Sono allergico alle graminacee, alle composite e alle betullacee. Sono allergico a chi giudica, a chi crede di aver sempre ragione, a chi pensa che la via percorribile sia una sola, che guarda caso è la sua. Sono allergico a chi si ritiene indispensabile. Penso che le cose non siano solo nere o bianche, che ci siano le sfumature e i colori, che ci sia spazio, che le strade siano molte e con esse le curve e gli incroci e che ognuno sia libero di cercare, scoprire e percorrere le sue. Credo nell’inedito, nel potenziale di tutto quanto non è stato ancora espresso, nella possibilità di potermi meravigliare, nello stupore, nella strada non ancora battuta, convinto che anche lì ci sia il senso di cosa ancora non so.
Ciò a cui tendiamo
“Si chiama amore ogni superiorità, ogni capacità di comprensione, ogni capacità di sorridere nel dolore. Amore per noi stessi e per il nostro destino, affettuosa adesione a ciò che l’Imperscrutabile vuole fare di noi anche quando non siamo ancora in grado di vederlo e di comprenderlo – questo è ciò a cui tendiamo.” (Hermann Hesse, Sull’amore)
Innamorato della saggezza
Un post breve ma che può aprire un mare di riflessioni e discussioni; l’ho letto ieri sul blog di un amico blogger che ho conosciuto prima nella realtà e poi nella rete e che ringrazio per i suoi spunti sempre interessanti. Lo riporto tale e quale, con pause, spazi, grassetti, inclinati, asterischi.
“non c’è bisogno di torture per far confessare il filosofo, l’ammissione della colpa la porta stampata nel suo nome stesso.
lo inventò Platone, il nome filosofo, e significa: innamorato della saggezza, si dice.
ma, se preferite, dite piuttosto innamorato del saggio (di Socrate).
* * *
mica si è detto aletheiofilo Platone, non era innamorato della verità.
questa, nella celebre frase di un suo seguace, amicus Plato, sed magis amica veritas, è relegata al ruolo di amica, non è l’oggetto del desiderio.
* * *
e questa è la confessione del filosofo: la verità è per lui un supporto della saggezza, non il fine della sua ricerca.”
La dura storia di Shin
“Shin Dong-hyuk è l’unica persona nata, cresciuta e poi riuscita a fuggire da un campo di internamento della Corea del Nord. Come tutti i prigionieri, conosceva bene le regole del Campo 14: «Ogni testimone che non denunci un tentativo di fuga sarà ucciso all’istante». Per questo, quando una notte sentì la madre e il fratello parlare di un piano per scappare, il suo istinto di sopravvivenza gli disse che doveva salvarsi. Tradire i suoi familiari. Fare la spia. Era il suo dovere del resto, quello che gli avevano insegnato fin dalla nascita. E forse avrebbe potuto pure guadagnarci qualcosa. Una razione in più di cibo, magari. Le cose andarono diversamente. Le guardie pensarono che avesse anche lui intenzione di fuggire. Lo portarono in cella e lì lo torturano per mesi. «A quel tempo odiavo mia madre per avermi messo al mondo in un campo di tortura. Oggi invece, se fosse ancora viva, le chiederei perdono».”
Ho trovato sul sito del Corriere della Sera un reportage sulla vicenda di Shin (vi è anche un breve video della presentazione del libro di Blaine Harden che ne racconta la storia). Non amo mettere solo il link nei miei post. D’altra parte l’articolo era troppo lungo. Ne ho fatto un pdf da poter scaricare. Le parole sono dure, come anche un disegno e una foto in particolare. Mi riprometto di leggere quanto prima il libro “Fuga dal campo 14”. Ecco il file
Corea
Sussurri di paura
Ieri mattina ho presentato, al Cervignano Film Festival, il film “Orizzonti di Gloria” di Stanley Kubrick, opera del 1957. Il film è ricchissimo e vi sono mille ottimi motivi per vederlo. Uno dei dialoghi più interessanti (e sottovalutati) dura pochissimo: poco più di un minuto di sussurri e bisbigli tra due soldati nella notte che precede un importante attacco. Afferma uno dei due in apertura: “Io non ho paura di morire domani, ho paura che mi uccidano”. Discutono su come sia preferibile morire, se colpiti da una mitragliatrice o da una baionetta, con la conclusione che la maggior parte degli uomini ha più paura del dolore che di morire. “Se è la morte che veramente ti spaventa, perché ti preoccupi di che cosa ti uccide?”. “Sei troppo profondo per me, professore. So solo che nessuno vuole morire”.
Ne potremmo parlare per una lezione intera.
Buon 5775!
Buon 5775! Buon anno palindromo!
Dal sito della Comunità ebraica di Bologna prendo le informazioni per capire la festa di Rosh ha-shanah. A chi lo desidera consiglio anche un articolo de Linkiesta con relative slide e quello de Il Post.
“Rosh ha-shanah è la festività che celebra il capodanno ebraico. E’ chiamata anche Yom teru’ah, “giorno del suono”, Yom ha-din, “giorno del giudizio” e Yom ha-zikkaron, “giorno del ricordo”.
La ricorrenza non è legata ad alcun fatto storico relativo al popolo d’Israele, ma vuol ricordare la creazione del mondo; è, in altre parole, il giorno del “compleanno” della Terra. Una data quindi di importanza universale in quanto, riallacciandosi al giorno in cui furono creati il primo uomo e la prima donna, mette in luce che l’intera umanità, discendente tutta dalla prima coppia, gode di pari diritti e dignità in quanto ogni uomo è figlio di Dio.
Nella Torah, non è usato il termine Rosh ha-shanah, bensì quello di Yom teru’ah, “giorno del suono” (dello shofar): nella sinagoga, infatti, il giorno di Rosh ha-shanah lo shofar viene ripetutamente suonato perché, secondo una tradizione, l’ultimo giorno della creazione Dio manifestò la sua gioia e la sua vicinanza all’uomo creato “a immagine divina”, proprio con il suono dello shofar… Si tratta di un corno d’animale (normalmente di capro, a memoria dell’animale sacrificato da Abramo al posto di Isacco) adibito a strumento musicale, che ha la sua parte in molti momenti di riti, soprattutto a Rosh ha-shanah e a Kippur. Il suono dello shofar è un suono ricorrente in tutta la storia ebraica e rappresenta la speranza e la fiducia. Al suono dello shofar, che echeggiava solennemente sul monte Sinai, furono consegnati a Mosè il Decalogo e la Torah. Quando Mosè salì la seconda volta sul monte Sinai per ricevere nuovamente le tavole che aveva spezzato alla vista del vitello d’oro, diede ordine che ogni giorno venisse suonato lo shofar perché il suo suono ammonitore impedisse al popolo di lasciarsi nuovamente fuorviare dal culto pagano. Lo shofar viene oggi suonato nella sinagoga in tre modi diversi: teru’ah (suono staccato e martellante), shevarim (tre brevi emissioni di suoni), teqi’ah (un lungo suono ininterrotto).
… Al suono dello shofar il Signore annuncerà la completa redenzione del suo popolo: “in quel giorno verrà suonato un grande shofar e coloro che erano dispersi nel paese di Assiria, e quelli che erano dispersi nel paese d’Egitto, verranno e si prosterneranno sul monte santo, a Gerusalemme” (Is 27, 13). E’ in base a questa profezia che nella ‘amidah, preghiera che recita tre volte al giorno, si chiede a Dio: “Suona il tuo grande shofar per annunciare la nostra liberazione, e riuniscici dai quattro angoli della terra nella nostra terra”. Secondo alcune tradizioni lo shofar rappresenta inoltre la fiducia nella risurrezione dei morti che sarà anch’essa accompagnata dal suono di questo strumento. E infine anche la redenzione dell’intera umanità, l’Era messianica, secondo la tradizione ebraica sarà annunciata dal suono dello Shofar (cf Is. 18, 3).
Nel pomeriggio di Rosh ha-shanah è uso recarsi presso un fiume o al mare, o comunque in un luogo ove ci sia dell’acqua corrente, per gettarvi simbolicamente qualcosa di vecchio, recitando i versi del profeta Michea: “Perché Tu, Dio, getterai nel mare più profondo le nostre colpe” (Mic 7, 19).
Tale cerimonia si chiama Tashlikh. Ovviamente, come tutti gli usi entrati nella tradizione di ogni popolo, tale cerimonia non deve essere considerata una specie di superstiziosa liberazione da ogni peccato, ma deve essere interpretata nel suo significato simbolico di impegno personale a rigettare ogni cattivo comportamento.
La sera di Rosh ha-shanah la tavola ha un aspetto particolarmente festoso e colorato. Dopo la consacrazione della solenne ricorrenza con il Kiddush, la challah, il pane preparato appositamente per la festa, oltre che nel sale viene intinta nel miele perché “ci conceda il Signore un anno dolce e piacevole”. Inoltre la sua forma non è allungata, ma rotonda, perché l’anno sia privo di spigoli. Si prepara poi una fruttiera piena di mele e di melograni: le mele vengono intinte nel miele e mangiate dopo il pane, quasi da raddoppiare l’augurio di un anno dolce. In quanto ai melograni, essi non solo rappresentano una primizia di stagione (e ciò è di buon auspicio per l’anno nuovo e permette di aggiungere alla benedizione di ringraziamento a Dio quella delle primizie), ma vengono divisi tra i commensali, i quali si augurano che durante il nuovo anno le buone azioni si moltiplichino come i semi di un melograno. In molte comunità si usa terminare la cena con un dolce fatto col miele. I vari piatti che sono mangiati durante la cena di Rosh ha-shanah sono generalmente composti da: fichi, mela, zucca, finocchio, fagiolini, porri, bietola, datteri, melograno, testa d’agnello e di pesce.
