Gemma n° 2098

“Ho scelto di portare Wonder perché il testo mi piace molto: Shawn Mendes vorrebbe sapere come sarebbe il mondo se non ci fossero dei filtri con le altre persone, se fossimo molto più sinceri con gli altri” (G. classe seconda).

Una mano che strozza in guanti bianchi

Fonte

Venerdì 1 febbraio, come ho già avuto modo di scrivere, ero a Trieste per partecipare a ControMafie, gli Stati generali di Libera. Durante la plenaria di apertura c’è stato l’intervento di don Luigi Ciotti, che ho registrato. Questo pomeriggio mi sono messo a riascoltarlo per farne un pezzo da mettere qui. Quanta fatica! E mi è tornato in mente che ho faticato molto anche mentre ero nell’Aula Magna dell’Università… Ecco, rettore Fermeglia, al giorno d’oggi, un’amplificazione migliore, l’Università giuliana la meriterebbe.
Per questo motivo non riesco a riportare per intero l’intervento di don Ciotti, ho cercato di fare del mio meglio…

“Io vorrei partire da una domanda cui tutti siamo chiamati a rispondere: come mai dopo 150 anni parliamo di mafia? …
I giornalisti hanno subito chiesto come mai a Trieste.

  1. Innanzitutto perché quando nasce Libera, il primo incontro pubblico è stato fatto a Trieste. Paolo Rumiz ha moderato l’incontro, c’era Caselli, c’ero io e soprattutto c’era una persona eccezionale per questa città, don Mario Vatta.
  2. Abbiamo un debito di riconoscenza, un atto di responsabilità con chi è stato assassinato, con chi non c’è più, con chi è rimasto solo, con le famiglie. Già allora eravamo arrivati per tuo zio (dice rivolto a Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina) e torniamo perché i nomi di chi non c’è più non basta dirli con la bocca, dobbiamo sentirli un pochettino qui dentro, altrimenti diventa la retorica della memoria. Noi non vogliamo la retorica della memoria, non possiamo permettercelo, non dobbiamo farlo. E non possiamo dimenticare a nordest un ragazzo di Trento, meraviglioso anche lui, Antonio Micalizzi, giovane giornalista che a Strasburgo ha perso la vita. Le speranze di chi non c’è più devono camminare sulle nostre gambe; noi dobbiamo impegnarci per fare in modo che la memoria sia viva. Noi dobbiamo esser vivi, più degni, più coraggiosi per costruire intorno a noi vita, perché vinca davvero la vita e la morte sia sconfitta.
  3. Ma mi piacerebbe che da questa sala ci si ponesse ancora dei dubbi, perché i dubbi sono più sani delle certezze: quando incontro qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, mi preoccupo. Anzi, se trovate qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, a nome mio e di Giancarlo Caselli, salutatecelo personalmente e cambiate strada. Siamo tutti piccoli. Abbiamo il dovere di continuare a leggere la realtà: l’Italia e la maggior parte degli italiani si sono fermati alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Sono passati 26 anni! E voi (rivolto ai magistrati e alle forze dell’ordine) ci testimoniate come le mafie siano profondamente cambiate. Siamo venuti nel nordest per far emergere le cose belle e positive di questa terra, ricordando anche le parole del papa sull’ecologia integrale: disastri ambientali e disastri sociali non sono due crisi diverse, ma un’unica crisi socio-ambientale.

Allora, 5 anni del rapporto della direzione nazionale antimafia, le antenne dei nostri presidi sui territori, la società civile: quello che emerge impone a tutti noi, anche a chi è già impegnato il morso del più, uno scatto in più. Il problema non sono i migranti, il problema sono i mafiosi nel nostro paese! La commissione antimafia, con voto unanime, scrive che “le organizzazioni mafiose italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni assumendo forme organizzative nuove e modelli di azione sempre più multiformi e complessi”. Cito alcune caratteristiche:

  1. progressivo allargamento del raggio d’azione: non c’è regione d’Italia che possa dichiararsi esente
  2. profili organizzativi: presidi reticolari
  3. più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale e nei mercati: lì è possibile situare il consolidamento del potere delle mafie
  4. promozione di relazioni con attori della cosiddetta area grigia (al confine tra sfera legale e illegale). Non è un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma una commistione tra le due aree. Si tratta di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito.

Tocca a noi cogliere quello che ci viene consegnato dagli organi competenti, metterlo insieme alle nostre conoscenze e alle nostre forze per assumerci di più la nostra parte di responsabilità. Abbiamo il dovere di guardare alle cose positive, ma anche di prendere coscienza che le mafie si rigenerano.
Molta gente oggi ha scelto la neutralità: non è possibile scegliere la neutralità. Abbiamo il dovere umile, umile, umile di schierarci. Un abbraccio ai genitori dei ragazzi morti di droga in questa regione: l’onda lunga dell’assenza di futuro per molti giovani comincia a farsi sentire. L’eroina è tornata più di prima, più di vent’anni fa. La droga resta uno degli zoccoli delle organizzazioni criminali mafiose.
Abbiamo leggi che ci vengono invidiate, peccato che vi siano piccole virgole o singole parole in grado di stravolgerne l’efficacia. Abbiamo bisogno di chiarezza: azioni chiare, parole autentiche, misurate ma ferme e inequivocabili, capaci di esprimere a un tempo il dolore, la compassione, la condanna, ma sempre anche la speranza. Tutto ciò anche contro i mormoranti, coloro che mormorano per i corridoi…
Non dimentichiamoci che gli altri sono i termometri della nostra umanità, compresi quanti vengono da lontano. Non facciamo della legalità un mito: essa è il mezzo, la via per raggiungere quell’obiettivo che si chiama giustizia. La legalità non è il fine. Essa va saldata fortemente alla responsabilità. Leggere nel Rapporto Censis che l’Italia è il fanalino di coda nell’istruzione e nella formazione ci fa sobbalzare sulla sedia. La cultura deve svegliare le coscienze. La legalità senza civiltà, senza educazione, senza cultura, senza lavoro si svuota.
Le mafie sono parassiti e traggono forza dai vuoti sociali, dai vuoti culturali. La corruzione è una mano che strozza in guanti bianchi. Siamo chiamati a studiare, a documentarci per attuare un’etica incarnata che inizi dalle piccole cose della quotidianità: cittadini attenti al bene comune e alla responsabilità.
Un’ultima parola per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto un gruppo di lavoro sulla corruzione e sulle mafie. La Chiesa deve parlare chiaro senza reticenze, non limitarsi a predicare il Vangelo, ma viverlo nella sua ricerca di verità e nel suo impegno contro le ingiustizie, le prepotenze, gli abusi di potere. In questi anni il papa, dopo aver incontrato un migliaio di parenti delle vittime, è andato sulla piana di Sibari e senza mezzi termini ha gridato che le mafie sono adorazione del male e disprezzo del bene comune e ha detto con forza che tutto questo va combattuto, allontanato, ma ha anche detto che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi non sono in comunione con Dio e ha usato un termine molto chiaro: “sono scomunicati”.

La speranza per il domani poggia sulla resistenza dell’oggi. Le leggi devono tutelare i diritti, non i poteri; devono promuovere la giustizia sociale, non le disuguaglianze o le discriminazioni. La speranza è un diritto ma anche l’orizzonte di una politica seriamente impegnata nella promozione del bene comune; se la politica non fa questo tradisce la sua essenza, non è politica. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizione del potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, perché è da 150 anni che noi continuiamo a parlare di mafie.”

La verità in una relazione

Carlo-SiniQualche giorno fa Alessandro Zaccuri ha pubblicato sulle pagine di Avvenire un articolo sul filosofo bolognese Carlo Sini. Molte sono le suggestioni presenti.
“Tra un paio di giorni il piccolo supermercato vicino alla casa milanese di Carlo Sini chiuderà i battenti. «Per fare la spesa dovrò fare un pezzo di strada in più – commenta il filosofo –. Nuove abitudini, nuovi incontri. Un nuovo inizio, in un certo senso. Pensare, del resto, significa sempre iniziare da capo, a partire dalle occasioni che la vita ci offre».
Negli ultimi tempi Sini non fa altro: inizia, in continuazione. Classe 1933, a lungo docente di Filosofia teoretica alla Statale, di recente ha avviato le attività di Mechrí, un laboratorio di studi transdisciplinari i cui materiali sono pubblicati da Jaca Book in un’apposita collana, “Mappe del pensiero”: il primo volume, incentrato sul binomio Vita, conoscenza, (a cura di Florinda Cambria, pagine 352, euro 28,00), viene presentato oggi alle 18,30 presso la Libreria Città Possibile in via Frua 11, a Milano.
Non si tratta di un saggio unitario, ma di una raccolta di contributi variamente ispirati alle originali tavole concettuali elaborate dallo stesso Sini. «L’obiettivo – insiste – è lo stesso dei miei ultimi libri: far uscire la filosofia dall’isolamento specialistico in cui si è confinata e restituirla alla sua funzione originaria». L’unità dei saperi, niente meno. «Certo – sottolinea Sini –, altrimenti la filosofia non sarebbe una disciplina, ma soltanto una carriera accademica».
È uno sviluppo che, per quanto coerente rispetto alla riflessione precedente di Sini, ha subìto un’accelerazione nel 2016 con la comparsa di Inizio, la cui «conseguenza», come la definisce l’autore, è ora rappresentata da Trittico (pagine 80, euro 12,00: l’editore è sempre Jaca Book, che ha in catalogo l’opera omnia di Sini). Questa volta il linguaggio dell’argomentazione sembra cedere il passo al racconto, con una serie di apologhi dal vero che hanno per protagonisti Giovanni Gentile e Benito Mussolini, Richard Wagner e Francesco De Sanctis, senza dimenticare il padre della semiotica, Charles Sanders Peirce, che negli ultimi anni della sua esistenza si mantiene compilando voci di enciclopedia.
«Ho cominciato a ragionare seriamente sull’inizio quando mi sono accorto di essere vicino alla fine del mio cammino – ammette sorridendo Sini – e per me è stato naturale spostarmi sul terreno della biografia, che è sempre in qualche misura un’autobiografia. Riusciamo a dire degli altri ciò che abbiamo appreso di noi stessi. Di questo, a mio avviso, occorre avere consapevolezza: del potere invisibile che le esperienze di vita e, più ancora, l’opinione comune esercitano sulle nostre convinzioni, sul nostro modo di pensare e di esprimerci. Il fatto strano, invece, è che oggi la filosofia non mette affatto in questione quella che i greci indicavano con il termine di doxa: il sentire comune, appunto, sul cui ruolo determinante si erano già concentrate le riflessioni dell’ultimo Husserl. Una trascuratezza che ha spesso sviluppi paradossali, come quando ci si intestardisce nel sostenere che il razionalismo, così come è stata codificato dall’Illuminismo francese, non sia un momento della storia d’Europa, ma la risposta definitiva a ogni domanda dell’umanità».
Il “potere invisibile” al quale Sini fa riferimento non va inteso come un’entità occulta e malevola. «Al contrario – ribadisce il filosofo – è il potere della realtà che si trasforma davanti a noi in un processo non prevedibile e non dominabile, ma che di solito è sovrastato dalla presunzione di un sapere che dovrebbe prescinderne. E non si capisce come mai, fra tutte le esperienze umane, solo questa del pensiero dovrebbe essere immune dalla dimensione del discorso, che ci caratterizza come specie fin dai tempi in cui i nostri antenati lasciarono l’Africa».
Un altro elemento fondamentale, ricorda Sini, è rappresentato dalla cognizione della morte. «Vico e Foscolo ci avevano già avvertiti: dove si trova una tomba, lì c’è la civiltà, che presuppone la comunità tra i vivi e i morti. È l’orizzonte della celebrazione e del sacro ed è la comprensione di come fine e inizio siano indissolubilmente legati tra loro. Il sapere, di per sé, segna di norma la fine di un’avventura, collocandosi nell’istante in cui Orfeo si volta per guardare Euridice, la vede e, vedendola, la perde per sempre».
A dispetto delle apparenze, quella di Sini non è una prospettiva rinunciataria, né tanto meno relativista in senso tradizionale. «Quando affermo che la verità è “relativamente assoluta” intendo dire che la ricerca della verità, alla quale non possiamo rinunciare, avviene sempre all’interno di una relazione. E la verità, essendo a sua volta dinamica, suscita in noi un dovere morale, un’interrogazione ininterrotta che non può mai accontentarsi di un un sapere particolare. Stephen Hawking, per esempio, era persuaso che la fisica potesse risolvere ogni problema, ma non si rendeva conto che questa stessa pretesa esulava del tutto dalle competenze della fisica. La ricerca della verità è per sua natura simbolica, perché si realizza nel tentativo di ricomporre un’unità che non è mai astratta, ma si manifesta nell’atto stesso della ricomposizione. Siamo sempre alla fine di qualcosa, per questo non possiamo fare a meno di iniziare».
Pur non muovendo da un’esplicita istanza religiosa, la proposta di Sini si confronta necessariamente con la fede. «La mia impressione – dice – è che per il credente l’itinerario della mente sia sempre in Deo, e cioè nel corpo stesso di Dio, anziché in Deum, come si ripete abitualmente con un’espressione fin troppo umana, che riduce Dio a un oggetto remoto e trascendente, da conoscere mediante una sorta di attraversamento. Il cristianesimo, anche in questo caso, mette a disposizione l’intuizione formidabile dell’Incarnazione, in virtù della quale Cristo diventa un concreto modello di vita. Dio si consegna all’uomo con quella formula abissale dei Vangeli, il “tu l’hai detto” che è il rovesciamento della domanda di Pilato su che cosa sia la verità. Gesù non risponde con una nozione astratta, ma istituisce una relazione. Aprendo la strada, una volta di più, a un nuovo inizio».”

