Dopo il fine vita il fine morte?


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Nicolàs de Jesùs

Articolo molto stimolante di Enrico Pitzianti (cagliaritano, laureato in semiotica, ha fondato il progetto artistico online GuardieShow ed è consulente per SpaceDoctorsLtd) pubblicato il 3 ottobre su L’Indiscreto. Magari con le classi quarte…
La ricerca scientifica, per via della velocità con cui progredisce, sta drasticamente mettendo fuori gioco il discorso etico-politico rendendolo costantemente inattuale, superato ancor prima che questo possa bodei-limitearticolarsi per far fronte all’esponenziale progressione della tecnica. Questa sembra essere l’idea di fondo che si scorge leggendo l’ultimo saggio di Remo Bodei: Limite, (Il Mulino, 2016) in cui salta agli occhi il tentativo di mettere in luce un edificio teorico che possa scardinare l’idea di ineluttabilità della morte e del destino.
La premessa è forte: i limiti, quelli fisici e tecnici, sono somparsi (o stanno scomparendo) in massa e questi, generalmente intesi, esistono in quanto barriere poste a impedirci la possibilità di infinito. Ci si riferisce all’infinito dell’immaginazione e non a quello dello spazio.
Il limite dell’intelligenza umana sarà superato dall’IA, la stessa creatività – caratteristica considerata tipicamente umana – è oggi riprodotta da algoritmi che ci obbligano a fare i conti con la distopia del nostro tempo. Gli stessi limiti biologici sono messi in gioco quando è ragionevole sostenere che l’uomo più veloce del mondo sarà in futuro più simile a Oscar Pistorius che a Usain Bolt – oggi detentore del record. Così, con un effetto a valanga, vengono a cadere anche i limiti che separano l’uomo dalla macchina, il naturale dall’artificiale e tutta una serie di separazioni che ci ostiniamo a considerare come pertinenti e non, più realisticamente, come mere semplificazioni di un mondo complesso.
Ciò che rimane tra le rovine di queste barriere sembra essere un certo presunto dovere di autoregolare lo strapotere datoci dalla tecnica. Gestirlo da saggi, limitarci, pena la catastrofe. Ne sapremo (sarebbe meglio usare il tempo presente) fare buon uso? Il giudizio si sospende anche se oggi, a prendere come esempio il riscaldamento globale, trarremo una conclusione poco ottimista.
Le biotecnologie, in particolare in campo genetico, stanno abbattendo il primo – forse l’unico – vero dogma rimasto in buona salute nell’era moderna: la morte. L’invecchiamento secondo studi recenti non è innato, ma programmato geneticamente – e quindi riprogrammabile. Con lo studio dei telomeri (le estremità del cromosoma di un organismo eucariote) si è scoperto che la loro estensione diminuisce a ogni riproduzione della cellula. La morte definitiva delle cellule, e quindi la nostra, dipende da questa sorta di timer che l’evoluzione ha costruito per arrivare alla morte programmata. Ed ecco che si scopre un enzima, detto telomerasi, capace di rallentare la progressiva riduzione dei telomeri e questo, insieme alla possibilità di utilizzo delle cellule staminali, apre le porte alla prospettiva di un allungamento della vita umana molto consistente; tanto che secondo Aubrey Grey, dell’Università di Cambridge, nei prossimi decenni si potrebbe riuscire a vivere duecento e più anni.
Se la ricerca scientifica prospetta la possibile “fine della morte” il trend dell’abbattimento dei limiti per sopravvenuta inidoneità a una soddisfacente rappresentazione di ciò che ci circonda sembra essere molto più generale. Ai progressi della tecnica corrisponde infatti un progressivo confutare convinzioni e saperi radicati e dati per scontati, un abolire idee, tradizioni e usi oramai fondati su “idee di destino” irragionevoli alla luce del sapere odierno. Non c’è più l’inscrutabile volontà divina, non c’è più sapere dei saggi che possa stupirci e manca finanche la possibilità stessa di certezze etiche – inscrivibili quasi tutte, oggi, alla categoria dell’ideologia.
Bodei sottolinea come nessuno fin’ora aveva mai dubitato del fatto che gli esseri umani potessero venire al mondo in un modo diverso dal rapporto sessuale, modalità che include rischi di infermità e deformazioni congenite. Merita un’attenzione particolare il fatto che Bodei riassuma le ultime due decadi di storia nel termine “ora”. lo, ad esempio, non ho la stessa percezione di immediatezza di tali cambiamenti dato che avevo solo sette anni quando Dolly – la pecora oggi imbalsamata in qualche museo scozzese – fu clonata. Bodei, che invece di anni all’epoca ne aveva qualcuno di più, vede da una prospettiva privilegiata l’aumento esponenziale della velocità con cui la morte ha cominciato a vedere scalfito il suo potere e il suo fascino, una parabola lunga milioni di anni che in meno di una ventina si è trasformata in quella che oramai sembrerebbe essere un’uscita di scena annunciata – per alcuni già vicina all’improrogabilità.
