In ricordo di Fratel Biagio

Riporto il caldo saluto che don Agostino Petriciello rivolge oggi, sulle pagine di Avvenire, a fatel Biagio Conte, scomparso a Palermo in questi giorni a causa di una malattia.

“Fratel Biagio è morto? No, questa è una menzogna. Fratel Biagio è vivo, più vivo che mai, adesso che è volato via da questo mondo. Lo incontrai, ci incontrammo. Insieme ci calammo nelle acque pure del Vangelo e della preghiera per tentare di dissetare l’arsura che ci portiamo dentro. Quel giorno, come sempre, avevo pregato: «Manda, Signore, un angelo sul mio cammino». E l’angelo, ancora una volta, arrivò. Aveva un volto pulito, incorniciato da una barba incolta che gli dava l’aspetto di un antico patriarca; un sorriso largo, sereno, leggero. E degli occhi stupendamente verdi. «Come sono belli gli angeli», pensai. E mi misi alla tua scuola. L’angelo non va ostacolato, ma ascoltato, seguito. Quante volte ero stato ad Assisi? Quante volte avevo desiderato di poter essere stato contemporaneo di Francesco? Quante volte avevo sostato e sognato davanti al suo saio, ormai quasi ridotto in polvere? Un giorno lo incontrai sul mio cammino, Francesco. Si chiamava Riccardo. Chiedeva la carità di un passaggio in auto. Incuriosito, mi fermai. Mi riportò alla fede. Poi, come un’aquila alla quale va stretto il nido, volò verso un Paese da cui tanti fratelli scappano. A servire un popolo che tanti potenti affliggono. A farsi povero per loro e con loro. Oggi lo vedo poco. La Tanzania è lontana. Rimane l’affetto, la riconoscenza, la collaborazione, la nostalgia. Il desiderio e il bisogno di essere scandalizzato ancora dalla radicalità dei coraggiosi.
E arrivasti tu, Biagio. A ricordare a me, alla Chiesa, al mondo, che l’amore vero non conosce le mezze misure; che gli innamorati sanno osare, rischiare, mettersi in gioco, sfidare il destino. Sempre eccessivi, sempre presenti. Sei stato un ingordo, frate. Hai affollato quella schiera di uomini e donne che non si accontenta mai. Che guarda continuamente oltre l’orizzonte. Che non ha paura di niente, nemmeno del peccato. Che non si ferma nemmeno davanti all’evidenza. Milioni di persone muoiono di fame. Avresti voluto sfamarle tutte, ma non ti era possibile. Non ti sei arreso. Hai dato da mangiare ai poveri di Palermo. Confidando in Dio. Fidandoti della Provvidenza. Ai poveri di pane si aggiunsero i poveri di cuore, i poveri di spirito, i poveri di vita. Non ti sei scagliato con rabbia contro i rapinatori dei forni altrui, li hai cercati, li hai trovati, li hai aiutati a non perdere la speranza, la dignità, la fede. Sei stato, Biagio, un calcio negli stinchi per tanti tiepidi come me.
Il Francesco di Assisi siciliano del nostro tempo. Com’è bella la nostra santa madre Chiesa, frate. Questa grande famiglia dove c’è posto per tutti, santi e peccatori e peccatori trasformati in santi. Così simili, così diversi, così normali, così strani, così originali. Sei volato via a pochi giorni di distanza da papa Benedetto. Le differenze tra te e lui, tra la tua vita e la sua, saltano agli occhi. Eppure quanto vi somigliate. Con strumenti diversi e diverse voci, insieme avete cantato la serenata a chi vi aveva rapito il cuore. Che state facendo, adesso? Quale inenarrabile Mistero stanno contemplando i vostri occhi? Biagio, Benedetto, fratelli di tutti, pregate per noi.
Alla Sicilia, cui la mafia stupida e assassina, ha fatto tanto male, ha strappato tante vite, il Signore ha voluto regalare un uomo buono, semplice, spoglio, indifeso, ricco della sua sola povertà. Un uomo con le braccia larghe, lo sguardo lungo, il cuore senza confini. Non hai disprezzato niente dei doni che Dio ha dato agli uomini. Hai voluto condividerli con i poveri. In fondo – permettimi – sei stato lo scaltro del vangelo. Hai capito che la gioia non viene dal possesso e dal potere, ma dal servizio che si rende alle persone, soprattutto quelle che sanno gioire per le piccole cose. Quanto pane hai spezzato agli affamati? « Entra, benedetto dal Padre». A quanti ignudi hai offerto un mantello e un tetto perché non morissero di freddo e di vergogna? « Entra, benedetto dal Padre» Fratel Biagio, Pino Puglisi, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Doni immensi della Sicilia del nostro tempo alla Chiesa e al mondo. Prega per noi, frate. Continua ad essere l’angelo che ognuno desidera incontrare. Grazie per averci ricordato che «alla sera della vita ciò che conta è avere amato». Ottienici il dono della perseveranza, perché, come te, non ci stanchiamo di fare sempre e solamente il bene.”

