Vita nell’aria

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Dentro un raggio di sole che entra dalla finestra, 
talvolta vediamo la vita nell’aria.
E la chiamiamo polvere.

(Stefano Benni, Margherita Dolcevita)

Una piacevole noia

C’è noia… e noia…

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“La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma non dimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto l’universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, è però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.” (Giacomo Leopardi)

Un viso inenarrabile dal sole

I momenti in cui si affrontano le ore buie e cupe del dolore; i momenti in cui si vive l’abbandono; i momenti in cui non si riesce a vedere un domani; i momenti in cui si cerca ovunque speranza. Le parole degli amici sembrano non dare sollievo, non bastare. Pare che l’uomo non sia fatto per sopportare questo ingombro nel cuore, per vivere questo stato. Eppure, scrive Luzi, si ritrovano le proprie orme, i propri riferimenti consueti, anche dietro le curve improvvise e impreviste. E lì riprende la speranza e l’attesa di uno spiraglio di luce. E che ognuno lo legga come crede: riferimento all’infinito se penso al sole, riferimento all’umano se penso al viso. In ogni caso incontro che porta all’inenarrabile.

Dove l’ombra procede e le strade ristanno

tra i fiori, ricordarmi le parole

e le grida dell’uomo è forse un inganno.sole.jpg

Ma sempre sotto il cielo consueto

ritrovo le mie tracce, il mio sole

e gli alberi remoti del tempo

fissi dietro le svolte. E sempre,

ancor che mi sia noto il dolce segreto,

sulla polvere quieta, tra le aiuole,

m’indugio ad aspettare che sporga

un viso inenarrabile dal sole.

(Dove l’ombra, Mario Luzi)

Dove sta la verità?

truth.jpgRitorno sul post dell’altro ieri sulla verità perché facendo un po’ di zapping internettiano mi sono imbattuto in una canzone di Pero Pelù del 2008 e contenuta nell’album Fenomeni. Il brano è caratterizzato da una domanda che viene ripetuta continuamente: “dove sta la verità?”. Nei versi tutta una serie di esempi di superficialità in cui sembra difficile andare al fondo delle cose, soprattutto nel mondo della comunicazione: “L’opinione conta più di ogni realtà, siamo eroi e mostri con un titolo ad effetto… Conta ciò che appare più di quello che è… Dimmi la memoria chi la salverà dalla propaganda, dai rifiuti e dal bla bla bla”. A questo si aggiunge il soggettivismo: “Tu mi vedi bianco lui mi vede nero l’altro vede rosso e fa già opinione…”. Nel mare di confusione che così si genera si spalanca la difficoltà di costruirsi un’idea propria, un’opinione fondata da poter coltivare e difendere: “Naufrago in tempeste di opinioni, ogni cosa ha mille facce e altrettante versioni: il mio punto di vista in questa giungla”. Rischiamo di essere spaesati, di perderci nel mare senza appigli o magari di ritrovarci naufraghi su isole sconosciute che hanno le loro leggi e le loro regole: “Sono fuori di testa dentro questa giostra, bugie a fin di bene, poi bugie in tribunale, bugie calcolate per farci sognare”. Solo verso la fine sembra aprirsi la possibilità di una risposta alla domanda frequente: “I muri non fermeranno le mie idee. Dove sta, dove sta, come sta la verità? … dietro le nostre bugie … Dove sta, dove sta, come sta la verità? … Nel nostro DNA”. La risposta sembra essere dentro l’uomo, in ciò che lo contraddistingue personalmente da tutti gli altri, il suo DNA che non può essere confuso con quello di qualcun altro. Mi resta però un tarlo: e quell’ultimo verso? “Dove sta, dove sta, dov’è mister verità? Dimmi dove quando e come”… E quel tarlo mi fa chiedere: ma la verità è l’opinione? Aveva ragione Gadamer, la verità è nomade?

