
euro 10). Hans Jonas non è tra gli autori più conosciuti al grande pubblico
eppure il suo curriculum scintilla. Dopo gli studi con Rudolf Bultmann e Martin
Heidegger nella Germania degli anni Trenta, prende la via dell’esilio,
lontano dall’Europa. La sua vita però non si riduce a studio e contemplazione.
Anzi l’agire ne costituisce una cifra di rilievo. Lo prova, nel corso della
Seconda guerra mondiale, la scelta di arruolarsi nella Jewish Brigade,
inquadrata nell’esercito britannico e operativa sul suolo italiano. I rapporti
con la penisola scandiscono la vita di Jonas. Sarà proprio al rientro
dall’Italia, nel 1993, dopo avere ricevuto il Premio Nonino dedicato ai maestri
del nostro tempo, che il filosofo tedesco naturalizzato americano si spegnerà a
New York all’età di novant’anni.
Il nome di Jonas comincia a uscire dai cenacoli dotti appena pubblica Il
principio responsabilità, dove traccia un’etica all’altezza della
civiltà tecnologica. Siamo, con Jonas, lontani anni luce dalle prefiche
apocalittiche. La Guerra fredda imperversa (è il 1979) e molti continuano a
gridare al pericolo rosso, pronto a sbarcare in Afghanistan. Pochi invece si
curano dei potenziali sviluppi distruttivi della civiltà a più alto tasso
tecnologico mai esistita. Eppure la riflessione sul ‘Prometeo scatenato’
occhieggiava già da tempo tra le note di Jonas. Lo testimoniano gli scritti del
soggiorno canadese che sono tutt’altro che una parentesi nel cammino di
pensiero di Jonas. Già con il breve Introduzione alla filosofia e con Virtù
e saggezza in Socrate preparati nell’inverno del 1949 per i corsi del
Dawson College della McGill University, emerge la costante attenzione all’uomo
e alla vita buona, medicina per non trasformarsi in «formiche tecnologiche».
«L’uomo è il risultato delle sue azioni passate – scrive nel 1949 in
Introduzione alla filosofia-. Intendo il passato culturale della stirpe,
custodito nella memoria storica; e solo
fintantoché questo passato è realmente ricordato l’uomo è davvero consapevole
del proprio esistere presente e, di conseguenza, dell’autentico significato
attuale dei propri problemi esistenziali». È questa dimensione storica che
gli consente di porsi di là del dualismo tra intelletto e vita, tipico della
filosofia greca. Ma la sua storicità non garantisce nulla se non un punto di
partenza. Occorre, all’uomo, inseguire la vita buona e praticare la virtù,
rovello dello sforzo teoretico di Jonas. Agire
eticamente nel mondo storico perseguendo la virtù consente di evitare le
spirali dello gnosticismo o le storture del sogno scientista che «promuove la
massima realizzazione di tutti i fini desiderabili attraverso la semplice messa
a disposizione dei mezzi».
Occorre ricucire lo strappo tra intelletto e vita. «L’approccio dualistico alla
costituzione sostanziale dell’uomo – scrive già nel 1950 – rende conto del
fatto che tanto la comprensione quanto la realizzazione del fine dell’uomo non
dipendono da un processo di sviluppo spontaneo, ma dall’esercizio della virtù
etica». Virtù che non può rimanere chiusa nell’autosufficienza dell’intelletto
e che nello Jonas maturo assume i tratti della responsabilità nei confronti delle generazioni a venire.
Responsabilità che faticherebbe a farsi largo senza la «fatica della filosofia,
che deve sempre ripartire da capo, fondata com’è sulla ragione; e la ragione non è il freddo, impersonale intelletto,
ma è pervasa dalla passione dell’amore o dell’onestà».
Papa Francesco tiene il suo discorso al Consiglio ecumenico delle Chiese (Denis Balibouse/pool photo via AP)
Qui faccio un tuffo nel passato, a quando ho dato l’esame di Ecumenismo col prof. Ermanno Lizzi. L’articolo che pubblico è per appassionati di dialogo religioso (ma non è eccessivamente tecnico); è il resoconto della visita di papa Francesco al CEC (la dicitura inglese è WCC, World Council of Churches, ma nella mia memoria di studente è CEC). Le parole sono di Brunetto Salvarani, contenute nel suo articolo di ieri su Settimananews.
“Un viaggio verso l’unità, aveva detto papa Francesco salutando i giornalisti in aereo, in volo verso Ginevra, abbinando felicemente l’idea di un tragitto geografico con quella di un itinerario ecumenico in atto.
Nel parlare di ecumenismo, ci siamo ormai assuefatti a far ricorso a metafore atmosferiche, per indicare lo stato del cammino di incontro tra le Chiese. Così, negli anni subito dopo il concilio prevaleva l’indicazione, densa di speranze, di una prossima primavera ecumenica, nella sensazione – in effetti diffusa in molti ambienti – che il tempo si stesse mettendo al bello; mentre nell’ultimo decennio, soprattutto dopo la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu (2007), si è fatto luogo comune il riferimento a un autunno, o addirittura ad un inverno, ecumenico, ben distante dal clima conciliare. Peraltro, ora, è legittimo pensare che, quanto meno, stia chiudendosi l’inverno più cupo, e si vada aprendo una stagione primaverile ricca di potenziali ulteriori sviluppi.
Il pellegrinaggio ecumenico di papa Francesco, svoltosi giovedì 21 giugno nella città di Giovanni Calvino, va in effetti in tale direzione, contribuendo a porre al cuore delle identità delle Chiese la loro relazione fraterna. I 70 anni del CEC
L’occasione dell’evento erano le celebrazioni per il 70° anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC, o WCC dalle iniziali inglesi), principale raggruppamento di Chiese cristiane su scala mondiale (la Chiesa cattolica, è noto, vi partecipa da osservatrice), apertesi, sempre a Ginevra, nello scorso febbraio. Si tratta dell’organismo più ampio e inclusivo tra le diverse organizzazioni del movimento ecumenico moderno, fondato ad Amsterdam il 22 agosto del 1948 e formato oggi da 348 Chiese membro in 110 paesi del mondo, in rappresentanza di oltre 560 milioni di cristiani.
Esso comprende la maggior parte delle Chiese ortodosse, numerose Chiese protestanti storiche (anglicane, battiste, luterane, metodiste, riformate) e diverse Chiese indipendenti: una comunione di Chiese riunite per promuovere il dialogo e la riconciliazione fra le diverse tradizioni cristiane.
Si noti: i suoi membri fondatori provengono principalmente dall’Europa e dal Nord America, ma oggi la maggior parte dei membri si trova in Africa, Asia, Caraibi, America Latina, Medio Oriente e Oceania.
Per statuto, lo scopo primario del CEC è «chiamarsi gli uni gli altri all’unità visibile in un’unica fede e in un’unica comunione eucaristica». Il CEC è per i suoi membri uno spazio di riflessione, azione, preghiera e impegno comune.
La sua 10ª assemblea si è svolta a Busan, seconda città della Corea del Sud, dal 30 ottobre all’8 novembre 2013, con il motto Dio della vita, guidaci alla pace e alla giustizia: si trattò di un’occasione preziosa per misurare il ruolo cruciale dell’Asia nel panorama geopolitico, in chiave sia economica sia religiosa: si pensi, ad esempio, alla notevole tenuta delle grandi tradizioni spirituali di marca asiatica ma anche all’emergere della terza Chiesa nel quadro di un cristianesimo ormai globale. Una visita non di cortesia
Ora, la scelta di papa Francesco di recarsi in Svizzera per rendere omaggio al lavoro ecumenico del CEC non è stata senza significati, tutt’altro, rappresentando un riconoscimento al contributo unico che tale organismo ha offerto al moderno movimento ecumenico.
Già il 2 marzo, durante una conferenza stampa congiunta in Vaticano, alla presenza del cardinal Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, il reverendo Olav Fykse Tveit, pastore luterano e segretario generale del CEC, aveva detto che «la notizia della visita del papa è un segno di come le Chiese cristiane possano affermare la nostra chiamata e missione comune di servire insieme Dio».
E se – come si diceva – fino a pochi anni fa eravamo rassegnati all’inverno ecumenico, lo stesso Tveit, che viene dalla Norvegia, ama dire che nell’inverno non c’è nulla di sbagliato: c’è soltanto bisogno di guanti e vestiti che tengano caldo. E che con Bergoglio e le sue iniziative sta arrivando una nuova primavera (fino a riferirvisi come a «una pietra miliare storica nella ricerca dell’unità dei cristiani e della cooperazione tra le Chiese per un mondo di giustizia e di pace»).
La sua partecipazione, a Lund, alla preghiera per la celebrazione del 5° centenario della Riforma (31 ottobre – 1° novembre 2016) ha molto incoraggiato il movimento ecumenico diffuso: in quel frangente il motto delle celebrazioni, Dal conflitto alla comunione, si è fatto vita.
Certo, recandosi a Ginevra, Bergoglio ha seguito le orme di due suoi predecessori, Paolo VI (10/6/1969) e Giovanni Paolo II (21/6/1984). Tuttavia, non si è trattato di un appuntamento di pura cortesia, bensì del frutto dell’impegno personale del papa per raggiungere l’obiettivo dell’unità dei cristiani. Mentre i viaggi precedenti dei due papi erano stati dedicati anzitutto alla Svizzera e agli uffici ginevrini delle Nazioni Unite in qualità di capi di Stato, Francesco – scegliendo di non visitare alcuna delle agenzie internazionali che vi hanno sede – vi si è recato prima di tutto come capo della Chiesa cattolica, vescovo di Roma e successore di Pietro. Camminare pregare e lavorare insieme
Papa Francesco partecipa alla preghiera ecumenica al Consiglio ecumenico delle Chiese (Denis Balibouse/pool photo via AP)
Il motto della giornata è stato Camminare pregare e lavorare insieme, a riecheggiare il tema adottato dall’ultimo incontro del CEC; ma anche slogan particolarmente caro a Francesco – camminare insieme – che più volte è ricorso a esso per indicare il salto di qualità che, a suo parere, è chiamato a fare il movimento ecumenico nell’odierna stagione storica. E che ha trovato a Ginevra un’altra tappa, per nulla secondaria: come è apparso evidente sin dal discorso papale della mattina, nella cappella nella sede del CEC, destinato a diventare una pietra miliare nella storia del movimento ecumenico.