A Rosh ha-shanah, come anche a Kippur, in sinagoga domina il colore bianco. Bianca è la tenda che copre il luogo ove sono contenuti i rotoli della Torah, bianche sono le “vesti” che coprono i rotoli stessi. Anche coloro che partecipano alla funzione usano indossare un indumento bianco o aggiungere qualche accessorio bianco agli abiti di festa, in quanto il bianco è simbolo di purezza.
Numerosi sono gli inni, i salmi e i canti che si recitano in sinagoga in occasione di Rosh ha-shanah.”
Dalla terra alla testa
Pura follia
Gemme n° 0
Apro una nuova sezione nel blog: GEMME. Ho chiesto ai miei studenti di pensare a qualcosa (una canzone, una scena di un film, una pagina di un libro, un quadro, una foto, un oggetto…) per loro significativo e che desiderano far conoscere ai compagni come fosse una gemma preziosa. Il pomeriggio, poi, metterò qui sul blog i loro spunti. Intanto metto una mia gemma, quella che presenterò loro questa settimana.
In sottofondo “I giorni migliori”, Tiromancino.
Ci sono nell’aria delle cose che dentro di noi conosciamo a memoria perché sono quelle che sentiamo più nostre, più personali, che sentiamo veramente come parte di noi e che non possiamo condividere magari per paura o solo proprio perché desideriamo che continuino a restare nostre. Mi viene da pensare ai sogni, alle speranze, ma anche al senso che possono avere per noi una determinata foto, una certa canzone, una stella alpina chiusa tra le pagine di un libro…
Queste cose, che poi formano la nostra identità, non vanno mai rinnegate, soprattutto nei momenti difficili, in quei momenti in cui niente va per il verso giusto, in cui resta ben poco a cui aggrapparsi, in cui sembra proprio di essere tagliati fuori, di essere rimasti fermi mentre tutti continuano a correre felici verso la loro meta “in continuo movimento”. E’ proprio questo il momento in cui difendere le fragili cose che sentiamo nel cuore. Come? Facendo volare “in alto i nostri pensieri più limpidi”.
In questa canzone Federico Zampaglione parla di speranza, di ideali, di valori ma anche e soprattutto delle piccole cose che poi rendono concreti la speranza, gli ideali, i valori. Per una persona che è finita a terra, che si è ritrovata precipitata in una situazione difficile, è forse più facile pensare al futuro, cercare di rimettersi in piedi, riscoprendo l’interesse per le piccole cose. Non penso che sia parlando dell’amore o della fiducia che mi torno ad innamorare, ma ricevendo o dando una carezza, uno sguardo, un bacio, un abbraccio… “perché sono le sfumature a dare vita ai colori e a farci tornare in mente le cose più pure dei giorni migliori”. Si potrebbe allora pensare che si tratti di una canzone che parla di nostalgia, di un passato comunque migliore del presente che stiamo vivendo o del futuro che potrebbe arrivare. Ma c’è l’ultimo verso a venirci in soccorso, che ci invita a non cercare facili scorciatoie, ma a basarci sulla strada in cui crediamo e sul coraggio di percorrerla: “Non ci sono percorsi più brevi da cercare, c’è la strada in cui credi e il coraggio di andare”. E la forza di mettersi in cammino sulla strada è quella che emerge in tutti i brani di chiamata che troviamo nella Bibbia, da quelli dei profeti a quelli dei discepoli, e tutti richiedono un movimento, di piedi e di cuore. Cito solo l’inizio del Vangelo di Marco: “Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui”.
E il discorso si può estendere a tutti i viaggiatori, da Siddharta a Ulisse, da Frodo a Marco Polo, da Gilgamesh a Terzani.
Caos e nulla
Gioco a pallavolo. Ieri sera abbiamo fatto un buon allenamento, intenso, vivace. Durante una pausa-acqua Luca mi fa “Bell’allenamento, intenso, c’è voglia”. Gli rimando: “Sì, hai ragione, si cerca di tirar su ogni pallone. Magari un po’ caotico, però c’è tanta volontà.” Penso un attimo e aggiungo: “Meglio così: il caos si può ordinare, il nulla come lo organizzi?”. Luca: “Carino ‘sto concetto, se lo metti su fb sembra un aforisma”. Simone: “Fatta, domani lo metto come citazione di un anonimo. Lo sistemo e vediamo cosa succede.”
E fu così che si arrivò a “È possibile ordinare il caos, assai più difficile organizzare il nulla”. Gli sport di squadra, la pallavolo… son robe pericolose!
Nuovo anno
Pezzi
Avverto che c’è il bisogno di un post di alleggerimento (almeno in apparenza…) con un brevissimo racconto.
«“Una volta il diavolo andò a passeggio con un amico. Videro un uomo davanti a loro che si chinava e raccoglieva qualcosa dalla strada.
“Che cos’ha trovato quell’uomo?” chiese l’amico.
“Un pezzo di verità” rispose il diavolo.
“E non ti dispiace?” chiese l’amico.
“No” disse il diavolo. “Gli permetterò di farne un credo religioso.”»
(A. De Mello, “Il canto degli uccelli”)
Quei cristiani iracheni più orientali e meno occidentali
Per iniziare a cercare di informarci un po’ sull’argomento “Isis” riporto un articolo molto interessante di Allan Kaval per Orient XXI, ripreso in Italia da Osservatorio Iraq, la cui redazione ha curato la traduzione. Molto probabilmente lo leggeremo in classe.
“La situazione dei cristiani iracheni dopo l’offensiva dello Stato Islamico ha suscitato un ampio slancio di solidarietà da parte dei paesi occidentali. Sorgono però alcuni interrogativi: perché una reazione così tardiva se le comunità extra-islamiche sono in pericolo dal momento dell’invasione statunitense?
Perché i paesi occidentali continuano a proporre come soluzione l’esilio e non tengono conto delle richieste dei rappresentanti cristiani che vogliono restare in Iraq?
Dopo la presa della città di Mosul da parte dei combattenti dello Stato Islamico (Isis) in giugno e più ancora dopo l’offensiva jihadista verso le posizioni curde – tradotta ad inizio agosto nella conquista delle località cristiane della piana di Ninive – il cristianesimo iracheno, già minacciato dal caos che regna nel paese dal 2003, sembra ormai in via d’estinzione.
I cristiani di Mosul sono stati costretti dai nuovi padroni della città a maggioranza araba e sunnita a lasciare le proprie case – pena la morte – se non si fossero convertiti all’Islam o se si fossero rifiutati di pagare un’imposta vessatoria. La loro sorte ha sconvolto l’opinione pubblica occidentale e ha contribuito a riportare temporaneamente i cristiani iracheni sul fronte della scena internazionale.
Tuttavia, sebbene lodevoli in un contesto d’urgenza, le dichiarazioni formulate da certi governi hanno dato adito a qualche perplessità. Parigi, ad esempio, si è subito dichiarata pronta ad accogliere tutte le domande di asilo formulate dai rifugiati cristiani iracheni. Misure, giustificate da una ipotetica solidarietà confessionale, che contribuiscono però a normalizzare l’idea secondo cui la presenza di minoranze religiose in Iraq sarebbe un’anomalia dalle conseguenze funeste e che il posto di queste popolazioni non sarebbe nel loro paese di origine bensì in Europa o in Occidente, vicino ai “loro simili”.
Simili propositi sono ancor più pericolosi se consideriamo che sposano perfettamente le tesi di alcuni ideologi dello Stato islamico. L’obiettivo dichiarato dall’Isis è proprio quello di mettere in atto, nelle zone passate sotto il suo controllo, un ordine totalitario che faccia tabula rasa delle molteplici eredità della regione, cancellando le tracce della sua storia complessa e trasformandola in una nuova entità spurgata di ogni eterogeneità confessionale.
Ancora una volta, dunque, i cristiani iracheni sembrano dover pagare il prezzo di un’associazione – in parte imposta – all’Occidente. Fin dall’espansione dell’influenza europea in quello che era l’Impero Ottomano, nel XIX secolo, queste comunità – strumentalizzate e ripetutamente tradite dalle potenze coloniali britanniche, francesi e russe – sono state costrette, agli occhi dei loro vicini musulmani e delle autorità della regione, in una posizione che non hanno mai veramente scelto: quella di testa di ponte dell’Occidente in terra d’Islam, di quinta colonna nell’orto del nemico. La loro storia invece, indissociabile dal resto del passato mediorientale, si è sviluppata ben al di fuori delle esperienze e dell’influenza del cristianesimo latino e di quello greco-ortodosso.
