Gemma n° 2261

“1° Settembre, 2022
h. 22.30
Quando manca una persona a noi cara cerchiamo immediatamente di raccogliere ogni cosa possa rammentarcela. Una frase, un oggetto, un ricordo qualunque, come se avessimo paura che con la morte fisica, quella persona non esistesse più, si cancellasse dalla nostra mente.
La verità è che, nonostante i ricordi sbiadiscano, l’essenza dell’anima è immortale. Quella persona vive in noi, è nei nostri modi di dire, nelle nostre azioni quotidiane, è legata a noi per sempre in una maniera che non potremo percepire finché non la riabbracceremo.
Le anime si ritrovano sempre.”
(B. classe quinta).

Gemma n° 2129

“Trieste è una città a cui sono sempre stata particolarmente legata. Lì abita una parte della mia famiglia ed è per questo che ci vado spesso. Dato che vengo da un paesino poco popolato, da piccola l’ho sempre vista come New York, piena di persone e tanti modi diversi per divertirsi. Anche se adesso non è più ancora tutto da scoprire come prima, non mi stanco mai di guardarla e di visitare i miei posti preferiti. Trieste mi piace a partire dal paesaggio marittimo, il forte vento e lo stile antico degli edifici. Adoro soprattutto come l’atmosfera cambia di stagione in stagione. D’estate è bello camminare lungo le rive, passare per il viale pieno di cinema e ristoranti di svariate culture, andare a teatro e girare per le librerie; inverno sta invece per pattinaggio sul ghiaccio, mercatini, frittelle e succo di mela caldo. Più di tutto, però, amo Trieste per i bei ricordi che mi regala ogni volta che ci torno. Mi fa ripensare a tempi più spensierati prima del covid quando vedevo la vita in modo diverso. Inoltre sono grata a Trieste per avermi sempre donato una sensazione di rifugio quando nel luogo in cui vivo la situazione non era delle migliori” (S. classe prima).

Gemma n° 1967

“Ieri avevo scritto una lettera, ma poi l’ho riletta ed era solo uno sfogo, quindi ho portato questo. E’ un post che ho messo su una mia pagina personale due giorni dopo la morte di G.
In queste poche righe c’è tutta la nostra amicizia: lui spiegava le stelle dal nulla, nei momenti vuoti tirava fuori il telefono e ci diceva che stelle avevamo sulla testa e le descriveva (poi non ho mai capito se era una sua passione o meno perché con lui non si capiva mai se era ironico o meno). La mia compagnia per i 17 anni mi ha regalato una stella; fa strano perché è un regalo grande, ma è come se si sentissero che l’anno dopo non ci saremmo stati tutti. “Tua Glory” è perché quando eravamo insieme lui dal nulla un giorno mi ha chiamato Glory invece che G. e abbiamo iniziato a chiamarci così. E questo è quello che dedico a lui, la sua stella, perché è lì, spero sia lì”.

Ho sempre pensato che quando una persona amata se ne va ci lascia una sorta di testamento spirituale: continuare ad alimentare con amore la relazione che c’era, in modo da percepirne la presenza, da sentire che vita e morte fanno parte di una stessa esistenza. Ecco, in quel “ti prometto che ogni tanto, non sempre, mi siederò su una panchina di notte e dal nulla inizierò a dire a chi ho intorno che stelle hanno sulla testa, come facevi tu” che ha scritto G. (classe quarta) vedo proprio quel testamento spirituale.

Gemma n° 1944

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“Come gemme ho deciso di portare la musica e la danza: due elementi fondamentali della mia vita. Ho deciso di portare queste due perché sono fortemente e inevitabilmente legate l’una all’altra. La danza per me é tutto, è un intersecarsi di gioia, dolore, frustrazione, delusione, realizzazione, emozione e talvolta é ciò che mi motiva a migliorarmi quasi ogni giorno, anche se fare la ballerina non è la mia aspirazione. Il movimento lo sento parte di me, nella danza ci sono forza, grazia, agilità, espressione, delicatezza, ma anche impetuosità. Anche quando non sono a lezione io ballo, esprimendomi attraverso ciò.
La danza e la musica hanno per me un elemento in comune, sono una specie di terapia per qualsiasi cosa, che sia positiva o negativa. Sto con la musica praticamente tutto il giorno, che io la ascolti, che io canti, che suoni uno strumento o che mi risuoni nella mente, lei c’è. È proprio una presenza che da piccola mi ha aiutato a superare paure e tensioni, che alle medie mi aiutava a fare i compiti di matematica e che ora mi dà la motivazione giusta per affrontare ogni giornata. Non penso sarei me stessa senza la musica e la danza, ed è qualcosa difficile da immaginare se non lo si prova. Una delle sensazioni più belle che la danza mi abbia mai fatto provare è quando, iniziando una lezione piena di rabbia, delusione o frustrazione, ne uscivo fisicamente esausta e sfinita e ciò mi dava una pace mentale e una riconciliazione con me stessa incredibile.
Per concludere e riassumere tutto potrei dire che la danza e la musica fanno respirare la mia anima.”