Arrivederci

nostalgia, quinte, addio, arrivederci, scuola, maturità

Ci sono alcuni momenti nel mio mestiere che non mi piacciono proprio, anzi, che mi fanno male. Il momento più doloroso è quell’Arrivederci mormorato l’ultima volta che esco da una quinta e che invece so bene essere un Addio. E’ senz’altro un momento ricco anche di soddisfazioni, di immagini legate ai cinque anni passati insieme, ai cambiamenti, loro e miei. Mi capita spesso di ripensare alle prime lezioni, nel ’98: tutto preparato nei minimi dettagli, al minuto, persino quando fare una battuta… nulla lasciato al caso… tutto sotto controllo e ben poco naturale. Mi rivedo con un sentimento di tenerezza per quel che sono stato. Ma tornando ad esempio a stamattina, e a tutte le altre volte di questi anni, in quell’attimo in cui do le spalle alla classe ed esco, sento la mancanza di un rapporto che si è costruito; e più avanti vanno gli anni, più è forte quel sentimento che diventa immediatamente nostalgia. E’ vero, dico “arrivederci”: ci si vedrà ancora, durante gli esami, dopo gli esami, in giro, su fb… Ma non posso negare di sentire che è anche un addio a quella classe e a quel gruppo; e ciò indipendentemente dal fatto che siano stati uniti o meno tra loro. E’ semplicemente qualcosa che non ci sarà più e che avverto come qualcosa di mio. Vero, bellissimo, stimolante e affascinante vederli crescere e diventare adulti, però la nostalgia resta. Faccio un respiro profondo e li accarezzo tutti col pensiero: “Arrivederci”.

Sdrang!

Corsi per essere vincenti, master per potersi affermare, soggiorni per numeri “uni”. Consigli spassionati “al giorno d’oggi devi guardare il tuo” oppure “ma chettefrega di lui, l’importante è che sia dietro”. Mazzate nascoste dietro a un “devo dirti una cosa, sai, io preferisco dire le cose in faccia, non parlare alle spalle” e … SDRANG! Mi viene alla mente il folgorante e paradossale incipit di “Golden gate” dello statunitense Raphael Aloysius Lafferty:

“Avendo sparato ad un uomo, ed avendolo ammazzato, avete in una certa misura chiarito il vostro atteggiamento verso di lui. Avete dato una risposta definita ad un problema definito. Nel bene o nel male avete agito in maniera decisiva. In un certo senso, la mossa successiva spetta a lui.violenza-domestica2.jpg

 

Tra verità e risate

Ieri pomeriggio, mentre facevo un po’ di ordine tra il materiale che accumulo durante l’annola verità 4.jpg scolastico, mi sono appuntato su un file due citazioni che oggi pubblico e metto in parallelo (a dir la verità ora ricordo che la seconda è presa dal profilo fb di una collega). La prima è di Zygmunt Bauman, presa da “Il disagio della postmodernità”: “La religione appartiene a quella vasta e imbarazzante schiera di concetti che crediamo di comprendere perfettamente fino al momento in cui qualcuno non ci chiede di darne una definizione”. La questione può essere affrontata da un punto di vista semantico, e anche lì le opinioni sono diverse… Va anche riconosciuto che, nell’epoca contemporanea, il termine ha assunto una caratteristica, per dirla alla Bauman, di “liquidità” che nel passato non aveva. Concetti che un tempo erano delineati e chiari, ora hanno assunto specificità non sempre ben delineate. La questione si complica ulteriormente se si passa dalla religione, tipicamente umana, alla verità; “verità” e non “concetto di verità”. Il secondo è, per forza di cose, anch’esso tipicamente umano; la prima, nell’ambito della ricerca esistenziale ha, a mio avviso, una caratteristica particolare ben descritta da Albert Einstein: “Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste alcuna autorità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dei”.

Se potessi

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Piccoli momenti in cui mi piacerebbe avere la bacchetta magica per poter dare ad una persona quello che desidera semplicemente perché è ciò che le spetta dopo tutto l’impegno che ci ha messo. Niente di più chiede, solo il suo, ciò che merita e che poi altro non è che una tranquilla normalità, una possibilità di poter pensare oltre all’oggi… Metto questa foto perché il papavero dei campi è semplice e spontaneo e perché, in ogni caso, altro non posso fare se non starle vicino e abbracciarle l’anima.

Perché lo scrivo qui? Perché forse c’è qualcuno nella stessa situazione e un abbraccio d’anima non si nega a nessuno, e neppure un papavero di campo.

