In memoria delle vittime del terrorismo


Il 12 dicembre 1969 esplodeva la bomba di piazza Fontana a Milano che ha segnato l’inizio della stagione del terrore. La rivista Jesus ha messo a confronto due voci: quella di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista ucciso il 28 maggio 1980, e dell’ex terrorista rosso Arrigo Cavallina.

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Si celebra il 9 maggio, quest’anno per la seconda volta. La Giornata della memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, istituita nell’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, è un’occasione non retorica per ricordare che furono oltre 400 le vittime di quella stagione di sangue. E che, a 40 anni dalla strage di piazza Fontana, a Milano, e a 35 da quella di piazza della Loggia, a Brescia, ancora molte verità restano sconosciute. Su questi e su altri delitti. Una giornata che invita a lavorare per recuperare ricordi e memorie e consegnare alle nuove generazioni le chiavi per interpretare quegli avvenimenti. In questi giorni, all’istituto Leone XIII di Milano, è in corso una mostra sul terrorismo rivolta proprio ai giovani e agli studenti. Il titolo, Vi.Te., con il punto in mezzo, indica l’interruzione di esistenze e storie, ma anche la capacità di riprendere a camminare. Benedetta Tobagi, figlia di Walter, il giornalista del Corriere della sera ucciso dalla Brigata XXVIII marzo il 28 maggio 1980, cura le iniziative culturali coordinate all’esposizione. Da tempo segue per le scuole percorsi didattici che aiutano a ricostruire quel periodo.

Da dove parte questa ricostruzione?

«Il mio percorso di ricostruzione parte, innanzitutto, da un discorso personale. È il tentativo, da un lato, di ricostruire una figura che mi è mancata; dall’altro di capire perché questa persona mi fosse stata portata via. L’interesse è cominciato in un momento ben preciso: nel 2002, dopo la laurea. La spinta, all’inizio, è stata il voler mettere un argine a tante polemiche che c’erano attorno all’uccisione di mio padre. Poi mi sono resa conto che, in realtà, la mia storia non riguardava soltanto me. Ho incontrato una persona determinante: Manlio Milani, l’anima della Casa della memoria di Brescia. È lui che mi ha fatto capire quale valore potesse avere la traduzione della memoria dalla sfera privata a quella pubblica. Lui per primo mi ha fatto parlare con i ragazzi delle scuole e mi ha fatto capire che è indispensabile ricostruire la memoria soprattutto qui, a Milano, dove c’è stata ogni forma di terrorismo e di violenza politica sia di destra che di sinistra».

Qual è il punto fondamentale?

«Recuperare la complessità. Mio padre aveva un grande talento nel coglierla. E poi aveva un’altissima vocazione al dialogo, come tante delle vittime del terrorismo. Sapeva che, per capire come si fosse arrivati a situazioni così esasperate, bisognava confrontarsi con tutte le voci in gioco. Per questo era scomodo ed è stato eliminato. Pansa ha detto di lui che sapeva mettere la mano nella nuvola nera. Le cose che ha scritto sull’area dell’Autonomia e sul terrorismo restano tutt’oggi tra le più chiare».

Nella complessità rientrano tutte le voci, anche quelle degli ex terroristi?

«Trovo grave non il fatto che si intervistino gli ex terroristi, ma che il giornalista non si prepari e non sia pronto a coglierli in fallo quando mentono, sono omissivi, esprimono dichiarazioni discutibili. Anche per i libri ho letto alcuni testi di ex terroristi e vi ho trovato lacune, affermazioni false, ricostruzioni apologetiche. Su queste memorie non c’è un dibattito critico. La risposta non è far sparire quelle voci e inondare il mercato di memorialistica delle vittime, ma esercitare il pensiero critico anche sulla scorta dei documenti oggi disponibili. Altrimenti siamo condannati a rimanere intrappolati in “ricordi senza memoria” come dice Giovanni Moro nel libro Anni Settanta».

Il cardinale Martini scrisse che la parabola del figliol prodigo dice di una riconciliazione mancata, perché il primo figlio va via. A che punto è il rapporto tra i due fratelli? Ed è un rapporto solo privato?