La verità ha ragione?

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Già ultimamente sto pubblicando poco sul blog, se poi, quando lo faccio, propino testi di questa lunghezza, capisco benissimo di non agire da buon blogger. Pazienza…
Già altre volte ho postato sul tema della post-verità, della verità, della libertà di opinione ed espressione; oggi mi sono imbattuto in una intervista/riflessione a più voci decisamente interessante. La pubblico interamente; la fonte è il Tascabile e la firma è del filosofo e ricercatore alla University College di Dublino Fabio Gironi.
Uno dei fenomeni sociali che caratterizza maggiormente la scena pubblica e politica sembra essere il disinteresse per l’opinione degli esperti, e il proliferare di “teorie alternative”. In gergo filosofico, questo fenomeno si può definire deflazione dell’autorità epistemica. Questa è una forma di autorità conferita non da status sociale, lignaggio nobiliare, o investitura divina, ma dall’esperienza in un determinato campo del sapere. L’autorevolezza del biologo, dello storico, ma anche dell’ingegnere meccanico e dell’agricoltore, dipende dal livello di studio e preparazione teorica, dall’esperienza pratica diretta, e dall’essere parte di una comunità epistemica (un gruppo di persone che condividono determinati obiettivi, e dediti allo stesso tipo di attività o ricerca) capace di valutare le proprie conoscenze.
Quello che movimenti differenti come l’anti-vaccinismo, il negazionismo del cambiamento climatico antropogenico, o proposte di “medicina alternativa” hanno in comune è un tratto fondamentale: lo scetticismo sistematico verso gli esperti, visti come collusi con “poteri occulti”, che nei casi più eclatanti sfocia in un aperto anti-intellettualismo. Questo fenomeno riflette una visione del mondo diviso in una classe di “studiosi” sedicenti esperti, e una di gente dotata di senso comune – dove quest’ultimo viene considerato come un valido sostituto alla competenza specifica.
Insieme ai diffusi fenomeni di echo chamber e filter bubble (comunità virtuali chiuse all’influenza esterna che permettono la proliferazione di notizie non sostanziate dai fatti) la perdita di fiducia nell’autorità epistemica sta producendo un cambiamento nel concetto stesso di verità dei fatti. Certamente, le menzogne non sono una novità del ventunesimo secolo: già nel 2005 il filosofo Americano Harry Frankfurt apriva il suo breve saggio “Stronzate” osservando come “uno dei tratti più salienti della nostra società è che circolino così tante stronzate”, differenziando la stronzata dalla menzogna. La prima non è solamente un capovolgimento intenzionale della verità ma dipende da un sistematico svuotamento del concetto di verità, e una studiata indifferenza rispetto ai fatti.
Ma è anche vero che la propagazione di stronzate raggiunge oggi livelli altissimi: è ovvio che certe verità non siano tali, perché l’affermazione vera è meno importante di quella efficace. Questo fenomeno è esemplificato dal ben noto termine “post-verità”: parola dell’anno nel 2016 per l’Oxford Dictionaries, questo aggettivo è definito “relativo, o che denota, circostanze in cui i fatti oggettivi hanno meno influenza nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli a emozioni o credenze personali”. Altrettanto famosi ormai sono sia il termine (intrinsecamente ossimorico) alternative facts, che l’espressione fake news, entrambi contributi dell’amministrazione Trump negli Stati Uniti.
Considerato come queste distinzioni (fatti vs finzioni, verità vs menzogna) così familiari ai filosofi, abbiano oggi fatto irruzione nelle nostre discussioni quotidiane, abbiamo voluto esaminare la situazione contemporanea insieme a quattro filosofi e filosofe esperti di questioni epistemologiche: Maria Baghramian, della University College Dublin; Mario De Caro dell’Università di Roma Tre; Gloria Origgi dell’Institut Nicod dell’Ecole Normale Supérieure, e Nicla Vassallo, dell’Università degli Studi di Genova.
Alcuni critici hanno tracciato la genesi della situazione presente, più o meno esplicitamente, al clima culturale del recente passato, in particolare all’eredità del post-strutturalismo e di altre posizioni filosofiche che hanno promosso un approccio critico verso le nozioni di autorità e di verità. Ogni movimento filosofico deve essere collocato nel suo contesto storico-sociale, ed è evidente che “il postmodernismo” rispondesse a delle precise preoccupazioni socio-politiche, primo tra tutti, in campo politico, lo spettro dei dispotismi autoritari che hanno dominato la metà del ventesimo secolo (il celebre, e spesso incompreso, rifiuto delle metanarrazioni). L’ironia è che ora viene accusato di aver riprodotto lo stesso problema, rendendo qualsiasi narrazione degna di fiducia. È giusto accusare questo momento intellettuale dei mali presenti?
GLORIA ORIGGI
Il post-modernismo è un aggregato di idee di avanguardia di provenienza diversa, estremamente influente nell’arte contemporanea, nella letteratura del dopo-guerra e in una serie di esperienze artistico-politiche, spesso di natura provocatoria, necessarie però per scuotere una cultura vecchiotta, incapace di auto-osservazione e tipicamente egemonica. Non demonizzerei il post-modernismo nei contenuti, almeno non più di quanto si possa fare con i tanti movimenti di avanguardia che hanno attraversato il ventesimo secolo, con successi e insuccessi. Non c’era una verità da mettere in discussione, ma un’egemonia conoscitiva che passava dai banchi di scuola, dal sapere diffuso dai musei, dal cinema e poi dalla televisione e che andava sicuramente ripensata dopo i disastri di due guerre mondiali e di più di un secolo di colonialismo. I toni assurdi, provocatori, le boutades, le trasgressioni hanno avuto effetti positivi e negativi. Sicuramente un effetto positivo è stato quello di includere nel discorso culturale “alto”, personaggi, esperienze, culture, minoranze che a questo discorso non avevano accesso. Un altro innegabile effetto positivo è stato quello di sviluppare una coscienza critica nei confronti dei propri atti culturali e svelare la dimensione spesso politica o economica di tutte le espressioni culturali. Le conseguenze negative sono state un generale impoverimento dell’esperienza culturale, uno scetticismo verso la qualità intrinseca dell’oggetto culturale che ha fatto sì che da movimento di avanguardia, il postmodernismo si allineasse con le esperienze culturali più “leggere” della nostra società, come la pubblicità o il marketing. E insieme una tendenza paranoica collettiva a leggere in termini manipolatori qualsiasi proposta conoscitiva. Movimento tendenzialmente “di sinistra”, il postmodernismo è stato purtroppo reclutato “a destra” per legittimare la decimazione degli studi umanistici nelle università di tutto il mondo, visti come ricettacolo di idee paranoiche e estremiste volte ad abbattere il canone culturale occidentale. L’accusa che rivolgo al post-modernismo è più che altro questa: che, grazie alla sua faciloneria intellettuale ha delegittimato le scienze umane, rendendosi complice di un generale impoverimento del sapere, di un “clash” tra cultura scientifica e cultura umanistica e di una tecnicizzazione della conoscenza che ci rende tutti più stupidi. Non bisogna però confondere le derive postmoderniste dall’idea di Lyotard di condizione postmoderna. Quella fu una vera intuizione. E noi oggi siamo in una condizione postmoderna, per navigare la quale il postmodernismo come movimento di idee non ci aiuta per niente, ma neanche il tentativo ingenuo (penso al nuovo realismo) di ritrovare una realtà intatta, un terreno sicuro a cui ancorarci come dei naufraghi a una zattera.
MARIA BAGHRAMIAN
Diversamente da molti miei colleghi sul fronte continentale, non ho mai apprezzato molto le virtù del postmodernismo, in particolare considerando i suoi proclami di rappresentare un momento progressivo, e politicamente sovversivo, della nostra vita intellettuale. Il mio rigetto del postmodernismo ha dei paralleli con la mia critica del relativismo, un tema chiave della mia ricerca degli ultimi trent’anni. Da una parte, mi sono sempre opposta a un troppo semplicistico rifiuto del relativismo come incoerente o contraddittorio, ma dall’altra ho sempre rifiutato con forza l’identificazione di un’attitudine relativistica con una politica progressista. Il relativismo è un framework concettuale molto sfuggente, che può condurre a quietismo e inazione, ma può anche essere adottato a fini autoritari e regressivi. Non dobbiamo dimenticarci che Mussolini era un convinto relativista, e che i Nazisti proposero una forma di relativismo razziale. I pensatori postmoderni, attraverso aforismi e metafore piuttosto che tramite argomentazioni filosofiche tradizionali, hanno messo in dubbio alcuni precetti fondamentali del discorso culturale, che si concentra sui temi della ragione, e della ricerca razionale. Facendo ciò, hanno occupato lo stesso terreno intellettuale del relativismo. Questo, secondo me, è stato il loro più grande difetto. Il postmodernismo ha “problematizzato” (come si dice in gergo) le idee di oggettività, verità, e logica, con l’obiettivo – si diceva – di liberarci dalla schiavitù della ragione, imposta dall’Illuminismo. Quest’ultimo viene presentato come un movimento monolitico e autoritario alleato con l’imperialismo occidentale e il colonialismo, mentre il postmodernismo sarebbe alleato alla lotta per l’emancipazione da ogni tipo di tirannia. Per molti postmodernisti l’Illuminismo – accompagnato dalla fiducia nella forza della ragione e della razionalità, e l’ottimismo nei confronti della possibilità di emancipare la specie umana – divenne un nemico politico e sociale. I critici postmoderni della scienza, delle sue pratiche e istituzioni hanno ragione a enfatizzare i meccanismi di esclusione presenti in essa. Le donne, le persone di colore, e altri gruppi marginalizzati sono stati sistematicamente esclusi, sottovalutati e umiliati. Ma le ragioni di queste esclusioni sono opposte a quelle proposte dal postmodernismo. Che la conoscenza è potere è un’antica ma profonda intuizione riguardo al ruolo che la conoscenza gioca all’interno della nostra vita sociale e politica. Gli uomini bianchi al potere hanno usato la scienza e le norme razionali per escludere le donne e gli “altri differenti” dai centri di conoscenza che si affidano proprio a queste norme. Il responso a queste pratiche di esclusione non deve essere quello di abbandonare i potenti proclami della conoscenza scientifica, ma di rivendicarli a sé. Ad esempio, le donne in Iran stanno riuscendo in questo intento, riempiendo i campi STEM nelle università del paese, tradizionalmente riservati agli uomini.
È possibile che l’overdose di informazioni di cui il pubblico è oggi bombardato tramite i media digitali produca un rilassamento della distinzione tra verità e finzione? È concepibile che ci siano specifici limiti cognitivi che, in quanto esseri umani, limitano la nostra capacità di filtrare ed elaborare un numero così grande di informazioni, spesso contraddittorie?
GLORIA ORIGGI
Non capisco quale sia stata l’età dell’oro in cui la gente credeva nella realtà invece che nelle finzioni. La quantità di stronzate che l’umanità è sempre stata disposta a credere non credo sia aumentata con l’avvento di Internet. È forse solo più visibile. Ma è vero che le società a forte densità informazionale come le nostre società tardo-moderne hanno effetti epistemici propri: paradossalmente, come ho cercato di mostrare nel mio lavoro, più l’informazione aumenta, più la reputazione delle fonti di informazione diventa rilevante, anzi, indispensabile per navigare un mare troppo fitto di informazioni. Un’epistemologia del presente deve dunque fornire gli strumenti per distinguere indizi reputazionali farlocchi da indizi reputazionali robusti, un lavoro ancora da cominciare che sarà sicuramente al centro della ricostruzione di un metodo sociale, condiviso e razionale di distinguere la qualità epistemica dell’informazione che ci attraversa ogni giorno.
MARIA BAGHRAMIAN
Anche io penso che la profusione di dati e informazioni odierna ha esacerbato un problema pre-esistente e perenne, quello di dover prendere una decisione riguardo a idee e fonti di informazione in contrasto tra loro. Il problema non è, o non dovrebbe essere, formulato in termini di un rilassamento della distinzione tra verità e menzogna. Questa distinzione, mi sembra che sia implicita nella nozione stessa di modi di pensare giusti e sbagliati riguardo a ciò che succede. Il problema risiede piuttosto nel nostro non avere sufficienti strumenti epistemici per distinguere le informazioni vere da quelle false, o fuorvianti. E parte del problema risiede nel minor prestigio dato oggi alla testimonianza degli esperti. La maggior parte delle cose che sappiamo deriva da ciò che abbiamo imparato dalle testimonianze ricevute da altre persone. La testimonianza degli esperti – coloro che hanno un livello di competenza e di conoscenza maggiore del nostro – è una delle fonti più importanti di conoscenza. La democratizzazione dell’informazione resa possibile da Internet, e la facile reperibilità di moltissime testimonianze di “esperti” su qualsiasi argomento, ha finito con l’indebolire il ruolo tradizionale della testimonianza come fonte di conoscenza. Con un click possiamo (o almeno ci piace pensare che possiamo) controllare e mettere in questione i consigli che ci vengono dati dai nostri dottori, i nostri avvocati, consulenti finanziari e altri tipi di esperti tradizionali. In ultima analisi, credo che l’egualitarismo epistemico nell’era dei big data sia uno sviluppo positivo, ma come tutte le rivoluzioni, questa rivoluzione informatica ha portato con sé grande insicurezza riguardo alle fonti dell’autorità, affidabili o meno.
La maggior parte delle verità scientifiche non si possono leggere direttamente guardando i fatti, ma richiedono sovrastrutture teoriche, discussioni, e interpretazione dei dati per essere stabilite con certezza, e di conseguenza non si può concepire una comunità scientifica senza un certo disaccordo interno. Come si può comunicare questo processo al pubblico senza produrre, da una parte, un ulteriore scetticismo nei confronti della scienza, o, dall’altra, la convinzione che, se il disaccordo produce conoscenza scientifica, chiunque può essere in disaccordo con il consenso scientifico?
MARIA BAGHRAMIAN