 

Il mare lontano

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Un brano di letteratura e una canzone: li ho uniti perché li sento affini, come se facessero vibrare in me le stesse corde. Il nodo è quello di cercare il senso, l’anelito, la scintilla da cui poi derivano le passioni, le motivazioni, le ragioni del nostro agire. C’è chi lo trova in sé, chi lo trova negli altri, nella natura, in Dio, nell’idea di uomo. Antoine de Saint Exupéry ne scrive come di una sete da risvegliare, un qualcosa che quindi per l’uomo è esigenza, bisogno fondamentale, necessità di sopravvivenza; e che quando riceve soddisfazione dona piacere, un piacere atavico. Sergio Cammariere ne canta come di un punto in mezzo al mare, lontano dalla terra, dalle case e dal porto, un posto dove ricordi e cose note si confondono per dare spazio a una nuova possibilità, a una nuova creazione in cui dare un nome nuovo ai sentimenti.

“Se vuoi costruire una nave non devi chiamare gente che procuri la legna e prepari gli attrezzi necessari, o distribuire compiti e organizzare il lavoro. E non devi raccogliere le persone per dar loro ordini e spiegare ogni dettaglio o dire loro dove trovare qualunque cosa. Prima, invece, risveglia la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà svegliata in loro questa sete, le persone si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”. (Antoine de Saint Exupéry)

Dalla pace del mare lontano fino alle verdi e trasparenti onde

dove il silenzio non ha più richiamo e tutto si confonde

Dalle lagune grigie e nere, dal faticare senza riposo

dalla sete alla fame allo spavento al più segreto tormento

Avemmo padri avemmo madri fratelli amici e conoscenti

Ed imparammo a dare un nome nuovo ai nostri sentimenti

E così un giorno a camminare su questa terra sotto a un sole avaro

Per un amore che sembrava dolce e si è scoperto amaro

Ma è solo un’eco nel vento nel vento che mi risponde

Venga la pace dal mare lontano venga il silenzio dalle onde

E in mezzo al mare c’è un punto lontano così lontano dalle case e dal porto

Dove la voce delle cose più care è soltanto un ricordo

Ma da quel punto in poi non si distingue più

La linea d’ombra confonde ricordi e persone nel vento

Avemmo padri avemmo madri …

Dalla Turchia con…?

A volte è difficile farsi un’idea, un’opinione riguardo a una situazione. Già è difficile informarsi, tanto che spesso si parla, a torto o a ragione, di buona e cattiva informazione; troppo spesso buona informazione è quella che va a confermare le proprie opinione e cattiva quella che le disattende. L’unica strada, in ogni caso, che ritengo possibile è quella cercare notizie. Poco fa sfogliavo i vari tweet della giornata e uno dei più recenti accennava al rinfocolare delle proteste a Istanbul. La notizia, nei giorni scorsi mi era sfuggita. E pochi tweet prima ho trovato l’invito di un amico blogger a diffondere una testimonianza diretta (del 1° giugno). La metto sul blog, magari spinge qualcun altro a cercare di sapere di più, come cercherò di fare io stanotte; anche perché la situazione è in continua evoluzione e in veloce allargamento.

tear-gas-reuters.jpg“Ai miei amici che vivono fuori dalla Turchia: scrivo per farvi sapere cosa sta succedendo a Istanbul da cinque giorni. Personalmente sento di dover scrivere perché la maggior parte della stampa è stata messa sotto silenzio dal governo e il passaparola e internet sono i soli mezzi che ci restano per raccontare e chiedere sostegno. Quattro giorni fa un gruppo di persone non appartenenti a nessuna specifica organizzazione o ideologia si sono ritrovate nel parco Gezi di Istanbul. Tra loro c’erano molti miei amici e miei studenti. Il loro obiettivo era semplice: evitare la demolizione del parco per la costruzione di un altro centro commerciale nel centro della città. Ci sono tantissimi centri commerciali a Istanbul, almeno uno in ogni quartiere. Il taglio degli alberi sarebbe dovuto cominciare giovedì mattina. La gente è andata al parco con le coperte, i libri e i bambini. Hanno messo su delle tende e passato la notte sotto gli alberi. La mattina presto quando i bulldozer hanno iniziato a radere al suolo alberi secolari, la gente si è messa di mezzo per fermare l’operazione. Non hanno fatto altro che restare in piedi di fronte alle macchine. Nessun giornale né emittente televisiva era lì per raccontare la protesta. Un blackout informativo totale. Ma la polizia è attivata con i cannoni d’acqua e lo spray al peperoncino. Hanno spinto la folla fuori dal parco.