Francesco ha recitato la preghiera di pentimento e ha ascoltato la lettura di un brano della Lettera ai Galati.
Ed è proprio sulla scorta della situazione dei Galati descritta da Paolo, i quali «sperimentavano travagli e lotte interne e si affrontavano accusandosi vicenda», che il papa ha preso la parola per una puntuale meditazione, indicando cosa significasse per l’apostolo camminare insieme secondo lo Spirito, rigettare la mondanità, scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono.
A suo parere, l’ecumenismo potrà progredire solo se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale. In effetti, nel corso della storia, «le divisioni tra cristiani sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana», facendo prevalere i propri interessi: «Prima si alimentavano gli interessi propri, poi quelli di Gesù Cristo». Sì, «stare insieme agli altri, camminare insieme, ma con l’intento di soddisfare qualche interesse di parte. Questa non è la logica dell’apostolo, è quella di Giuda, che camminava insieme a Gesù ma per i suoi affari».
In queste situazioni «il nemico di Dio e dell’uomo ha avuto gioco facile nel separarci, perché la direzione che inseguivamo era quella della carne, non quella dello Spirito. Persino alcuni tentativi del passato di porre fine a tali divisioni sono miseramente falliti, perché ispirati principalmente a logiche mondane».
Camminare secondo lo Spirito – ha dunque ripetuto – significa perciò scegliere con santa ostinazione la via del vangelo, e rifiutare le scorciatoie del mondo. Per progredire nel cammino ecumenico bisogna quindi lavorare in perdita, non pensando a tutelare soltanto «gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o ad orientamenti consolidati, siano essi maggiormente conservatori o progressisti». È necessario invece «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché se stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. L’ecumenismo è una grande impresa in perdita. Ma si tratta di perdita evangelica».
La meta è l’unità, mentre la strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni, oltre a danneggiare «la più santa delle cause: la predicazione del vangelo a ogni creatura».
E «le distanze che esistono non siano scuse – ha concluso con risolutezza Bergoglio –, perché è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!». Il diritto di sperare per tutti
Nel pomeriggio, ci si è spostati nella Visser’t Hooft Hall. Qui Tveit ha sottolineato che, per arrivare a questo giorno, molte persone in tutto il mondo hanno pregato e che, con questa visita, è palpabile la dimostrazione che è possibile superare le divisioni e le distanze, così come i profondi conflitti causati dalle diverse tradizioni e convinzioni di fede: «Il mondo in cui viviamo ha un disperato bisogno di segni che ci permettono di riconciliarci e di vivere insieme come un’unica umanità, preoccupata per la vita dell’unica terra, la nostra casa comune. Vediamo così tante cose che potrebbero dividerci, che creano conflitti, violenza e guerre. Anche la religione viene usata in modo improprio per questi scopi. I divari tra ricchi e poveri, tra popoli di gruppi e razze diverse, permangono e addirittura aumentano. Il nostro pianeta viene continuamente sfruttato e distrutto, e la dignità degli esseri umani costantemente attaccata, minando i loro diritti e le loro possibilità di sperare in un futuro migliore insieme in questo mondo. Dobbiamo essere uniti nella speranza di un futuro comune e condiviso per tutti. Abbiamo tutti il diritto di sperare».
Per poi concludere che «non ci fermeremo qui. Continueremo, potremo fare molto di più insieme per coloro che hanno bisogno di noi. Visto che oggi noi condividiamo sempre di più, facciamo in modo che le prossime generazioni possano creare nuove espressioni di unità, giustizia e pace!».
È toccato alla moderatrice del CEC, la teologa anglicana, originaria del Kenya, Agnes Abuom, portare un saluto particolare all’illustre ospite: «Lei è venuto da Roma a Ginevra – ha detto – e ci auguriamo di poter proseguire la nostra strada insieme a lei come compagni di pellegrinaggio: portando conforto a chi soffre, celebrando il dono della vita di Dio e impegnandosi insieme in azioni trasformative che migliorino la vita delle persone ovunque vi sia bisogno di giustizia e di pace». Per poterlo fare davvero, è indispensabile che le Chiese del CEC e la Chiesa cattolica lavorino bene insieme a livello internazionale e locale.
Nel suo discorso la teologa ha ripercorso l’impegno delle Chiese nei vari Paesi del mondo: «Speriamo – ha concluso – che la sua visita segni davvero una nuova fase di cooperazione e di unità cristiana». Cosa possiamo fare insieme?
Ha ripreso quindi la parola il papa, nel suo secondo discorso, pure assai denso: «Il CEC è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro?».
Tracciando un bilancio dei settant’anni del CEC, Francesco ha espresso un vivo ringraziamento per l’impegno che viene profuso per l’unità, ma anche una preoccupazione derivante dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine (il riferimento implicito era al Congresso missionario di Edimburgo del 1910, considerato unanimemente l’atto d’avvio del movimento ecumenico).
Infatti, il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato: ne va della nostra identità, e l’annuncio del vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certo, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda di tempi e luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione, e non per le nostre idee, strategie o programmi.
Un «nuovo slancio evangelizzatore»: è questo, per il papa, «il tesoro che noi, fragili vasi di creta, dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi».
«Camminare pregare, lavorare insieme». Nella parte centrale del suo secondo discorso ginevrino, Francesco si è soffermato sui tre verbi contenuti nel motto della giornata.
«Camminare in entrata», ha spiegato, rilanciando temi che gli sono particolarmente cari, «per dirigerci costantemente al centro», che è Gesù, e «in uscita», cioè «verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del vangelo all’umanità sofferente».
Anche nella preghiera, come nel cammino, non possiamo avanzare da soli», ecco il secondo imperativo, «perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra i credenti che si amano». «Quando diciamo Padre nostro risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli», l’esempio scelto dal papa: «La preghiera è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza, perché impediamo al vento dello Spirito di spingerla in avanti». «Chiediamoci: quanto preghiamo gli uni per gli altri?», l’esortazione in chiave ecumenica: «Il Signore ha pregato perché fossimo una cosa sola: lo imitiamo in questo?».
Infine, «lavorare insieme», ha raccomandato Francesco. «La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti».
È la cartina al tornasole dell’ecumenismo, il fatto che i deboli siano sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi: «Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione», perché «il programma del cristiano è un cuore che vede»: «Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?». In relazione all’altro
Al termine della densa giornata ginevrina, conclusasi con una festosa eucaristia celebrata per la Chiesa locale ma anche occasione per toccare con mano la perdurante divisione dei cristiani in tale ambito cruciale e i passi avanti ancora da compiere, non pochi sono apparsi i motivi di consolazione per il popolo del dialogo.
Lo si è colto bene, infatti: procedendo insieme verso la piena unità, i cristiani possono apprezzare al meglio il loro patrimonio comune, e farsi più consapevoli di ciò che già condividono; allo stesso tempo, in tal modo potranno affrontare meglio le differenze ancora da superare, specialmente per quanto riguarda le questioni dottrinali o morali. Un dialogo la cui prospettiva sembrerebbe risiedere nell’unità nella diversità riconciliata, stando all’esortazione Evangelii gaudium (n. 230): fino ad adottare un linguaggio tipico del movimento ecumenico, ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma come poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità.
Per papa Francesco, dunque, l’identità cristiana non potrà mai essere compresa attraverso la negazione dell’altro, come nella storia delle Chiese è accaduto spesso, ma solo e costantemente in relazione all’altro, colto nella sua irriducibile diversità. Si tratta di un processo centripeto, in controtendenza alle dinamiche vorticosamente centrifughe caratterizzanti questo tempo della globalizzazione, che potrebbe significare molto anche al di fuori dei tradizionali recinti religiosi.
E di una strada – come Francesco ha detto e mostrato concretamente una volta ancora a Ginevra – oggi non è più possibile prescindere.”
Mentre guidavo, ieri pomeriggio, mi sono imbattuto in una voce calda e ferma che proveniva dall’autoradio e che pronunciava delle parole a me ben note (le considero un baluardo, una fonte continua di profonde riflessioni e meditazioni). Su Radiotre, nella trasmissione Ad alta voce, l’attrice Sandra Toffolatti stava leggendo dei brani tratti dal Diario 1941-43 di Etty Hillesum. Ne pubblico qui un estratto, e rimando a questo link coloro che volessero riascoltare la lettura.
“11 luglio 1942, sabato mattina, le undici. Si dovrebbe parlare delle questioni più gravi e importanti di questa vita solo quando le parole ci vengono semplici e naturali come l’acqua che sgorga da una sorgente.