Sono d’accordo, il disagreement è essenziale alla scienza e contribuisce positivamente a essa. Le cose si complicano quando ci si affida alla scienza e agli scienziati per consigli riguardo a decisioni politiche. Ovviamente, non è possibile prendere nessuna decisione coerente sulla base di opinioni scientifiche discordanti. In più, la fiducia che di solito accordiamo a scienziati e risultati scientifici pertinenti a questioni impersonali e su larga scala viene erosa laddove questi prendono posizione su questioni che hanno un impatto diretto sulla nostra vita e sul nostro benessere. Bisogna ricordare che quello di affidarsi a scienziati per decisioni di carattere politico è un fenomeno relativamente nuovo. La maggior parte degli storici della scienza considera la Seconda Guerra Mondiale come il punto di svolta, un periodo che cambiò radicalmente il rapporto tra governi e consulenti scientifici. Le necessità portate dalla guerra moderna crearono forti legami tra scienza e legislatura, come venne dimostrato in maniera lampante dal Progetto Manhattan negli Stati Uniti, e da Bletchley Park nel Regno Unito. Le famose parole di Robert Oppenheimer “Sono diventato Morte, il distruttore di mondi”, citando la Bhagavadgita, influenzano ancora oggi la nostra percezione del rapporto tra scienza e stato. Mentre dunque il pubblico è disposto a dare fiducia agli scienziati per quanto riguarda questioni tecniche, si sente anche giustificato a sospendere questa fiducia laddove i loro risultati scientifici siano direttamente legati alle nostre vite quotidiane. La soluzione non è quella di nascondere il dissenso tra scienziati (come a volte si è provato a fare), o credere che la situazione verrà rettificata quando il pubblico riceverà una chiara e precisa educazione scientifica. Piuttosto, la soluzione risiede nell’assicurarsi che le istituzioni scientifiche e gli scienziati siano consapevoli della sensazione di vulnerabilità avvertita dal pubblico di fronte alla potenza della scienza.
GLORIA ORIGGI
Come hanno già detto molti filosofi, penso per esempio a Richard Rorty, la scienza può ispirare la gente comune come “modello” di attività epistemica ed etica: il fatto che nelle varie discipline esistano disaccordi più o meno rispettati, e che i disaccordi producano uno sforzo collettivo per andare più lontano nella comprensione, può essere un esempio di etica della conoscenza che ispira, ma certo non si può pensare realisticamente che gli esseri umani adottino in massa un metodo scientifico di disaccordo ragionato per farsi un’idea del mondo che hanno intorno. Sappiamo dalla psicologia che gestire la contraddizione è una delle cose più difficili per la mente umana: il bisogno di ridurre la “dissonanza cognitiva” è tra i meccanismi psicologici più forti che guidano il nostro pensiero. Non si può cercare di cambiare le basi cognitive del ragionamento umano: si possono però creare istituzioni, forme di incontro, metodi di dibattito, che fanno emergere il dissenso in modo costruttivo. Si può anche imparare a riconoscere e criticare i “vizi epistemici” di tanti discorsi, come l’insensibilità davanti agli argomenti contrari, l’indifferenza alle più semplici intuizioni statistiche, o l’attrazione per le teorie complottiste e paranoiche che hanno il fascino di mettere insieme fenomeni tra loro sconnessi in una specie di “narrativa” gratificante al di là di qualsiasi oggettività. Un’epistemologia politica che comprenda a quale punto la conoscenza dipenda dalle strutture istituzionali che la fanno circolare è sicuramente necessaria per creare un’epistemologia del quotidiano più virtuosa.
NICLA VASSALLO
Quanto al problema di comunicazione, mi sembra che sarebbe abbastanza semplice: basterebbe presentare il disaccordo tra scienziati come il disaccordo tra esperti. Quando ad esempio una persona soffre di una certa patologia si reca da più esperti, e se questi (come spesso accade) sono in disaccordo tra loro si presenta il problema di chi scegliere. E lo stesso accade nella comunità scientifica. Ma la differenza tra il primo e il secondo caso è che il disagreement nella comunità scientifica (come in quella filosofica) è essenziale al progresso. Se tutti fossero d’accordo vivremmo in uno stato di stasi; invece il disaccordo e la critica devono essere visti come positivi. Purtroppo il pubblico non sospende mai il giudizio, e prende parte senza cognizione di causa per l’una o per l’altra parte di un dissenso scientifico a seconda di balzane convinzioni. Penso che la possibilità di offrire al pubblico confronti diretti o dialoghi tra due o tre scienziati che la pensino in modo diverso sullo stesso tema sarebbe utile. Infatti ciò aiuterebbe il pubblico a comprendere che le divergenze effettive sono minori di quelle che ci spacciano i media, e comprendere che questa è l’unica via che porta alla risoluzione dei problemi, il processo collettivo del problem-solving.
MARIO DE CARO
Vorrei aggiungere che l’unico modo di risolvere il problema è una seria educazione scientifica. È stato scritto recentemente che molta polemica contro i vaccini è condotta da persone che hanno studiato: il problema è capire cosa e come hanno studiato. In Italia c’è una tradizione antiscientifica molto forte, che in parte deriva dalla riforma Gentile la quale, nonostante i suoi pregi, ebbe anche alcuni grandi difetti: per cui ci sono persone che non hanno la minima idea di come funzionano la statistica e la probabilità, e che quindi, di fronte al fenomeno vaccini, non sanno comprendere appieno il problema. È del tutto evidente — è provato — che i vaccini purtroppo sono mortali per alcuni soggetti. Eppure, usandoli, si salvano molte più vite di quante se ne perdano. Naturalmente se una trasmissione (generalmente ottima) come Report va a intervistare le famiglie delle persone che sono decedute per via di un vaccino, questa informazione è scorretta, perché presenta questa morte come l’unico dato rilevante. In generale, se non si conoscono un minimo di statistica, probabilità e storia della scienza diventa praticamente impossibile orientarsi rispetto a queste questioni. Bisogna migliorare la qualità dell’istruzione scientifica, ma anche la qualità – e questo è importante – delle informazioni scientifiche diffuse dai mass media. Ci sono alcuni media che – un po’ in malafede, un po’ per ignoranza – diffondono notizie assurde. Benché in proposito non si possa imporre la censura, si dovrebbe far sì che i media che sanno come si fa la divulgazione scientifica siano nella posizione di criticare gli altri, e di dimostrare come quel modo di discutere di determinati problemi non funziona. È necessario comunicare correttamente sia i risultati scientifici che il metodo della scienza.
Spesso sembra esserci confusione tra, da una parte, l’autorità conferita dalla conoscenza (il capire, e saper spiegare, i processi che producono un fenomeno) e dal rispetto di norme argomentative condivise e, dall’altra, le strutture normalizzanti e autoritarie. Di conseguenza, coloro che vogliono difendere il prestigio epistemico della competenza vengono accusati di elitismo, in nome del principio (giusto, ma soltanto se contestualizzato) che “tutti hanno diritto alla loro opinione”. Come si difende il concetto di autorità epistemica senza cadere nella dittatura delle “autorità” o nella “tecnocrazia”?
MARIA BAGHRAMIAN
Si, è molto triste che la nozione di competenza, o di “autorità epistemica” sia stata accorpata all’elitismo, o addirittura a impulsi autoritari. La divisione del lavoro, linguistico ed epistemico, e la specializzazione che la accompagna sono essenziali per il funzionamento delle comunità che condividono un linguaggio e un modo di pensare, particolarmente in società avanzate e complesse. Per fare solo un esempio, la scienza come viene praticata oggi è un’impresa collettiva la cui condotta richiede un’enorme mole di divisione del lavoro epistemico e di specializzazione. Senza fiducia nella competenza di coloro che lavorano in altre sotto-specializzazioni, la scienza non potrebbe progredire, né funzionare nella sua forma attuale. Mi sembra che queste reazioni contro l’“elitismo” della competenza siano il prodotto di pressioni economiche più che filosofiche, e devono essere spiegate di conseguenza. L’ordine economico Neoliberista ha celebrato la competenza e gli ha dato un posto di prestigio all’interno del processo decisionale sociale ed economico. L’affidamento alla conoscenza degli esperti è spesso stato accompagnato da premi economici – in particolare nel campo bancario, finanziario e legale – del tutto sproporzionati al contributo che questi esperti effettivamente apportano al benessere della società. Un secondo problema (legato al primo) è ancora una volta quello del legame tra conoscenza e potere. La conoscenza ci conferisce autorità oltre al campo epistemico, ed è spesso stata uno strumento nelle mani della volontà di potenza. Sapere, ed essere portatori di conoscenza, ci permette di influenzare gli altri, di perseguire i nostri obiettivi. Non è necessario credere (come sostiene Tim Williamson) che la conoscenza sia la norma per fare affermazioni, o che la conoscenza venga per prima, per poter apprezzare il ruolo primario che gioca in tutti i nostri scambi sociali. È un’ovvietà, ma non del tutto banale, che la conoscenza conferisce potere, ma il potere, in tutti i casi, deve rispondere dei bisogni degli altri e alle loro (e nostre) vulnerabilità. Possiamo vedere i primi segni di questa preoccupazione riguardo all’esercizio della conoscenza scientifica senza senso di responsabilità nel Dr. Frankenstein, di Mary Shelley, un romanzo quasi profetico considerando come al tempo la scienza moderna era ancora giovane. Sapere, e brandire il potere che la conoscenza ci conferisce senza responsabilità di fronte alle questioni etiche che questa conoscenza produce, è un pericolo che dobbiamo sempre tenere bene in considerazione. La connessione tra i parametri normativi della conoscenza e il mantra (a prima vista tollerante e inclusivo) “tutti hanno diritto alla loro opinione” è interessante. Molto spesso in dibattiti e conversazioni, in particolare riguardo a questioni etiche e politiche negli Stati Uniti, l’affermazione “ho diritto alla mia opinione” viene usata come carta che pone fine alla discussione. Questo è un errore. Se affermi la tua opinione sei, come minimo, responsabile per la sua plausibilità razionale, se non proprio per la sua verità. Le opinioni non sono differenti da altri tipi di credenze. Siamo tutti responsabili pubblicamente per le nostre opinioni, così come lo siamo per le nostre affermazioni di conoscenza. Gli usi odierni di questo mantra dimenticano questo componente normativo.
NICLA VASSALLO
Purtroppo sul piano fattuale si è confusa l’autorità epistemica con l’autorità politica, o l’autorità del dittatore. E tale confusione è stata particolarmente accentuata in quelle democrazie dove abbiamo avuto governi tecnici: ad esempio economisti al potere che hanno mentito, e non si sono mai pentiti delle loro menzogne (perdendo dunque la fiducia del pubblico). E il caso del nostro paese è un caso classico. Come si può ripristinare la fiducia perduta? Cercando di distinguere nettamente (nonostante le illusioni di Platone) tra il politico e l’autorità epistemica. L’autorità epistemica può solo essere un buon consigliere di un politico, ma a mio avviso non può e non deve entrare direttamente in politica: deve suggerire al meglio il politico rimanendo svincolata dal potere politico.
MARIO DE CARO
Questo è il tipico argomento in cui si discute di bianco e di nero, come se non ci fosse alcuna via di mezzo. Con questo modo di procedere non si ottiene nulla, e anzi si generano facilmente disastri. È del tutto evidente che esiste un ampio terreno intermedio tra l’imporre presunte verità con la forza e l’accettare qualunque scempiaggine come se fosse parimenti autorevole. È sempre stato così, ma oggi con internet la situazione è peggiorata: si pensi alla famigerata frase di Umberto Eco “Internet permette a qualunque cretino di dire la sua opinione”: forse è un po’ rude, ma ha una giustificazione. Su Facebook ho letto eminenti professori o studiosi di determinati campi spiegare la propria opinione informata ed essere “confutati” in due righe da qualcuno, completamente digiuno della materia del contendere. Questo è un fenomeno grave, e direi che Facebook e simili non sono i social media ideali per una discussione seria. Il problema è che le distinzioni sono difficili: è chiaro che esistono autorità autoritarie e autorità autorevoli. È una cosa in sé ovvia, ma si sta abbassando il livello dell’istruzione generale: si tagliano i fondi per l’istruzione, la gente non va a scuola, non studia bene e poi finisce per dire scempiaggini, non essendo in grado di riconoscere i ragionamenti corretti da quelli scorretti. La situazione non sarà mai perfetta, ma ci sono molti margini di miglioramento.
GLORIA ORIGGI
A me sembra che nelle grandi visioni sulla democrazia e in particolare nell’entusiasmo per il ruolo della Rete, vi è sempre stata una certa tendenza a semplificare e idealizzare sia le capacità cognitive che le dinamiche sociali dei cittadini. Se l’uguaglianza di diritti è un caposaldo della democrazia anche in un’epoca di spettacolari disuguaglianze economiche, l’uguaglianza epistemica, o l’egualitarismo epistemico, è spesso una nozione sottintesa, che vede i soggetti cognitivi come tutti uguali, intercambiabili, in linea di principio capaci di sviluppare tutti gli stessi argomenti seguendo lo stesso metodo (una tesi criticata per esempio da molta epistemologia femminista). L’egualitarismo epistemico è rivendicato come un diritto fondamentale non a chiedere ragioni o ad avere accesso alle stesse risorse epistemiche (diciamo una rivendicazione di qualche forma di “diritto aletico”, come ha sostenuto recentemente in un saggio pubblicato da Franca D’Agostini nella rivista Biblioteca della Liberta del centro Einaudi), ma una rivendicazione ad avere ragione e poter esprimere il proprio punto di vista al di là di qualsiasi standard argomentativo condiviso. Una rivendicazione resa possibile dalla straordinaria capacità del Web di dare voce a una moltitudine di individui che mai avevano avuto accesso alla parola “pubblica” prima d’ora. Avere ragione secondo i propri standard, rifiutare di farsi imporre qualsiasi standard epistemico percepito come una coercizione “dall’alto” è il tranello in cui cascano i cittadini più vulnerabili, che si sentono “empowered” cognitivamente e socialmente dal poter esprimere la loro opinione e non si rendono conto di essere vittime di nuove forme di controllo dell’opinione e di coercizione mentale. Un risultato recente mostra come coloro che sono i più scettici riguardo all’autorità delle testate di informazione tradizionali sono anche i più ricettivi a credere alle teorie del complotto e a cascare nella rete delle bufale trasmesse attraverso i social networks. Questo “corto-circuito” tra politica ed epistemologia è forse uno degli aspetti più salienti delle società iper-connesse e (spesso definite) post-democratiche attuali nelle quali la sovraesposizione dei pareri dei cittadini bypassa la rappresentanza politica con modalità che delegittimano la seconda senza legittimare la prima.”

