«Che l’immagine dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal nostro furibondo potere». Ritengo queste parole decisamente interessanti e da esse si potrebbe partire per una discussione sui tempi attuali. Colpisce scoprire che siano state scritte nel 1955… Da almeno dieci anni nelle classi quinte faccio conoscere Hans Jonas e, in particolare, il suo scritto “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” per avviare una discussione e una riflessione sul tema del male. Un annetto fa ho messo da parte un articolo pubblicato da Avvenire che presentava il libro Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti dal quale sono tratte proprio le parole con cui ho aperto questo post. Ecco il pezzo per intero:
«Che l’immagine
dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano
a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal
nostro furibondo potere». A cosa attingere per evitare questa deriva?
All’uso adeguato della filosofia che instrada verso la vita buona e
all’esercizio della virtù? Sono dilemmi che hanno il sapore dell’attualità
benché sollevate da Hans Jonas nel 1955. Potrebbe d’altro canto essere
diversamente se «le questioni filosofiche – puntualizzava il pensatore sei anni
prima – si ripropongono ad ogni nuova epoca tanto daccapo, quanto alla luce
della loro intera vicenda storica antecedente?». Le citazioni provengono dalle
annotazioni del filosofo appartenenti alla sua stagione canadese, dal 1949 al
’55.
A lungo conservate all’Hans Jonas Nachlass dell’università di Konstanz sono
state ripescate e raccolte in anteprima mondiale da Fabio Fossa in questo libro
(Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti, Ets, pp. 120,
euro 10). Hans Jonas non è tra gli autori più conosciuti al grande pubblico
eppure il suo curriculum scintilla. Dopo gli studi con Rudolf Bultmann e Martin
Heidegger nella Germania degli anni Trenta, prende la via dell’esilio,
lontano dall’Europa. La sua vita però non si riduce a studio e contemplazione.
Anzi l’agire ne costituisce una cifra di rilievo. Lo prova, nel corso della
Seconda guerra mondiale, la scelta di arruolarsi nella Jewish Brigade,
inquadrata nell’esercito britannico e operativa sul suolo italiano. I rapporti
con la penisola scandiscono la vita di Jonas. Sarà proprio al rientro
dall’Italia, nel 1993, dopo avere ricevuto il Premio Nonino dedicato ai maestri
del nostro tempo, che il filosofo tedesco naturalizzato americano si spegnerà a
New York all’età di novant’anni.
Il nome di Jonas comincia a uscire dai cenacoli dotti appena pubblica Il
principio responsabilità, dove traccia un’etica all’altezza della
civiltà tecnologica. Siamo, con Jonas, lontani anni luce dalle prefiche
apocalittiche. La Guerra fredda imperversa (è il 1979) e molti continuano a
gridare al pericolo rosso, pronto a sbarcare in Afghanistan. Pochi invece si
curano dei potenziali sviluppi distruttivi della civiltà a più alto tasso
tecnologico mai esistita. Eppure la riflessione sul ‘Prometeo scatenato’
occhieggiava già da tempo tra le note di Jonas. Lo testimoniano gli scritti del
soggiorno canadese che sono tutt’altro che una parentesi nel cammino di
pensiero di Jonas. Già con il breve Introduzione alla filosofia e con Virtù
e saggezza in Socrate preparati nell’inverno del 1949 per i corsi del
Dawson College della McGill University, emerge la costante attenzione all’uomo
e alla vita buona, medicina per non trasformarsi in «formiche tecnologiche».
«L’uomo è il risultato delle sue azioni passate – scrive nel 1949 in
Introduzione alla filosofia-. Intendo il passato culturale della stirpe,
custodito nella memoria storica; e solo
fintantoché questo passato è realmente ricordato l’uomo è davvero consapevole
del proprio esistere presente e, di conseguenza, dell’autentico significato
attuale dei propri problemi esistenziali». È questa dimensione storica che
gli consente di porsi di là del dualismo tra intelletto e vita, tipico della
filosofia greca. Ma la sua storicità non garantisce nulla se non un punto di
partenza. Occorre, all’uomo, inseguire la vita buona e praticare la virtù,
rovello dello sforzo teoretico di Jonas. Agire
eticamente nel mondo storico perseguendo la virtù consente di evitare le
spirali dello gnosticismo o le storture del sogno scientista che «promuove la
massima realizzazione di tutti i fini desiderabili attraverso la semplice messa
a disposizione dei mezzi».
Occorre ricucire lo strappo tra intelletto e vita. «L’approccio dualistico alla
costituzione sostanziale dell’uomo – scrive già nel 1950 – rende conto del
fatto che tanto la comprensione quanto la realizzazione del fine dell’uomo non
dipendono da un processo di sviluppo spontaneo, ma dall’esercizio della virtù
etica». Virtù che non può rimanere chiusa nell’autosufficienza dell’intelletto
e che nello Jonas maturo assume i tratti della responsabilità nei confronti delle generazioni a venire.
Responsabilità che faticherebbe a farsi largo senza la «fatica della filosofia,
che deve sempre ripartire da capo, fondata com’è sulla ragione; e la ragione non è il freddo, impersonale intelletto,
ma è pervasa dalla passione dell’amore o dell’onestà».