E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. Su tutta la superficie terrestre sí sta estendendo pian piano un unico, grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà rimanerne fuori. È una fase che dobbiamo attraversare. Qui gli ebrei si raccontano delle belle storie: dicono che in Germania li murano vivi o li sterminano coi gas velenosi. Non è granché saggio raccontarsi storie simili, e poi, se anche questo capitasse in una forma o nell’altra, è per responsabilità nostra? Da ieri sera piove con una furia quasi infernale. Ho già vuotato un cassetto della mia scrivania. Ho ritrovato quella sua fotografia che avevo perso quasi un anno fa, ma che sapevo avrei recuperato: ed eccola lì, in fondo a un cassetto disordinato. È tipico per me: io so che certe cose, grandi o piccole, si aggiustano – anche, e soprattutto, se sono cose materiali. Non mi preoccupo mai per il domani, per esempio so che tra poco dovrò andarmene di qui e non ho la più pallida idea di dove andrò a finire, e poi, anche le mie entrate sono ben scarse in questo momento – ma per me stessa non mi preoccupo mai, perché so che qualcosa succederà. Se si proiettano le proprie preoccupazioni sulle varie cose che devono accadere, si impedisce a queste cose di svilupparsi in modo organico. Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà sempre bene nella mia vita esteriore, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona. Mi meraviglio di quanto io mi stia già orientando verso la prospettiva di un campo di lavoro. Ieri sera camminavo con lui lungo il canale, avevo dei comodi sandali ai piedi e d’un tratto m’è venuto da pensare: devo portarmi anche questi sandali, così potrò alternarli alle scarpe più pesanti. Che mi prende in questo momento? Una gioia così leggera, quasi scherzosa? Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare qualcosa in più.
Probabilmente è di li che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s’inaridisce per l’amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche.
Mi chiedo che cosa farei effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l’ordine di partenza per la Germania, e se dovessi partire tra una settimana. Supponiamo che quel foglio mi arrivi domani: cosa farei? Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa, cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di anima e corpo. Mi farei tagliare i capelli molto corti e butterei via il mio rossetto. Cercherei di finire di leggere le lettere di Rilke. Mi farei fare dei pantaloni e una giacchetta con quella stoffa che ho ancora per un mantello d’inverno. Naturalmente vorrei ancora vedere i miei genitori e racconterei loro molte cose di me, cose consolanti – e ogni minuto libero vorrei scrivere a lui, all’uomo che – già lo so – mi farà morire di nostalgia. Certe volte mi sembra di morire sin da adesso, quando penso che dovrò lasciarlo e che non saprò più niente di lui.
Tra qualche giorno andrò dal dentista per farmi otturare tutti quei buchi nei denti: sarebbe proprio grottesco che mi venisse mal di denti. Mi procurerò uno zaino e porterò con me lo stretto necessario, poco, ma tutto di buona qualità. Mi porterò una Bibbia e quei libretti sottili, i Briefe an einen jungen Dichter, e in qualche angolino dello zaino riuscirò a farci stare lo Stundenbuch? Non mi porto ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me.
Anche queste due mani vengono con me, con le loro dita espressive che sono come giovani rami robusti. Spesso saranno congiunte in una preghiera e mi proteggeranno; e staranno con me fino alla fine. E così questi occhi scuri col loro sguardo buono, dolce e indagatore. E se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti dalla sofferenza e dal lavoro eccessivi, allora tutta la vita del mio spirito potrà concentrarsi negli occhi. Eccetera, eccetera. Naturalmente si tratta di un semplice stato d’animo, uno dei tanti che si provano in queste nuove circostanze. Ma è anche un pezzo di me stessa, una possibilità che ho. Una parte di me che sta prendendo sempre più il sopravvento. Del resto: un essere umano è poi solo un essere umano. Già ora abituo il mio cuore ad andare avanti, anche quando sarò separata da coloro senza cui non credo che potrei vivere. Il mio distacco esteriore aumenta di giorno in giorno per far posto a un sentimento interiore – la volontà di continuare a vivere e a sentirsi legati per quanto lontani si possa essere gli uni dagli altri. Eppure quando cammino con lui, la mano nella mano, lungo il canale – che ieri sera aveva un aspetto autunnale e tempestoso -, o quando, nella sua cameretta, mi scaldo ai suoi gesti buoni e generosi, allora provo di nuovo questa speranza e questo desiderio così umani: perché non potremmo rimanere insieme? Il resto non avrebbe più importanza, allora, io non voglio lasciarlo. Ma altre volte penso fra me: forse è più facile pregare da lontano che veder soffrire da vicino.
In questo mondo sconvolto, le comunicazioni dirette tra due persone passano ormai solo per l”anima. Esteriormente si è scaraventati lontano, e i sentieri che ci collegano rimangono sepolti sotto le macerie, cosicché in molti casi non potremo mai più ritrovarli. La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una vita in comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la speranza di ritrovarci ancora su questa terra?
Naturalmente io non so come reagirò quando mi toccherà lasciarlo per davvero. In questo momento ho ancora nelle orecchie la sua voce di stamattina al telefono, e stasera ceniamo alla stessa tavola. E domattina facciamo una passeggiata, poi pranziamo insieme da Liesl e Werner e di pomeriggio si farà musica. Per ora lui è sempre qui. E forse, nel profondo del mio cuore, io non credo neppure che dovrò lasciare né lui né altre persone. Un essere umano è poi solo un essere umano. In questa nuova situazione dovremo imparare un’altra volta a conoscere noi stessi. Molte persone mi rimproverano per la mia indifferenza e passività e dicono che mi arrendo così, senza combattere. Dicono che chiunque possa sfuggire alle loro grinfie deve provare a farlo, che questo è un dovere, che devo far qualcosa per me. Ma questo conto non torna. In questo momento, ognuno si dà da fare per salvare se stesso: ma un certo numero di persone – un numero persino molto alto – non deve partire comunque?
Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questo è poca cosa, se paragonato a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente. Può anche darsi che io sottovaluti tutto quanto.
Ogni giorno vivo nell’eventualità che la dura sorte toccata a molti, a troppi, tocchi anche alla mia piccola persona, da un momento all’altro. Mi rendo conto di tutto fin nei minimi dettagli, credo che nel mio «confrontarmi» interiore con le cose io stia saldamente piantata sulla terra più dura della realtà più dura. E la mia accettazione non è rassegnazione, o mancanza di volontà: c’è ancora spazio per l’elementare sdegno morale contro un regime che tratta così gli esseri umani. Ma le cose che ci accadono sono troppo grandi, troppo diaboliche perché si possa reagire con un rancore e con un’amarezza personali. Sarebbe una reazione così puerile, non proporzionata alla «fatalità›› di questi avvenimenti.
Spesso la gente si agita quando dico: non fa poi molta differenza se tocca partire a me o a un altro, ciò che conta è che migliaia di persone debbano partire. Non è che io voglia buttarmi fra le braccia della morte con un sorriso rassegnato. E’ il senso dell’ineluttabile e la sua accettazione, la coscienza che in ultima istanza non ci possono togliere nulla. Non è che io voglia partire a ogni costo, per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare. Ma quel poco o molto che ho da dare lo posso dare comunque, che sia qui, in una piccola cerchia di amici, o altrove, in un campo di concentramento. E mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un «destino di massa».
Se Dio decide che io abbia tanto da fare, bene, allora lo farò, dopo esser passata per tutte le esperienze per cui possono passare anche gli altri. E il valore della mia persona risulterà appunto da come saprò comportarmi nella nuova situazione. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò. Non si tratta più di tenersi fuori da una determinata situazione, costi quel che costi, ma di come ci si comporta e si continua a vivere in qualunque situazione. Le cose che devo ragionevolmente fare, le farò. I miei reni sono ancora infiammati e anche la mia vescica al piede non è kasher, mi farò rilasciare un certificato medico se sarà possibile. Mi si raccomanda infatti di cercarmi ancora un posto, una specie d’impiego presso il Consiglio Ebraico. La settimana scorsa sono stati autorizzati a impiegare 180 persone e ora i disperati vi si accalcano in massa: proprio come un pezzo di legno che dopo un naufragio va alla deriva sull’oceano infinito, un relitto a cui tutti i naufraghi tentano ancora di aggrapparsi. Ma trovo assurdo e illogico prendere delle iniziative. Né sono il tipo che sfrutta le sue buone relazioni. Del resto, sembra che vi si combinino parecchi intrighi, e il risentimento contro quel singolare organo di mediazione cresce di ora in ora. Inoltre: più tardi toccherà anche a loro.
E’ vero che gli inglesi a quel punto potrebbero essere sbarcati: così dicono coloro che conservano una speranza politica. Ma credo che si debba rinunciare a qualunque aspettativa che punti sul mondo esterno, che non si debba far calcoli sulla durata del tempo, ecc. ecc. E ora apparecchio la tavola. Preghiera della domenica mattina [12 luglio 1942]
Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento -invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: non prenderanno proprio me. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te e molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio.
Per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio, ma sono piuttosto le mille piccole preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso e a mordermi come altrettanti parassiti. Be’, allora mi gratto disperatamente per un po’ e ripeto ogni giorno: per oggi sei a posto, le pareti protettive di una casa ospitale ti scivolano sulle spalle come un abito che hai portato spesso, e che ti è diventato familiare, anche di cibo ce n’è a sufficienza per oggi, e il tuo letto con le sue bianche lenzuola e con le sue calde coperte è ancora lì, pronto per la notte – e dunque, oggi non hai il diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata, e rendila fruttuosa; fanne un’altra salda pietra su cui possa ancora reggersi il nostro povero e angoscioso futuro. Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle bufere di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza. Non posso garantirti niente a priori, ma le mie intenzioni sono ottime, lo vedi bene.