Nel pomeriggio il numero di manifestanti si è moltiplicato. Così anche il numero di poliziotti, mentre il governo locale di Istanbul chiudeva tutte le vie d’accesso a piazza Taksim, dove si trova il parco Gezi. La metro è stata chiusa, i treni cancellati, le strade bloccate. Ma sempre più gente ha raggiunto a piedi il centro della città. Sono arrivati da tutta Istanbul. Sono giunti da diversi background, da diverse ideologie, da diverse religioni. Si sono ritrovati per fermare la demolizione di qualcosa di più grande di un parco: il diritto a vivere dignitosamente come cittadini di questo Paese. Hanno marciato. La polizia li ha respinti con spray al peperoncino e gas lacrimogeni e ha guidato i tank contro la folla che offriva ai poliziotti cibo. Due giovani sono stati colpiti dai tank e sono stati uccisi. Un’altra giovane donna, una mia amica, è stata colpita alla testa da uno dei candelotti lacrimogeni. La polizia li lanciava in mezzo alla folla. Dopo tre ore di operazione chirurgica, è ancora in terapia intensiva in condizioni critiche. Mentre scrivo, non so ancora se ce la farà. Questo post è per lei.

Queste persone sono miei amici. Sono i miei studenti, i miei familiari. Non hanno 20130602_turchia_scontri.jpg“un’agenda nascosta”, come dice lo Stato. La loro agenda è là fuori, è chiara. L’intero Paese viene venduto alle corporazioni dal governo, per la costruzione di centri commerciali, condomìni di lusso, autostrade, dighe e impianti nucleari. Il governo cerca (e quando è necessario, crea) ogni scusa per attaccare la Siria contro la volontà del suo popolo. E, ancora più importante, il controllo del governo sulle vite personali della sua gente è diventato insopportabile. Lo Stato, dietro la sua agenda conservatrice, ha approvato molte leggi e regolamenti sull’aborto, il parto cesareo, la vendita e l’utilizzo di alcol e anche il colore del rossetto delle hostess delle compagnie aeree. La gente che sta marciando verso il centro di Istanbul chiede il diritto a vivere liberamente e a ottenere giustizia, protezione e rispetto dallo Stato. Chiede di essere coinvolta nel processo decisionale della città in cui vive. Quello che invece ha ricevuto è violenza e un enorme numero di gas lacrimogeni lanciati dritti in faccia. Tre persone hanno perso la vista. Eppure continuano a marciare. Centinaia di migliaia si stanno unendo. Duemila persone sono passate sul ponte del Bosforo a piedi per sostenere la gente di Taksim. Nessun giornale né tv era lì a raccontare cosa accadeva. Erano occupati con le notizie su Miss Turchia e “il gatto più strano del mondo”. La polizia ha continuato con la repressione, spruzzando spray al peperoncino tanto da uccidere cani e gatti randagi. Scuole, ospedali e anche hotel a cinque stelle intorno a piazza Taksim hanno aperto le porte ai feriti. I dottori hanno riempito le classi e le camere di albergo per dare primo soccorso. Alcuni poliziotti si sono rifiutati di spruzzare lo spray e lanciare lacrimogeni contro persone innocenti e hanno smesso di lavorare. Intorno alla piazza hanno posto dei disturbatori per impedire la connessione internet e i network 3G sono stati bloccati. I residenti e i negozi della zona hanno dato alla gente in strada accesso alle loro reti wireless, i ristoranti hanno offerto cibo e bevande gratis. La gente di Ankara e Izmir si è ritrovata nelle strade per sostenere la resistenza di Istanbul. I media mainstream continuano a raccontare di Miss Turchia e del “gatto più strano del mondo”.