Platone diceva che “La musica è per l’anima quello che la ginnastica è per il corpo”. In E. (classe seconda) i due elementi si fondono e danno vita alle bellissime parole della sua gemma. Il respiro della sua anima lei lo trova lì e ognuno ha il compito di trovare come far respirare la propria. Goethe suggerisce una possibilità: “Si dovrebbe, almeno ogni giorno, ascoltare qualche canzone, leggere una bella poesia, vedere un bel quadro, e, se possibile, dire qualche parola ragionevole.” Grazie a E. per la sua parola ragionevole e appassionata.

Gemma n° 1940

“La mia gemma sono due cose strettamente legate tra loro. La prima è un foglietto con due cuoricini che sono stati fatti dai miei nonni e che tengo sempre con me: credo che quando sarò maggiorenne farò un tatuaggio così. La seconda è un brano di musica classica di Chopin, il preferito dei miei nonni. La prima volta che l’ho sentito è piaciuto subito anche a me, pur essendoci tanti bei brani di classica. Ogni volta mi trasmette molta leggerezza e mio padre, che sa suonare bene, me lo suona sempre e mi piacerebbe diventare brava e impararlo.”

Il legame con le radici (i nonni), la relazione col presente (il papà che suona al piano lo studio Op. 10 No. 3 di Chopin), la proiezione sul futuro (il tatuaggio, la voglia di imparare il brano). C’è tutta una vita in questa gemma di G. (classe prima). E pensare che proprio Chopin ha detto “Bach è un astronomo che ha scoperto le stelle più belle. Beethoven si misura con l’universo. Io cerco solo di esprimere il cuore e l’anima dell’uomo.”

Gemma n° 1925

“E’ una foto scattata ieri mentre andavo a fare una passeggiata. Non sapevo cosa portare e tornata a casa ho scritto alcuni pensieri fatti durante la passeggiata: ho pensato di condividerli oggi.
Giornata splendida dopo una settimana volata tra pioggia, allenamenti e verifiche, perché non andare a fare una passeggiata nel bosco per schiarirmi le idee?
Non è un periodo facile, non riesco a trovare la motivazione giusta per fare nulla, non trovo uno scopo, il mio scopo, ma magari sono stati solamente giorni faticosi, sono solo stanca.
Esco, cuffiette nelle orecchie, alzo il volume fino a che il rumore dei miei passi non scompare, chiudo la porta di casa e parto.
È stata una camminata di circa 50 minuti in cui ho ascoltato musica ininterrottamente, ma non saprei nominare nemmeno un titolo tra le canzoni ascoltate perché i pensieri erano più assordanti.
Mi sono ritrovata sola, sperduta per il bosco del mio piccolo paesino a fare i conti con me stessa ed è stata la cosa più difficile del mondo. Inconsciamente la mia mente ha iniziato a vagare, a scavare sempre più a fondo nei ricordi, ripensando a quanto successo negli ultimi sei mesi, poi in terza, seconda, prima superiore, fino ad arrivare alla terza media. Qui le riflessioni si sono protratte per più tempo, accompagnate da lacrime e singhiozzi che non riuscivo a sentire a causa del volume troppo alto, come se non riuscisssi ad accettare il mio dolore, come se non avessi il diritto di piangere.
Ad un tratto parte una pubblicità di Spotify che mi strappa un sorriso, ritorno con la testa alla mia passeggiata e mi sento stupida a camminare per i campi sola e piangendo.
Riparte la musica. Ormai penso di essermi sfogata e di poter godermi finalmente la passeggiata, ma ad un tratto, senza volerlo eccoli lì di nuovo, questa volta però sono i ricordi dell’estate tra la prima e la seconda elementare…quella maledetta estate.
Piango.
Cerco di distrarmi, ma l’unica cosa a cui riesco ad aggrapparmi sono i miei amici, più o meno recenti, e tutto d’un tratto mi sento incredibilmente sola, sento un vuoto dentro che ho paura di non riuscire a colmare, ho paura di non farcela, di deludere tutti.
Non riesco più ad ascoltarmi e comincio a correre. Mi sfogo. Ricomincio a camminare.
Arrivata a casa mi accorgo di aver passato l’ultimo tratto di strada senza aver ascoltato né le parole della canzone, né i miei pensieri, come se per un momento tutto il mondo si fosse messo in pausa.
Quanto fa paura restare soli con se stessi”.