E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò fra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza inespugnabile. 14 luglio, martedì sera. Ognuno deve vivere con lo stile suo. Io non so farmi avanti per garantirmi quella che può sembrare la mia salvezza, mi pare una cosa assurda e divento irrequieta e infelice. Quella lettera in cui faccio domanda al Consiglio Ebraico, scritta su insistenza di Jaap, per un po’ mi ha fatto perdere l’equilibrio – lieto e insieme serissimo – che avevo oggi. Quasi fosse un’azione indegna – questo star tutti addosso a quell’unico pezzetto di legno che va alla deriva sull’oceano infinito dopo il naufragio, questo salvare il salvabile, spingersi a forza di gomiti, provocare l’annegamento altrui, tutto così indegno: e poi, questo spingere non mi piace. Io appartengo piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un po’ sull’oceano, stese sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, finché – con un gesto rassegnato e devoto – vanno a fondo per sempre. Io non posso fare diversamente. Le mie battaglie le combatto dentro di me, contro i miei demoni; ma combattere in mezzo a migliaia di persone impaurite, contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine, no, questo non è proprio il mio genere. Non ho neppure paura, non so, mi sento così tranquilla, talvolta mi sembra di trovarmi in alto sui merli del palazzo della storia e di far correre lo sguardo su territori lontani. Mi sento in grado di sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo, senza soccombere. So tutto quel che capita e la mia testa rimane lucida. Talvolta è come se sul mio cuore venisse sparso uno strato di cenere. O come se sotto i miei occhi il mio viso appassisse e si dissolvesse, e nei suoi lineamenti grigi i secoli si inabissassero uno dopo l’altro, e tutto si disfacesse, e il mio cuore lasciasse andare tutto. Sono solo brevi momenti, dopo di che ritrovo ogni cosa e la mia testa ridiventa lucida, e sono di nuovo in grado di sopportare benissimo questo pezzo di storia. Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare, e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata. Com’è singolare tutto ciò.
Riesco a capire un pezzetto di storia e di umanità, ma per ora preferisco non scrivere, avrei l’impressione che ogni parola sbiadirebbe e invecchierebbe all’istante, come se la parola nuova capace di sostituire quella vecchia abbia ancora da nascere.
Se io fossi in grado di registrare molte cose che penso e che sento e che talvolta mi si chiariscono in un baleno – cose che riguardano questa vita, gli uomini, e Dio – sono sicura che ne potrebbe venir fuori qualcosa di molto bello. Continuerò ad avere pazienza e lascerò maturare ogni cosa dentro di me.
Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro povero corpo. Lo spirito viene dimenticato, s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in modo sbagliato, senza dignità e anche senza coscienza storica. Con un vero senso della storia si può anche soccombere. Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito.
Se sapessero come sento e come penso, molte persone mi considererebbero una pazza che vive fuori dalla realtà. Invece vivo proprio nella realtà che ogni giorno porta con sé. L’uomo occidentale non accetta il ‘dolore’ come parte di questa vita: per questo non riesce mai a cavarne fuori delle forze positive. Bisogna che cerchi quelle due o tre frasi che avevo già trascritto da una lettera di Rathenau. Ecco cosa mi mancherà: qui basta che allunghi una mano, e subito ritrovo le parole e i frammenti di cui il mio spirito ha bisogno in un determinato momento. Bisogna invece che abbia tutto in me stessa. Si deve anche essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera.
Ora sono le undici e mezzo di sera. Weyl si allaccia lo zaino troppo, troppo pesante per la sua fragile schiena, e si avvia a piedi alla stazione centrale. Io l’accompagno. Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio, si dovrebbe soltanto poter pregare.”
Un articolo sul credo bahá’í: è stato pubblicato su Il caffè geopolitico a firma di Alice Miggiano, laureata in Lingua e letteratura persiana presso La Sapienza di Roma e PhD in Studi Iranici presso L’Orientale di Napoli. Il sommario: “Esperienza religiosa monoteistica sorta in terra iranica attorno alla metà del diciannovesimo secolo, la dottrina bahá’í è professata da cinque milioni di fedeli e diffusa in oltre centomila località sparse sui cinque continenti. La più grande comunità di credenti risiede in Iran nonostante le persecuzioni sistematiche, intensificate in particolare con l’instaurazione della Repubblica islamica nel 1979” Ecco l’articolo: Nascita e affermazione di una nuova religione Nato in contesto persiano sciita e preannunciato nel 1844 da Mirza ‘Ali Muhammmad (noto come il Bab, “la Porta”, 1819-1850) il credo bahá’í si basa sul principio, enunciato dal profeta Mirza Husein ‘Ali Nuri, detto Bahá’u’lláh (“La gloria di Dio”, 1817-1892), che afferma: “la verità religiosa non è assoluta bensì relativa; la Rivelazione divina è un processo ininterrotto e progressivo; tutte le grandi religioni del mondo hanno origine divina, i loro principi di base sono in completa armonia gli uni con gli altri, i loro scopi e fini identici, i loro insegnamenti sfaccettature di un’unica verità, le loro funzioni complementari; le religioni differiscono tra di loro solo negli aspetti non essenziali delle rispettive dottrine e le loro missioni rappresentano gli stadi successivi dell’evoluzione spirituale dell’umana società” (Shoghi Effendi, La fede di Bahá’u’lláh, 1981, ed. originale 1947). La dottrina bahá’í riprende il concetto islamico di rivelazioni successive, riconoscendo quindi l’autorità spirituale di profeti quali Zaratustra, Buddha, Krishna, Abramo, Mosè, Gesù e Mohammad, ma considera tali profeti “manifestazioni divine” e li colloca all’interno di un’idea di progresso dell’umanità in cui le rivelazioni precedenti a quella di Bahá’u’lláh, seppur autentiche, sono da considerare cronologicamente superate. Il profeta Bahá’u’lláh, assecondando la sua vocazione, si mise a capo dei perseguitati sostenitori del Bab (1853) fino a dichiarare di essere la manifestazione divina da lui preannunciata (1863). In esilio formulò le leggi e le ordinanze della nuova dottrina, espresse in circa cento volumi, finché fu incarcerato nella prigione di Akka (San Giovanni d’Acri, nell’odierno Israele) dove visse gli ultimi ventiquattro anni in detenzione. Le prime persecuzioni in Iran In virtù del messaggio universalistico di pace e fratellanza che si proponeva, la fede bahá’í ha subìto, fin dal suo sorgere, ferocissimi attacchi dalle autorità presenti sui territori in cui veniva professata. Ponendosi come entità apolitica e sovranazionale, e basandosi sui principi di uguaglianza che promuovono la parità di genere, razza e classe sociale, la religione monoteistica professata da Bahá’u’lláh crede nel progresso e nell’importanza dell’istruzione e rifiuta ogni forma di pregiudizio e superstizione. Per queste ragioni è sempre stata considerata pericolosa da parte di qualsiasi forma politica che privilegiasse una particolare etnia o classe sociale. In terra iranica le persecuzioni contro i bahá’í, iniziate agli albori della rivelazione del Bab, sono culminate con lo sterminio di oltre ventimila suoi adepti. All’epoca della predicazione di Bahá’u’lláh e sotto la dinastia persiana Qajar il profeta e alcuni suoi seguaci furono dapprima imprigionati a Tehran e poi esiliati, prima a Baghdad e poi ad Adrianopoli (odierna Turchia). Ulteriormente esiliati dal governo ottomano, furono costretti a rifugiarsi in Palestina. Nonostante la nuova religione fosse considerata eretica e nonostante il perpetrarsi delle persecuzioni, con l’instaurazione della dinastia Pahlavi i bahá’í in Iran poterono assistere ad un alleggerimento delle restrizioni nei loro confronti: venivano rispettati dalla classe politica e le loro conoscenze e capacità furono utilizzate nell’intento modernizzatore voluto dagli Shah Reza (1878-1944, primo sovrano della dinastia Pahlavi, al potere negli anni 1925-1941) e Mohammad Reza (1919-1980, figlio e successore di Reza Pahlavi, sovrano dal 1941 al 1979), per il progresso tecnico e scientifico del Paese.