Il ritorno di Socrate

socrate

Lo scrittore spagnolo Marcos Chicot immagina, in un pezzo pubblicato domenica 3 settembre su La Lettura, il ritorno di Socrate ai giorni d’oggi. Un brano divertente e ricco di spunti di riflessione.
Nei suoi primi giorni nel XXI secolo, probabilmente Socrate si incamminerebbe a piedi scalzi verso una biblioteca, in cui si rinchiuderebbe per un po’ in modo da aggiornarsi su quanto avvenuto dopo la sua morte nel 399 a.C. Vestito con la sua abituale tunica austera, forse sorriderebbe soddisfatto nello scoprire che oggi consideriamo l’Epoca Classica (499-323 a.C.) il periodo più straordinario nella storia dell’umanità.
In effetti ha dell’incredibile che in così pochi anni, quasi avessero ricevuto un’illuminazione improvvisa, i Greci abbiano creato tanti elementi che oggi sono la base della nostra civiltà. Riassumendo: 1) la medicina giunse al rango di scienza per mano di Ippocrate; 2) in architettura furono eretti alcuni capolavori universali dell’ingegneria come il Partenone; 3) apparvero il teatro e i grandi drammaturghi; 4) Mirone e Fidia reinventarono in modo definitivo il modo di fare scultura; 5) infine, in fatto di politica, i Greci sorpresero il mondo sviluppando una forma di governo fino ad allora ignota: la democrazia.
Ora, in quella biblioteca Socrate si acciglierebbe nel leggere che denominiamo «presocratici» i filosofi che lo hanno preceduto, facendo di lui una pietra miliare, il confine che segna un prima e un dopo nella storia del pensiero e, pertanto, dell’umanità. Secondo Platone, l’oracolo di Delfi affermò che Socrate era il più saggio tra gli uomini. La reazione di questi anziché gonfiarsi d’orgoglio come avrebbe fatto qualsiasi mortale consistette nel rifiutare con umiltà il significato letterale di quelle parole, domandandosi come avrebbe potuto essere il più saggio se sapeva solo… di non sapere.
L’ammissione della propria ignoranza, al pari della ricerca incessante della conoscenza, lo trasformarono nel paradigma del filosofo. E, come se non bastasse, la sua dialettica rigorosa lo innalzò al ruolo di padre del Razionalismo. Inoltre, aver scelto come elementi principali di riflessione il bene e il male, la virtù e la felicità, ce lo fa considerare il padre della filosofia etica. Infine, essere stato il primo a porre l’uomo al centro dell’attenzione lo rende il padre dell’Umanesimo. Sopraffatto da tanti riconoscimenti, Socrate chiuderebbe i libri e abbandonerebbe la biblioteca per interessarsi alla nostra società. Ci guarderebbe in prospettiva, accarezzandosi irrequieto la barba folta, sorpreso che molte delle conquiste della sua epoca siano scomparse per tanti anni e siano state riscoperte solo di recente, facendo somigliare il nostro mondo al suo: la democrazia, perduta per due millenni fino alla Rivoluzione francese; lo sviluppo di arti e scienze dell’antichità classica, il cui recupero dà il nome al Rinascimento; o lo stesso Umanesimo socratico, riportato alla luce da grandi maestri come Petrarca e Leonardo. «Saranno consapevoli gli abitanti del mondo di oggi che tutto potrebbe andare perduto di nuovo?», si domanderebbe.
Aggiornatosi sul passato e sul presente, Socrate si porrebbe gli stessi obiettivi della sua prima vita: dialogare con i concittadini sulle nozioni di base – il bene, la virtù o la giustizia come concetti universali, al di sopra degli interessi particolari. E tornerebbe a impegnarsi nella formazione dei futuri dirigenti, sognando di risvegliare in loro l’idea di giustizia e di fare in modo che non perdano la strada proprio una volta raggiunto il potere. Il filosofo non frequenterebbe più l’agorà come una volta, ma si adatterebbe ai tempi e condurrebbe un programma tv in prima serata (e chi non metterebbe sotto contratto un personaggio così famoso?). In base alle sue linee guida, la trasmissione avrebbe un carattere divulgativo, cui si unirebbe una sezione di interviste tanto a cittadini comuni quanto a personaggi di rilievo della società. Le puntate di maggior successo sarebbero di certo i dibattiti con i politici. Tuttavia Socrate non tarderebbe a scoprire che l’uomo di governo più importante della sua epoca, l’ateniese Pericle, sarebbe un’eccezione oggi come lo era tra i politici dell’Epoca Classica. Non solo perché, nei tre decenni in cui fu alla testa dell’Assemblea della sua polis, l’impero di Atene raggiunse l’apogeo, ma anche perché – allora come oggi – la norma erano i demagoghi, intenti solo a istigare le masse per ottenere un appoggio che soddisfacesse le loro ambizioni di potere, spesso con conseguenze disastrose.
«Pericle era l’unico politico che convinceva il popolo con la verità», ricorderebbe nostalgico il filosofo. «E l’unico il cui patrimonio non sia aumentato di una dracma in tutti i suoi anni di governo», aggiungerebbe rattristato, leggendo le ultime notizie sulla corruzione. Lascerebbe cadere i giornali e rifletterebbe sulla somiglianza tra la democrazia ateniese e quelle attuali. La divisione del popolo incoraggiata dai politici, i problemi economici, le famiglie rovinate… dietro tutto ciò vedrebbe l’eterno problema di questo sistema di governo: l’incapacità o il disinteresse della classe dirigente. Ricorderebbe ciò che disse il suo amico Euripide quando lasciò Atene disgustato: «La democrazia è la dittatura dei demagoghi».
In ogni caso, Socrate si rallegrerebbe di essere tornato a una società democratica con libertà di espressione e facilità di accesso all’istruzione. Da questo punto di vista, molti Paesi gli sembrerebbero forse al livello della sua vecchia patria ateniese o persino superiori. Lo deluderebbe tuttavia constatare che l’informazione non implica la conoscenza. Resterebbe affascinato dai progressi nella medicina, dal dominio sulla natura, l’energia, la genetica… eppure le domande che porrebbe nel suo programma sulle diverse questioni etiche o sulle conseguenze a lungo termine metterebbero spesso in imbarazzo gli interlocutori. Potrebbe colpirlo l’intreccio fra la tecnologia e la vita quotidiana, ma se si presentasse con il suo abbigliamento sobrio nel reparto delle novità elettroniche di un qualsiasi centro commerciale, allargherebbe le braccia e proclamerebbe allegro, come faceva nel mezzo del mercato di Atene: «Quante cose di cui non ho bisogno!».
Dopodiché inviterebbe nella sua trasmissione imprenditori, rettori di università e ministri dell’Istruzione, e dialogando con loro metterebbe il dito nella piaga del sistema: il fatto che gli uomini siano concepiti sempre più come unità di produzione e consumo. Sottolineerebbe preoccupato che la riflessione e il dubbio sono minacciati ogni giorno di più, tanto che ne viene rimosso l’insegnamento dai piani di studio. Come uomo di cultura, potrebbe mettere a disagio i suoi interlocutori usando le parole azzeccate di Francisco de Quevedo: «Un popolo idiota è la sicurezza del tiranno». E, con lo sguardo rivolto ai telespettatori, ci direbbe che la società non ha soltanto un bisogno disperato della filosofia, ma anche di cittadini che difendano e promuovano il pensiero critico.
Nessun politico vorrebbe essere ospite della trasmissione, ma il magnetismo del conduttore ne farebbe il programma con l’audience più alta e finirebbero tutti seduti accanto a lui davanti alla telecamera. Politici in vista sarebbero dissezionati e smascherati dalla sua ironia acuta e agile e dalle sue domande in apparenza ingenue. Socrate dimostrerebbe di volta in volta che un idolo è solo una persona comune rivestita dell’ammirazione altrui. Ammirazione di cui rimuoverebbe gli strati, lasciando agli interlocutori un senso di vulnerabilità e risentimento. Le sue interviste risulterebbero esemplari, dimostrando con grande chiarezza che al potere non arriva chi ne sa fare l’uso migliore, bensì chi è più abile nel conquistarlo. E, al tempo stesso, nei suoi dialoghi televisivi proverebbe che per raggiungere il potere si richiedono capacità opposte a quelle necessarie per un suo buon esercizio: in sostanza, ambizione e mancanza di scrupoli.
Ma il filosofo non si limiterebbe a parlare con i suoi interlocutori nel programma. Ci guarderebbe attraverso la telecamera («Oh, popolo greco-romano…») e ci rammenterebbe che una delle forme più insidiose di sottomissione è il silenzio, questo grande complice. Socrate non agì mai mosso da interessi propri e non lo farebbe nemmeno ora. Il suo unico obiettivo è stato e sarebbe la ricerca della conoscenza e del comportamento giusto. Per toglierlo di mezzo si indagherebbe sul suo passato a caccia di panni sporchi, ma si troverebbero soltanto un marito fedele alla giovane moglie, padre di tre figli, e un soldato che difese con grande valore la propria patria nella lunga guerra che mise a confronto Atene e Sparta.
Tutto ciò vorrebbe dire che Socrate stavolta vincerebbe la sua battaglia contro i sofisti e i demagoghi? Il suo ritorno porterebbe alla sognata rigenerazione della democrazia? Temo che, come in passato, la somma di scomodità, incomprensione e risentimento che si creerebbero intorno al filosofo porterebbero alle stesse conseguenze. Anche stavolta, Socrate sarebbe assassinato.”