«Ho ascoltato un ex di Prima linea sostenere che la via d’uscita da quegli anni passa solo attraverso percorsi personali. È un discorso che mi ferisce perché le storie che si sono incrociate in quegli anni sono state al crocevia tra pubblico e privato, ma con una dimensione collettiva da cui non si può prescindere. È irritante vedere che un ex terrorista si limita a condividere la propria redenzione privata, perché mi sembra che rifugga dal fare i conti con quello che è stato l’impatto della sua azione sulla società. Per quanto riguarda il figliol prodigo, credo che sia stato urticante per tanti familiari delle vittime vedere l’interesse riservato ad alcuni terroristi e, parallelamente, un vuoto di attenzione per le vittime. È stato importante che la Chiesa, nel momento in cui si doveva fronteggiare l’emergenza di migliaia di giovani che passavano per tribunali e carceri, si sia fatta carico del problema. Il punto, però, è che bisognerebbe evitare che il fratello che si comporta bene si senta ferito dalla disattenzione. Non si tratta di togliere a qualcuno, ma di aggiungere, di avere cura di una persona in più. Io so, per esempio, che l’assassino di mio padre si è convertito e ha avuto una carriera professionale importante nell’ambito di un grande movimento cattolico. Per una parte di me, è difficile accettare questo. Poi, però, so che c’erano giovani che andavano recuperati. Ci sono stati cappellani delle carceri, associazioni, cooperative che hanno operato bene. Ma ci sarebbe da fare un passo in più».

Quale passo?

«Gli ebrei dicono che la conversione è un cambiamento radicale delle tue motivazioni all’azione. Dio può perdonarti perché sei talmente cambiato che non potrai mai compiere quelle azioni. Ma poiché solo Dio può vedere nel cuore degli uomini, solo Dio può perdonare. Non è la vittima che deve farlo. Il passo in più che dovrebbero fare è il prendere coscienza dell’umanità delle vittime, della gravità di ciò che hanno fatto. Ma spesso si fermano a metà strada. Sul piano umano, c’è una ferita che si perpetua: è come se a chi è stato ucciso fosse negata la sua umanità e ci fosse sempre e soltanto sulla scena l’assassino con le sue motivazioni, i suoi traumi, il suo carcere. Sarebbe bello se la Chiesa accompagnasse gli ex terroristi fino in fondo al percorso, che può anche essere senza ritorno, perché si tratta di rendersi conto di aver fatto qualcosa di irrimediabile. Chi ha subito il trauma della perdita non può sfuggire al lutto. Anche questo è un percorso duro, perché non è vero che il dolore ti migliora, anzi ti può far diventare una persona arida, morta dentro. Credo che abbiamo diritto di chiedere a chi ha compiuto il male di affrontare fino in fondo le implicazioni delle sue azioni».

In autunno uscirà, per Einaudi, un libro su suo padre. Cosa racconta?

«Ho studiato le sue carte, sia pubbliche sia private: sono la sua voce, la sua presenza, sono entrate nella mia vita, mi hanno accompagnata, mi hanno spiegato le cose. Il libro è la sua storia, ma è anche la storia del mio incontro con lui attraverso questa ricerca. Volevo raccontare da dove viene Walter Tobagi, la sua formazione, quali sono state le sue attività come storico, come giornalista, come sindacalista. Uso le sue parole per raccontare il contesto di quegli anni. E poi c’è la sua morte, affrontata per rispondere a un antico mio desiderio di ordine rispetto a tante cose dette e scritte attorno alla sua figura».

Annachiara Valle

 

 

«Sono nato in una famiglia antifascista, per metà cattolica e per metà valdese». Arrigo Cavallina negli anni di piombo è stato il fondatore e l’ideologo dei Pac, i Proletari armati per il comunismo. Il “maestro” di Cesare Battisti. Fu tra i primi a sperimentare il carcere duro e uno degli ideatori del movimento della dissociazione. Oggi vive a Verona, dedicandosi a tempo pieno all’universo carcerario con l’associazione “La fraternità”. «Da ragazzino frequentavo la parrocchia», racconta. «Le medie sono state anni difficili, segnati dalla morte di mio padre». All’epoca lavora per aiutare la madre, si iscrive a ragioneria. Entra in contatto con Gioventù Studentesca. Legge molto: romanzi, ma anche saggi di cattolici “terzomondisti”; approfondisce il protestantesimo. Finché, tra un libro e l’altro, si imbatte nel Capitale di Marx.

Che impressione le fa?

«Per un ragazzino in ricerca, era una spiegazione convincente delle differenze sociali e dello sfruttamento. Così, mentre gli amici mi convincono a prendere la tessera di Azione cattolica, mi iscrivo anche alla Federazione giovanile comunista. L’esperienza dura poco. Il Pci era invivibile: contava solo quanti tesserati portavi. Ribelle all’impostazione dogmatica, me ne vado. Fondo un giornale su cui scrivono liberamente comunisti, cattolici, liberali e anche un fascista. Una delle esperienze più belle».

Intanto è alle soglie dei vent’anni. Che cosa succede?

«La vita personale si scolla pian piano da quella politica. Fuori dal Pci ci sono una miriade di gruppetti. Li frequento, partecipo, ascolto. Leggo Mao e lo apprezzo, ma non sopporto il maoismo fatto di slogan. Ascolto Curcio. Leggo Toni Negri, una testa notevole. Entro a far parte di Potere Operaio. È il momento delle grandi rivoluzioni: Russia, Cina, Cuba. Senza armi, non si vince: si comincia a parlare di lotta armata, che agli inizi si traduceva in atti miseri: aprire un’auto, attaccare due fili a una sveglia, rubare tritolo da una cava. Gesti per cui ero negato, io che non sapevo cambiare una lampadina».