Bahà’u’llàh
La Repubblica Islamica e i seguaci di Bahà’u’llàh Con l’avvento del regime teocratico in Iran (1979) le persecuzioni, sostenute dai leader della Rivoluzione, divennero sistematiche. La Costituzione della Repubblica islamica, pur dichiarando l’Islam religione ufficiale, riconosce come minoranze religiose il Cristianesimo, l’Ebraismo e lo Zoroastrismo, rappresentate da propri deputati in Parlamento. I circa trecentomila fedeli bahá’í residenti in Iran, che costituiscono la minoranza religiosa più cospicua, subiscono quotidianamente diverse forme di violenza che vanno da atti di vandalismo, molestie, violenza fisica, pressione economica (sequestro delle proprietà e società di investimento bahá’í, controllo dei conti bancari, negazione delle pensioni e delle eredità legittime) fino a incursioni e arresti, includendo forme di discriminazione economica ed educativa, come la negazione all’accesso a posizioni lavorative in ambito pubblico e al diritto all’istruzione superiore. Fonti ufficiali della Bahá’í International Community dichiarano che durante la prima decade dalla Repubblica islamica oltre duecento membri della comunità bahá’í sono stati uccisi o giustiziati e altre centinaia sono stati torturati o imprigionati. Secondo quanto dichiarato in uno studio recentemente pubblicato dal Center for Human Rights in Iran le persecuzioni contro i fedeli bahà’ì sotto la presidenza Rouhani sarebbero peggiorate rispetto alla decade precedente, nonostante il candidato presidente in sede di campagna elettorale avesse dichiarato di volersi impegnare della riduzione delle violenze contro questa minoranza. Fin dal primo insediamento di Rouhani nel 2013 sembra che almeno 212 bahà’ì siano stati arrestati (con novantacinque di loro ancora in carcere) e che a migliaia di essi sia stato impedito l’accesso all’istruzione superiore. Inoltre, pare ci siano stati almeno 590 casi di oppressione economica. Diffusione e organizzazione del credo Bahà’ì La fede bahá’í si è rapidamente diramata in tutti i continenti del pianeta (in particolare in Iran, India, Vietnam e in diverse nazioni di Africa, Americhe e Oceania) arrivando a rappresentare cinque milioni di fedeli di oltre duemila tribù, razze e gruppi etnici diversi. Secondo quanto sostenuto del celebre orientalista Alessandro Bausani (1921-1988), nel 1986 i fedeli bahá’í risiedevano in 115.901 località del mondo. In molti di tali Paesi il credo bahá’í è formalmente riconosciuto dalle autorità e questo riconoscimento permette alle comunità di fedeli di godere dell’esenzione dal pagamento delle tasse per le proprietà destinate al culto e della possibilità di celebrare matrimoni bahá’í. La religione predicata da Bahá’u’lláh, priva di qualsiasi forma di clero, è sostenuta dai membri attraverso donazioni volontarie. La struttura amministrativa, considerata su scala mondiale, è organizzata in Assemblee Nazionali e Assemblee Locali, composte da nove membri eletti annualmente, tutti con gli stessi poteri. Sempre secondo Bausani nel 1986 vi erano Assemblee Spirituali in 148 nazioni, compresa l’Italia. L’organizzazione giuridica dipende direttamente da una Casa Universale di Giustizia, anch’essa composta da nove membri con i medesimi poteri – in questo caso eletti ogni cinque anni – che ha il potere di emanare nuove leggi in conformità con le esigenze dei tempi. Nel 1983 ad Haifa (Israele) è stato istituito un Centro di Studi Socio-Economici con l’intento di analizzare e risolvere le problematiche che possano presentarsi sia all’interno che all’esterno della comunità. La Bahá’í International Community è rappresentata presso cinque uffici dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e riconosciuta come organismo non governativo. Presenza in Italia In Italia la fede bahá’í, riconosciuta formalmente dallo Stato, conta oltre trecento comunità distribuite su tutto il territorio nazionale. Come sostiene Guido Morisco, membro dell’Assemblea Spirituale Nazionale Bahá’í Italiana, tale gruppo comunitario è nato nella metà del secolo scorso in due fasi successive: “il primo nucleo di credenti si consolidò intorno a persone bahá’í che provenivano dall’America, il secondo invece da credenti di provenienza iraniana. La storia della Fede bahá’í in Italia ha origine agli inizi del Novecento quando i credenti bahá’í americani sostavano nella nostra penisola nei loro viaggi verso la Terra Santa. Nel corso degli anni sono apparse le prime comunità, che si sono successivamente radicate nel territorio, dando origine ad una struttura organizzativa progressivamente più complessa”. Il gruppo di fedeli in Italia oggi è costituito da circa cinquemila adepti, principalmente italiani, cui si aggiungono credenti provenienti da varie nazioni del mondo e residenti nella penisola per diversi motivi. Oggi la comunità bahá’í in Italia, prosegue Morisco, “lavora e cresce all’interno della società italiana in uno spirito di apprendimento e di collaborazione. I suoi membri provenienti dalle più diverse estrazioni sociali le danno un carattere fortemente multiculturale che è una delle sue principali ricchezze. I credenti e le istituzioni della fede bahá’í collaborano con i concittadini e le istituzioni del nostro Paese per portare avanti una visione per il miglioramento della società ispirata da Bahá’u’lláh”.
Pubblico un articolo di Marko Ivan Rupnik comparso su Avvenire nel giugno del 2015. Non è semplice, ma lo trovo ricchissimo di spunti e idee.
“Le pareti degli edifici religiosi sono sempre stati il telo sul quale la Chiesa ha dipinto il suo autoritratto. Tuttavia, oggi non è affatto scontato il rapporto tra l’arte, ormai sganciata dal concetto di bellezza, e la spiritualità, sempre più svincolata dallo Spirito Santo. Se il presbiterio – osserva padre Marko I. Rupnik – «è praticamente l’unica cosa religiosa che ci è rimasta», la possibilità che si delinea è aprirlo agli artisti perché diventi non un generico luogo di espressione, ma lo spazio di un’arte purificata per una Chiesa capace di non escludere nessuno. Padre Rupnik, gesuita sloveno, teologo, mosaicista e docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Liturgico, nel libro «L’autoritratto della Chiesa» edito da Edb (pp. 48, euro 5,50) che esce in questi giorni in libreria, rilegge quell’autoritratto alla luce della bellezza e dell’arte. Anticipiamo alcuni brani sul mistero pasquale dell’arte.
Vladimir Solov’ev
Della bellezza si è perso il significato e la si è coscientemente distrutta con la filosofia idealista, con il romanticismo, avviando, a mio avviso, una deliberata operazione di distruzione della bellezza, perché radicalmente unita al cristianesimo. Non si può distruggere il cristianesimo se non si distrugge la bellezza. Ci hanno inchiodato sull’etica e sulla morale, sul bene, ma una Chiesa brava non attira nessuno, perché è solo una Chiesa bella che fa innamorare. Abbiamo una Chiesa intraprendente, stanca per quanto bene realizza, che però non affascina nessuno e dietro la quale non si incammina nessuno. Siamo bravi, ma nessuno ci vuole seguire. La sintesi migliore sulla bellezza, a mio parere, l’hanno fatta due russi: Vladimir Solov’ëv e Pavel Florenskij. Solov’ëv sostiene che un bene che non diventa bellezza è un pericolo per l’uomo e ciò lo constatiamo continuamente: non esiste sofferenza più grande che avere a che fare con chi ha un’idea del bene che vuole imporre a tutti. La dittatura del bene è la suprema espressione del male. Il bene che non diventa bellezza è un fanatismo. Allo stesso modo, una verità che non diventa bellezza mangia gli uomini, li distrugge, è un drago. In nome della verità noi abbiamo tagliato parecchie teste, nel nome di idee umaniste l’epoca moderna ha ammazzato decine di milioni di persone. Solov’ëv afferma che l’idea che non è capace di incarnarsi come bellezza dimostra la sua impotenza. La bellezza è la carne del bene e del vero, ed è questa la cosa davvero straordinaria. Il bene, per essere veramente tale, ha bisogno di manifestarsi come bellezza. Mio padre, anche se non era un padre della Chiesa, mi diceva sempre che se è vero quello che qualcuno ti vuole dire, lo si vedrà dal fatto che te lo dirà con amore e, quando te lo dirà, sperimenterai un rapporto bello con quella persona. Se, affermando una cosa, non facciamo trasparire la bellezza di un rapporto, ciò che diciamo è frutto di una passione, di un’ideologia e non esprime la verità. Per Solov’ëv «un contenuto ideale che rimanga unicamente una proprietà interiore dello spirito, della sua volontà e del sua pensiero, manca della bellezza e l’assenza della bellezza significa impotenza dell’idea» perciò per lui la bellezza è «l’incarnazione in forme sensibili di quello stesso contenuto ideale che prima di tale incarnazione si chiamava bene e verità»; «Il bene e la verità, per realizzarsi veramente, devono diventare nel soggetto una forza creatrice capace di trasfigurare la realtà, e non solo di rifletterla».
Pavel Florenskij
Secondo Florenskij la Chiesa è bella perché è la comunione delle persone. Se non c’è la bellezza della relazione non c’è la verità. La verità rivelata è l’amore – Cristo – l’amore realizzato è la bellezza. La bellezza è la manifestazione della verità come amore. Se è così, la bellezza è comunicazione teurgica, quando la verità si rivela come amore e l’amore trasfigura. Quando si comunica, la bellezza trasfigura la realtà attraverso la quale si comunica, perciò nella verità che l’altro mi dice sono trasfigurato e lui stesso ne è trasfigurato. La bellezza non è separabile dalla comunicazione, e l’unico vero comunicatore, perché ha qualcuno da comunicare, è Dio Padre. La bellezza impara da Dio Padre, l’artista impara da Dio Padre. E Dio Padre ha comunicato attraverso il Figlio, attraverso una persona. Non si comunicano le idee. Se la verità non si può rivelare come amore, è un idolo. Per comunicare ci vuole la persona. Cristo ha comunicato il Padre e non sono bastati i discorsi. Lo ha comunicato nella sua carne, nel suo corpo, e per questo ci voleva lo Spirito Santo il supremo comunicatore del Padre. Il corpo di Cristo è una figura, e l’arte figurativa è quell’arte che va fino al cielo, perché la carne diventa la carne spirituale. Cristo non ha comunicato il Padre in una forma prestabilita, rinascimentale, classica, perfetta, e neppure in un nichilismo espressionista violento, di denuncia del male e del cuore spezzato. Il Cristo è il più bello e il più brutto, tanto da girare la faccia perché non si poteva guardare, dice la Scrittura (cf. Is 52,14). Dio ha proibito di fare un’immagine di sé, riservandoci il privilegio unico di scolpire la vera immagine di Dio nella carne del Figlio. Il Dio che veneriamo l’abbiamo scolpito noi con il nostro peccato. La più grande opera d’arte che ha fatto l’uomo è la passione di Cristo, fino al suo corpo risorto. Se il Padre lo ha risuscitato dai morti poteva benissimo guarirgli le cicatrici, ma queste sono rimaste, perché solo da quelle fu riconosciuto. La realizzazione dell’amore operata dal Figlio si compie proprio nel Triduo pasquale, perciò la bellezza è pasquale. Non posso credere che i padri fossero meno intelligenti dei teologi degli ultimi cinquant’anni, eppure loro non si sono lasciati affascinare e ingannare dalle forme classiche. La forma classica non può dire la pasqua e, se non può dire la pasqua, è incompatibile con l’amore di Dio Padre. Se un amore non è pasquale, è un amore pagano. Pensare che io amerò senza pagare di persona significa essere un grande idealista pagano, perché la bellezza è pasquale. Perciò l’arte non può pensare di creare senza il martirio dell’arte e dell’artista. Solo così possiamo tornare all’arte, alla grande arte che esprime l’amore e si realizza attraverso la divinoumanità. Per questo ci vuole lo Spirito, l’unico che ci può innestare nel Figlio. Noi non possiamo diventare figli di Dio da soli, non possiamo vivere un amore pasquale accanto a Cristo, ma solo in quanto parte di lui. E questo vale anche per l’artista. In questo senso diciamo che la bellezza, realizzandosi, trasfigura la persona stessa e la vita di questa persona. Se una mamma si santifica amando, se un padre si santifica amando, un artista si santificherà allo stesso modo. È totalmente inutile esaltare un’arte se non si è santificato colui che l’ha fatta. Santificarsi significa consumarsi: questa è per me l’arte della vita, l’arte che diventa bellezza.”
