
In questi giorni si parla molto di congelamento del conflitto russo-ucraino. Ovviamente non significa pace. E il congelamento funziona finché la temperatura resta bassa. Al primo riscaldamento c’è il rischio molto concreto che il conflitto riprenda. Quindi congelare non significa risolvere. Il pensiero va alla situazione balcanica, anzi, alle situazioni balcaniche, di cui spesso si preferisce non parlare. Sia mai che le parole scaldino e scongelino… Su RivistaIlMulino ho trovato questo interessante articolo.
“Krajina: proprio così, senza la “u”. Con o senza, l’accezione è sempre quella: “zona di frontiera”. Qui però siamo nei Balcani, e la lingua è il serbo-croato. Che le terre di confine siano, per definizione, suscettibili di numerose guerre e poi di altrettante paci, avremmo tutti già dovuto saperlo, anche prima che il conflitto ucraino mandasse in frantumi l’illusione europea di sostanziale inviolabilità dei confini. Le vicende della Krajina croata sono però qualcosa non solo di poco noto in Occidente, ma anche di visceralmente doloroso, quasi angosciante. E questa è la storia di una pace ancora incompiuta.
Nata come frontiera militare nella seconda metà del Cinquecento per preservare le terre meridionali dei domini asburgici dalle incursioni e invasioni ottomane, la vecchia Krajina era assai più estesa della regione storico-geografica a cui oggi, generalmente, ci si riferisce; ma è proprio nel suo settore occidentale, vale a dire quello croato-slavone, che essa, da territorio adibito a mantenere la pace, è diventata un territorio in cui a essere mantenuta è proprio la guerra, in tutte le sue forme, anche quelle meno evidenti. Qui le comunità serbo-ortodosse giunsero soprattutto tra Sei e Settecento per sfuggire alle violenze delle truppe del Sultano. La loro integrazione si basava sui privilegi concessi dagli Asburgo; privilegi che erano tenute a ricambiare col servizio militare in caso di azioni belliche. La Krajina, per secoli, è stata quindi un territorio pronto, o per meglio dire, predisposto a una guerra di difesa.
Una “tempesta” che non giunse dalle profondità anatoliche né dal Bosforo, ma che si addensò, in tempi a noi molto più prossimi, direttamente nei cieli della stessa Krajina, portò un nuovo tipo di guerra. A originarla fu lo scontro di violente correnti provenienti sia da Zagabria che da Belgrado: la disgregazione della Jugoslavia socialista, sotto le spinte centrifughe del nazionalismo, interessò quasi subito questa regione; la vittoria del partito dell’Unione democratica di Croazia di Franjo Tuđman nel Novanta e la nuova Costituzione croata, che considerava i serbi non più come uno dei popoli costituenti della Repubblica, ma come una semplice minoranza; l’atteggiamento dei leader serbi locali, in particolare i due Milan (Babić e Martić), sostenuti dalla retorica di Milošević, che li appoggiava apertamente soffiando sul fuoco della paura; e poi la prima ribellione, la Balvan revolucija (“Rivolta dei tronchi”), con i suoi blocchi stradali che recisero i collegamenti tra la regione dalmata e il resto del Paese. Tutti nuvoloni, sempre più minacciosi, che preannunciavano la tempesta.
Ma fu nel ‘91, con l’indipendenza croata e con l’auto-proclamazione della Repubblica serba di Krajina, che il cielo si scurì irrimediabilmente. Quest’ultima pose la capitale a Knin, cittadina dalmata allora a maggioranza serba, provocando un massiccio esodo di croati, accompagnato dalle immancabili violenze. Il territorio secessionista occupava circa il 20% del neonato Stato croato e il congelamento del conflitto, l’anno successivo, fu solo un’illusione di stabilità.
Con la caduta nel vuoto degli ultimi negoziati a inizio ‘95, si gettarono le basi per il culmine di quella che tanti croati, specialmente i nazionalisti, chiamano ancora oggi domovinski rat, “guerra patriottica”. Oluja, l’“Operazione tempesta”, investì la Krajina a partire dalle 5 del mattino del 4 agosto 1995. Il notevole dispiegamento di forze, l’appoggio dell’intelligence statunitense e, non ultimo, il venir meno del supporto diretto di Belgrado alle milizie di Martić favorirono il rapido successo governativo. Non si volle dare nemmeno il tempo alla comunità internazionale di intervenire a tutela dei civili, e ciò comportò un prezzo altissimo per il territorio interessato e per la sua storica presenza serba. Per numero di sfollati, circa 200 mila, si materializzò una delle più vaste pulizie etniche dalla Seconda guerra mondiale. La percentuale dei serbo-croati crollò dal 15 al 4,5%. In appena 4 giorni la “tempesta” si era sfogata, ma la guerra in Croazia era davvero finita?