Scrivo questa lettera così che possiate sapere cosa succede a Istanbul. I mass media non ve lo diranno. Almeno non nel mio Paese. Per favore postate più articoli possibile su internet e fatelo sapere al mondo. Mentre pubblicavo articoli che spiegavano quanto sta avvenendo ad Istanbul sulla mia pagina Facebook la scorsa notte, qualcuno mi ha chiesto: “Cosa speri di ottenere lamentandoti del tuo Paese con gli stranieri?”. Questa lettera è la mia risposta. Con il cosiddetto “lamentarmi” del mio Paese, io spero di ottenere:

Libertà di parola e espressione,

Rispetto per i diritti umani,

Controllo sulle decisione che riguardano il mio corpo,

Diritto a radunarsi legalmente in qualsiasi parte della città senza essere considerato un terrorista.

Ma soprattutto dicendolo al mondo, ai miei amici che vivono nel resto del globo, spero di aprire i loro occhi, di aver sostegno e aiuto.”

Tra terra e cielo

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Io – terra dentro la terra e davanti alla terra – non sono altro,

non posso conoscere altro che terra;

sia che cammini, sia che mangi, sia che mi sieda, tutto è terra.

Che cosa è in me che non è terra che mi fa riconoscere la non-terra;

“terra” sì, ma prima; altro che terra, infinitamente oltre alla terra

fino a stare davanti, fino a stare dentro a Colui che ha creato la terra?

Prima che la terra risorga, deve morire;

io non penso che la terra dei miei colori

si trasfiguri in immagine, se essi non muoiono a ciò che sono, …

ma essi, i miei colori, possono morire a ciò che sono

se io stesso non muoio alla terra che io sono?

Perché i colori mi sono affidati

solo in quanto sono impastati di me e io di essi.

L’opera d’arte – come immagine di Dio nelle cose – è un punto sospeso,

punto d’attesa come ponte fra cielo e terra.

Il cielo è sceso per riavere dalla terra, ormai in germoglio,

un brano di se stesso che come seme esso aveva prestato alla terra

perché questa lo trasfiguri e lo restituisca al cielo.

Tutto sarà stabilità quando ogni brano così prestato e trasfigurato

rientrerà nel cielo; la terra non ci sarà più; sarà tutta assunta.

(William Congdon)

L’essenziale nella bisaccia

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Il blog è nato per accrescere il dialogo con gli studenti, per mettere a disposizione materiale interessante che magari in classe non riusciamo ad affrontare, per approfondire argomenti solo abbozzati. Tuttavia so che è letto anche da altre persone e da alcuni colleghi. Questo post penso che possa interessare maggiormente questi ultimi, soprattutto coloro che si ricordano di aver studiato sui testi del “mitico” Enrico Chiavacci. Come insegnanti di Udine abbiamo anche avuto il piacere (per me ascoltare un toscano è sempre un piacere, per le orecchie e per il cuore, perché mi ricorda le sere dei campiscuola passate a sentire la cadenza di una cara persona che non c’è più) di seguire, qualche anno fa, un corso di aggiornamento tenuto da lui. Il pezzo qui sotto verte su laicità-laicismo, clericalismo-anticlericalismo e, a mio avviso, è in grado di provocare molte riflessioni e pensieri, magari utili per un confronto di idee. E’ del 2005 ed è preso dal sito Dimensionesperanza.

“”D’ora in poi predicherò solo Cristo, e Cristo crocifisso”, esclama Paolo (cfr. 1Cor 2,2). La fede in Cristo non è un ‘bagaglio di valori’, ma è l’assunzione di un unico valore che deve dominare la mia intera esistenza, esserne il senso ultimo su cui io scelgo di misurare me stesso in ogni mia scelta concreta (o, se si vuole, storica). Questo unico valore è fare della propria esistenza un dono offerto a tutti i fratelli in umanità, buoni o cattivi, bianchi o neri, amici o persecutori. “Questo corpo che è per voi, questo sangue versato per voi e per tutti”: Gesù nella cena dichiara il senso del suo andare deliberatamente incontro alla croce, e con questo gesto supremo di dono accompagnare la storia, la vicenda intera della famiglia umana.