E’ difficile commentare la gemma di R. (classe quarta) tanto è ricca di suggestioni, emozioni, riflessioni. Ha premesso di non sapere cosa portare: ci ha portato in classe se stessa, la sua interiorità senza sovrastrutture o artificiali costrutti, un suo momento di fragilità e al contempo di forza. Non poteva farci regalo più grande. E mi ha anche ricordato di ricominciare a fare una cosa che da un po’ non faccio: deserto. Per me ‘fare deserto’ ha sempre significato prendere del tempo per me, isolarmi, appartarmi, mettere a tacere le voci delle cose da fare, degli impegni, delle incombenze e, in questo silenzio, ascoltarmi. Un proverbio tuareg dice Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci. E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima. Può far paura restare soli con se stessi, ma penso sia la via da percorrere e che a forza di essere percorsa porti alla nostra anima. E’ tornando da lì che poi il deserto si fa sentiero, si fa viottolo erboso e si fa giardino; è tornando da quel deserto che il “vuoto dentro” si fa pienezza e la “paura di non farcela” si fa sfida e voglia di farcela.

Per non ridursi a formiche tecnologiche

«Che l’immagine dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal nostro furibondo potere». Ritengo queste parole decisamente interessanti e da esse si potrebbe partire per una discussione sui tempi attuali. Colpisce scoprire che siano state scritte nel 1955… Da almeno dieci anni nelle classi quinte faccio conoscere Hans Jonas e, in particolare, il suo scritto “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” per avviare una discussione e una riflessione sul tema del male. Un annetto fa ho messo da parte un articolo pubblicato da Avvenire che presentava il libro Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti dal quale sono tratte proprio le parole con cui ho aperto questo post. Ecco il pezzo per intero:

«Che l’immagine dell’uomo non vacilli, si offuschi e sbiadisca, che gli uomini non si riducano a formiche tecnologiche o edonisti senza anima o marionette frastornate dal nostro furibondo potere». A cosa attingere per evitare questa deriva? All’uso adeguato della filosofia che instrada verso la vita buona e all’esercizio della virtù? Sono dilemmi che hanno il sapore dell’attualità benché sollevate da Hans Jonas nel 1955. Potrebbe d’altro canto essere diversamente se «le questioni filosofiche – puntualizzava il pensatore sei anni prima – si ripropongono ad ogni nuova epoca tanto daccapo, quanto alla luce della loro intera vicenda storica antecedente?». Le citazioni provengono dalle annotazioni del filosofo appartenenti alla sua stagione canadese, dal 1949 al ’55.
A lungo conservate all’Hans Jonas Nachlass dell’università di Konstanz sono state ripescate e raccolte in anteprima mondiale da Fabio Fossa in questo libro (Sulle cause e gli usi della filosofia e altri scritti inediti, Ets, pp. 120, euro 10). Hans Jonas non è tra gli autori più conosciuti al grande pubblico eppure il suo curriculum scintilla. Dopo gli studi con Rudolf Bultmann e Martin Heidegger nella Germania degli anni Trenta, prende la via dell’esilio, lontano dall’Europa. La sua vita però non si riduce a studio e contemplazione. Anzi l’agire ne costituisce una cifra di rilievo. Lo prova, nel corso della Seconda guerra mondiale, la scelta di arruolarsi nella Jewish Brigade, inquadrata nell’esercito britannico e operativa sul suolo italiano. I rapporti con la penisola scandiscono la vita di Jonas. Sarà proprio al rientro dall’Italia, nel 1993, dopo avere ricevuto il Premio Nonino dedicato ai maestri del nostro tempo, che il filosofo tedesco naturalizzato americano si spegnerà a New York all’età di novant’anni.
Il nome di Jonas comincia a uscire dai cenacoli dotti appena pubblica Il principio responsabilità, dove traccia un’etica all’altezza della civiltà tecnologica. Siamo, con Jonas, lontani anni luce dalle prefiche apocalittiche. La Guerra fredda imperversa (è il 1979) e molti continuano a gridare al pericolo rosso, pronto a sbarcare in Afghanistan. Pochi invece si curano dei potenziali sviluppi distruttivi della civiltà a più alto tasso tecnologico mai esistita. Eppure la riflessione sul ‘Prometeo scatenato’ occhieggiava già da tempo tra le note di Jonas. Lo testimoniano gli scritti del soggiorno canadese che sono tutt’altro che una parentesi nel cammino di pensiero di Jonas. Già con il breve Introduzione alla filosofia e con Virtù e saggezza in Socrate preparati nell’inverno del 1949 per i corsi del Dawson College della McGill University, emerge la costante attenzione all’uomo e alla vita buona, medicina per non trasformarsi in «formiche tecnologiche».
«L’uomo è il risultato delle sue azioni passate – scrive nel 1949 in Introduzione alla filosofia-. Intendo il passato culturale della stirpe, custodito nella memoria storica; e solo fintantoché questo passato è realmente ricordato l’uomo è davvero consapevole del proprio esistere presente e, di conseguenza, dell’autentico significato attuale dei propri problemi esistenziali». È questa dimensione storica che gli consente di porsi di là del dualismo tra intelletto e vita, tipico della filosofia greca. Ma la sua storicità non garantisce nulla se non un punto di partenza. Occorre, all’uomo, inseguire la vita buona e praticare la virtù, rovello dello sforzo teoretico di Jonas. Agire eticamente nel mondo storico perseguendo la virtù consente di evitare le spirali dello gnosticismo o le storture del sogno scientista che «promuove la massima realizzazione di tutti i fini desiderabili attraverso la semplice messa a disposizione dei mezzi».
Occorre ricucire lo strappo tra intelletto e vita. «L’approccio dualistico alla costituzione sostanziale dell’uomo – scrive già nel 1950 – rende conto del fatto che tanto la comprensione quanto la realizzazione del fine dell’uomo non dipendono da un processo di sviluppo spontaneo, ma dall’esercizio della virtù etica». Virtù che non può rimanere chiusa nell’autosufficienza dell’intelletto e che nello Jonas maturo assume i tratti della responsabilità nei confronti delle generazioni a venire. Responsabilità che faticherebbe a farsi largo senza la «fatica della filosofia, che deve sempre ripartire da capo, fondata com’è sulla ragione; e la ragione non è il freddo, impersonale intelletto, ma è pervasa dalla passione dell’amore o dell’onestà».