Chi parlava di lotta armata?

«Un gruppo di intellettuali. Te ne accorgi dopo, i meccanismi sono sempre gli stessi: indipendentemente dalle idee, al vertice c’è una casta. Loro teorizzano, gli “utili idioti” fanno. Tra questi c’ero anch’io. Intanto mi ero trasferito a Milano. Di giorno insegnavo, di notte le riunioni e le prime azioni: un paio di rapine di armi, l’incendio di un’impresa che finanziava il colpo di stato in Cile. Ma, quando sto per incendiare un altro capannone, mi arrestano con in tasca gli appunti della rapina del giorno prima».

Perché non li ha gettati?

«Non ne potevo più: lavoravo, non mangiavo, di notte non dormivo, avevo difficoltà economiche. E soprattutto, ero solo. Per gli altri non esistevo come persona, ero un ingranaggio. Non ricevevo nessuna comprensione. Avevo anche tentato il suicidio. Forse è per quello che non me ne sono liberato».

E dopo l’arresto?

«Tre anni di carcere. Intanto la lotta armata si disgrega. Un movimento di 120 anni in due-tre anni finisce nell’ironia generale. È stato l’inganno più grande della mia vita, però la consapevolezza dello sfruttamento resta un’acquisizione importante. In carcere mi immergo in quella classe povera che avevo difeso senza conoscerla. Me ne faccio portavoce, ma le mie trattative per i detenuti non piacciono. Vengo trasferito in un carcere speciale. Le prime due settimane sono fatte di botte e torture. C’era una violenza incredibile. È il messaggio più diseducativo: come potrei rispettare la legge, se non la rispettate voi? Accumulo una forte rabbia. I compagni fuori si organizzano e nasce il gruppo “Senza galere”, che pubblica le mie lettere».

E quando esce dal carcere?

«Mi ricongiungo agli amici di un tempo. Nascono i Pac. Il clima è cambiato, l’ipotesi rivoluzionaria è sconfitta e se ne sente tutta la frustrazione. Pensavamo: “Non cambieremo il mondo, almeno cambiamo noi”. Comunismo diventa un modo per sottrarsi a un mondo che non ci va. La maggior parte dei compagni è in galera ed è proprio sulle condizioni carcerarie che si concentrano i Pac. Dopo l’omicidio del maresciallo Santoro a Udine, prendo le distanze. Seguono altri omicidi e ferimenti, terminati con l’arresto del gruppo. Capisco che con l’illegalità si finisce male: un’evidenza, prima che una scelta etica. Ma vengo coinvolto in un altro processo. Di nuovo galera: uscirò dopo 12 anni di carcere preventivo».

È il tempo del ripensamento.

«Sì, con alcuni ex compagni nasce la dissociazione. Il movimento si allarga e diviene fondamentale per la fine del terrorismo. È anche un periodo di paura per le continue minacce: temiamo per la vita e ci guardiamo le spalle a vicenda. Constato che chi ci aiuta di più sono i cattolici: don Di Liego della Caritas e soprattutto uno straordinario cappellano, don Luigi Mélesi, vicino a Martini. Riprendo la frequentazione biblica e rileggo i temi della speranza e del perdono dentro la condizione carceraria. È l’elemento più tipico della prigione, dover fare i conti con sé stessi. Pensi: “Forse da qui non esco più ed è per colpa mia”. Sei il tuo nemico. Realizzi il male fatto agli altri. È la condizione di tutta la Scrittura. Ezechiele dice: “Io non voglio che l’empio muoia”. E capisci che davanti a te, qualunque cosa tu abbia fatto, c’è sempre la possibilità di un nuovo progetto».

Quale conseguenze ha questo lavoro interiore?

«Accorgersi che, anche in carcere, l’altro c’è. Rileggo il Samaritano: non c’è mondo dove io non possa farmi prossimo. Il carcere è il primo luogo dove comunicare agli altri il perdono che sperimento. È il compito che mi sono scelto oggi, a tempo pieno».

Giusy Baioni

 

One Reply to “”

  1. Ci sono buoni “cristiani” e cattivi “cristiani ma, prima ancora, uomini (inteso come specie) che commettono anche cose atroci ed è la ragione che ci porta a dover rimediare.
    Senza scomodare nessun filosofo è sufficiente dire che la vita che ci troviamo di fronte è frutto di scelte collettive e che tendono a mutare, di volta in volta, ogni qualvolta si intrecciano le diverse interpretazioni della concezione della vita tra le persone… le religioni sono solo una piccola parte delle interpretazioni del mondo da parte di esseri raziocinanti.

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