Far west, far web

post truth
Immagine tratta da The Norwich Radical

Un interessante articolo di Damiano Greco sulla necessità di una nuova educazione all’informazione. La fonte è Eastwest.
Esattamente come avviene nella società offline, anche all’interno della collettività online non possiamo e non dobbiamo esimerci dalle nostre responsabilità e doveri inderogabili, sia di natura etico-morale che di tipo costituzionale. Questi vincoli nell’attuale contesto digitale devono essere tradotti in condivisioni, commenti e cinguettii virtuosi, norme che devono essere garantite nella dimensione virtuale come lo sono già in quella reale.
Come sosteneva Bauman – compianto sociologo e filosofo della “società liquida” – solo la convivenza tra questi due mondi potrà garantire all’individuo e alla società una condizione di vita sana e sostenibile. Il nuovo ecosistema comunicativo diviene “Onlife”, attraverso una connessione costante, fusione tra questi due mondi, prendendo le redini di assetti consolidati dunque, facendo assumere ai nuovi attori della sfera pubblica – i cittadini-utenti – il ruolo di protagonisti indiscussi, mentre la nuova moneta di scambio viene rappresentata dalla visibilità, bramata e inseguita da quest’ultimi. Gli attori sociali si ritrovano dunque costretti a prendere parte ad una tragicomica competizione per la notorietà e lo status, cercando, proprio come le merci in vendita negli scaffali, di rendersi particolarmente attraenti agli occhi degli altri utenti se intendono sentirsi parte della società in cui vivono, tenendo costantemente aggiornata la propria identità digitale attraverso i diversi social network, divenendo pertanto un vero e proprio obbligo sociale. Riformulando in salsa 2.0 la consapevolezza di “sé stesso” attraverso la celebre citazione e intuizione di Cartesio: “Condivido, dunque sono”.
Viviamo d’altra parte nell’epoca della post-verità, basata sull’emotività e convincimenti personali a discapito di dati oggettivi, il superamento dell’attendibilità raggiunge il punto di non ritorno nel momento della perdita di consapevolezza dell’importanza obiettiva dell’autenticità dei fatti. L’ascesa della Post-Truth, entrata con forza nella nostra quotidianità non deve essere sottovalutata, i pericoli rappresentati dall’illusione della conoscenza rischiano seriamente di depotenziare la qualità già fragile dell’attuale arena mediatica, in tale contesto le notizie che dovrebbero seguire rigidi parametri tecnico-scientifici, vengono lasciate in balia di bugie facili e rassicuranti, all’interno di questa cornice troviamo come sempre il complesso rapporto tra lo Stato ed il cittadino, tra la collettività e l’individuo, in una sorta di cinica interdipendenza dominata dal caos. Una valanga di notizie travolge la Rete e con essa i cittadini-utenti, incapaci di effettuare una scelta autonoma si affidano al trend del momento, vulnerabili e fragili divengono il ventre molle del web, trovandosi portatori inconsapevoli di ideologie fasulle che paradossalmente si scontrano con convinta presunzione contro il mondo della competenza e istruzione. Annamaria Tesla su Internazionale scrive che oggi il 44% della popolazione si “informa” tramite Facebook, il social network più famoso al mondo attraverso dei complessi algoritmi tenderebbe inoltre a creare delle “camere dell’eco” in grado di far rimbalzare ripetutamente la “balla” all’interno del web, questa senza trovare alcuna opposizione diverrebbe in fine reale.
Ma com’è potuto accadere? Quando i lettori-utenti hanno iniziato a credere al populismo spicciolo e alle menzogne dei politici perdendo la fiducia nei vari professionisti, giornalisti, editori? In realtà come afferma Riccardo Luna in “Bufale, Post-Verità e il Futuro del Giornalismo”, tutto ciò non rappresenta una novità: “…E’ sempre accaduto che le persone si facessero una idea “sui titoli dei giornali”. Senza leggere gli articoli. E quindi per decenni l’opinione pubblica si è formata più sui titoloni che sulla realtà. Scandalizzarsi ora vuol dire non avere memoria. Ma adesso questa cosa ha dentro il motore potentissimo della rete”. In tal senso, nella lotta contro la diffusione delle “fake news” si stanno iniziando a muovere i primi timidi passi, ad esempio in Germania è stata annunciata una proposta di legge finalizzata a multare le piattaforme social nel momento in cui non provvedano a rimuovere contenuti hate speech in grado di incitare all’odio.
Cosa fare al riguardo? Come è noto il flusso informativo per poter funzionare correttamente richiede cittadini “illuminati”, porre l’accento sull’istruzione e la promozione delle scienze risulta essere ancora oggi molto importante, ma la vera priorità dei nostri tempi è insegnare a comprendere la realtà del mondo iperconnesso di oggi con i suoi elevatissimi collegamenti, il forte impatto tecnologico e la velocità innovativa degli attuali canali comunicativi, a cui sono inesorabilmente legate le nuove generazioni, rischia seriamente di impedire a quest’ultime di poter raggiungere e comprendere l’attuale contesto sociale, ma di arrivarci con grande affanno e confusione, favorendo sempre più la divisione a serio discapito del progresso socio-culturale. La conoscenza dunque, deve rappresentare ancora una risorsa, ma deve essere accompagnata dalla consapevolezza degli effetti che può avere ad esempio, una condivisione estrapolata all’interno della nostra filter bubble – bolla di informazioni creata appositamente da Facebook finalizzata a compiacere le nostre esigenze – e postata con troppa superficialità, senza prima aver appurato le fonti della notizia attraverso una ricerca metodica e ponderata, il post rischia di divenire virale innescando una escalation pericolosa e difficilmente inquadrabile.
I canali divulgativi, una volta saldamente in mano alle istituzioni, vengono oggi veicolati e orientati dagli influencer, in grado con il loro peso mediatico, di indirizzare opinioni e atteggiamenti ed infine per consolidare o meno il consenso ad un candidato in vista di un confronto politico. Nella definizione di Mazzoleni (1998) la comunicazione politica veniva descritta come “il prodotto dello scambio fra i tre attori dello spazio pubblico, ossia tra sistema politico, sistema dei media e cittadini-elettori…”, se in passato dunque individuavamo un netto sbilanciamento a favore dell’interazione tra i primi due attori – il sistema politico e i media – ponendo di fatto il terzo attore ad uno ruolo di mero spettatore all’interno della comunicazione politica, oggi la centralità dei New Media impone una visione differente, dove troviamo il cittadino-utente assumere un peso sempre più rilevante, in grado di comunicare attraverso un nuovo linguaggio eterogeneo e complesso, ridisegnando di fatto l’arena del confronto politico. Appare chiaro che i Governi non sono più in grado di gestire adeguatamente le attuali problematiche, l’unica strada percorribile prima di scatenare scontri civili senza una via di ritorno, viene rappresentata dalla necessità di far assumere ai cittadini-utenti una maggiore coscienza, ponendoli in condizione di organizzarsi e di poter gestire i propri processi e le proprie risorse, riunendoli sotto un’unica tenda, quella che riporta in alto la scritta “Empowerment”. La società civile digitale non solo dovrebbe incentivare questi principi ma addirittura prendersene carico nella loro totalità. Si necessita una nuova educazione all’informazione, un luogo di incontro e confronto di processi individuali e collettivi coordinati da una forma di divulgazione responsabile. Il mondo ha bisogno di giornalisti scrupolosi e di lettori vigili e attenti. Con la speranza che un giorno si potrà guardare indietro negli anni ripensando a questo periodo caotico definendolo goliardicamente come il “Vecchio Far Web”.”

