Lo ricordo spesso ai miei studenti. Un articolo lungo è leggibile (a meno che uno sia fortemente interessato all’argomento trattato) solo se ha un buon incipit o un’efficace chiusura. L’articolo di Lorenzo Fazzini, pubblicato su Avvenire, mi ha catturato per le primissime righe. Eccolo qui.
«Usare la parola ‘verità’ al singolare in un mondo polifonico e un po’ come pretendere di applaudire con una mano sola… Con una mano sola si possono dare pugni sul muso, ma non applaudire». Teorico della società liquida, Zygmunt Bauman, sociologo di fama mondiale, è sempre stato abbastanza alieno da riflessioni di carattere teologico. Ma alla veneranda età di 89 anni sa ancora sorprendere: in questi giorni Laterza manda in libreria il suo nuovo saggio Conversazioni su Dio e l’uomo (pp. 176, euro 15), dialogo con il teologo polacco Stanislaw Obirek.
Seppur agnostico convinto, nel libro Bauman spende parole positive per alcune esperienze di fede, ad esempio quella di Solidarnosc. Riporta un suo articolo comparso sul settimanale cattolico di Cracovia, molto vicino a Giovanni Paolo II, Tygodnik Powszechny, riferito proprio al movimento sindacale di Lech Walesa. Nel rievocare quella pagina gloriosa della storia, Bauman denuncia: «La nostra società di consumatori totalmente individualizzata è una fabbrica non di solidarietà, ma di reciproche sospettosità e concorrenza. Un prodotto collaterale, ma estremamente comune, di tale fabbrica è il deprezzamento della solidarietà umana che affonda le sue radici nell’atrofizzarsi della cura del bene comune e della qualità della società in cui la vita dell’individuo si svolge». Insomma, per recuperare la metafora iniziale, con una mano si può anche abbracciare l’altro, aiutarlo a sollevarsi dalla povertà e farlo rientrare nel novero degli umani.
Professor Bauman, nel suo nuovo libro lei indica diversi tipi di persone dogmatiche: quelle religiose, marxiste, i dogmatici della genetica, del consumismo, dell’informazione e del mercato. Quale il dogmatismo più pericoloso oggi?
«Potremmo aggiungere altri esempi. I dogmatismi sono vari e diversificati, ma non saprei dire qual è il più pericoloso. Essi hanno in comune il peccato originale di tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi sull’inalienabile umanità di quanti ci vivono accanto, per quanto diversi possano essere. Tutte le varietà di dogmatismi, in fin dei conti, sono il rifiuto o la non capacità di comunicare e intraprendere un dialogo: sono queste due le arti cruciali per sopravvivere in questo mondo segnato dalla diversificazione crescente e da una diaspora che fa nascere una crescente interdipendenza».
Cosa significa questa interdipendenza?
«Significa che non possiamo più separarci dagli altri, siano essi stranieri, credenti in altre fede rispetto alla nostra oppure sostenitori di modi diversi di vivere; essi non sono lontani o sull’altra sponda rispetto a un confine controllato da qualche guardiano, ma si trovano in mezzo a noi, li incontriamo ogni giorno sul lavoro, nelle scuole frequentate dai nostri figli, nelle strade dove viviamo. La diversità umana ci è accanto, anche nei posti più vicini. Imparare e praticare l’arte del dialogo dovrebbe essere una delle scelte da inserire tra i compiti più urgenti con i quali dobbiamo confrontarci. L’alternativa al prenderci in carico gli uni gli altri è spararci a vicenda!».
Lei, non credente agnostico, è spesso invitato in ambienti cattolici, ad esempio di recente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Un esempio di quel dialogo autentico che Francesco chiede, un confronto tra persone che la pensano in maniera nettamente diversa. Come ha reagito a questo invito di Francesco?
«Un dialogo genuino e degno di questo nome non consiste nel parlare solo con persone con cui ci piace discutere, negando il diritto di intervenire e rifiutandoci di ascoltare. Il dialogo consiste nell’aprirci, senza nessuna preclusione o pregiudizio, al fatto della diversità umana che possiede molte facce; esso si esplica nel cercare di capire le ragioni che stanno dietro all’attaccamento di qualcuno a determinati argomenti; nell’accettare di agire non subito come un maestro ma come un alunno; nell’assumere dall’inizio un atteggiamento cooperativo e non combattivo, cercando di raggiungere alcuni benefici reciproci in saggezza ed esperienza invece di dividere i partecipanti tra vincitori o sconfitti. Jorge Mario Bergoglio, anche prima di diventare papa, è stato per noi un luminoso esempio dell’arte di un siffatto dialogo genuino. Egli parla e ha parlato con l’intenzione di una comprensione reciproca e della condivisione della conoscenza dell’altro, e non per la volontà di far valere la propria pre-designata e indiscutibile superiorità».