Scrive Jacopo Fo su Il fatto quotidiano (questa la mia fonte): “È ormai scientificamente dimostrato che esiste una zona cerebrale adibita specificamente alla produzione di sensazioni estatiche e al senso di appartenenza, a qualche cosa che ci pervade e ci innalza dandoci la sensazione di far parte di un tutto dominato dall’amore e dalla pietà e dotato di una progettualità rigogliosa, fantasiosa, stupefacente. Cioè il senso del sacro è fisiologico: a fianco delle pulsioni primarie (identificare, attaccare, fuggire, nascondersi) ne esiste una quinta: contemplare. […] Io non credo all’esistenza di un Dio, né con la barba né senza. Ma vedo che la realtà è profondamente magica, nel senso laico del termine, cioè è stupefacente al di là di ogni previsione, è smisurata, sorprendente in modo paradossale… Il creato è una fiera pazza di grandiosità. […] E più ne sappiamo dell’universo più ci lascia sbalorditi. Sembra quasi che sia stato inventato per ingenerare la vertigine che proviamo se ci perdiamo negli incendi del tramonto. Questa assoluta assenza di limite è inebriante. Impossibile da contenere nella limitatezza dei miei circuiti neurali. Per secoli siamo stati convinti che in cielo ci fossero alcune migliaia di stelle. Poi abbiamo scoperto che ce ne sono miliardi nella nostra galassia, ognuna circondata da un numero fantasmagorico di pianeti, satelliti, asteroidi. Poi si è capito che esistono miliardi di galassie, talmente tante che non abbiamo ancora finito di contarle. […] Non possiamo ridurre vita e morte a semplici accadimenti biologici. Sarebbe troppo triste! Troppo! […] Non vedere il sacro, il superpotere, il miracolo, il privilegio, l’improbabilità schiacciante insita nel fatto di vivere e poter parlare e pensare e agire in modo preordinato è un’amputazione emotiva che ci danneggia e limita la nostra capacità di cogliere appieno il regalo della vita”.
Sul suo profilo facebook il teologo Vito Mancuso ha ripreso la notizia e ha scritto:
“L’articolo di Jacopo Fo da me ripreso in questa pagina iniziava dicendo che è “scientificamente dimostrato che esiste una zona cerebrale adibita specificamente alla produzione di sensazioni estatiche e al senso di appartenenza”. Non faceva nessun riferimento e giustamente qualcuno ha obiettato che, se si cita la scienza, occorre poi procedere scientificamente. Giusto. Siccome ho citato l’articolo di Fo con un certo plauso, mi sento in dovere di dare un contributo al riguardo. Cito quindi dal volume di Franco Fabbro, “Le neuroscienze: dalla fisiologia alla clinica”, Carocci 2016 (n. 175 della collana Manuali universitari): “Recentemente, attraverso una meta-analisi dei lavori di visualizzazione cerebrale riguardanti la meditazione, è stato evidenziato che le pratiche che si ispirano alla tradizione induista attivano prevalentemente le strutture dei lobi temporale e parietale (aree associate all’affettività e alla rappresentazione dello spazio e del corpo), mentre le pratiche che si ispirano alla tradizione buddhista attivano prevalentemente le strutture del lobo frontale (aree associate alle funzioni esecutive e all’attenzione volontaria) (Tomasino et al., 2012; Tomasino, Chiesa, Fabbro, 2014; Raz, Fan, Posner 2006)” – pp. 434-435. Franco Fabbro, già docente di Fisiologia umana, è professore ordinario di Neuropsichiatria infantile all’Università di Udine, e ha all’attivo numerose pubblicazioni in italiano e in inglese. Quindi? Con questo non si dimostra né la verità della religione né l’esistenza di Dio né nulla di esterno all’uomo; si dimostra solo che la dimensione religiosa è fisiologicamente coerente con il fenomeno umano. Del resto c’è tutta la storia dell’umanità a dimostrarlo. Ovviamente con tutta la sua ambiguità, perché è noto che la religione, esattamente come l’umanità (scienza compresa), produce bene e anche male, e nessuno sa con certezza, se ci fosse una bilancia e si potesse pesare, se risulterebbe più pesante il bene oppure il male. Tutto qui. Ovvero, summa summarum: chi ancora oggi medita e coltiva una dimensione spirituale non tradisce la sua umanità, ma la vive in pienezza a modo suo.”
Un articolo breve ma intenso di Christian Albini sul Cantico dei Cantici.
“Mi baci con i baci della tua bocca! Sì, i tuoi abbracci mi eccitano più del vino. (Cantico dei cantici 1,2) Molti potrebbero rimanere sorpresi nel sapere che queste parole aprono un libro che fa parte della Bibbia ed è intriso d’immagini di amore terreno ed erotismo. Proprio per questo la sua inclusione nell’elenco dei libri biblici è stata fortemente dibattuta tra i maestri ebrei del I secolo d.C. e fu il parere autorevole di rabbi Aqiva (il “capo di tutti i saggi” secondo il Talmud) a farlo accettare: “Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi”. Tradizionalmente, la lettura ebraica vede in questo testo una celebrazione dell’amore tra Dio e il popolo d’Israele che gli interpreti cristiani hanno compreso piuttosto come allegoria dell’amore tra Cristo e la chiesa. E’ da meno di un secolo che il pendolo ha cambiato direzione e si è cominciato a leggere il Cantico non più in chiave prevalentemente spirituale, ma in primo luogo come canto dell’amore erotico umano. Il segno di questo cambiamento è stato dato da una delle lettere dal carcere di Dietrich Bonhoeffer, risalente al 1944: Vorrei leggere il Cantico dei cantici come un cantico d’amore terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione cristologica. Attenzione: Bonhoeffer non parla di un’interpretazione esegetica, da studioso della Bibbia – anche se gli stessi esegeti hanno ormai imboccato questa strada – bensì di un’interpretazione cristologica: riconoscendo nel Cantico un testo sull’amore terreno si arriva a comprendere Cristo e, viceversa, a partire da Cristo comprendiamo il Cantico come tale. La fede in Cristo è nel segno dell’incarnazione: Dio che assume la nostra umanità, la fa propria con tutta la sua dimensione corporea, affettiva e sensuale. Gesù non ha esercitato quest’ultima nel rapporto con una donna, ma l’ha comunque vissuta in pienezza. Ed è così che ci ha narrato Dio, ce lo ha rivelato. L’amore terreno, perciò, con la sua connotazione sessuale ci può avvicinare a Dio, può parlarci di Lui, e allo stesso tempo la fede educa la nostra capacità di amare, la orienta verso il suo vertice. Non c’è vissuto di fede estraneo al corpo e non c’è spiritualità estranea al corpo. Sì, si è operato un capovolgimento: se tutta la tradizione ebraica e cristiana aveva letto il Cantico in modo “spirituale”, nell’ultimo secolo appare vincente nella maggior parte degli esegeti una sua interpretazione umana, erotica, mentre sono rarissimi i commenti coerenti con la tradizione. E poi la Bibbia è diventata “il grande codice” e tutti possono interpretarla… Giovanni Paolo II nel suo magistero più volte è andato al Cantico per leggere in esso la bellezza creaturale, voluta da Dio, del corpo, della differenza sessuale, dell’amore e del piacere. Lo scrive Enzo Bianchi introducendo una splendida antologia delle letture del Cantico da Origene ai giorni nostri (Il più bel canto d’amore, Qiqajon). Nel leggere questo testo, tornando a Bonhoeffer, scopriamo l’amore come cantus firmus rispetto al quale l’amore terreno risulta una voce di contrappunto. L’uno non indebolisce l’altro, gli lascia la sua autonomia ed è in relazione con esso: stanno assieme, suonano assieme senza distaccarsi. E’ solo quando ci troviamo in questa polifonia che la vita raggiunge la sua totalità.”
“E’ una foto di parecchi anni fa in cui ci siamo io e mia mamma: lei è la persona per me più importante, mi ha fatto anche da papà, insegnandomi tantissime cose. Certo, ora ci sono delle discussioni, ma dopo 5 minuti facciamo pace. E’ come una migliore amica, la prima persona a cui dico tutto, e che sa sempre come aiutarmi”. Questa la gemma di M. (classe seconda). Mi affido alle poetiche parole di Rabindranath Tagore: “Da dove sono venuto? Dove mi hai trovato? Domandò il bambino a sua madre. Ed ella pianse e rise allo stesso tempo e stringendolo al petto gli rispose: tu eri nascosto nel mio cuore bambino mio, tu eri il Suo desiderio. Tu eri nelle bambole della mia infanzia, in tutte le mie speranze, in tutti i miei amori, nella mia vita, nella vita di mia madre, tu hai vissuto. Lo Spirito immortale che presiede nella nostra casa ti ha cullato nel Suo seno in ogni tempo, e mentre contemplo il tuo viso, l’onda del mistero mi sommerge perché tu che appartieni a tutti, tu mi sei stato donato. E per paura che tu fugga via ti tengo stretto nel mio cuore. Quale magia ha dunque affidato il tesoro del mondo nelle mie esili braccia?”
Oggi pubblico del materiale su un tema complesso e affascinante: il futuro delle religioni. E’ indubbio che i cambiamenti negli ultimi anni siano stati notevoli e caratterizzati da un aspetto tipico della contemporaneità: la velocità. Le religioni, e in particolare i monoteismi, non vi sono abituate. Cosa ne sarà? Molti teologi, filosofi, pensatori, si stanno occupando dell’argomento. La rivista Adista ha pubblicato questo articolo a cui ha allegato un estratto di una riflessione composita del gesuita Roger Lenaers. La metto in coda all’articolo in pdf.