Non è più guerra guerreggiata, ma non è ancora vera pace. Come mai? Per rispondere, bisogna considerare il permanere di diversi fattori che non favoriscono il risanamento delle ferite, né sociali e umane, né materiali e territoriali. In primis, l’atteggiamento degli alti esponenti politici: auto-giustificazione e glorificazione nel caso croato; autocommiserazione e retorico vittimismo nel caso serbo. In entrambi si cerca di rinnovare nelle masse la convinzione che la propria parte fosse nel giusto e che tutte le responsabilità vadano fatte ricadere sull’altro. Ma, propaganda a parte, nei fatti come si mantiene una semi-pace? Una sintesi delle criticità può essere ricavata dalle parole di Milorad Pupovac, esponente di spicco del Partito democratico indipendente serbo, che rappresenta i serbi di Croazia oggi, e che nel 2019 diceva: “Non vi sono cambiamenti significativi, il problema maggiore è rimasto quello dell’assenza di procedimenti legali per i crimini di guerra e l’esodo forzato di quei giorni, la distruzione dei villaggi e il saccheggio delle proprietà, oltre che l’impedimento al ritorno. […] non vi sono visibili intenzioni di risolvere questi problemi”.
I riferimenti che si ricavano sono numerosi. Si parla di una giustizia che ha spesso fallito i suoi obiettivi, a partire dalla mancata condanna definitiva dei comandanti militari di Oluja, i generali Ante Gotovina e Mladen Markač: dopo aver ricevuto una pena rispettivamente di 24 e 18 anni di carcere dal Tribunale dell’Aja nel 2011, sono stati assolti in appello l’anno successivo con una sentenza a dir poco controversa. Tagliente la dichiarazione di Carla Del Ponte, ex-procuratrice capo del medesimo tribunale: “Il presidente della Croazia [all’epoca Ivo Josipović] ha detto che sono stati commessi errori durante la guerra: non si chiamano più crimini, ma errori? Questa sentenza dà un duro colpo alla credibilità della giustizia”.
Si può stilare una lunga lista di politici (a partire dallo stesso Tuđman) e di altri militari croati sui quali, nel tempo, sono emerse responsabilità sempre più pesanti circa una strategia di pulizia etnica a danno dei serbi – non solo durante e dopo Oluja, ma anche in precedenza – e per i quali sono state emesse poche e spesso tardive condanne. Una guerra che la giustizia ha, in buona parte, perso contro l’ingiustizia.
Esiste poi una “guerra dei numeri”, come la definisce la giornalista Nicole Corritore: ancora oggi si discute sia sul numero dei morti che su quello dei profughi. Il centro “Veritas” di Belgrado parla di 835 civili serbi periti solo durante l’operazione militare, 1.070 contando anche lo stillicidio di uccisioni che caratterizzò agosto e settembre. Altre fonti serbe dichiarano 1.205 morti, mentre la sezione croata del Comitato Helsinki ne registra 677. Inoltre, in Serbia si parla normalmente di 250 mila profughi, circa 50 mila in più del numero stimato dal centro “Documenta” di Zagabria. Non ci sono però dubbi su un fatto: la maggior parte dei morti civili erano anziani.
Gli effetti materiali di Oluja, già da soli, hanno creato i presupposti per un duraturo stato di difficile ritorno e reinsediamento dei serbi di Croazia, i quali sono in larga parte rimasti in Serbia o nella Republika Srpska. Un numero considerevole di abitazioni è stato saccheggiato e dato alle fiamme: oltre 20 mila gli edifici distrutti secondo il Comitato Helsinki. “Una sorta di museo dell’orrore a cielo aperto, un perenne monito della desolazione e dell’abbandono che solo le guerre producono e che nessuna bandiera nazionale può cancellare” scrive il giornalista Marco Siragusa descrivendo il tragitto tra Drniš e Knin, nell’entroterra dalmata. Ma gli scheletri degli edifici non sono le uniche cicatrici che il territorio martoriato della Krajina restituisce: il fotografo Igor Čoko, originario di Knin, dice che “la guerra cova sui muri”: “Oluja 95”, “Ubij Srbina” (uccidi il serbo) sono alcune delle scritte sinistre diventate elementi caratteristici del paesaggio antropico.