L’arte che diventa bellezza

Pubblico un articolo di Marko Ivan Rupnik comparso su Avvenire nel giugno del 2015. Non è semplice, ma lo trovo ricchissimo di spunti e idee.
Le pareti degli edifici religiosi sono sempre stati il telo sul quale la Chiesa ha dipinto il suo autoritratto. Tuttavia, oggi non è affatto scontato il rapporto tra l’arte, ormai sganciata dal concetto di bellezza, e la spiritualità, sempre più svincolata dallo Spirito Santo. Se il presbiterio – osserva padre Marko I. Rupnik – «è praticamente l’unica cosa religiosa che ci è rimasta», la possibilità che si delinea è aprirlo agli artisti perché diventi non un generico luogo di espressione, ma lo spazio di un’arte purificata per una Chiesa capace di non escludere nessuno. Padre Rupnik, gesuita sloveno, teologo, mosaicista e docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Liturgico, nel libro «L’autoritratto della Chiesa» edito da Edb (pp. 48, euro 5,50) che esce in questi giorni in libreria, rilegge quell’autoritratto alla luce della bellezza e dell’arte. Anticipiamo alcuni brani sul mistero pasquale dell’arte.

Vladimir-Solovyov
Vladimir Solov’ev

Della bellezza si è perso il significato e la si è coscientemente distrutta con la filosofia idealista, con il romanticismo, avviando, a mio avviso, una deliberata operazione di distruzione della bellezza, perché radicalmente unita al cristianesimo. Non si può distruggere il cristianesimo se non si distrugge la bellezza. Ci hanno inchiodato sull’etica e sulla morale, sul bene, ma una Chiesa brava non attira nessuno, perché è solo una Chiesa bella che fa innamorare. Abbiamo una Chiesa intraprendente, stanca per quanto bene realizza, che però non affascina nessuno e dietro la quale non si incammina nessuno. Siamo bravi, ma nessuno ci vuole seguire. La sintesi migliore sulla bellezza, a mio parere, l’hanno fatta due russi: Vladimir Solov’ëv e Pavel Florenskij. Solov’ëv sostiene che un bene che non diventa bellezza è un pericolo per l’uomo e ciò lo constatiamo continuamente: non esiste sofferenza più grande che avere a che fare con chi ha un’idea del bene che vuole imporre a tutti. La dittatura del bene è la suprema espressione del male. Il bene che non diventa bellezza è un fanatismo. Allo stesso modo, una verità che non diventa bellezza mangia gli uomini, li distrugge, è un drago. In nome della verità noi abbiamo tagliato parecchie teste, nel nome di idee umaniste l’epoca moderna ha ammazzato decine di milioni di persone. Solov’ëv afferma che l’idea che non è capace di incarnarsi come bellezza dimostra la sua impotenza. La bellezza è la carne del bene e del vero, ed è questa la cosa davvero straordinaria. Il bene, per essere veramente tale, ha bisogno di manifestarsi come bellezza. Mio padre, anche se non era un padre della Chiesa, mi diceva sempre che se è vero quello che qualcuno ti vuole dire, lo si vedrà dal fatto che te lo dirà con amore e, quando te lo dirà, sperimenterai un rapporto bello con quella persona. Se, affermando una cosa, non facciamo trasparire la bellezza di un rapporto, ciò che diciamo è frutto di una passione, di un’ideologia e non esprime la verità. Per Solov’ëv «un contenuto ideale che rimanga unicamente una proprietà interiore dello spirito, della sua volontà e del sua pensiero, manca della bellezza e l’assenza della bellezza significa impotenza dell’idea» perciò per lui la bellezza è «l’incarnazione in forme sensibili di quello stesso contenuto ideale che prima di tale incarnazione si chiamava bene e verità»; «Il bene e la verità, per realizzarsi veramente, devono diventare nel soggetto una forza creatrice capace di trasfigurare la realtà, e non solo di rifletterla».

Pavel_Florensky
Pavel Florenskij

Secondo Florenskij la Chiesa è bella perché è la comunione delle persone. Se non c’è la bellezza della relazione non c’è la verità. La verità rivelata è l’amore – Cristo – l’amore realizzato è la bellezza. La bellezza è la manifestazione della verità come amore. Se è così, la bellezza è comunicazione teurgica, quando la verità si rivela come amore e l’amore trasfigura. Quando si comunica, la bellezza trasfigura la realtà attraverso la quale si comunica, perciò nella verità che l’altro mi dice sono trasfigurato e lui stesso ne è trasfigurato. La bellezza non è separabile dalla comunicazione, e l’unico vero comunicatore, perché ha qualcuno da comunicare, è Dio Padre. La bellezza impara da Dio Padre, l’artista impara da Dio Padre. E Dio Padre ha comunicato attraverso il Figlio, attraverso una persona. Non si comunicano le idee. Se la verità non si può rivelare come amore, è un idolo. Per comunicare ci vuole la persona. Cristo ha comunicato il Padre e non sono bastati i discorsi. Lo ha comunicato nella sua carne, nel suo corpo, e per questo ci voleva lo Spirito Santo il supremo comunicatore del Padre. Il corpo di Cristo è una figura, e l’arte figurativa è quell’arte che va fino al cielo, perché la carne diventa la carne spirituale. Cristo non ha comunicato il Padre in una forma prestabilita, rinascimentale, classica, perfetta, e neppure in un nichilismo espressionista violento, di denuncia del male e del cuore spezzato. Il Cristo è il più bello e il più brutto, tanto da girare la faccia perché non si poteva guardare, dice la Scrittura (cf. Is 52,14). Dio ha proibito di fare un’immagine di sé, riservandoci il privilegio unico di scolpire la vera immagine di Dio nella carne del Figlio. Il Dio che veneriamo l’abbiamo scolpito noi con il nostro peccato. La più grande opera d’arte che ha fatto l’uomo è la passione di Cristo, fino al suo corpo risorto. Se il Padre lo ha risuscitato dai morti poteva benissimo guarirgli le cicatrici, ma queste sono rimaste, perché solo da quelle fu riconosciuto. La realizzazione dell’amore operata dal Figlio si compie proprio nel Triduo pasquale, perciò la bellezza è pasquale. Non posso credere che i padri fossero meno intelligenti dei teologi degli ultimi cinquant’anni, eppure loro non si sono lasciati affascinare e ingannare dalle forme classiche. La forma classica non può dire la pasqua e, se non può dire la pasqua, è incompatibile con l’amore di Dio Padre. Se un amore non è pasquale, è un amore pagano. Pensare che io amerò senza pagare di persona significa essere un grande idealista pagano, perché la bellezza è pasquale. Perciò l’arte non può pensare di creare senza il martirio dell’arte e dell’artista. Solo così possiamo tornare all’arte, alla grande arte che esprime l’amore e si realizza attraverso la divinoumanità. Per questo ci vuole lo Spirito, l’unico che ci può innestare nel Figlio. Noi non possiamo diventare figli di Dio da soli, non possiamo vivere un amore pasquale accanto a Cristo, ma solo in quanto parte di lui. E questo vale anche per l’artista. In questo senso diciamo che la bellezza, realizzandosi, trasfigura la persona stessa e la vita di questa persona. Se una mamma si santifica amando, se un padre si santifica amando, un artista si santificherà allo stesso modo. È totalmente inutile esaltare un’arte se non si è santificato colui che l’ha fatta. Santificarsi significa consumarsi: questa è per me l’arte della vita, l’arte che diventa bellezza.”

Mi fido o non mi fido?

lugenpresse

Attendibilità delle fonti, grado di verità di un’informazione, formazione di un’opinione, ricerca di correttezza e credibilità… sono temi forti del presente e penso che assumeranno sempre maggior rilievo nel futuro prossimo. Pubblico un articolo di Enrico Pitzianti, laureato in semiotica, pubblicato su L’Indiscreto.
È il 1847 e Il Boston Herald descrive il suo scopo come “dare espressione allo spirito del tempo”. Mira a essere “uno storico zelante del momento” e proclama la volontà di collezionare eventi del presente e del passato per poterli “ritrarre come in un dagherrotipo” per il suo pubblico.
Anche considerando il tempo trascorso da quella pubblicazione è impressionante notare la differenza tra la credibilità di cui godeva l’informazione allora e quella di cui gode oggi. Quella volontà di ritrarre e collezionare gli eventi ora ci farebbe storcere il naso. Dubitiamo fortemente della capacità dei media di fotografare la realtà e rifiutiamo istintivamente qualsiasi volontà di definire lo spirito del nostro tempo. Il solo accenno a voler porre l’informazione su un piano così elevato ci pare un atto meschino, perché volto a sancire una gerarchia a cui non vogliamo sottostare. Oggi si contrappone un secco rifiuto davanti a qualsivoglia volontà di stabilire una separazione tra chi dispone degli strumenti per raccontare il presente e chi invece no.
Lo scetticismo che caratterizza il nostro tempo permette di mettere in discussione qualsiasi informazione. In parte ciò avviene per via dell’ormai diffusa funzione di broadcasting svolta dai social network, che hanno progressivamente democratizzato la possibilità di produrre e diffondere informazioni, anche false. Così un anonimo account Twitter può essere una fonte credibile e un editoriale della testata più autorevole può essere tacciato di servilismo.
Ora, è ovvio che nell’ardua impresa di ricostruire delle priorità e delle gerarchie comunicative cui attingere per comprendere il mondo è facile sbagliare. E il peggio è che è facilissimo – se non addirittura banale – fare l’errore più grave: confondere le fonti affidabili con le fonti che si preferiscono per motivi ideologici. Mi fiderò di una notizia data da Libero o dal Giornale? Forse no. Ma devo domandarmi se il mio “no” deriva dalle posizioni politico-ideologiche delle testate o dall’inaffidabilità delle notizie. Se fosse una questione ideologica farei bene a sforzarmi e dare comunque una lettura alle idee di giornalisti con cui normalmente sono in disaccordo, ma se invece sono testate inaffidabili, che non verificano le notizie e confondono fatti con opinioni, allora è meglio non leggerli mai.
Mentre il mondo dell’informazione scruta l’orizzonte in cerca di strategie che permettano di combinare credibilità e guadagni, gli avvenimenti politici fanno presagire la necessità di un ripensamento generale dell’organizzazione dell’informazione contemporanea. Recentemente, ad esempio, la testata statunitense The Atlantic pubblica un video di una riunione di neo-nazisti tenutasi a Washington DC dove oltre ai saluti romani, gli slogan razzisti e i riferimenti suprematisti si attaccano, e non è un caso, proprio gli organi di stampa.
Dal palco il fanatico che arringa la folla si riferisce ai media come “Lügenpresse”, termine tedesco, letteralmente “stampa bugiarda”, usato soprattutto ai tempi del Terzo Reich. Tuttavia non si tratta di un episodio isolato: il termine era già stato usato durante la campagna elettorale di colui che oggi è il presidente eletto della nazione più potente del pianeta, Donald Trump.
Il ritorno dell’uso del termine “Lügenpresse” è uno dei sintomi più gravi e significativi della crescente sfiducia popolare verso quelle che vengono percepite come delle “élite”. Questo termine dispregiativo, che è in uso sin dalla prima guerra mondiale, si diffuse grazie a titoli come “La Lügenpresse dei nostri nemici”, libro pubblicato dal Ministero della Difesa tedesco nel 1918, e negli anni del regime nazista venne usato con sempre più frequenza per screditare e attaccare gli organi d’informazione scomodi al regime.
In tempi recenti il significato rimane lo stesso e movimenti di estrema destra come Pegida in Germania ne hanno ripreso l’uso. Alla violenza verbale si è presto aggiunta quella fisica visto che molti giornalisti sono stati picchiati e minacciati dai militanti del movimento nazionalista, fino a rendere necessario per i reporter seguire le manifestazioni protetti dalla scorta. Le istituzioni hanno risposto nel 2015 bandendo il termine e inserendolo tra le “parole proibite”, ma è ragionevole pensare che il problema sia tutt’altro che risolto, perché è vero che la cultura tedesca gode di ottimi anticorpi contro autoritarismi e derive populiste, ma è altrettanto vero che quelle stesse destre populiste e nazionaliste continuano a crescere.
E se il problema non può considerarsi risolto in Germania figurarsi nel resto del mondo: Melody Patry, senior advocacy di Index, parla del 2016 come l’anno dell’aumento dei pericoli per i giornalisti con 406 casi verificati di violenze e minacce nella sola Europa.
Per come vanno le cose oggi, non solamente i nobili propositi dello Herald, quelli di fotografare lo spirito del tempo e cogliere una “somiglianza fedele e non adulatoria” della società, verrebbero presi poco sul serio, ma probabilmente uno slogan del genere verrebbe deriso pubblicamente.
La nostra autoconsapevole filter bubble, oggi celebre grazie alla beffa ai danni dei media da parte degli elettori di Donald Trump, ci spinge a riflettere su quali siano i limiti di un modello informativo anti-gerarchico e iper-scettico. Viviamo uno strano scenario dove lo scetticismo sui motti lascia spazio ai motti che esprimono scetticismo. Quale slogan di una testata giornalistica potremmo mai considerare non-ridicolo? Probabilmente nessuno.”