«Perché ci sia vero dialogo, dobbiamo mettere in conto la sconfitta», ha ammesso lei stesso. Nella sua carriera ha vissuto una ‘sconfitta’ del suo pensiero?
«Questo è ciò che deriva da quanto dicevo prima: il dialogo è destinato a diventare una serie di monologhi – un esercizio che significa parlare accanto a qualcuno invece che con qualcuno – fino a quando non ci ricordiamo che errare humanum est. E quindi esser pronti a mettersi in discussione perché ci vengono posti di fronte delle posizioni migliori delle nostre. Io devo essere preparato a confessare la mia sconfitta, ad ammettere che mi sbagliavo e a ringraziare quanti mi hanno portato fuori dall’errore. Questo consiste in qualcosa di difficile: la maggior parte delle persone preferisce essere nel giusto piuttosto che nell’errore. Esser trovati in errore ci fa percepire un soffio doloroso sulla nostra autostima. Ma non si apprende in toto l’arte del dialogo se non vengono praticate le sue condizioni più difficili. Guardando in maniera retrospettiva alla mia storia, posso dire che l’ammissione di alcuni miei errori di giudizio, e la loro sincera ammissione, sono arrivati troppo tardi rispetto a quello che avrei voluto, sebbene speravo che nel corso della mia lunga vita la distanza di tempo tra l’aver commesso un errore e la sua ammissione si potesse ridurre».
Nel suo dialogo con Stanislaw Obirek, lei suggerisce un nuovo modo di dialogare, ovvero attuare il “polilogo” tra posizioni diverse.
«È l’estensione ovvia di monologo e di dialogo, ovvero di un confronto che sia più largo di due soli punti di vista: si tratta di un evento che avviene spessissimo in ogni città moderna o nelle strade sotto casa nostra. In realtà ogni discussione pubblica è per definizione un “polilogo”. Il mondo in cui noi viviamo è tutt’altro che digitale. Potremmo dire che è un mondo analogico, con molte divisioni che si incrociano, alcune semplicemente giustapposte, altre che si sovrappongono o che emergono in maniera leggera. Un vero dibattito pubblico ha bisogno di prendere in considerazione il fatto di aiutare a cristallizzare i punti di contesa e instaurare le potenziali teste di ponte fra la varietà di punti di punti di vista e di opinioni».
«La verità è un incontro». Papa Francesco ha ricordato più volte questa sua definizione. Lei concorda?
«Sì. Le verità, così come ogni conoscenza e tipo di comprensione, sono sempre e nient’altro che discorsive; gli incontri umani sono il loro luogo di nascita e il loro habitat naturale. Essi sorgono e vivono, nel corso della loro durata ed esistenza, all’interno della comunicazione interumana. Noi umani siamo per nostra natura sociali, interagiamo, comunichiamo con altri esseri umani; nessuno può reclamare una verità come sua propria creazione o proprietà. Essa viene formata e si sostiene attraverso continui negoziati, tramite la solidarietà e l’interazione propria degli umani. La verità non ha altro posto in cui abitare. Se dimentichiamo questo fatto, avviene quello per cui ammoniva Martin Buber, ovvero l’incontro si trasforma in un incontro mancato, inefficace e alla fin fine privo di scopo».
Gemme n° 34
La gemma che ha portato M. (classe terza) è la parte finale del suo saggio di danza. “Ballare per me è tutto, è la cosa più importante. Guardi prof, mi tremano le mani solo a pensarci. E’ ciò che mi fa stare bene con me stesso, che mi rende orgoglioso di ciò che sono e rende orgogliosi anche i miei genitori”.
Mi è venuta in mente la lezione di ballo liscio di ieri sera, in cui sono impazzito per capire come funziona il giro a sinistra della mazurka (sigh!). Non è la mia passione il ballo, almeno per ora, però è una cosa che mi piace fare insieme a mia moglie e per questo è importante. Però adoro vedere chi ci mette l’amore e la passione nelle cose che fa, e si emoziona parlando di esse e si fa trasportare come nel video qui sotto…
Gemme n° 33
“Ho scelto la scena finale di un grande film per tre motivi:
- spesso gli uomini costruiscono prima la scatola del contenuto. Andrebbe fatto il contrario
- Si racconta di una grande amicizia, e penso che questo sia l’unico legame che resti vivo anche dopo morte
- Gatsby ha cercato di seguire un proprio sogno, ne ha fatto una ragione di vita, anche se, come dice la sequenza l’aveva già superato perché lui valeva più del suo stesso sogno”
Queste sono state le parole di H. (classe seconda) ad accompagnare la sua gemma. A vedere la scena iniziale del video con quella solitudine agghiacciante mi è venuto in mente questa struggente canzone di “Antony and the Johnsons” che inizia così: “Spero che ci sia qualcuno che si prenderà cura di me quando morirò, me ne andrò? Spero che ci sia qualcuno che libererà il mio cuore, che mi stringa gentilmente quando sono stanco”. I brividi, ogni volta che la sento.