Dai muri alla terra. Croazia: le mine uccidono ancora è il titolo dell’articolo che annunciava la morte di un cacciatore presso Sinj, in Dalmazia (N. Corritore, Osservatorio balcani e caucaso transeuropa, 6.2.2023). Prima di lui, tra il 1991 e il 2021, altri 2.017 civili sono rimasti coinvolti nell’esplosione di mine, di cui 524 hanno perso la vita. Anche tra gli sminatori il bilancio è tragico: 152 feriti e 65 morti in operazioni di bonifica. È la guerra nel suolo, la più simile all’originale, perché continua a mietere vittime con le armi. Nonostante l’opera di sminamento sia molto più a buon punto rispetto alla confinante Bosnia, a fine 2020 erano quasi 280 i chilometri quadrati di territorio ancora contaminato; nel 1996 erano 13 mila secondo le stime dell’Onu.
Il primo conflitto ad aver seguito la fine della guerra “maggiore” fu però la “guerra tra poveri”, come la chiama Mauro Barisone, che negli anni del conflitto lavorò come volontario sul campo nell’ambito dell’Operazione Colomba. Lui e i colleghi erano “colombe” che, volando in mezzo alla “tempesta”, cercavano di portare, se non la pace, almeno la speranza. Con quella sua triste locuzione, si riferisce alla vera e propria lotta per la sopravvivenza che si originò, dopo Oluja, tra i pochi serbi rimasti e i profughi croato-bosniaci indotti a trasferirsi per consolidare il ribaltamento etnico della Krajina. Erano tutte vittime viventi delle guerre jugoslave, sopravvissuti che si contendevano il possesso di abitazioni devastate e prive dei minimi servizi per una vita dignitosa.
La forma di guerra che fa più fatica a scomparire è però quella alimentata dall’indifferenza e dall’ignoranza. Assomiglia piuttosto a una guerriglia, in quanto perdurante e riemergente in modo più o meno localizzato e imprevedibile. Mi riferisco a episodi di intolleranza che si sono verificati anche negli ultimi anni, come le ripetute aggressioni fisiche a danno di serbi. Ma parlo anche di un costante clima di ostilità nei confronti di coloro che osano sfidare la narrazione nazionalistica e mettere in luce le innumerevoli macchie di Oluja. Anche se siamo lontani dai tempi in cui possibili testimoni di processi saltavano in aria, giornalisti scomodi finivano nella lista nera dei nemici dello Stato e intellettuali pro-verità venivano emarginati e pesantemente attaccati congiuntamente da stampa e politici, non va sottovalutata una certa dialettica del terrore. Ne sa qualcosa lo scrittore italo-croato Giacomo Scotti, autore di un libro-diario che racconta e denuncia le atrocità legate all’”Operazione Tempesta” (Croazia, operazione Tempesta. La “Liberazione” della Krajina ed il genocidio del popolo serbo, Gamberetti, 1996). Dopo aver subito un’aggressione potenzialmente fatale nel 1997, è stato bersaglio di minacce e insulti da parte di frange dell’estrema destra croata all’indomani dell’assoluzione dei due summenzionati generali.
Con l’inizio del nuovo decennio una serie di incoraggianti segnali per la pace si è palesata. E se la politica è spesso restia a dare il buon esempio, un notevole ruolo viene svolto da enti non governativi, molti dei quali croati. A far riguadagnare terreno alla giustizia abbiamo, ad esempio, il centro “Documenta” di Zagabria, molto attivo nel prestare preziosa assistenza legale ai parenti delle vittime di crimini o di mancata restituzione di beni, tanto da aver conseguito alcuni significativi successi in tribunale. Tra questi, si può segnalare la sentenza del 2012 con la quale la Corte suprema croata, rispetto all’eccidio di Varivode (settembre 1995), ha riconosciuto che “è stato perpetrato un atto di terrorismo”. Ma anche sul fronte della “guerra dei numeri” ha ottenuto risultati: nel dicembre 2018 è stata presentata a Dubrovnik la “Mappa delle vittime delle guerre 1991-2001 sul territorio della ex Jugoslavia”, frutto di un intenso lavoro di collaborazione tra il “Documenta”, il “Centro per il diritto umanitario” (di Belgrado e di Pristina) e l’“Associazione per la giustizia, la responsabilità e la memoria di transizione” (di Sarajevo).