Una Chiesa particolare
Nei primi secoli dell’era cristiana, i cristiani d’Assiria (Alto Tigri) si erano ritrovati sotto il dominio della Persia achemenide e avevano cercato di distinguersi dalla Chiesa di Antiochia, situata nell’area bizantina, per essere accettati e tollerati dalla dinastia iranica. Da allora hanno seguito una traiettoria storica e teologica distinta e parallela a quella degli altri mondi cristiani, posti sotto il controllo di Roma e Costantinopoli. Per tutti coloro che si opponevano al dogma bizantino – come la Chiesa nestoriana – la Persia zoroastriana e i suoi annessi mesopotamici rappresentavano infatti un rifugio sicuro contro le persecuzioni del basileus, imperatore di Costantinopoli. Né latine né greche ma di lingua siriaca e di tradizione semita, le Chiese orientali cominciano a sviluppare una loro zona di influenza. Indipendenti dai grandi centri cristiani del vecchio mondo, conoscono una diffusione particolare – ben illustrata dall’esempio della Chiesa nestoriana – che si riversa lungo le vie di comunicazione dell’Impero persiano per raggiungere l’Asia centrale e poi i confini della Cina e dell’India, ben al di là dell’orbita di Roma e Costantinopoli.
La situazione delle comunità cristiane della Mezzaluna fertile non cambia di molto con la conquista musulmana della regione nel VII secolo. Gli imperi arabi del Vicino Oriente rivestono, di fronte a Bisanzio, una posizione analoga a quella dei persiani sconfitti. Le relazioni dei cristiani con le nuove autorità della regione sono floride, tanto che i primi secoli della dominazione islamica coincidono addirittura con un periodo di espansione del cristianesimo siriaco. Numerose chiese e monasteri vengono così costruiti nelle pianure settentrionali della Mesopotamia e l’élite cristiana si avvicina al potere musulmano nelle grandi città dove le minoranze costituiscono una parte importante della popolazione (in particolare a Baghdad sotto il Califfato abbaside – 750-1258 – che costituisce l’età d’oro dell’Islam medievale).
Il peso delle crociate
Sono invece le Crociate, a partire dall’XI secolo, che iniziano a scuotere le relazioni tra le comunità cristiane e gli Stati musulmani in Medioriente. Il collegamento implicito tra Occidente cristiano e cristiani d’Oriente innesca conseguenze funeste che portano a confondere l’esistenza di quest’ultimi con gli interessi delle potenze straniere, i cui strascichi continueranno a lungo a farsi sentire. Sebbene, contrariamente ad altre minoranze della regione, le chiese di tradizione siriaca non si siano schierate al fianco dei crociati e per questo siano state risparmiate dalla reazione delle autorità islamiche, i membri di queste comunità iniziarono ad essere guardati con diffidenza e scetticismo in un contesto generale di confronto geopolitico e religioso.
Le Crociate avviarono così il declino della realtà siriaca, che sarà quasi cancellata dalle invasioni mongole del XIII secolo e che riuscirà a conservarsi solo nelle montagne del Kurdistan e in qualche bastione dell’antica Assiria, come ad esempio l’attuale provincia di Mosul. E’ proprio in questa regione che la cristianità siriaca ha iniziato il suo processo di riavvicinamento alla cristianità europea. Nel 1553 viene fondata la Chiesa caldea, legata al papato romano, che in poco tempo diventerà maggioritaria nella Mesopotamia settentrionale. Più tardi, all’interno dell’Impero ottomano, dinamiche simili saranno alla base dei principali eventi storici che segnano la regione. Durante la metà del XIX secolo l’Impero retrocede dal territorio balcanico e cerca di ristrutturarsi attorno all’identità islamica. Intanto, all’interno delle frontiere, le potenze europee e la Russia coltivano le loro alleanze con le minoranze cristiane arrivando perfino a contestare la sovranità ottomana su una parte dei suoi sudditi. Al contatto con l’Occidente – e dunque con la “modernità” – queste comunità scoprono le idee dei Lumi e poi il nazionalismo. Se i cristiani orientali non si espongono in prima linea, gli armeni – che beneficiano di legami strutturati con l’Europa – ne saranno considerevolmente influenzati.
Un genocidio dimenticato
La loro rinascita nazionale contribuisce di rimbalzo alla formazione di un nazionalismo cristiano di cultura siriaca che pretende di trascendere le divergenze ecclesiastiche per far emergere una nuova nazione assiriana. Fondata esclusivamente su un criterio religioso, questa nuova nazione si inventa un substrato etnico basato sull’eredità mitica delle antiche civiltà mesopotamiche che l’Europa sembra riscoprire proprio in quel momento. Di conseguenza i cristiani d’oriente nel loro insieme sono sempre più associati dalle autorità ottomane agli interessi dei loro nuovi protettori francesi, britannici e russi. Lo scoppio della Prima guerra mondiale, che oppone la Sublime Porta a queste tre potenze, farà poi dei cristiani siriaci dei veri e propri nemici dell’interno. Nel 1915 sono vittime – come gli armeni – di un vero e proprio genocidio che conta circa 300 mila morti. Perpetrato essenzialmente nel territorio dell’attuale Turchia, questo massacro costringe i sopravvissuti a fuggire verso quello che diventerà l’Iraq, occupato dai britannici, dove raggiungono i propri correligionari. Qui sono di nuovo strumentalizzati dal Regno Unito che li utilizza, nel quadro del suo mandato sul territorio iracheno, per soffocare le rivolte curde e sciite.
Nel 1933, dopo l’indipendenza del paese, saranno oggetto di nuove carneficine poiché considerati collaboratori di una potenza occupante, la quale tuttavia – in seguito al ritiro – sembra abbandonare le comunità siriache alla loro triste sorte.
La fine della Seconda guerra mondiale inaugura invece un periodo più favorevole per i cristiani d’Iraq. Con il trionfo del nazionalismo arabo, la loro appartenenza religiosa non sembra porre grandi problemi anche se si ritrovano costretti a proclamare la loro arabicità e a rinunciare alla propria distinta identità culturale come pure all’utilizzo della lingua siriaca. Tale situazione non impedisce ad alcuni membri di integrare i circoli esclusivi del potere, come nel caso di Tarek Aziz, quadro importante del regime di Saddam Hussein.
Allo stesso tempo, per tutto il corso del XX secolo, i cristiani siriaci animano una fitta diaspora verso i paesi occidentali – che ne facilitano l’emigrazione e l’accoglienza – anche a causa delle crisi ripetute attraversate dal paese dopo gli anni ’70.
La fine dell’ordine pubblico dopo il 2003
Un colpo decisivo per queste comunità è stato l’intervento americano in Iraq del 2003, con l’arrivo nel paese di militanti islamisti che scelgono come bersagli privilegiati uomini e luoghi di culto per ragioni ideologiche. L’affossamento dell’ordine pubblico ha permesso a gruppi mafiosi di attaccarsi impunemente ai cristiani siriaci, sprovvisti di milizie di autodifesa e le cui connessioni con l’estero sono percepite come garanzie di riscatti redditizi. Così Bassora, Bagdad e Mosul si sono progressivamente svuotate dei loro abitanti cristiani. Chi non ha la possibilità di scappare dal paese si rifugia nel Kurdistan iracheno, dove le autorità locali garantiscono la sicurezza e favoriscono l’accoglienza permettendo il reinsediamento nelle antiche zone di popolamento siriaco.
Questa sorta di status quo è stato ribaltato dall’avanzata dello Stato Islamico nel 2014. L’offensiva jihadista, che le forze curde non sono riuscite a contenere, ha incrinato la fiducia di una parte degli ultimi cristiani d’Iraq verso il governo di Erbil. L’aiuto militare accordato al Kurdistan iracheno dagli Stati Uniti e da alcune potenze europee ha permesso sì la controffensiva, scartando l’ipotesi di una conquista di queste regioni da parte delle truppe dell’Isis, ma il territorio del Kurdistan ha comunque perso – simbolicamente – il suo status di santuario inattaccabile.
E’ quindi l’esilio definitivo e senza ritorno che appare ad alcuni come l’unica soluzione per i cristiani d’Iraq. Se quelli insediati da tempo nelle città curde sono meno interessati, le decine di migliaia di persone che sono scappate dalle località cristiane delle pianure di Mosul – rimaste in mano ai jihadisti – non pensano di rientrate nelle loro case, desiderosi piuttosto di dimenticare un Iraq che di loro non ne vuole più sapere. Di fronte a questo fenomeno, la risposta più chiara che hanno offerto gli Stati occidentali è stata quella di incoraggiare l’esilio. Le dichiarazioni rilasciate in questo senso dal governo francese, ad esempio, presentano notevoli problemi. In primis hanno fatto nascere in migliaia di persone speranze che non potranno mai essere soddisfatte, e inoltre contribuiscono a rafforzare l’idea che l’esilio sarebbe l’unica vera via d’uscita, scartando a priori l’ipotesi che i cristiani d’Oriente possano continuare a vivere dove hanno sempre vissuto. Se le pianure di Ninive fossero liberate, potrebbero invece diventare oggetto di una protezione internazionale in grado di garantire l’autonomia del territorio e di rafforzarne le istituzioni e le forze di sicurezza. I progetti di regioni cristiane autonome in Iraq esistono da diversi anni e la loro realizzazione appare oggi prioritaria per riuscire ad evitare la scomparsa di queste popolazioni dalla loro area di insediamento secolare. Tuttavia, sostenere questo obiettivo implica per le potenze occidentali l’abbandono di una visione esclusivamente vittimistica e un reale trasferimento di mezzi a beneficio delle comunità siriache irachene.”