Mandi Pierluigi

In alcune classi, talvolta, faccio un gioco che si chiama testa, cuore e mano. Lo utilizzo per cercare di comprendere che l’intelligenza di una persona può essere molteplice e avere molti luoghi di residenza, e che ciascuno di noi può coltivare molti talenti e che alla domanda “dimmi un po’, tu cosa sei capace di fare?” ci sono tante belle risposte da poter dare e che “so ascoltare”, “so amare”, “so ricamare”, “so zappare”, “so costruire ponti”, “so insegnare”, “so leggere” ecc ecc sono risposte bellissime. Ecco, ogni volta che faccio quel gioco mi vieni in mente Pierluigi. Mi viene in mente la testa: quando ancora andavo al Liceo a inizi anni ‘90 e a bordo di una sgangherata auto, in compagnia di altri amici, raggiungevo Zugliano per ascoltare persone che arrivavano da tutto il mondo e il convegno non era ancora il convegno che è diventato poi (penso la prima volta in vita mia in cui abbia sentito ‘benvenuta e benvenuto a ciascuna e ciascuno di voi’, un doppio saluto che suonava strano allora). Mi viene in mente il cuore: quello capace di generare forza e durezza con i potenti (coloro che hanno in mano le leve), sensibilità e ascolto con il mio cuore addolorato di una grigia domenica mattina dopo messa nella tua sacrestia. Mi viene in mente la mano: quella capace di creare un luogo di accoglienza, di relazioni, di impegno. Ti sono profondamente debitore don Pierluigi e, nel dolore, ho il cuore colmo di gioia per tutte le esperienze che mi hai fatto vivere e le persone che mi hai fatto conoscere, per quanto mi hai fatto crescere, per la speranza che sempre ti ha animato e che spinge chiunque abbia incrociato il tuo cammino a continuare l’impegno per l’accoglienza, la giustizia e la pace. Mandi Pierluigi

Radici cristiane, ma le foglie?

Un post piuttosto lungo e che affronta temi stimolanti che portano ad approfondite riflessioni. La fonte originale è Le Figaro, ripreso in Italia da Il Foglio. L’ho scovato grazie a una segnalazione di Oasis Center.

“Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica le radici cristiane delle nazioni europee. Una riflessione che l’autore aveva esposto in Situation de la France (2015). Da parte sua, nel suo nuovo saggio L’Europe est-elle chrétienne? Olivier Roy esamina la questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. La giornalista del Figaro Eugenie Bastié li ha fatti sedere per una discussione.
Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa?
Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario. Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 60 e 70 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito.
Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.

Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 60. Perché?
O. R. Fino agli anni 50, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 60 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con l’Humanae  vitae, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato come “pagana”.
P. M. E’ vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. E’ qualcosa di inedito. Va pure detto che la chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica.
O. R. Certamente la chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatore domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “princìpi non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione Benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione.

Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione?
P. M. Col concilio, la chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. E’ questo in particolare il caso dello stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione.
O. R. Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.

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La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta?
P. M. Francamente, almeno nel nostro paese, i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica.  Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica migratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico.
O. R. Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.

Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905? [La legge di separazione tra Stato e Chiese, ndr]
P. M. Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri princìpi, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria.
O. R. L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione.  La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in “modalità lubavitch”, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione.

Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente…
O. R. I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della  République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipi. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam.
P. M. Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna. Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.”