L’elidersi dei limiti ontologici tra specie diverse di esseri viventi (incroci e selezioni genetiche) vede il parallelo affievolirsi di altri limiti: quelli tra esseri viventi ed esser non viventi – Bodei cita le gambe di Oscar Pistorius e il pacemaker ma è ovvio che la mescolanza sia oramai capillare e abbia radici lontanissime visto che a ricercarne la genesi bisogna arrivare alla capacità umana di maneggiare oggetti passando quindi per ossidiane sbeccate, papiri e occhiali da vista.
Ciò che sfugge a Bodei è che il limite tra vivente e non vivente è in crisi a prescindere dall’odierno predominio della tecnica. Se il vivente e il non vivente stanno diventando indistinguibili non è per via del robot capace di calciare un pallone o scrivere un articolo di giornale.
Su the Scientific American Ferris Jabr descrive bene il perché “la vita non esiste”. Dato che una definizione concisa di “vita” è decisamente troppo complessa da dare, si ricorre solitamente a un elenco di caratteristiche che sarebbero le proprietà fisico-chimiche che differenziano l’essere vivente dal non vivente. L’elenco prevede: l’ordine (molti organismi sono costituiti da una singola cellula con diversi scomparti e organelli); la crescita e lo sviluppo (il cambiare dimensione e forma in modo prevedibile); l’omeostasi (cioè il mantenere un ambiente interno diverso da quello esterno); il metabolismo (lo spendere energia per crescere), la reazione a stimoli; la riproduzione (clonazione o accoppiamento per la produzione di nuovi organismi e trasferimento di informazioni genetiche da una generazione alla successiva), e l’evoluzione (la composizione genetica di una popolazione cambia nel tempo).
Peccato che l’elenco sia inconsistente, scrive Jabr: “Nessuno è mai riuscito a compilare una lista di proprietà fisiche che comprenda tutte le cose viventi ed escluda tutto ciò che etichettiamo inanimato. Quasi nessuno considera vivi i cristalli, per esempio, eppure sono altamente organizzati e crescono. Anche il fuoco consuma energia e diventa più grande, ma non è vivo. Al contrario, i batteri, i tardigradi e anche alcuni crostacei possono passare lunghi periodi di inattività durante i quali non crescono, non metabolizzano, non si modificano in alcun modo, ma non sono tecnicamente morti”.
E ancora: qualsiasi parte di organismo vivente se recisa fa crollare ulteriormente le possibilità di classificazione netta. Una coda di lucertola (Jabr fa l’esempio di una foglia) è da considerare vivente se staccata dal resto dell’animale? Le cellule che la compongono si comportano come si comportavano prima del distacco – non cessano immediatamente le loro attività. Quindi la coda muore al momento del distacco (che ne determinerà il deperimento) o invece quando ogni singola cellula che la compone sarà morta? E se rianimassimo la coda in laboratorio (come il celebre esperimento di Luigi Galvani sulle rane) potremmo considerarla viva dopo la morte?
Insomma, Bodei dice il vero quando parla di limiti valicati e ormai costituiti da termini e definizioni colabrodo, ma la sensazione è che l’aspetto caotico dell’intreccio che comprende l’esistente sia ancora più profondo di come viene descritto nel saggio – e il motivo è in quanto già descritto con le parole dello scrittore statunitense.
Alla possibile fine della morte per proclamata possibilità del suo superamento tecnico (e al suo corrispettivo culturale di “fine della morte in quanto cessazione del suo fascino”) si affianca la sconfitta della morte per assenza di differenze con ciò che dovrebbe contrapporvisi, la vita. Una coppia – quella dell’antropotecnica insieme all’impossibilità di formulare una definizione soddisfacente di vita – che rende conto di un panorama se possibile più distopico di quello che si intravede nelle parole di Bodei.
Rimane la sfida etica, quella di essere consci di questo strapotere e decidere consapevolmente di non abusarne, dei supereroi con tanto di kit di ricambio organi”.

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