L’uso di internet
Come utilizzo il web? In un articolo del 13 giugno su Sette, Roberto Cotroneo scriveva:
“Gli ultimi dati che possediamo sulle tendenze di internet pubblicate da KPCB (Kleiner Perkins Caufield & Byers) ci dicono che gli utenti che accedono a Coursera sono per il 42 per cento del Sud America, Africa e Asia. Coursera è una piattaforma statunitense, ideata dall’Università di Standford che offre corsi universitari gratuiti. Si insegnano: discipline umanistiche, scienze sociali, economia, medicina, biologia, matematica e informatica in più di dodici lingue del mondo. E anche Duolingo, una piattaforma mondiale che offre corsi di lingua, ha il 45 per cento di accessi dai paesi del terzo mondo.
Così mentre la vecchia Europa e il Nord America si ubriacano di selfie e di chiacchiere sui social, i paesi più poveri utilizzano la rete, e quel che possono della rete per imparare l’inglese o lo spagnolo, o per studiare attraverso piattaforme personalizzate. E lo fanno attraverso reti mobili, e spesso attraverso tablet o smartphone. Per motivi ovvi. Se questa tendenza continuerà, e non c’è motivo di pensare il contrario, accadrà qualcosa di molto interessante. Accadrà che internet sarà certamente il futuro per qualche miliardo di persone, e sarà vecchio e nevrotico per tutti quelli che non avendo bisogno di accedere a saperi e informazioni vere utilizzeranno i propri saperi e le proprie informazioni come una vetrina narcisistica. Mentre in Africa studiano e possono finalmente imparare a basso prezzo e con un’efficacia impensabile, in Europa e nel Nord America ci chiediamo quanti danni può fare internet, e come fermare questa ossessione per il web, per i social e per l’essere connessi 24 ore su 24.
…
In pratica il web, lo stare connessi, nei paesi emergenti e nei paesi del terzo mondo è novità e futuro, mentre da noi è un modo ulteriore per consolidare le vecchie nevrosi e la voglia di esibizionismo. E se da noi gli psicologi e i clinici parlano nei loro convegni di una nuova forma di narcisismo patologico, conseguenza dei social che stanno demolendo e dissolvendo le identità, altrove il web diventa proprio strumento di identità e di consapevolezze future, e ha poco a che fare con le solitudini telematiche.”
Le certezze di sfondo di Habermas
Politica, Europa, spinte separatiste, Merkel, religione, filosofia: questi sono, sommariamente, gli argomenti toccati da Jürgen Habermas in questa intervista pubblicata in giugno sulla “Frankfurter Rundschau” in occasione dell’85mo compleanno del filosofo. L’ho trovata su Reset-DoC, pubblicata il 22 luglio. Non è breve e non è da leggere alla leggera. Per appassionati, dritta nella categoria “Pensatoio”.
M.S. Signor Habermas, la prossima settimana lei compirà 85 anni. Che cosa significa per lei – alla sua età – “vivere il presente”? Quale filo la collega al mondo dei suoi figli e nipoti?
J.H. Sta pensando a una qualche “passione per il presente”? Sì, seguo sempre con passione gli sviluppi della politica. D’altro canto, veder schiacciare sul passato della storia la propria generazione fa un po’ l’effetto di uno “scuoiamento”. Ieri ho ricevuto la prima copia di una mia biografia[1] scritta da Stefan Müller-Doohm. Anche se la persona dell’autore, di cui ho la massima stima, non me ne darebbe motivo, io ho paura ad affrontare questo libro. Quanto ai miei figli, che sono già grandi, ho l’impressione che condividano tutto sommato le idee politiche e intellettuali dei loro genitori. Solo i miei nipoti sembrano già vivere già in un’altra epoca…
M.S. Retrospettivamente parlando, quali sono state le sue esperienze più importanti che la hanno indirizzato sul piano intellettuale e sul piano pratico?
J.H. Le esperienze intellettuali si lasciano facilmente ricondurre a determinati personaggi. Il mio primo filosofo l’ho incontrato nella figura di Karl-Otto Apel, che mi è stato prima mentore e poi amico. Lo straordinario privilegio di lavorare con Adorno mi ha fatto toccare da vicino un modo di pensare che è illuminante e affascinante nello stesso tempo. Anche Wolfgang Abendroth e Hans-Georg Gadamer sono ancora stati – per me – come una sorta di ultimi maestri accademici. Dopo di che ho potuto imparare da un’intera generazione di “peers” al di qua e al di là dell’Atlantico. Ho avuto soprattutto la fortuna d’incontrare sulla mia strada dei collaboratori brillanti, che mi hanno aiutato in tutte le svolte del mio pensiero. Questi sono stati, tutto sommato, i miei stimoli intellettuali. Ma lei chiede anche delle esperienze “sul piano pratico”. Chiunque sia sposato da sessant’anni e abbia figli, sa che ci sono cose ben più importanti degli stimoli intellettuali…
M.S. Lei venne subito famoso con il suo testo di abilitazione: Strukturwandel der Öffentlichkeit (1961)[2]. Il quadro empirico di riferimento è oggi del tutto cambiato. La sfera pubblica è infatti stata radicalmente trasformata dai nuovi mass-media. Come imposterebbe lei oggi questo lavoro? Come potremmo applicare ai rapporti presenti quel concetto enfatico – e normativamente impregnato – di “sfera pubblica” democratica cui lei non ha mai cessato di essere fedele?
J.H. Oggi vediamo come, persino in Occidente, procedure e istituzioni democratiche possano ridursi a vuote facciate se viene loro a mancare una sfera pubblica funzionante. Per converso, il funzionamento delle sfere pubbliche presuppone sempre esigenti condizioni di tipo normativo. Infatti i circuiti comunicativi pubblici non dovrebbero essere tagliati fuori dai processi decisionali effettivi. In Europa, anche la crisi politica degli ultimi anni ci ha insegnato molto su questi due aspetti del problema.
M.S. Internet è un vantaggio o uno svantaggio per la democrazia?
J.H. Né l’una cosa né l’altra. Dopo le invenzioni della scrittura e della stampa la comunicazione digitale rappresenta la terza grande innovazione sul piano dei media. Con la loro introduzione, questi tre media hanno consentito a un sempre maggior numero di persone di accedere, sempre più facilmente, a una massa sempre più grande di informazioni rese sempre più durevoli. Con l’ultimo passo rappresentato da internet abbiamo anche una sorta di “attivazione”: gli stessi lettori diventano autori. Ma questo, di per sé, non crea automaticamente progresso sul piano della sfera pubblica. Nel corso dell’Ottocento – con l’aiuto dei libri e dei giornali di massa – abbiamo visto nascere delle sfere pubbliche nazionali dove l’attenzione di un numero indefinito di persone poteva applicarsi simultaneamente sugli stessi identici problemi. Questo però non dipendeva dal livello tecnico con cui i dati erano moltiplicati, distribuiti, accelerati, resi durevoli. Si tratta, in fondo, degli stessi movimenti centrifughi che avvengono anche oggi nel web. Piuttosto, la sfera pubblica classica nasceva dal fatto che l’attenzione di un anonimo pubblico di cittadini veniva “concentrata” su poche questioni politicamente importanti che si trattava di regolare. Questo è ciò che la rete non sa produrre: anzi la rete, al contrario, distrae e disperde. Pensi per esempio ai mille portali che nascono ogni giorno: per i collezionisti di francobolli, per gli studiosi di diritto costituzionale europeo, per i gruppi di coscienza degli ex-alcolizzati. Nel mare magnum dei rumori digitali queste comunità comunicative sono come arcipelaghi dispersi: ce ne saranno miliardi. Ciò che manca a questi spazi comunicativi (chiusi in se stessi) è il collante inclusivo, la forza inclusoria di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono davvero importanti. Per creare questa “concentrazione” occorre prima saper scegliere – conoscere e commentare – i temi, i contributi e le informazioni che sono pertinenti. Insomma, anche nel mare magnum dei rumori digitali non dovrebbero andare perse quelle competenze del buon vecchio giornalismo che sono oggi non meno indispensabili di ieri.
M.S. Con Zwischen Faktizität und Geltung (1992)[3] lei ha offerto allo stato liberal-democratico un’imponente base di legittimazione. Cosa direbbe se qualcuno le facesse notare: Grazie a Habermas la democrazia ha vinto sul piano delle idee, resta però il problema di farla vincere nella realtà.
J.H. Direi: uno slogan amichevolmente avvelenato. Io ho soltanto illustrato uno dei possibili modelli di democrazia, e l’ho fatto in un senso puramente ricostruttivo, senza bisogno di suonare le trombe dell’utopia. La mia ricostruzione poggia sui presupposti pragmatici cui i cittadini non possono fare a meno di aderire tutte le volte che a) vanno a votare, b) portano avanti una causa in tribunale, c) si oppongono allo smantellamento dello stato sociale. Quando questi presupposti normativi (di nuovo: che ogni voto abbia nell’urna lo stesso valore, che i giudici siano imparziali, che i governi perseguano i programmi per cui sono stati eletti) vengono sistematicamente violati, allora crollano le pratiche che su di essi poggiano. Oppure tali pratiche vengono svuotate dall’interno ad opera del cinismo dei governanti e/o dalla muta apatia dei cittadini.
M.S. In certe critiche recenti, orientate più a Hannah Arendt che non a Carl Schmitt, si è anche sostenuto che il suo modello deliberativo – canalizzato in senso discorsivo – manca il suo obbiettivo in quanto vorrebbe ricostruire il Politico come un astratto processo scientifico-conoscitivo, laddove esso è piuttosto uno scontro violento per impadronirsi e mantenere il potere. Che cosa risponde a tali critiche?