Simili? (e non è la Pausini…)

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L’Agenzia di Stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha pubblicato questo articolo:
Il PEW Research Center ha presentato i risultati di un’indagine sulle differenze teologiche in Europa occidentale e Stati Uniti. Dalla ricerca emerge una sostanziale similitudine di visioni fra protestanti e cattolici su molti temi riguardanti la fede, la grazia, la Bibbia, le opere, la Riforma e gli insegnamenti della chiesa. Ne parliamo con Gabriella Lettini, pastora valdese, docente di teologia etica presso la Facoltà Starr King School for the Ministry della Graduate Theological Union di Berkeley (California).
La metodologia di indagine ha visto due diversi approcci in Europa occidentale (dove sono state effettuate interviste telefoniche a 24.599 persone in 15 paesi) e negli Stati Uniti (dove l’indagine è stata condotta online tra 5.198 partecipanti). Poco più della metà dei protestanti statunitensi (52%) afferma che sono necessarie buone azioni e fede in Dio per “entrare in paradiso”, una posizione storicamente cattolica. Il 46% sostiene che sia sufficiente la sola fede per ottenere la salvezza (uno dei quattro principi fondamentali della Riforma: sola Scriptura, solus Christus, sola Gratia, sola Fide). Anche in Europa emerge la stessa tendenza, e dati simili riguardano chi sostiene che la Bibbia fornisca tutte le istruzioni religiose di cui un cristiano ha bisogno. Il 52% dei protestanti americani intervistati sostiene che i cristiani dovrebbero cercare la guida dagli insegnamenti e dalle tradizioni della chiesa, oltre che dalla Bibbia (una posizione tradizionalmente cattolica). Solo il 30% di tutti i protestanti statunitensi afferma che sono sufficienti la sola Fide e la sola Scriptura. Altro dato significativo, per cattolici e protestanti dell’Europa occidentale: c’è un livello relativamente alto di disaffiliazione (per fare due esempi, il 15% in Italia, fino al 48% in Olanda, sono le percentuali di chi si descrive come ateo, agnostico o “nulla in particolare”; ma, fra i protestanti praticanti olandesi, la percentuale di quelli che pregano quotidianamente (58%) e frequentano la chiesa ogni settimana (43%) è la più alta in Europa. In tutti i paesi europei, sia protestanti sia cattolici dicono di essere disposti ad accettare membri dell’altra tradizione come vicini o familiari.
Dalla ricerca sembrerebbe emergere un certo analfabetismo religioso; può confermarlo?
Penso che in parte questa ignoranza dottrinale sia il fatto che per molte persone il linguaggio dottrinale del passato non sembri più rilevante alla loro fede nel presente. Per molti credenti, poi, essere cristiani non si esprime necessariamente nella fedeltà ad una dottrina, ma nel seguire la chiamata di Cristo nella vita di tutti i giorni, nel modo in cui trattano il prossimo e si fanno promotori di pace e giustizia. L’occidente teologico cristiano ha dato molto valore all’ortodossia, ma per molti credenti, in tante parti del mondo, la fede si esprime soprattutto nell’ortoprassi. Le teologie della liberazione si sono fatte portavoci di questa posizione.
In ambito teologico e dogmatico, quanto sono, ancora, importanti i concetti di sola Scriptura, solus Christus, sola Gratia, sola Fide?
La ricerca PEW ci fa vedere come siano le correnti evangelicali più conservatrici, e non i Protestanti delle chiese storiche, a parlare di sola fede e sola scriptura. Molti di loro stanno offrendo supporto all’ideologia per nulla cristiana del presidente Trump. Personalmente preferisco la creazione di nuovi linguaggi teologici che ci aiutino ad essere più vicini al messaggio di amore e giustizia del vangelo, che alla fedeltà a categorie che non sono necessariamente più così rilevanti o sono magari diventate problematiche.
Secondo lei, c’è qualche problema nelle chiese riformate (ma anche cattoliche) nell’approccio alla fede, alla lettura della Bibbia, all’approfondimento in generale?
Per me credo il problema principale sia il fatto che il Cristianesimo sia spesso stato complice, se non istigatore, di alcune fra le più grandi atrocità della storia del mondo. Solo pensando agli ultimi 500 anni, abbiamo la conquista coloniale e il genocidio nelle Americhe, la tratta degli schiavi africani, l’apartheid e la segregazione razziale, l’anti-semitismo, la giustificazione della discriminazione e della violenza contro le donne e le persone omosessuali e transessuali, lo sviluppo del capitalismo. Com’è stato possibile che le teologie dell’Occidente “Cristiano” non siano riuscite ad offrire un correttivo a queste aberrazioni della fede Cristiana? Forse ci sarebbero dovute essere altre questioni al centro del pensare teologico.”