Cosa ci resta di Voltaire

Giulio Giorello presenta il nuovo libro del filosofo spagnolo Fernando Savater sulle pagine de La Lettura. Pungente, acuto, stimolante.

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Fernando Savater

«Ci sono voluti sessant’anni per farci accettare quello che Newton aveva dimostrato; incominciamo appena adesso a salvare la vita dei nostri bambini col vaccino; non applichiamo che da poco tempo i giusti principi dell’agricoltura: quando cominceremo ad applicare i giusti principi dell’umanità?». Così Voltaire scriveva in una pagina del suo Trattato sulla tolleranza, pubblicato nel dicembre del 1763. Il 9 marzo dell’anno precedente a Tolosa era stato messo a morte il protestante Jean Calas, che una giuria aveva ritenuto colpevole della morte di un figlio «impiccato dal padre stesso» perché aveva espresso l’intenzione di tornare alla fede cattolica. Voltaire si era convinto presto che quella condanna era l’ennesimo mostruoso errore giudiziario ispirato dal fanatismo manifestato dalla maggioranza cattolica della città. Nello stesso tempo aveva compreso il peso di quella che oggi chiamiamo opinione pubblica sulla vita dei singoli cittadini. Doveva scrivere nell’opera di teatro Olimpia il verso: «L’opinione fa tutto; è lei che ti ha condannato».

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Voltaire visto da Nicolas de Largillière (1724-25)

Poteva sembrare una resa, era invece l’inizio di una nuova battaglia. Nel giugno del 1764 aveva visto la luce il Dizionario filosofico portatile, che tutto era tranne che un dizionario nel senso usuale del termine; piuttosto un’arma filosofica contro i disastri prodotti da pregiudizi e superstizioni, disponibile per qualsiasi tipo di lettori, per il fatto che era trasportabile e facilmente consultabile, al contrario dei grandi volumi di «metafisica» destinati a una ristretta cerchia di eruditi. Nella voce «Miracoli» del Dizionario si legge: «Un miracolo è la violazione delle leggi matematiche, divine, immutabili, eterne. Solo per questa definizione, un miracolo è una contraddizione in termini: una legge non può essere immutabile e violata»; e perché mai «per favorire gli uomini Dio dovrebbe alterare ciò che ha stabilito per tutti i tempi e per tutti i luoghi? I suoi favori sono già nelle sue stesse leggi». E nella voce «Abramo» (che apre la prima edizione) Voltaire diceva che era uno di quei personaggi «come Thot tra gli Egizi, l’antico Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino presso i popoli del Settentrione, che sono più noti per la loro fama che non per una storia ben accertata».
Bastava questo perché all’epoca l’opera di Voltaire fosse considerata un libro uscito «dal torchio di stampa di Belzebù!». E oggi? «È mercé dunque alla filosofia/ che in Europa vi son più lumi che pria,/ i mortali sono meno inumani,/ l’acciaio è spuntato, i fuochi lontani», verseggiava lo stesso Voltaire. Anche per merito suo il fanatismo sarebbe stato costretto a cessare guerre e roghi; però c’è da dubitare che sia davvero così.
Fernando Savater, uno dei maggiori intellettuali spagnoli contemporanei, nel suo Voltaire contro i savater-voltaire-contro-i-fanaticifanatici (Laterza) si chiede «che cosa ci resta veramente di Voltaire? Ci resta l’esempio della sua militanza, (…) che non mirava semplicemente a modificare la nostra comprensione del mondo o la condotta individuale del saggio nel mondo, ma a modificare il mondo stesso (…); nessuno prima di lui si era accorto con tanta chiarezza della forza rigeneratrice che le idee possono esercitare sull’opaca e logora struttura della società».
Savater sottopone al lettore agili estratti dalle opere di Voltaire che illustrano la necessità di «separare ogni tipo di religione da qualunque genere di governo», in modo che «la religione non debba essere questione di stato in misura maggiore che la cucina». E i filosofi debbono «lavorare alla vigna e schiacciare l’infame». Gli infami sono i tanti «scellerati devoti» che impongono la condanna di opinioni e forme di vita diverse dalle loro. Soprattutto in questioni «spirituali». «Quanto più divina è la religione cristiana, tanto meno spetta all’uomo imporla; se Dio l’ha fatta, Dio la sosterrà senza di voi». Per Savater sono ancora troppi i fanatici che hanno «l’hobby di uccidere». Resistere a costoro che ancora si sentono «crudeli come dèi», è importante oggi come all’epoca di Calas. E smettiamola di credere che l’immenso universo sia stato fatto da un nostro Dio solo per noi. Noi siamo piccolissimi atomi, «i cui occhi guidati dal pensiero hanno però osservato la Luna».

Gemme n° 494

Amo questo film: penso che attraverso la risata insegni tantissime cose. L’ho rivisto spesso e molti aspetti non riesco ancora a comprenderli bene. Una delle cose che mi ha trasmesso è l’importanza di cercare di cambiare fino a quando non si trova la propria strada. Penso che cambiare sia bellissimo e porti sempre a qualcosa di buono. E poi, quando abbiamo trovato la soluzione, non è detto che sia quella definitiva: possono arrivare vicende che rimettono in discussione tutto. E penso che ciò sia il bello e il brutto della vita.” Con queste parole L. (classe terza) ha presentato la sua gemma.
La scrittrice statunitense Elizabeth Gilbert (quella di Mangia, prega, ama, per capirci) ha scritto: “Se sei abbastanza coraggioso da lasciarti dietro tutto ciò che è familiare e confortevole, e che può essere qualunque cosa, dalla tua casa ai vecchi rancori, e partire per un viaggio alla ricerca della verità, sia esteriore che interiore; se sei veramente intenzionato a considerare tutto quello che ti capita durante questo viaggio come un indizio; se accetti tutti quelli che incontri, strada facendo, come insegnanti; e se sei preparato soprattutto ad accettare alcune realtà di te stesso veramente scomode, allora la verità non ti sarà preclusa”.

Gemme n° 441

La mia gemma è il Libro «The help», uno dei miei preferiti, ambientato nel Mississippi del 1962. Si intrecciano le storie di tre donne, una domestica di colore che da 40 anni si occupa dei bambini dei bianchi, una domestica che sa cucinare benissimo ma ha un caratteraccio (licenziata 19 volte), una the help.jpgdonna bianca che aspira a diventare scrittrice: costei raccoglie le storie delle domestiche di colore nelle case dei bianchi. Le tre diventano amiche e alla fine altre domestiche si aggiungono per parlare delle loro vicende. Desidero citare una frase: God says we need to love our enemies. It hard to do. But it can start by telling the truth”. Così S. (classe seconda) ha presentato la propria gemma.
Nessuno mi aveva mai chiesto cosa provavo ad essere me stessa. Quando ho detto la verità mi sono sentita libera.” è un’altra citazione tratta da The help. Non penso sia facile dire la verità quando riguarda se stessi, ma devo ammettere che aiuta a camminare con la schiena dritta, senza avvertire sulle spalle il peso della menzogna o dell’incoerenza.

Gemme n° 366

Ho pensato di portare due canzoni, ma essendo troppo lunghe ne ascoltiamo solo una

L’altra sarebbe stata Imagine. Penso che le due canzoni parlino da sole senza aggiungere altro. Volevo dare un po’ di speranza e ritengo sia il caso di ascoltarle più spesso”. Così S. (classe quinta) ha presentato la propria gemma.
Michael Jackson invita a curare il mondo e a renderlo un posto migliore. Mi viene naturale citare le parole che Tiziano Terzani rivolge a dei giovani, messaggio che è posto all’inizio del dvd che stiamo guardando proprio con le classi quinte: “Voi che siete una nuova generazione guardate ai fatti, leggete, informatevi, non prendete per garantito niente, non credete a niente di quel che vi viene raccontato. Fatevi la vostra verità, una in cui potete credere e a cui potrete dedicare la vostra vita. Gandhi disse una volta «la verità è il mio Dio» due anni dopo scrisse «no! II mio Dio è la verità». La verità è una grande cosa, forse irraggiungibile ma fatene la vostra meta nella vita, cercatela la verità, cercate anche quella dentro di voi, chi siete, che cosa volete fare qui, che cosa ci siete a fare al mondo. Ponetevi questi problemi e la vita diventerà meravigliosa!”.