J.H. In una società pluralistica la procedura democratica è l’unica fonte per produrre decisioni riconoscibili come legittime. Questa procedura assicura da un lato inclusione (vale a dire partecipazione di tutti i cittadini), dall’altro lato deliberazione (per es. campagne elettorali e dibattiti parlamentari, in base a ciò che elettori e legislatori decidono di scegliere). Proprio per via di questo elemento di pubblico dibattito – un dibattito che deve svolgersi prima di andare a votare – il risultato delle elezioni politiche (la spartizione del potere tra i partiti concorrenti) è qualcosa di diverso dalle semplici inchieste demoscopiche. Ciò non ha tanto a che vedere coi processi della conoscenza scientifica, quanto piuttosto con l’aspettativa che i problemi politici riescano a trovare una soluzione il più possibile razionale. Questa “aspettativa di razionalità” richiede infatti che – nel formulare proposte significative – siano messe pubblicamente sul tavolo informazioni attendibili e buone ragioni. In questo processo le ragioni normative hanno spesso un ruolo più importante degli stessi dati empirici o delle certificazioni degli esperti: e comunque devono sempre essere ragioni in grado di “contare”. Questa dimensione cognitiva della formazione della volontà (sia dei cittadini che dei politici)[4] diventa ancora più importante quando cresce l’orizzonte d’incertezza in cui dobbiamo prendere le decisioni.
M.S. Un grande tema cui lei è appassionato è l’Europa e la sua unificazione democratica. Di recente lei ha a proposto, in un seminario a Princeton[5], di modificare la costituzione europea nel senso di trasformare il Consiglio dei ministri in una rappresentanza dei singoli stati, facendone una seconda “gamba” legislativa accanto al Parlamento UE. Subito si è obbiettato che il progetto europeo vuole superare le vecchie divisioni statali e dunque non dovrebbe fissarne la sopravvivenza in una “casa degli stati” quale organo del potere legislativo. Come risponde a questa critica?
J.H. Questa critica non tiene conto della situazione politica attuale. Anche il conflitto sulla nomina di Juncker ha mostrato dove sta in realtà il problema. I capi di governo hanno oggi in Europa lo stesso ruolo semicostituzionale un tempo svolto dal sovrano del vecchio Reich tedesco. Occorre perciò stabilire quale quota di potere i capi di governo dovrebbero cedere al Parlamento, in maniera da ridurre quel deficit democratico che grida vendetta. Rispetto a una democrazia transnazionale, che faccia a meno di ogni carattere di statualità, il modello federale USA non è quello che dobbiamo imitare. Piuttosto bisognerebbe equiparare al Parlamento un Consiglio inteso come il luogo di rappresentanza degli stati. Per armonizzare queste due istituzioni legislative occorre istituire delle procedure. Lo scontro per insediare il presidente della Commissione dimostra come ancora manchi, a livello europeo, un organico sistema dei partiti, dove questi (nel proporre i loro candidati) possano fin dall’inizio muoversi in accordo con il Consiglio.
M.S. Parliamo ora delle tendenze separatiste in Ucraina, Scozia, Belgio ecc. Come mai lei ha aspramente criticato, in più occasioni, il separatismo? La Cechia e la Slovacchia dimostrano che ci si può anche separare senza troppe difficoltà. Dal punto di vista storico, la secessione è soltanto una forma diversa di nation-building. Perché dobbiamo scomunicarla dal punto di vista normativo?
J.H. La nazione come sacro principio è stata definitivamente superata a Versailles alla fine della Prima guerra mondiale. Invece di promuovere la pace ha fomentato sempre nuovi conflitti. Il motivo è evidente: nessun popolo è etnicamente omogeneo. Tracciare nuovi confini significa semplicemente riprodurre in maniera capovolta i rapporti di maggioranza e minoranza. Quando Genscher ha riconosciuto la Croazia come nuovo stato sovrano, contribuendo così alla disgregazione della vecchia Jugoslavia, non ha fatto altro che aprire la porta ai più feroci massacri avvenuti in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stesso errore si è ripetuto con il Kosovo. Si tratta dell’ombra lunga che il nazionalismo ottocentesco ha gettato sul secolo ventesimo. E ora vediamo di nuovo risorgere spettri nazionalistici nel cuore dell’Unione europea, la quale non si mostra nemmeno capace di porre freni all’autoritarismo ungherese di un Orban.
M.S. Nel libro dell’anno scorso, Nella spirale della tecnocrazia, lei attaccava duramente la politica europea della signora Merkel. Così, in quel suo testo, si volle vedere un aiuto alla campagna elettorale della SPD. Ora però i socialisti sono entrati nel governo della Merkel, e la politica tedesca verso l’Europa continua sostanzialmente come prima: lei ha cambiato idea? Si sente deluso?
J.H. La SPD si è lasciata trascinare dentro la coalizione. Su questo tema non ha mai voluto contraddire la Merkel. Adesso però sarà costretta a farlo, se non vuole tradire il suo candidato europeo Martin Schulz.
M.S. Nel frattempo molti stati debitori stanno per uscire dall’ombrello di protezione. Forse che la politica della Merkel non è poi stata così cattiva come si è voluto dipingere?
J.H. In realtà, nell’eurozona, gli squilibri strutturali delle economie nazionali continuano a crescere. Né possiamo proseguire in quella politica di “svalutazione interna” che, nei paesi in crisi, è stata pagata sacrificando gli strati più svantaggiati, le giovani generazioni, le prestazioni assistenziali e infrastrutturali. Se lo facessimo, si rafforzerebbe il populismo di destra, si radicalizzerebbero i conflitti tra i popoli, si fomenterebbe l’ostilità antitedesca. La Merkel ha paura di dire questa semplice verità ai suoi elettori, e dà loro vino adulterato. Lo sbaglio di aver fondato una comunità monetaria senza predisporne un controllo politico è stato un errore compiuto “in solido” da tutti gli stati coinvolti. Adesso noi tedeschi vorremmo schermarci dall’obbligo di subirne le conseguenze.
M.S. Che cosa le dà la forza di non reagire in maniera disfattistica a ciò che il suo maestro Adorno chiamava “il cattivo corso del mondo”?
J.H. Contro il cattivo corso del mondo Hegel metteva in campo lo spirito assoluto, laddove Adorno contrastava la disperazione appellandosi – in maniera controfattuale – a una luce messianica. Infatti, solo nel cono di questa illuminazione egli poteva denunciare la negatività dell’esistenza. Io mi sento piuttosto vicino alla posizione di Kant, cui Adorno giustamente attribuiva il motivo intitolato “inconcepibilità della disperazione”.
M.S. Si sente dire che lei stia lavorando a una grande opera di filosofia della religione, della quale già sono usciti i prolegomeni[6]. A che cosa si deve questo suo nuovo interesse per la religione? Si tratta forse dell’irritante esperienza per cui, contro ogni aspettativa, la religione non solo non è stata neutralizzata dalla secolarizzazione della modernità, ma sembra addirittura rinascere in forme nuove e spesso preoccupanti?
J.H. Se poniamo al centro dell’evoluzione della specie l’adozione del linguaggio quale meccanismo di comunicazione, allora diventa verosimile pensare che – per una specie costitutivamente asociale – i processi di socializzazione debbano essere passati attraverso una forte tensione tra spirito e motivazione. Con tutta evidenza fu il “complesso religioso” ciò che tenne insieme e stabilizzò le prime collettività, schermandole dalle tensioni interiori. Fin dall’inizio i classici della sociologia hanno individuato nel rito e nel mito la fonte della coscienza normativa e della solidarietà sociale. A questo interesse dei sociologi io collego ora la constatazione hegeliana secondo cui molti concetti della filosofia pratica, pur avendo nomi di origine greca, sono sostanzialmente il frutto di un secolare processo di assimilazione e di traduzione semantica di concetti nati nella tradizione ebraico-cristiana. Se pensiamo ad autori come Bloch e Benjamin, Buber, Levinas e Derrida, noi vediamo come questa assimilazione non si sia ancora conclusa. Tutto ciò – per un pensiero postmetafisico che si preoccupa delle risorse normative di una società mondiale portata fuori strada dal capitalismo – potrebbe essere l’occasione per intraprendere finalmente un cambio di prospettiva. La filosofia dovrebbe sapersi mettere in rapporto non solo con le scienze ma anche con le tradizioni religiose tuttora vitali. Non vorrei però essere frainteso: non sto affatto proponendo al pensiero postmetafisico di rinunciare alla sua autocomprensione secolare, ma solo di allargare questa sua autocomprensione in una direzione bifocale.
M.S. Che giudizio dà lei sullo stato della filosofia oggi? In Germania va sempre più di moda il filosofo da talk-show, quello che un tempo si chiamava filosofo popolare. Penso a personaggi come Safranski, Sloterdijk, Precht. È una cosa buona oppure cattiva?