If God will send his angels

IF GOD WILL SEND HIS ANGELS (U2, Pop)
Nessun altro qui, baby, nessun altro da biasimare
Nessuno su cui puntare il dito… Solo tu ed io e la pioggia
Nessuno te l’ha fatto fare Nessuno ti ha messo le parole in bocca
Nessuno qui prendeva ordini
Quando l’amore ha preso un treno per il Sud
E’ il cieco che guida la bionda E’ roba, roba da canzoni country
Ehi se Dio mandasse i suoi angeli E se Dio mandasse un segno
E se Dio mandasse i suoi angeli Sarebbe tutto a posto?
Dio ha il telefono staccato, bimba Prenderebbe mai su se potesse?
E’ passato un po’ di tempo da quando si è visto quel bimbo
In giro da queste parti. Vedi Sua madre spacciare in un portone
Vedi Babbo Natale con un piattino dell’elemosina.
Gli occhi della sorella di Gesù sono piaghe…
La strada maestra non è mai sembrata così meschina
E’ il cieco che guida la bionda Sono i poliziotti che riscuotono i soldi delle truffe
Così dov’è la speranza e dov’è la fede… e l’amore? Cos’è che mi dici?
L’amore… accende il tuo albero di Natale? Un minuto dopo, ti scoppia un fusibile
Ed il “cartoon network” diventa il telegiornale
Ehi se Dio mandasse i suoi angeli Ehi se Dio mandasse un segno
Beh se Dio mandasse i suoi angeli Dove andremmo?
Gesù non lasciarmi mai andare Sai che Gesù mi spiegava come stanno le cose
Poi hanno coinvolto Gesù nello “show business”
Adesso è difficile entrare da quella porta E’ roba, è roba da canzoni country
Ma immagino che fosse qualcosa per cui continuare
Ehi se Dio mandasse i suoi angeli Sicuramente potrei usarli qui proprio adesso
Beh se Dio mandasse i suoi angeli Dove andremmo?…
(…)
Le cose non stanno andando affatto bene e sorge la classica domanda contenuta nei libri dei Profeti: Dio che fa? Beh, la risposta di Bono è durissima: Dio ha il telefono staccato. Ricorda molto il Dio di Ligabue a cui viene chiesto un momento per rispondere a tre domande; il rocker di Correggio conclude con “quanto mi conta una risposta da te, di su, quant’è? ma tu sei lì per non rispondere… perché nemmeno una risposta ai miei perché”. Certo, un telefono staccato è angosciante: la possibilità di comunicazione c’è, il mezzo c’è e potrebbe pure funzionare, ma colui che è all’altro capo del filo ha deciso di non voler essere disturbato, o comunque di non voler parlare. Il verso successivo degli U2 è una domanda che spalanca un’altra serie di interrogativi: “prenderebbe mai su se potesse?”. Dio non può rispondere? Non è onnipotente? E’ onnipotente ma non si immischia? E potendo, perché non rispondere? Non vuole? Non ascolta per non essere angustiato nella sua impotenza? Non ascolta perché non gli interessa?
Il bambino che non si vede in giro da un po’ di tempo è Gesù; seguono due figure legate chiaramente a lui nel testo, “Sua madre” e una sorella, e un personaggio che pare non c’entrare nulla come Babbo Natale ma che colpisce in quanto Babbo posto tra una madre e una figlia: insomma può apparire un ritratto di famiglia! Certo “decadentino”: Maria che spaccia, Babbo Natale che invece di donare i regali agli altri fa l’elemosina e la sorella di Gesù con gli occhi piagati! Insomma il panorama non è per nulla godibile, tanto che gli U2 si chiedono dove siano finite le tre virtù teologali: “Così dov’è la speranza e dov’è la fede… e l’amore (carità)?”.
L’unica possibilità resta Gesù, quello vero però, e non quello dei telepredicatori e delle show business.

Questo acconsentire è l’amore

Oggi ho voglia di distogliere lo sguardo e seguire Simone Weil: “Privarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare a essere nell’immaginazione il centro del mondo, distinguere tutti i punti del mondo come centri allo stesso titolo e il vero centro come esterno al mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e della libera scelta al centro di ogni anima. Questo acconsentire è l’amore. Il volto di questo amore rivolto alle persone pensanti è carità del prossimo; il volto che guarda la materia è amore dell’ordine del mondo, o, che poi è la stessa cosa, amore della bellezza del mondo.”

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