Purtroppo, la vittoria in alcune di queste guerre è strettamente legata alle disponibilità economiche e alle scelte politiche di favorire gli investimenti, come per la bonifica dalle mine o per il rientro dei profughi. Marco Siragusa ci offre un’inquietante lettura a riguardo: “Mantenere quelle case distrutte o i campi minati attorno serve a ricordare la brutalità del nemico, ad alimentare la paura per quei vicini diventati improvvisamente assassini”. Buona parte della campagna e del territorio rurale – di cui la Krajina è composta per la sua quasi totalità –, senza investimenti e senza l’apporto di giovani, è destinata a restare semi-abbandonata. Non va meglio all’ex capitale ribelle: a differenza di Vukovar, la “Stalingrado croata”, che è letteralmente rinata dalle ceneri, Knin “è stata lasciata a marcire, abbandonata in tutti i sensi” constata amaramente Igor Čoko.
Tuttavia, ciò che può veramente fare la differenza e favorire una solida pace nel lungo periodo, influenzando la stessa politica, è una presa di coscienza sempre più ampia nella società civile, in particolare tra le nuove generazioni, chiamate a gestire il complesso futuro di paesi come Croazia e Serbia. E sono proprio i giovani a dimostrarsi più permeabili al confronto costruttivo, piuttosto che alla propaganda.
Senza la divulgazione della verità, il rinnovamento del ricordo delle vittime, il perseguimento della giustizia, c’è il rischio che il cielo sopra la Krajina rimanga cupo. A differenza della guerra, che fissa due visioni, due narrazioni contrapposte, la pace ha bisogno di un terreno comune per consolidarsi, di un riconoscimento reciproco di responsabilità, di condivisione di valori che non possono essere quelli divisivi del nazionalismo.
Da qui l’importanza anche delle collaborazioni oltre i confini. Ne è un esempio la manifestazione congiunta di un gruppo di giovani serbi e croati nel 2019, quando hanno ricordato assieme sia le vittime di Oluja sia i morti croati dell’immane eccidio di Ovčara, in Slavonia, compiuto dall’esercito federale jugoslavo e da paramilitari serbi nel novembre del 1991. Così facendo, hanno gettato “una timida luce in un buio panorama di negazione, rimozione o addirittura revisione della storia” scrive Nicole Corritore. In occasione del XXVI anniversario di Oluja, invece, sono stati il “Documenta”, croato, e il “Centro per il diritto umanitario”, serbo, a gestire la campagna social Storm in The Hague, volta a sensibilizzare sulle contraddizioni emerse nei processi ai due generali.
Volendo riconoscere qualche merito anche alla politica, va detto che il periodo a cavallo tra lo scorso e l’attuale decennio sembra aver rappresentato uno spartiacque tra due bacini temporali. Nel primo, l’atteggiamento e la narrazione erano ancora nettamente connotati da un certo bellicismo, sia nel linguaggio sia negli intenti; nel secondo, invece, hanno cominciato a trovare sempre maggior spazio una distensione e una più equilibrata presa di coscienza. “Non è mai successo prima che un ministro partecipasse a una commemorazione delle vittime dell’operazione Tempesta”: queste le parole pronunciate da Vesna Teršelič riguardo alla visita, nel 2020, del ministro dei Veterani croato Tomo Medved al villaggio fantasma di Grubori, per ricordare un massacro di civili serbi. Una sorpresa che l’attivista ha definito “una prima crepa nella retorica della vittoria”.
Trent’anni dopo, la transizione dalla guerra alla pace deve poggiarsi su solide basi sociali, prima ancora che politiche, e la “tempesta” sulla Krajina potrà finalmente diradarsi. Compiendo l’unica pulizia auspicabile, quella dell’indifferenza e dell’ignoranza, si potrà uscire dallo stato limbico di “non più guerra ma non ancora pace” che in molte regioni dei Balcani, non solo in Krajina, persiste.”