J.H. Beh, i nomi che lei cita non sono i veri rappresentanti della filosofia tedesca. La filosofia è oggi una professione accademico-scientifica come tutte le altre. Dalle altre discipline essa si distingue solo per il fatto che – in quanto pensiero non pre-fissabile – non ha un “metodo” e un “oggetto” definibili a priori. Personalmente sono troppo vecchio per pretendere di dare un giudizio complessivo sullo stato attuale della disciplina. Posso però dirle qual è stata la mia esperienza: la mia generazione ha saputo suscitare interesse e trovare riconoscimento, da parte dei colleghi americani, francesi, e talora persino inglesi, solo nella misura in cui – nel trattare i diversi problemi – siamo stati capaci di mostrare la forza della nostra tradizione, attingendo in maniera sistematica e analitica alle fonti di Kant, Hegel e Marx. Oso fare questa raccomandazione sperando di non essere accusabile di provincialismo.
M.S. Lei si è sempre richiamato ai filosofi antichi che andavano nell’agorà ed esercitavano l’uso pubblico della ragione. D’altro canto lei passa anche per un filosofo difficile e i suoi testi sono così complessi da non essere facilmente comprensibili. C’è una contraddizione in tutto ciò?
J.H. Ok, i lettori di questa intervista le daranno subito ragione. Però vede, io non ho mai avuto come obbiettivo quello di raggiungere un vasto pubblico. Non vado nemmeno in televisione. Il mio mondo è quello dell’università. È vero che concedo troppe interviste e scrivo articoli di giornale, ma di queste mie debolezze si dovrebbero incolpare piuttosto i redattori. Ciò cui io miro non è avere tanti lettori, ma far circolare determinate idee.
M.S. Una domanda personale: non le capita mai – come ha scritto Eduard Mörike in Wintermorgens vor Sonnenaufgang – di svegliarsi la mattina e pensare improvvisamente, come in un incubo, che tutto quanto lei ha finora pensato e scritto sia sbagliato? E se una esperienza simile le è davvero capitata, come affronta questa insicurezza esistenziale?
J.H. Es ist ein Augenblick/ Und alles wird verwehen. [“In un istante/ Tutto sembra sparire”]. Come vede, sono andato a cercare poesia e verso cui lei fa riferimento. Ma ahimé devo deluderla: prima dell’ultimo risveglio non scivolo nel mondo incantevole e fatato di cui parla Mörike. Precipito piuttosto nel vortice di pensieri angosciosi. Dunque la mia insicurezza potrebbe essere più profonda. Se però vogliamo dare alla sua domanda un senso meno drammatico, mettendola semplicemente in relazione con i miei lavori accademici, allora le darò una risposta di tipo pragmatico. È naturale che ogni singolo enunciato, da me messo per iscritto, possa rivelarsi sbagliato. Ma lei in realtà dice: “tutto quanto lei ha finora pensato e scritto”. Dunque, si riferisce all’insieme di tutte le certezze-di-sfondo. Come filosofi – infatti – noi pensiamo sempre sullo sfondo di un orizzonte unificante e di un contesto che ci sostiene. Per fortuna questo contesto può sempre rivelarsi sbagliato quando ne esplicitiamo un elemento particolare. Come una fascia detritica di montagna, questo sfondo intuitivamente presente scivola e si sposta con noi tutte le volte che ci correggiamo o attraversiamo processi di apprendimento. Sennonché questo complesso delle certezze-di-sfondo non può mai essere considerato sbagliato, in quanto non può mai – nel suo insieme – essere fatto oggetto di enunciati falsificabili.
Intervista pubblicata sul “Feuilleton” della “Frankfurter Rundschau” del 14/15 giugno 2014. Le domande sono di Markus Schwering. Titolo originale “Nella spirale dei pensieri. Le procedure democratiche sulla rete, in politica, in Europa”[7].
Traduzione italiana di Leonardo Ceppa.
Note
[1][S. Müller-Doohm, Jürgen Habermas. Eine Biografie, Berlin 2014 – uscita a giugno, per l’85esimo compleanno del filosofo, N.d.T.].
[2][Trad.it.. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari 2002, N.d.T.].
[3][Trad.it. Fatti e norme, Milano 1996, nuova edizione Roma-Bari 2013, N.d.T.].
[4][Per Habermas anche le ragioni e le decisioni normative – lungi dall’essere preferenze soggettive e opzioni pregiudiziali – hanno un fondamentale valore cognitivo. N.d.T.].
[5][La conferenza americana di Habermas è stata tradotta, col titolo “Per una democrazia transnazionale”, su Micromega 3/2014, pp. 12-27; sulle reazioni suscitate in America da questa conferenza cfr. il servizio di Patrick Bahners, “Demokratie kommt ohne Völker aus”, Frankfurter Allgemeine Zeitung del 7 maggio 2014. N.d.T.].
[6][Sul grande inedito, cfr. E. Mendieta, Religion in Habermas’s Work, in C. Calhoun, E. Mendieta, J. VanAntwerpen, a cura di, Habermas and Religion, Polity Press, Cambridge UK, pp. 405-406. I prolegomeni cui si fa cenno sono i saggi raccolti nell’ultima grande opera di Habermas, Nachmetaphysisches Denken II, Suhrkamp, Berlin 2012 (in corso di traduzione presso Laterza), N.d.T.].
[7][Allusione al titolo dell’ultimo libro di Habermas: Nella spirale della tecnocrazia, trad.it. Roma-Bari 2014, N.d.T.]
Foglio bianco
Penso che “Pochi inutili nascondigli” sia il libro che meno mi è piaciuto di quelli scritti da Giorgio Faletti. Tuttavia, vi ho trovato un bel passo, che voglio legare all’inizio dell’anno scolastico, a ogni inizio, al momento in cui a una persona viene chiesto di mettersi in gioco, di provare a immaginare e disegnare il proprio futuro, che sia alunno o insegnante.
“Non sarebbe mai riuscito a spiegare a un profano che cosa era un foglio bianco per un disegnatore, quale e quanta speranza ci fosse ogni volta che si metteva di fronte allo spazio immenso di quel rettangolo immacolato da riempire di segni, sogni, colori, idee.
Forse Dio, se c’era, proprio quello aveva fatto. Prima l’universo era un grande cosmico foglio di carta bianco e lui con la stessa speranza e la stessa fantasia aveva chiuso un attimo gli occhi e poi si era messo al lavoro e aveva disegnato tutto.
Fece scorrere la copertina ripiegandola dietro al blocco ed ebbe anche lui davanti il suo piccolo universo da creare.
Si lasciò andare contro lo schienale della poltrona, impugnò la matita e guardò il mondo davanti a lui.”
Giorgio Faletti, Pochi inutili nascondigli, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008, pag. 51
Il posto della meraviglia
E’ difficile trovare un oggetto particolare in una strada centrale, lungo un corso, in bella vista in vetrina: “Per ogni cosa c’è un posto ma quello della meraviglia è solo un po’ più nascosto”. L’uomo contemporaneo è abituato al prodotto pronto e servito sul piatto: ciò che costa fatica spesso spaventa e non ci si rende conto che invece la cosa desiderata e bramata, per cui magari si è sofferto e lottato porta la bellezza proprio in quella attesa e in quelle battaglie (“Il tesoro è alla fine dell’arcobaleno che trovarlo vicino nel proprio letto piace molto di meno”). Le imprese, anche quelle che paiono impossibili, non sono precluse, ma è bene sapere quello di cui si va alla ricerca: “Come cercare l’ombra in un deserto o stupirsi che è difficile incontrarsi in mare aperto. Prima di partire si dovrebbe essere sicuri di che cosa si vorrà cercare dei bisogni veri”. La meta deve essere valutata con calma, non è detto che la corsa e la premura siano ideali per questo tipo di viaggio, corriamo il rischio di trascurare l’essenziale: “Ma le più lunghe passeggiate, le più bianche nevicate e le parole che ti scrivo non so dove l’ho comprate. Di sicuro le ho cercate senza nessuna fretta perché l’argento, sai, si beve, ma l’oro si aspetta”. Buon inizio di anno scolastico e… buona meraviglia, sperando non sia troppo nascosta, con “Il negozio di antiquariato” di Niccolò Fabi (La cura del tempo, 2003).
Il viandante
Tra poche ore inizia un nuovo anno scolastico. A me… a voi… ai miei colleghi (grazie a Silvia che mi ha fatto scoprire questo capolavoro)… e a chi a scuola ci lavora con amore e dedizione…
“A lungo durerà il mio viaggio
e lunga è la via da percorrere.
Uscii sul mio carro ai primi albori
del giorno, e proseguii il mio viaggio
attraverso i deserti dei mondo
lasciai la mia traccia
su molte stelle e pianeti.
Sono le vie più remote
che portano più vicino a se stessi;
è con lo studio più arduo che si ottiene
la semplicità d’una melodia.
Il viandante deve bussare
a molte porte straniere
per arrivare alla sua,
e bisogna viaggiare
per tutti i mondi esteriori
per giungere infine al sacrario
più segreto all’interno del cuore.
I miei occhi vagarono lontano
prima che li chiudessi dicendo:
«Eccoti!»
Il grido e la domanda: «Dove?»
si sciolgono nelle lacrime
di mille fiumi e inondano il mondo
con la certezza: «lo sono!»”
Rabindranath Tagore
Musulmani d’Italia
Ho trovato questo interessante articolo di Francesca Bellino su Reset: l’argomento è quello degli italiani convertitisi all’Islam.