Tra attesa e desiderio

StazioneNon mi dispiace l’attesa. Mi spiego: non mi riferisco ad aspettare qualcuno in ritardo o magari all’esito di un esame o di un accertamento. Penso al periodo in cui un desiderio ha il tempo di formarsi, crescere, definirsi: vi si concentrano aspettative, pensieri, emozioni, immagini, fantasie, tutti generalmente positivi. Quando ho un appuntamento, anche semplicemente andare a prendere Sara in stazione, arrivo in anticipo e mi porto sempre dietro un libro. Quel tempo di attesa tra quando spengo il motore dell’auto e l’arrivo del treno non mi dispiace affatto, non lo evito, anzi lo cerco. Diciamo che vivo il tempo dell’attesa in modo proficuo, fertile e non sempre legato al desiderio dell’ottenimento della cosa o della persona aspettata. Ecco perché forse mi trovo a metà tra il concetto di sete del buddhismo e un brano di Charles Juliet che ho letto stamattina. Tra le quattro nobili verità enunciate dal Buddha si ricorda: “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione”. Attraverso l’Ottuplice sentiero si deve cercare di arrivare alla soppressione di questa sete “annientando completamente il desiderio, bandirla, reprimerla, liberarsi da essa, distaccarsi”. E’ facile comprendere come la nostra mentalità formata dalla cultura del desiderio (scopo principale di un qualsiasi spot pubblicitario) sia lontana da queste idee. Messe le cose in questa maniera, il discernimento pare abbastanza semplice. Ecco che a complicare le cose arrivano testi come questo estratto di “Dans la lumière des saisons” di Charles Juliet, a cui si fa riferimento a un altro tipo di attesa o desiderio o sete:
L’attesa. Avete conosciuto, conoscete che cos’è l’attesa? Quell’attesa che per anni non ha smesso di tormentarmi, che m’ha impedito di partecipare, che ha reso vano ciò che avrebbe dovuto farmi sazio. Se sapeste in quale deserto m’ha costretto a vivere. Nulla di ciò che mi si offriva era a misura della mia sete. E di che cosa ero io in attesa? Non avrei saputo dirlo di preciso. Senza dubbio, ero in attesa dell’evento meraviglioso capace d’appagare la sete di ciò che manca ad ogni vita. Ma non c’è alcun evento meraviglioso e io comprendo soltanto ora che non ho da lamentarmene. Ciò che è in grado di rispondere a quella attesa non può venire a noi che dall’istante – quell’istante che è là, prima che muoviamo qualsivoglia nostro passo, e che si offre alla nostra brama. Ma spesso noi lo troviamo troppo grigio, troppo banale e, poiché non ci sembra degno di veicolare ciò di cui desideriamo saziarci, lo oltrepassiamo senza cercare di scoprire ciò che esso cela. Che sbaglio! In ogni momento la vita abbonda, scorre, irriga il quotidiano al quale non sappiamo prestare attenzione. E’ dalla realtà più ordinaria che filtra l’acqua della sorgente. Ma prima di arrivare a comprenderlo, ad ammetterlo, c’è tanto da sfrondare.
Dimaro_004 copia fbL’avidità che tale attesa presupponeva, mi rendevo ben conto che era eccessiva, e ho fatto ricorso a diversi mezzi per tentare di contenerla, ma nessuno ha avuto la ben che minima efficacia. Esistono in noi appetiti, paure, vincoli, angosce… che non siamo in grado di controllare, per quanto grandi siano la lucidità, la determinazione, la conoscenza di noi che mettiamo in opera per dominarli. Il tedio, che nulla riesce a dissipare, è la conseguenza dell’attesa che viviamo fin dall’inizio come immancabilmente delusa. Fin dall’adolescenza ho imparato a leggere su alcuni volti e in alcuni sguardi la forma di tedio in cui si manifesta la sofferenza di una mancanza fondamentale.
L’attesa e la paura. La paura e l’attesa. Non credete che ambedue definiscano, per una grande parte, l’essere umano?”.
Non penso che alla fine i due punti di vista siano così distanti come possono apparire a uno sguardo veloce e posato sulla superficie; in fin dei conti anche il credente buddhista è teso a qualcosa, pur cercando di non fondare questa tensione sul desiderio, sulla brama. Mario Bertin, commentando le parole di Juliet, scrive: “Non un’attesa totalmente passiva. Un’attesa che è tensione versa qualcosa capace di saziare il nostro desiderio. Di appagare la sete di ciò che sentiamo mancarci. Perché non esiste alcun senso predefinito della vita. Il senso della vita, afferma Chaplin in Luci della ribalta, è il desiderio. Quel richiamo ad un oltre sempre inattingibile, che non si spegne mai. Il desiderio traccia la strada – ma te ne accorgi percorrendola – e infonde l’energia per andare verso ciò che l’autore chiama “la sorgente”, cioè verso la propria verità. L’istante è quello che viene immediatamente prima che cominci il nostro cammino. E’ un clic… E’ come un bagliore improvviso, che ci fa intravvedere una strada, da prendere piuttosto che qualsiasi altra strada. Senza ragioni. E’ un lampo nella notte. Soltanto una intuizione… Quasi sempre l’istante si configura in una circostanza banale, quotidiana, che sembra non avere alcun rapporto con il nostro desiderio, con quello che pensiamo sia in grado di saziare la nostra fame. Ma non è così. L’istante è soltanto il momento in cui si dischiude lo spiraglio. Quello che cerchiamo sta oltre la soglia. E non lo vediamo. Non siamo noi ad andare verso l’oggetto del nostro desiderio. D’altronde, il nostro desiderio non ha alcun oggetto. E’ la stessa energia vitale che scorre abbondante e che “irriga il quotidiano” a portarci verso di lui e ad offrircelo in dono. La verità è davanti a noi, “umile, quotidiana, feconda, inesauribile”. Dobbiamo soltanto essere disponibili ad accoglierla. E allora, come d’incanto, tutto si mostra e si chiarisce, il senso di tutto si illumina e si fa evidente. Come in una nuova nascita, si presenta la possibilità di
suscitare
il me stesso
che dovrà
darmi alla luce”.”
E non penso che alla fine si sia così lontani di quella ricerca del vero sé che sia oltre la propria semplice autopercezione cosciente, cammino al centro delle religioni orientali.
(i testi di Juliet e Bertin sono tratti da “Scuola e formazione” pagg.33-34)

L’amore è il vero motivo

Sto sempre meno volentieri sui social network. Non mi succede da molto tempo, ma vedo che più passano i giorni, più mi sento a disagio. I toni sono sempre più accesi e violenti, i commenti sono spesso superficiali ma stigmatizzanti, le bufale sono sempre più frequenti e rilanciate, il protagonismo è sempre più forte e non si tiene mai conto di chi potrebbe leggere quelle parole; si augurano malattie e morte a persone antipatiche o che semplicemente non la pensano come noi, si evocano dalla storia luoghi di disumanità inaudita sperando che costoro ci finiscano. A giugno c’era stata sui giornali una polemica nata da una dichiarazione di Umberto Eco: «“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. […] La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità,” osserva Eco che invita i giornali “a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno. I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno”.» (citazioni prese da La Stampa).

Gli ha risposto Gianluca Nicoletti (e cito sempre La Stampa): “… Ora, chi vuole afferrare il senso dei tempi che stiamo vivendo è costretto a navigare in un mare ben più procelloso e infestato da corsari, rispetto ai bei tempi in cui questa massa incivilizzabile poteva solo ambire al rango di lettori, spettatori, ascoltatori. Stare buoni e zitti, leggere giornali scritti da noi, leggere libri scritti da noi, guardare programmi in tv in cui al centro eravamo noi, ascoltare lezioni che facevamo noi. E’ finita purtroppo l’epoca delle fortezze inespugnabili in cui la verità era custodita dai suoi sacerdoti. Oggi la verità va difesa in ogni anfratto, farlo costa fatica, gratifica molto meno, ma soprattutto richiede capacità di combattimento all’arma bianca: non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza. […] Chi siamo noi per negare il diritto all’imbecillità di evolvere con strumenti individuali? Non credo ai comitati di saggi, ai maestri di vita digitale che fanno dai giornali l’analisi critica della rete. Le loro sentenze avrebbero quel profumino di abiti conservati in naftalina che oggi emanano le muffe lezioncine sulla buona televisione, sul servizio pubblico, sulla qualità dei programmi, su questo è buono e questo fa male. Siamo tutti intossicati, per questo oggi l’intellettuale deve fare sua la follia del funambolo. Chi vorrebbe curare gli altri e ancora si proclama sano, è in realtà (digitalmente) già morto.”

Quello di cui sento il bisogno lo intravedo in una canzone di Filippo Neviani, più famoso come Nek: ci sono una domanda e una risposta. Il brano “Hey Dio” del 2013 “è nato come uno sfogo nell’osservare l’attuale periodo storico, dove si stanno smarrendo dei valori importanti. Non può fare sempre notizia il male o il negativo, e tacere su quanto di buono fanno in tanti. È una realtà distorta. Nella canzone, mi rivolgo a Dio come fosse mio padre, per risolvere i dubbi. E la risposta che si può trovare è una sola: l’amore, per come mi è stato insegnato da credente. E questo amore passa attraverso il rispetto per il prossimo e la condivisione. Se fossimo più attenti verso gli altri la nostra vita sarebbe più ricca. Bisogna capire che non bastiamo a noi stessi” (da Dimensioni Nuove).
Hey Dio, avrei da chiederti anch’io, cos’è quest’onda di rabbia, che poi diventa follia, che c’è da stare nascosti, per evitare la scia, di questo tempo che ormai, è il risultato di noi… Hey Dio, vorrei sapere anche io, se questo mondo malato, può ancora essere mio, e se il domani che arriva, è molto peggio anche di così, ma infondo sai cosa c’è, hai ragione sempre te… Che c’è bisogno d’amore, è tutto quello che so, per un futuro migliore, per tutto quello che ho, per cominciare da capo e ritrovare una coscienza, per fare a pezzi con le parole questa indifferenza…
Hey Dio, permettimi di dire che qui, è solo l’odio che fa notizia, in ogni maledetto tg, non c’è più l’ombra di quel rispetto, il fatto è che sembra andar bene così, ma infondo sai cosa c’è, hai ragione sempre te… Che c’è bisogno d’amore, è tutto quello che so, per un futuro migliore, per tutto quello che ho, per cominciare da capo e ritrovare una coscienza, per fare a pezzi con le parole questa indifferenza…
E dopotutto sai, che sono quello di sempre, che non potrei stare fermo mai, davanti a un mucchio di niente… In qualche angolo c’è, chi la pensa come me… Che c’è bisogno d’amore, è tutto quello che so, per un futuro migliore, per ogni cosa che ho, e per sentirmi più vivo, io voglio cominciare da qui, l’amore è il vero motivo, per essere più liberi…”

Gemme n° 233

Buongiorno alle persone sensibili che sanno andare oltre le apparenze, alle persone che non sono mai banali o scontate, che danno sempre la priorità ai sentimenti, che hanno imparato a vivere serenamente apprezzando le piccole cose di ogni giorno; alle persone che sono capaci di darci grandi emozioni, a quelle che hanno cento difficoltà ma non smettono di affrontarle guardandole con gli occhi del cuore. Alle persone che hanno sempre un sorriso da regalare, a quelle che trovano il tempo per ascoltare nonostante i mille impegni. Ho portato un buongiorno trovato in hotel, scritto da Antonio Degas; l’ho scelto perché per la prima ora mi sembrava carino. Mi hanno colpito due frasi in particolare: quando fa riferimento alle persone che sanno andare oltre le apparenze, perché oggi si basa spesso la vita su di esse e non si coglie l’interiorità delle persone, e quando parla delle persone che apprezzano le piccole cose e affrontano le difficoltà, perché mi ricorda una persona molto importante per me, che riesce a essere felice e apprezza quello che ha mentre noi tendiamo spesso a lamentarci per sciocchezze”
Questa la gemma di S. (classe quinta).
C’è una canzone di Giuni Russo di una profondità incredibile e che ogni volta che ascolto mi fa pensare all’essenziale. E’ un brano che fa parte del lato più mistico e nascosto al grande pubblico della cantante, nota ai più per “Alghero” o “Un’estate al mare” o “Limonata cha cha cha”.
Primizia del mio tempo, orlo del velo che copre la presenza, dal vivo occhio mi penetra un raggio di pura luce. Fai cantare alla mia lingua melodie sconosciute dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea. Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla. Sciamano pensieri di pura luce, la via dell’assoluto rischiara, primizia del mio tempo alla presenza. Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla, io nulla. Oso fiorir… Alla tua presenza. Io nulla, io nulla, io nulla. Fai cantare alla mia lingua melodie sconosciute che nascono nel cuore. La notte se ne va primizia del mio tempo. Alla tua presenza. Io nulla, io nulla, io nulla. Davanti a te. Io nulla”.

Città o caverna?

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In riferimento alla lezione di stamattina in una quinta. Una verità? Tante verità? Nessuna verità? Assoluta? Relativa?… E per arrivarci? Una strada? Tante strade? La verità sta nel cammino stesso? Niente strada?
Ho trovato proprio oggi questa citazione sul blog di Berlicche:
(…) “Non so se è la verità.” Quindi, “E che cos’è la verità?” disse Pilato scherzando. (…)
Io ci pensai sopra. “Qualche volta penso che la verità sia un luogo. Nella mia mente, è come una città: ci possono essere un centinaio di strade, un migliaio di sentieri, che tutti ti porteranno, alla fine, nello stesso posto. Non importa da dove arrivi. Se cammini verso la verità, la raggiungerai, qualunque percorso tu prenda.”
Calum McInnes abbassò lo sguardo su di me e non disse niente. Quindi, “Ti stai sbagliando. La verità è una caverna nella montagne nere. C’è una strada per arrivarci, e soltanto una, e quella strada è dura e traditrice, e se scegli il percorso sbagliato tu morirai da solo, sul fianco della montagna.”
(Neil Gaiman, “The truth is a cave in the black mountains”)

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