Spesso però noi cristiani ci dimentichiamo che ogni essere umano è chiamato dal proprio interno a una ‘vita morale’ cioè all’assunzione di un significato unico e ultimo del proprio esistere e alla coerenza con esso in ogni situazione concreta. Tale assunzione può nascere da un’esperienza interiore indicibile, cioè non dimostrabile ad altri come l’unica vera; può anche avere una motivazione filosofica e nascere da una argomentazione, ma il mettersi ad argomentare o a interrogarsi sul senso della propria esistenza è già vita morale. Anche l’ateo, il laicista, il ‘laico’, l’anticlericale, l’aderente a qualunque fede religiosa non cristiana, ha in sé la chiamata a una vita morale: il che equivale al bisogno di dare un senso al proprio esistere. Ma noi cristiani crediamo che anche il non-cristiano, come ogni essere umano, trovi in se stesso una chiamata divina, e precisamente la chiamata di un dio, del Dio che ci è apparso in Nostro Signore. A Lui tutti dobbiamo rispondere, che lo conosciamo o no, e da Lui tutti abbiamo bisogno di perdono. Tutto ciò è espresso chiaramente in Paolo, Rm 2. Giovanni XXIII riprende il tema indirizzando a tutti gli uomini di buona volontà la grande enciclica Pacem in terris: se ne rilegga l’intestazione, il proemio, e tutta la V parte. E la Gaudium et spes esplicita il contenuto di questa esperienza morale che accomuna tutti gli uomini intorno al grande tema della pace. Si veda il n. 77, ma specialmente il n. 92. In esso la Chiesa si dichiara aperta al dialogo e alla cooperazione (che ne è lo scopo e la cercata conseguenza) con uomini di qualsiasi fede, con gli agnostici e gli atei, e paradossalmente anche con i propri persecutori: a tutti coloro che “praeclara animi humani bona colunt, eorum vero Auctorem nondum agnoscunt”. E conclude dicendo che Dio Padre, principio e fine di tutti, ci chiama tutti a essere fratelli nella ricerca della pace: siamo tutti chiamati ad una stessa vocazione (hac eadem vocatione vocati: si noti che eadem in latino indica con precisione una stessa identica vocazione, unica per ogni essere umano). …

In questo quadro le espressioni del tipo ‘laico’ o ‘laicista’ non hanno necessariamente il significato di contrapposizione al cristianesimo: esse possono indicare l’assunzione degli alti valori vissuti e insegnati da Gesù Cristo, anche senza conoscerne o riconoscerne l’Autore. Nello stesso modo può avere un senso l’espressione ‘cristianizzazione senza Dio’: ma l’espressione è paradossale in quanto indica l’assunzione di valori assoluti evitando di riconoscere un assoluto a cui agganciarli. Io credo che in molti casi sarebbe più appropriato il binomio ‘clericale-anticlericale’: in esso si cela non tanto il problema di Dio o di Gesù Cristo, quanto il problema di accettazione della chiesa nel suo modo – passato e presente – di presentare il Vangelo di Gesù Cristo attraverso le sue strutture, regole, pronunciamenti, devozioni, predicazione. Il rifiuto della chiesa per i motivi ora detti può portare, e di fatto ha portato, al rifiuto in blocco del suo annuncio su Dio e/o su Gesù Cristo (si rilegga il n. 19 di GS). Lo stesso Giovanni Paolo II ha chiesto perdono per gli errori del passato.