“È un tema per molti aspetti ancora nuovo quello della crisi e del possibile superamento della religione, intesa come la forma storica concreta, dunque contingente e mutevole, che la spiritualità, cioè la dimensione profonda costitutiva dell’essere umano, ha rivestito a partire dall’età neolitica. Che le religioni così come le conosciamo siano destinate a morire non è in realtà un’idea largamente condivisa dai teologi, molti dei quali sottolineano al contrario segnali di indubbia vitalità del fenomeno religioso. […] la religione sembra mostrare una notevole effervescenza in metà del mondo e una profonda crisi nell’altra metà, benché le due metà si presentino spesso mescolate e non facilmente identificabili. Di certo, però, è impossibile negare che sia in atto in molti luoghi un’evoluzione verso una laicizzazione di dimensioni inedite e che la comprensione della religione – vista non più come un’opera divina, ma come una costruzione umana – ne risulti profondamente trasformata. Ma allora, se il ruolo tradizionale della religione è in crisi irreversibile, quali forme assumerà nel futuro l’insopprimibile dimensione spirituale dell’essere umano? Potrà esistere una religione senza dogmi, senza dottrina, senza gerarchie, senza la pretesa di possedere la verità assoluta? E che ne sarà in questo nuovo quadro della tradizione di Gesù? Riuscirà il cristianesimo a trasformare se stesso, rinnovandosi radicalmente in vista del futuro che lo attende? È un compito, questo, a cui hanno già rivolto le proprie riflessioni teologi come il gesuita belga Roger Lenaers, con la sua proposta di riformulazione della fede nel linguaggio della modernità (v. Adista nn. 44/09, 26/12, 13/14), o il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, con la sua rilettura post-teista del cristianesimo (oltre, cioè, il concetto di Dio come un essere onnipotente che dimora al di fuori e al di sopra di questo mondo e che da “lassù” interviene nelle questioni umane, v. Adista n. 94/10, 28/12, 35 e 39/13, 23/14). Riflessioni che, insieme a quelle di diversi altri autori (di alcune delle quali daremo conto sui prossimi numeri di Adista), figurano in un numero speciale (il 37/2015) della rivista di teologia Horizonte, pubblicata dalla Pontificia Università Cattolica di Minas Gerais, dedicato proprio al paradigma post-religionale. Un numero ricco di spunti e di suggestioni, di valutazioni anche molto distanti tra loro, ma, nella minore o maggiore radicalità dei contenuti, sostanzialmente animate da una convinzione di fondo: che, cioè, pur nella necessaria – dolorosa ma alla fine liberante – rinuncia al teismo, il messaggio originario della fede cristiana non perde comunque nulla di veramente essenziale. Anche in una visione moderna del mondo, che è una visione esplicitamente non-teista, resta inalterata, infatti, spiega Lenaers nel suo intervento, «la confessione di Dio come Creatore del cielo e della terra, inteso come Amore Assoluto, che nel corso dell’evoluzione cosmica si esprime e si rivela progressivamente, prima nella materia, poi nella vita, poi nella coscienza e quindi nell’intelligenza umana, e infine nell’amore totale e disinteressato di Gesù e in coloro in cui Gesù vive». Come pure resta invariata «la confessione di Gesù come la sua più perfetta auto-espressione» e «la comprensione dello Spirito come un’attività vivificante di questo Amore Assoluto». E ciò malgrado Lenaers non nasconda di certo di quale portata siano le conseguenze di una rilettura del messaggio cristiano nel linguaggio della modernità, esprimendo tutta la distanza che separa il quadro concettuale premoderno – secondo cui il nostro mondo sarebbe completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni – da quello “credente moderno”, in cui risulta impensabile che un potere esterno al mondo intervenga nei processi cosmici, in quanto esiste solo un mondo, il nostro, che è un mondo santo, in quanto autorivelazione progressiva dell’Amore Assoluto. Una prospettiva in base a cui Lenaers rilegge in modo nuovo le formulazioni premoderne della dottrina tradizionale relativamente al Credo, alla resurrezione, ai dogmi mariani, alle Sacre Scritture, ai dieci comandamenti, alla gerarchia, ai sacramenti, alla liturgia, alla preghiera di petizione. Vi proponiano, in una nostra traduzione, alcuni stralci dell’intervento di Lenaers…”
“Alcune persone sono incapaci di cogliere l’essenza della vita e il soffio intrinseco in ciò che contemplano, e passano la loro esistenza a discutere sugli uomini come si trattasse di automi, e sulle cose come se fossero prive di anima e si esaurissero in ciò che di esse si può dire, sulla base di ispirazioni soggettive.” (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio)
“Dopo le lezioni sul buddhismo ho voluto approfondire l’argomento con la lettura del Bardo todol, Il “Libro tibetano dei morti”; l’ho portato come gemma perché al di là di quello che pensavo prima, lo ritengo interessante per chi sente di non trovare abbastanza nella cultura occidentale. E’ il viaggio dell’anima che non si separa solo dal corpo ma anche dal mondo in cui vive. Nella nostra società materialista penso sia importante per l’anima liberarsi da tutto, compresa la concezione di se stessa. Ne ho ricavato anche che il rapporto tra le persone è sempre molto importante e dovrebbe essere sempre disinteressato; l’aiuto reciproco è fondamentale: nel libro si spiega che i parenti del defunto hanno un ruolo di rilievo in quanto dovrebbero aiutarlo nel viaggio di liberazione.” Questa la gemma di D. (classe quarta). Mi sposto di poco (Cina) e pesco alcune parole di Chuang Tzu:
“Quando Lao Tzu morì, Ch’in Yi si recò al funerale. Urlò tre vole e se ne andò. Un discepolo gli chiese: «Non eri amico del nostro maestro?». «Lo ero», rispose Ch’in Yi. «Se è così, credi che quella sia una sufficiente espressione di dolore per la sua morte?», aggiunse il discepolo. «Sì», disse Ch’in Yi. «Pensavo che egli fosse un uomo [mortale], ma ora so che non lo era… Il maestro giunse perché era il momento in cui doveva nascere; e partì perché era il momento di andare. Coloro che accettano il corso naturale e la sequenza delle cose e vivono obbedendovi sono oltre la gioia e il dolore».” (La conservazione della vita).
“Voglio proporre come gemma la canzone «Un senso» di Vasco Rossi, primo perché Vasco lo ascolto da sempre e secondo perché mi piace il testo: rispecchia quello che può pensare un ragazzo come noi, giovane, che si chiede il senso di ciò che capita e si interroga su cosa debba fare nelle diverse situazioni. Penso che il domani arrivi comunque, anche se a volte non se ne trova immediatamente il senso”. Queste le parole di V. (classe quarta). Afferma Vasco: “La vita è bella se la prendi tutta, mica solo le parti belle. E’ come i film: per arrivare al sublime devi attraversare il dolore o la noia o il casino o le difficoltà. Una volta amavo solo la domenica e odiavo il lunedì. Poi ho capito che se non esistesse il lunedì, non arriverebbe nemmeno la domenica successiva”. Personalmente, il verso che mi fa sempre riflettere è “senti che bel vento”. E’ una delle cose a cui mi affido quando, appunto, non trovo il senso: solo che a quel vento do il nome di Spirito. Qualcuno lo chiama soffio vitale, intuito, coscienza, atman, respiro, angelo, io con significati di volta in volta diversi.