“Quando si convertono scelgono un nome della tradizione musulmana e lo aggiungono al proprio, ma lo usano soprattutto con “i fratelli e le sorelle di fede”. Da parenti, amici e colleghi d’ufficio continuano a farsi chiamare con il nome della nascita. Sono italiani che hanno scelto l’Islam in età adulta e, per completare il loro ampliamento d’identità, hanno aggiunto anche un nome al loro percorso (se pur la richiesta non sia obbligatoria).
Aver fatto shahada (testimonianza di fede verso Dio e il profeta Muhammad) per la maggior parte di loro è una scelta intima, da non condividere con tutti. Di questi tempi poi, meglio tenere nascosto il proprio credo e quel nome straniero, portatore di fobie, paure e pregiudizi in aumento dopo la nascita dello stato islamico in Iraq e le notizie del reclutamento di jihadisti in Europa e anche in Italia.
Il convertito italiano è, dunque, una figura spesso invisibile, poco conosciuta, incompresa o dipinta dai mass media con un’unica sfumatura, quella violenta ed estremista, usata per parlare di terroristi, tagliagola e indottrinatori. Le molteplici differenze presenti nella religione islamica si riflettono anche nella galassia dei convertiti d’Italia, che è in grande trasformazione rispetto al passato. Ci sono i praticanti e i non praticanti, quelli che seguono le confraternite africane, chi ha “avuto la chiamata”, chi si è convertito per sposarsi, chi per “sfuggire alle contraddizioni della Chiesa” e chi perché ha sentito un bisogno di spiritualità.
“Se trenta anni fa erano gli intellettuali e i pensatori a diventare musulmani, oggi si convertono all’Islam soprattutto persone che vivono nelle periferie, spesso ignoranti ed emarginate. Oggi il fenomeno della conversione nasce dal disagio e dall’esclusione sociale, non più da una ricerca spirituale raffinata. In questa fase assistiamo, inoltre, a un gran ridimensionamento delle conversioni rispetto al passato” spiega Gianpiero Ahmad Vincenzo, sociologo e scrittore napoletano, docente all’Università di Catania, convertito nel 1990.
Il numero dei convertiti in Italia è impreciso perché non esiste un albo. “Non tutti frequentano la comunità religiosa in moschee o centri di culto, dunque non tutti si dichiarano o si registrano”, sottolinea Alessandro Ahmad Paolantoni, segretario nazionale dell’UCOII (Unione delle comunità islamiche d’Italia), convertito dal 2001. “Si può dire che i musulmani italiani siano 40/50 mila, ma è un dato parziale. Tra questi purtroppo ci sono anche tante cattive conversioni: persone che cercano nell’Islam la risoluzione di problemi personali e non la spiritualità. Persone con percorsi accidentati che provano a salvarsi con l’Islam, senza arrivare ai casi estremi di chi decide di partire per il jihad. In quel caso parliamo di eccezioni. Gente indottrinata attraverso il web, con un percorso solitario, “fai da te”, senza alcun contatto con gli imam. Il lavoro dell’UCOII al momento è concentrato molto sulla formazione degli imam sui territori, oltre che sul cercare di accelerare l’intesa con lo Stato che finora non è stata possibile per motivi politici e pratici”.
Alessandro è approdato all’Islam attraverso i libri. Aveva 33 anni e non praticava alcuna religione. Aveva lavorato prima nella tabaccheria dei genitori, poi nel campo delle decorazioni d’interni. Curioso, seguiva la geopolitica, e tra una lettura e l’altra si è imbattuto nell’Islam e ne ha subito apprezzato il concetto di responsabilità individuale, l’assenza di intermediario tra Dio e il credente e il prendere in considerazione tutti i profeti e le rivelazioni precedenti all’arrivo di Muhammad. “Non ho mai sentito di tradire o abbandonare qualcosa – dice – ma solo di aggiungere. Con naturalezza e normalità”.
Stessa sensazione che ha avuto Carlo Ahmed, 27 anni, romano, impiegato, convertito nel 2008 dopo essere stato “affascinato dalla disciplina che c’è nell’Islam”. “Sono sempre stato un appassionato di viaggi e culture – racconta – così un giorno acquistai una copia del Corano. All’epoca frequentavo la facoltà di economia all’università e venivo da un percorso scolastico salesiano. Più leggevo e più scoprivo che Islam, Ebraismo e Cattolicesimo hanno tante cose in comune. Appartengono tutte allo stesso ceppo, ma l’Islam mi è sembrata subito la religione più completa. La mia famiglia all’inizio ha avuto alcune perplessità, poi ha capito che, anche se musulmano, rimanevo la stessa persona di prima. Purtroppo c’è disinformazione che confonde le persone. Quello di cui si parla in giro non è l’Islam”.
“I musulmani non sono tutti jihadisti” tengono a precisare i convertiti italiani che, nella maggior parte dei casi, hanno trovato nell’Islam un senso di completezza e di semplicità. “Mi è sembrata subito una religione immediata ed elementare. Per me è stato un passaggio indolore. Più difficile è stato far capire alla famiglia che non stavo per diventare terrorista” spiega Enrico Karim, 53 anni, ingegnere di Catania, musulmano da 2 anni, noto come “il generoso”. “Convertendomi ho completato il puzzle della mia vita. Ho aggiunto il pezzo mancante che stavo cercando da tempo” racconta Catia Aysha, 57 anni di Modena, madre di 4 figli oggi residente in provincia di Viterbo con il marito palestinese. “Sono sempre stata dubitativa verso la religione cattolica”, spiega. “A scuola facevo molte domande all’insegnante e lei mi rispondeva sempre che “la fede è un mistero e bisogna avere l’umiltà di credere”. Questa risposta non mi convinceva così ho cominciato a seguire le adunate dei testimoni di Geova che non credono nella trinità, ma mi rimanevano sempre dubbi, spesso mi sentivo presa in giro. Quando ho scoperto l’Islam, invece, ha sentito che il discorso filava soprattutto nel punto in cui Gesù non è figlio di Dio, ma un profeta come gli altri. Sono passati quasi 40 anni dal giuramento, in quel momento ho sentito di andare avanti, di evolvermi, senza rinnegare nulla”.
Incontro Catia alla moschea al-Huda di Centocelle a Roma dove il sabato pomeriggio molti italiani interessati alla conversione o già convertiti si riuniscono per confrontarsi con l’imam. Nel gruppo ci sono molte donne, tutte con il velo, tra cui anche alcune convertite da poco come Roberta Aysha, 47 anni, romana, musulmana da 8 mesi. “Non sopportavo più le contraddizioni della Chiesa cattolica, soprattutto dopo aver avuto l’annullamento del matrimonio alla sacra rota – racconta – E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non riuscivo a capire com’è possibile che la Chiesa non accetti il divorzio, mentre lascia che ci si butti fango addosso incolpandosi durante gli annullamenti. Così, dopo un viaggio in Turchia, ho sentito il richiamo dell’Islam”.
Giancarlo Mohammed, 64 anni, romano, divorziato, convertito e oggi sposato con una donna marocchina, anche lui pieno rancori verso la Chiesa cattolica, sintetizza il fenomeno dicendo: “Un tempo si andava verso l’anticlericalismo, oggi si va verso l’Islam”.
Diversa è la storia di Lauretta Amina Decaro, 45 anni, ex dipendente di banca, atea, romana, riceve in regalo una copia del Corano da un amico del marito, lo legge durante un lungo periodo di malattia a letto e ne rimane colpita, poi fa un viaggio in Egitto, conosce il suo futuro marito, divorzia dal precedente e dal 2004, dopo un sogno per lei significativo, si converte. Più immediata, invece, la conversione di Anna Fatma, 38 anni, pugliese, sposata con un egiziano. Quando conosce il suo attuale marito e scopre l’Islam, fa subito shahada (2 anni fa). “Non sapevo di essere musulmana” esclama soddisfatta e oggi che ha addirittura scelto di mettere sulla tessera dell’autobus una sua foto con il velo, così come Catia Aysha l’ha scelta per la carta d’identità. “Ora siamo libere di scegliere una foto con velo per i nostri documenti, così come le suore e i sikh, e allora perché non farlo!”.
Non ha ancora scelto un nome musulmano da aggiungere a quello di battesimo, invece, Antonio, 49 anni, palermitano, residente a Londra dove ha fatto il giuramento 2 anni fa. “Da quando mi sono convertito sono diventato più allegro, più sociale, più umano e mi sento più vicino alla gente, disposto ad aiutare chi ha bisogno” tiene a sottolineare, così come Sokhana Diarra Daniela, 30 anni, di Carbonia in provincia di Cagliari, dice che da quando è musulmana (da 4 anni) ha “trovato la pace”. Il suo incontro è stato con la confraternita di Mouridyia che nasce in Senegal e “si basa sui 5 pilastri dell’Islam, sulla umma e sul lavoro”. “Vengo da una famiglia atea, mi sono sempre sentita libera di scegliere qualcosa di diverso da quello che mi è stato inculcato e sono felice di aver scelto l’Islam. Mi sono convertita prima di incontrare mio marito che è senegalese. L’unica cosa che non accetto è la poligamia. Con mio marito abbiamo messo le cose in chiaro ma in Sardegna conosco molte occidentali che accettano di essere seconde mogli. Non posso che rispettare la loro scelta”.