A partire almeno dal II millennio, il potere decisionale nella chiesa – in tutti i campi – si è sempre più accentrato nelle mani del clero (si pensi che nell’area ortodossa anche il clero contava e conta poco: quelli che contano veramente sono i monaci e i monasteri). E almeno dal XVI sec. ogni potere decisionale si è sempre più accentrato, passando dal clero e anche dai vescovi alla Santa Sede. Un papato monarchico non solo temporale ma anche spirituale (dottrinale, giuridico, liturgico etc.) da un lato era forse necessario per combattere eresie o errori pericolosi, dall’altro ha generato una reazione sia dottrinale che spirituale. Clericalismo e anticlericalismo, azione e reazione: difficile dire chi ha sparato per primo. Non posso discuterne qui, e nessuno ha una risposta certa. Ma non dobbiamo mai dimenticare che senza una comunità dei credenti in Cristo organizzata, pur con tutti i suoi limiti storici e i suoi errori, il Vangelo non ci sarebbe giunto. Ricordiamo il celebre detto, attribuito al grande regista Buñuel: “Io sono ateo, grazie a Dio”; e ricordiamo anche che il film più fedele al Vangelo – e forse fino ad oggi l’unico fedele – è dovuto a P.P.Pasolini. Ma qui si deve aprire un altro discorso. Mi si domanda “che ne è del pellegrino che viaggia con solo l’essenziale nella sua bisaccia?”. Rispondo che non può esistere tale pellegrino: non esiste e non può esistere un essere umano senza condizionamenti culturali e storici da un lato, e senza una sua fatica di ricerca dall’altro lato. La stessa chiesa apostolica per trasmetterci il Vangelo ci ha trasmesso quattro vangeli, ciascuno scritto con preoccupazioni, filosofie, sensibilità diverse. La trasmissione del Vangelo è poi avvenuta tutta all’interno della cultura e della filosofia occidentale, con arricchimenti spirituali grandiosi (si pensi a Dante) e con una forza propulsiva enorme in tutti i campi della riflessione umana, dalla scienza o all’arte in tutte le loro forme. Ma dopo il XV sec. è iniziato il contatto massiccio e costante con altre culture, e con esso la presa di coscienza che anch’esse offrivano nuove possibilità di comprensione e di vita evangelica; ma solo nel XX sec. tali possibilità sono state accolte e recepite ufficialmente con l’autorità di un Concilio Ecumenico (si rilegga il n. 44 di GS). E pertanto l’accentramento dell’autorità presso un’unica istanza tipicamente, e ancora, occidentale e tale da lasciare poco spazio a culture, tradizioni, filosofie, sensibilità storiche locali risulta ormai – teoricamente e praticamente – insostenibile per la credibilità della chiesa e anche del Vangelo. Se il cosiddetto ‘senso comune’ indica ciò che è socialmente ammesso e approvato nell’area occidentale, il suo controllo sulla vita religiosa è mortale per l’annuncio del Vangelo. … La giustizia di Dio è sempre la giustizia resa al povero, e cioè al più socialmente debole, all’emarginato, allo straniero e anche a chi viene socialmente giudicato un ‘peccatore’. Questa giustizia appare in tutta la vita e la parola del Signore: è la bontà misericordiosa del Padre che ci appare nel Figlio. E la GS dice, al n. 77, che la “vera et nobilissima pacis ratio” è rendere più umana la vita di ogni essere umano ovunque sulla faccia della terra. Così sia, almeno io spero per la mia chiesa.”

Cosa si fa laggiù?

Sto leggendo “Margherita Dolcevita” di Stefano Benni e mi sono imbattuto in una pagina che mi ha fatto sorridere dolcemente, pensando al mio passato da studente e al mio presente da insegnante. Durante una lezione di matematica la prof. si accorge che in fondo alla classe ci sono chiacchiere e risate. Parte da qui la citazione di quella pagina:

“- Cosa si fa laggiù all’ultimo banco, si ride?

ridere scuola.jpgHa pronunciato “si ride” con un tono come se dicesse “si spaccia droga”, “si fabbricano bombe”.

Allora mi sono alzata e ho detto:

– Effettivamente, signora professoressa, stavamo ridendo in quanto ritenevamo buffo ciò di cui parlavamo, ma non c’era niente di oggettivamente malsano o criminoso nel nostro atteggiamento, io capisco bene che se ridessimo ininterrottamente per tutto l’orario scolastico ciò farebbe sospettare una nostra disattenzione, o spregio, o beata cretinaggine, ma ritengo che un po’ di umorismo anche in questa austera sede faccia bene allo spirito e, di riflesso, alla gioia dell’apprendimento. In quanto al rapporto fra riso e matematica….

Non mi ha fatto finire. Ha ringhiato: ”smetti-o-ti-do-due”, e per fortuna è suonata la campanella.

Ma insomma, ho pensato, quasi tutti i film e la tivù e i giochi per ragazzi ci invitano a ridere e stare allegri, così poi vediamo le puntate successive e compriamo i gadget. Però a scuola non possiamo ridere un minuto.

La morale è: non dobbiamo ridere quando siamo contenti noi, ma quando sono contenti loro.”

Oggi e domani

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Una bella giornata in compagnia di cari amici. In questo scatto il loro bimbo, nella mente queste parole di Guccini: “che l’oggi restasse oggi senza domani o domani potesse tendere all’infinito”. Non come una condizione esistenziale, ma come desiderio momentaneo sì…