LA TEMPESTA (Angelo Branduardi, Senza spina) Non c’è più vento per noi tempo non ci sarà per noi che allora cantavamo con voci così chiare. Non c’è più tempo per noi vento non ci sarà per noi che abbiamo navigato quel mare così nero. Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà. Non c’è più vento per noi tempo non ci sarà per noi che stelle cercavamo sotto quel cielo scuro. Si alzerà il vento per noi tempo per noi sarà il nostro viaggio, la guida, la mano del destino. Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà Un vento poi soffierà dentro le nostre vele qual è la rotta giusta solo il Signore lo sa Un vento poi si alzerà dentro le nostre vele è perché la rotta giusta solo il Signore la sa. Non c’è più vento per noi tempo non è per noi che nella notte senza luce misuravamo il mare. Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà. Un vento poi soffierà dentro le nostre vele qual è la rotta giusta solo il Signore lo sa Un vento poi si alzerà dentro le nostre vele perché la rotta giusta solo il Signore la sa. Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà. Branduardi dedica questo brano “a tutti coloro che hanno affrontato la tempesta, rischiando di perdere la rotta, ed hanno saputo attendere che il vento buono gonfiasse le loro vele ed hanno ripreso le vie del mare, verso nuove tempeste”. Quindi, una prima cosa da notare è che la tempesta va affrontata e non evitata: siamo lontani dal protagonista dell’epitaffio dell’“Antologia di Spoon River” di cui si legge:
“Una barca con vele ammainate, in un porto. In realtà non è questa la mia destinazione ma la mia vita. Perché, l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta e io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti. Dare un senso alla vita può condurre a follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio; è una barca che anela al mare eppure lo teme.” (E. L. Masters, Antologia di Spoon River) Questa, semmai, è la situazione cantata all’inizio da Branduardi, quella di coloro per i quali non c’è più né vento né tempo; la differenza è che, per i protagonisti di questo brano, la navigazione c’è stata e ha riguardato un mare buio, “nero”, che loro hanno tentato di scrutare col canto di voci “chiare”. Oltre al mare nero c’era anche un “cielo scuro” dove cercavano di intravvedere le stelle che potevano dar loro la rotta. Ne “La linea d’ombra” canta Jovanotti: “è dolce stare in mare quando son gli altri a fare la direzione, senza preoccupazione, soltanto fare ciò che c’è da fare, e cullati dall’onda notturna sognare la mamma, il mare”. Infine, c’è un’altra cosa che facevano i marinai descritti nella canzone con il “noi”: nella notte buia e senza luce misuravano il mare. Già misurare il mare è impresa ardua se non impossibile vista la vastità, farlo senza alcuna luna o stella presente in cielo è del tutto inutile. Calcolare l’infinito non ha senso, non tutto può essere calcolato dall’uomo. Ma ecco che il vento si alza a segnare la possibilità del viaggio: con la bonaccia non si naviga, serve il vento che soffi dentro alle vele e le gonfi (come fa un cristiano a non pensare allo Spirito?). A questo punto dobbiamo però introdurre due elementi importanti: la tempesta e la guida del viaggio. Branduardi non ha paura della tempesta, non la fugge, sa che sarebbe inutile. Viene in mente un personaggio biblico che, in fuga da Dio, si imbarca a bordo di una nave e durante una tempesta si rifugia nel ripostiglio più remoto e si addormenta profondamente. In questo caso Dio non è colui che salva dalla tempesta, ma colui che l’ha mandata per suscitare una reazione nel suo profeta, cosa che effettivamente accade. Giona spiega ai marinai della nave che la tempesta è causa sua perché egli è in rotta con Dio e li invita a gettarlo in mare, dimostrando pentimento per la sua fuga e anche la volontà di gettarsi a corpo nudo nella tempesta tra le braccia di Dio. E poi c’è la guida: “la rotta giusta solo il Signore la sa” canta Branduardi. Tre immagini mi si formano davanti agli occhi: 1. Marco 4, 35-41: «In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”.» Gesù non evita che la tempesta si costituisca e che le onde riempiano di acqua la barca; averlo dalla propria parte, averlo a bordo, non è garanzia di pace e tranquillità, di assenza di difficoltà. Gesù, mentre sulla barca possiamo immaginare il lavorio frenetico dei pescatori per cercare di governarla e di buttare in mare l’acqua, dorme (come Giona)! Egli, poi, addirittura rimprovera i suoi compagni per averlo costretto a riportare la calma. La tempesta con la fede si può affrontare, ma forse la fede dei discepoli non è ancora abbastanza salda. 2. Matteo 14, 22-33: «Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra sponda, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro, scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”.» La tempesta diventa il luogo dove la fede è necessaria, il luogo dove l’uomo sperimenta che non ha più mezzi utili per uscire dalla situazione in cui è finito se non l’affidarsi a colui che salva. 3. Infine un frammento di “Novecento”, il film di Giuseppe Tornatore tratto dall’omonimo libro di Alessandro Baricco «Quella notte, nel bel mezzo della burrasca, con quell’aria da signore in vacanza, mi trovò là, perso in un corridoio qualunque, con la faccia di un morto, mi guardò, sorrise, e mi disse: “Vieni”. Ora, se uno che su una nave suona la tromba incontra nel bel mezzo di una burrasca uno che gli dice “Vieni”, quello che suona la tromba può fare una sola cosa: andare. Gli andai dietro. Camminava, lui. Io… era un po’ diverso, non avevo quella compostezza, ma comunque… arrivammo nella sala da ballo, e poi rimbalzando di qua e di là, io ovviamente, perché lui sembrava avesse i binari sotto i piedi, arrivammo vicino al pianoforte. Non c’era nessuno in giro. Quasi buio, solo qualche lucina, qua e là. Novecento mi indicò le zampe del pianoforte.
“Togli i fermi,” disse. La nave ballava che era un piacere, facevi fatica a stare in piedi, era una cosa senza senso sbloccare quelle rotelle.
“Se ti fidi di me, toglili.” Questo è matto, pensai. E li tolsi.
“E adesso vieni a sederti qua, mi disse allora Novecento. Non lo capivo dove voleva arrivare, proprio non lo capivo. Stavo lì a tenere fermo quel pianoforte che incominciava a scivolare come un enorme sapone nero… Era una situazione di merda, giuro, dentro alla burrasca fino al collo e in più quel matto, seduto sul suo seggiolino – un altro bel sapone e le mani sulla tastiera, ferme.
“Se non sali adesso, non sali più,” disse il matto sorridendo.
“Okay. Mandiamo tutto in merda, okay? tanto cosa c’è da perdere ci salgo, d’accordo, ecco, sul tuo stupido seggiolino, ci son salito, e adesso?”
“E adesso, non aver paura.” E si mise a suonare. Ora, nessuno è costretto a crederlo, e io, a essere precisi, non ci crederei mai se me lo raccontassero, ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava, non smetteva un attimo, ed era chiaro, non suonava semplicemente, lui lo guidava, quel pianoforte, capito?, coi tasti, con le note, non so, lui lo guidava dove voleva, era assurdo ma era così. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l’Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte. Oh yes.»
Fonti di energia pulita. E’ uno dei temi forti di molti programmi politici. Lo considero un tema forte del mio approccio alla vita. A volte ho bisogno di fonti di energia pulita per la mia anima. Oggi voglio condividerne una.
“L’amore mistico per l’umanità non si dispiega per istinto, non deriva da un’idea; non appartiene né al sensibile né al razionale, ma è implicitamente l’uno e l’altro, ed è effettivamente molto di più. Un simile amore è infatti la radice stessa della sensibilità e della ragione, come di tutte le altre cose.” (H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione).
C’è una canzone famosa dei Negrita che ha un bellissimo incipit. La canzone è “Rotolando verso sud” (L’uomo sogna di volare, 2005) e le prime parole dicono: “Ogni nome un uomo ed ogni uomo è solo quello che scoprirà inseguendo le distanze dentro sé. Quante deviazioni, quali direzioni e quali no? prima di restare in equilibrio per un po’… Sogno un viaggio morbido, dentro al mio spirito e vado via, vado via, mi vida così sia”. Il viaggio qui è dichiaratamente metaforico, è quel percorso compreso tra una distanza e l’altra presente all’interno di ogni uomo, è quello spazio che sta tra un momento di equilibrio e l’altro. E’ una condizione tipica dell’uomo, non vi si può sottrarre, è la vita stessa, fatta di un passo dopo l’altro e anche di quel momento di instabilità in cui si stacca il piede da terra per appoggiarlo altrove, il momento in cui si deve lasciare il certo per l’incerto, il conosciuto per l’ignoto. Rinunciare al viaggio è rinunciare a vivere: “mi vida così sia”.
Come promesso, rieccomi qui. Le ferie del “più fuori casa che a casa” sono andate. Un giorno al mare, uno in piscina, uno ai laghi di Fusine. Qualche saldo: scarpe, vestiti, libri 😉 Sto aspettando che il corriere mi consegni un combo vhs-dvd che ho trovato in offerta su internet: voglio buttare le vecchie videocassette che occupano troppo spazio. Questa settimana sarà essenzialmente casalinga, tra blog, letture, postproduzione di scatti fotografici e… olio di gomito per stendere un velo protettivo sugli scuri in legno della casa. La prossima settimana, invece, dedicherò le mattine al corso biblico che mi regalo ogni anno per ossigenarmi lo spirito. Il tema di quest’anno è corpo, spirito e anima nella Bibbia. E a questo proposito riporto quanto ieri ha scritto Massimo Gremellini su La Stampa:
“Socrate ha appena terminato il grande discorso sull’amore quando nella sala del Simposio fa irruzione Alcibiade, giovane leader del Partito Democratico (esisteva anche ad Atene, ma ogni tanto vinceva). A giudicare da come lo tratta, Platone non doveva avere una grande opinione degli uomini politici della sua epoca. Alcibiade arriva alla festa in ritardo, senza che nessuno lo abbia invitato e per giunta ubriaco fradicio. Rumoroso e invadente, si va a sdraiare accanto al padrone di casa Agatone, finché qualcuno gli fa notare che anche lui dovrebbe rispettare le regole della serata e tessere un elogio di Eros. Il politico rispetta le regole a modo suo: rovesciandole. Anziché tenere un’orazione su Eros, ne terrà una su Socrate. Invece che dell’Amore, parlerà dell’Amato. Così il racconto di Platone torna indietro, ma non per fare retromarcia: per prendere la rincorsa.
Il monologo di Alcibiade è la cronaca di un fallimento sentimentale. La storia di come lui – giovane, bello, ricco e potente – sia andato a sbattere contro l’indisponibilità di Socrate: vecchio, brutto, povero e inerme. Alcibiade era rimasto attratto dalla bellezza interiore del Maestro e avrebbe voluto diventarne l’amante, offrendo la propria avvenenza fisica in cambio delle sue virtù morali. Ma lungi dall’essere sconvolto da tale richiesta (quando mai, nei ventiquattro secoli successivi, capiterà ancora di vedere un politico andare a caccia di virtù morali?) Socrate aveva tenuto a bada Alcibiade con la lucida ferocia che caratterizza gli amanti irraggiungibili. «In cambio dell’apparenza del bello tu cerchi di guadagnarti la verità del bello: pensi di poter scambiare armi di bronzo con armi di ferro». Tradotto in prosa: caro Alcibiade, poiché la bellezza eterna della mia anima vale assai più di quella fuggevole del tuo corpo, lo scambio che mi prospetti è sbilanciato.
Ai tempi nostri (ma anche a quelli di Platone) non capita spesso che sia il «bello dentro» a respingere il «bello fuori», così come sulle copertine delle riviste si trova di rado un’anima in topless. Ma è per questo che amiamo il Simposio, vero? Per ricordarci che in un mondo ossessivamente materialista la vera trasgressione è la spiritualità. Socrate, non Alcibiade. Senza però diventare bacchettoni, perché il grande insegnamento di Platone è che all’anima ci si arriva sempre e solo passando dal corpo.”