Anche Donatella Amina, 54 anni, assistente amministrativo al Ministero della Salute, si è sentita libera di scegliere e di cambiare strada, dalla militanza nella sinistra rivoluzionaria all’Islam. “Negli anni 80 frequentavo la facoltà di sociologia alla Sapienza a Roma, non accettavo le ingiustizie sociali e avevo molti dubbi sulla religione cattolica – racconta – Frequentavo un gruppo di atei, anche se atea non sono mai stata, appoggiavo tutte le lotte dei popoli, partecipavo alle manifestazioni fino a quando ho capito che l’azione politica non cambiava nulla né nella mia vita, né intorno a me. Le contraddizioni restavano. La sinistra rivoluzionaria poi mi sembrava il ghetto dei ghetti e avevamo capito che il comunismo era finito, così ho cercato altro”. Donatella ha incontrato l’Islam con Abdul, il marocchino che poi ha sposato ma che non le raccontava nulla sull’Islam. “Ho studiato tutto da sola, lui non voleva sentirsi responsabile della mia scelta. E un giorno, 21 anni fa, ho fatto shahada alla Grande Moschea. In questi anni ho visto molte persone rialzarsi grazie alla fede. Chi parla di jihad non è un vero convertito all’Islam. È un convertito a un’ideologia. È come convertirsi al nazismo”.
Etica, scienze, scienze sociali
Con questo post inauguro una nuova categoria (la prossima settimana ce ne sarà un’altra…). Ho infatti deciso di inaugurare una sezione in cui poter “sparare un po’ più alto”: si tratta di una raccolta di articoli che richiedono un po’ più di attenzione del solito, un po’ più di concentrazione. La nuova categoria si chiama “Pensatoio” e la inauguro con un articolo di Piero Dominici apparso ieri sulla rubrica de IlSole24ore “Fuori dal prisma”, spazio che ho scoperto da poco e che frequenterò e “saccheggerò” spesso e volentieri…
“Al di là delle questioni riguardanti, da una parte, la politica, la società civile e la sfera pubblica (corruzione, legalità, familismo amorale, cultura della furbizia, irresponsabilità, trasparenza, etica pubblica etc.) e, dall’altra, le importanti scoperte scientifiche tradotte in innovazione tecnologica, la riflessione sull’etica – molto “parlata”, promossa e discussa, non solo a livello mediatico, poco praticata (coerenza dei comportamenti e questione culturale) – sembra essere tornata di attualità ed essersi riproposta, oltre che come una delle questioni sociali e politiche centrali (per non dire, forse, quella più importante per le ricadute e le implicazioni), anche come “oggetto di studio” (e si spera anche di ricerca) non soltanto per le diverse discipline umanistiche, ma anche – ed è questa forse la novità, soprattutto per come ciò è avvenuto – di quelle scientifiche. Una ritrovata centralità che affonda senza dubbio le sue radici nell’avvento della Modernità[1] – e del progetto illuminista che ne ha costituito il sostrato etico e culturale – una fase storica di mutamento globale dei sistemi e dei processi culturali e produttivi che, pur nella sua complessità e ambivalenza, presenta a mio avviso già i “germi” di quella che, successivamente, sarà chiamata società della conoscenza (2003). Un’epoca caratterizzata dalla crisi delle ideologie, dal crollo di tutte le utopie che si erano poste come obiettivi fondamentali la creazione di un’umanità nuova, di un individuo “perfetto”, autonomo e consapevole fino in fondo, ma anche di una società ideale fondata su scienza e tecnica, e sui valori di ragione e progresso; ma, soprattutto, un’epoca segnata dalla decostruzione, dalla critica radicale (operata da tutto il pensiero di fine Ottocento – inizio Novecento) e dalla confutazione di tutti i dogmi, compresi quelli della scienza, fino ad allora accettati tout court e (quasi) mai messi in discussione.
Il pensiero moderno e contemporaneo sembra affondare le sue radici proprio nella presa di coscienza della debolezza dei tradizionali sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo; nella consapevolezza che non esistono più conoscenze indiscutibilmente esatte, culture egemoni e/o predominanti, valori assoluti, verità incontrovertibili bensì, conoscenze probabilisticamente e statisticamente attendibili (valide), valori relativi, spiegazioni ed analisi della complessità molteplici. Peraltro, tali dinamiche vengono accelerate proprio grazie al contributo determinante delle cd. scienze esatte che forniscono linfa vitale a tutti i saperi nel loro percorso di autocritica e ridefinizione dei confini disciplinari e del metodo empirico. Si tratta fondamentalmente di una crisi della razionalità occidentale e dei modelli di società da essa prodotti. D’altra parte, la scienza servendosi della tecnica, suo “braccio armato”, ha spalancato di fronte all’umanità orizzonti impensabili e inimmaginabili nella prassi dell’agire individuale e collettivo. Da tale divaricazione sono sorte nuove istanze etiche e morali, nuove problematiche che mettono in grave difficoltà la decisione individuale e/o politica: di fronte a tale (iper)complessità, come e dove si collocano le scienze sociali? Come si devono porre nei confronti dei problemi etici e/o morali, della questione cruciale dei “valori” che orientano il comportamento individuale (e collettivo) e che, inevitabilmente, hanno ripercussioni sociali difficilmente quantificabili o valutabili empiricamente (si pensi alla tema dell’etica pubblica…post in preparazione)? Anche perché, l’etica e le scienze sociali un tempo si frequentavano (basti pensare ai grandi classici di area sociologica, politologica ed economica), poi l’obiettivo cruciale di presentarsi/accreditarsi – e, soprattutto, essere percepite e riconosciute – come scienze ha creato una distanza che tuttora fatica ad assottigliarsi; e questo, anche paradossalmente, dal momento che, da tempo, proprio le scienze “esatte” stanno sempre più progressivamente prendendo coscienza del sostrato etico su cui si fondano. A tal proposito, ribadiamo l’assoluta urgenza di superare distinzioni come questa, che hanno soltanto prodotto danni e rallentato il cammino, anche sociale, di produzione e distribuzione della conoscenza (inclusione sociale). In altre parole, occorre riprendere un dialogo complesso ma possibile, anzi, auspicabile soprattutto se si considera la rilevanza delle dimensioni del rischio/incertezza e della vulnerabilità all’interno dei sistemi e delle organizzazioni. Max Weber, consapevole dell’impossibilità di una conoscenza realmente avalutativa, ha evidenziato come proprio il mutamento etico, più che quello tecnologico, determini/inneschi quello sociale (come sottolineato più volte, le cause dei fenomeni sono sempre molteplici e occorre evitare spiegazioni riduzionistiche e deterministiche); lo stesso Émile Durkheim ha evidenziato magistralmente come sia sempre una base di tipo morale a rendere possibili l’integrazione e la coesione di un sistema sociale, anche il più complesso. D’altronde, seppur con prospettive differenti, gran parte della letteratura scientifica non soltanto sociologica – nell’analisi dell’individuo e nello studio delle motivazioni più profonde che lo spingono all’azione – converge inequivocabilmente sulla questione cruciale dell’etica e dei valori condivisi.
I principi etici (e/o morali), i valori, all’interno delle società umane (ma il discorso vale anche per le organizzazioni, che lavorano tanto sulla definizione di una cultura organizzativa proprio per questi stessi motivi), svolgono in primo luogo la fondamentale funzione di garantire il consenso (che si traduce spesso in conformismo), assicurando la prevedibilità dei comportamenti, oltre che la formazione, il rafforzamento e la condivisione di una visione del mondo comune e condivisa. Tuttavia, la cultura (e i modelli culturali), pur svolgendo la funzione essenziale di attribuire senso e significato alla realtà, rendendola – come detto – interpretabile e apparentemente prevedibile, talvolta perfino rassicurante, conserva al suo interno anche gli elementi della sua contraddizione (qualcuno avrebbe parlato di “germi”), che consentono agli attori sociali di metterla in discussione, fino a negarla e a negarne forme e oggettivazioni. E, quindi, questi stessi valori/principi, non appartengono ad una sfera che potremmo definire metafisica ma anzi, al contrario, sono strettamente connessi ad un complesso processo di acquisizione intersoggettiva legato, a sua volta, all’esistenza concreta e pratica degli individui (storicamente determinata), al gruppo di riferimento e alla loro comunità di appartenenza, nei confronti della quale dovrebbero essere responsabili, cioè rispondere delle proprie azioni. Dunque, è possibile studiare l’etica partendo dai presupposti propri delle scienze sociali? Noi siamo evidentemente convinti di sì, proprio per il legame indissolubile esistente tra quegli stessi principi etici (e morali) e i contesti storico-sociali nei quali nascono, vengono elaborati e si diffondono, fino a cristallizzarsi nelle norme giuridiche; che, ricordiamolo,rappresentano anch’esse una risposta di tipo culturale a istanze e problematiche socioculturali da cui scaturiscono le forme di conflittualità, proprie della società ipercomplessa (2003-5). La ricerca sull’etica e i valori sociali e, su un altro piano, la ricerca di un’etica condivisa rappresentano forse le risposte più significative alla nuova complessità sociale, sempre più sfuggente e ambigua.
[1] Nella sterminata letteratura sulla modernità, e sulle molteplici dimensioni che la costituiscono, mi limito a segnalare: J.Habermas (1985), Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, trad.it. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1987; M.Berman (1982), All that is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, Simon and Schuster, New York, trad.it. L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna 1985; Z.Bauman (2000), Liquid Modernity, Polity Press Blackwell Publishers Ltd., Oxford, trad.it. Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002.”