Contemplare

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Scrive Jacopo Fo su Il fatto quotidiano (questa la mia fonte):
“È ormai scientificamente dimostrato che esiste una zona cerebrale adibita specificamente alla produzione di sensazioni estatiche e al senso di appartenenza, a qualche cosa che ci pervade e ci innalza dandoci la sensazione di far parte di un tutto dominato dall’amore e dalla pietà e dotato di una progettualità rigogliosa, fantasiosa, stupefacente. Cioè il senso del sacro è fisiologico: a fianco delle pulsioni primarie (identificare, attaccare, fuggire, nascondersi) ne esiste una quinta: contemplare.
[…]
Io non credo all’esistenza di un Dio, né con la barba né senza.
Ma vedo che la realtà è profondamente magica, nel senso laico del termine, cioè è stupefacente al di là di ogni previsione, è smisurata, sorprendente in modo paradossale… Il creato è una fiera pazza di grandiosità.
[…]
E più ne sappiamo dell’universo più ci lascia sbalorditi. Sembra quasi che sia stato inventato per ingenerare la vertigine che proviamo se ci perdiamo negli incendi del tramonto. Questa assoluta assenza di limite è inebriante. Impossibile da contenere nella limitatezza dei miei circuiti neurali. Per secoli siamo stati convinti che in cielo ci fossero alcune migliaia di stelle. Poi abbiamo scoperto che ce ne sono miliardi nella nostra galassia, ognuna circondata da un numero fantasmagorico di pianeti, satelliti, asteroidi. Poi si è capito che esistono miliardi di galassie, talmente tante che non abbiamo ancora finito di contarle.
[…]
Non possiamo ridurre vita e morte a semplici accadimenti biologici. Sarebbe troppo triste! Troppo!
[…]
Non vedere il sacro, il superpotere, il miracolo, il privilegio, l’improbabilità schiacciante insita nel fatto di vivere e poter parlare e pensare e agire in modo preordinato è un’amputazione emotiva che ci danneggia e limita la nostra capacità di cogliere appieno il regalo della vita”.

Sul suo profilo facebook il teologo Vito Mancuso ha ripreso la notizia e ha scritto:
L’articolo di Jacopo Fo da me ripreso in questa pagina iniziava dicendo che è “scientificamente dimostrato che esiste una zona cerebrale adibita specificamente alla produzione di sensazioni estatiche e al senso di appartenenza”.
Non faceva nessun riferimento e giustamente qualcuno ha obiettato che, se si cita la scienza, occorre poi procedere scientificamente. Giusto. Siccome ho citato l’articolo di Fo con un certo plauso, mi sento in dovere di dare un contributo al riguardo.
Cito quindi dal volume di Franco Fabbro, “Le neuroscienze: dalla fisiologia alla clinica”, Carocci 2016 (n. 175 della collana Manuali universitari):
“Recentemente, attraverso una meta-analisi dei lavori di visualizzazione cerebrale riguardanti la meditazione, è stato evidenziato che le pratiche che si ispirano alla tradizione induista attivano prevalentemente le strutture dei lobi temporale e parietale (aree associate all’affettività e alla rappresentazione dello spazio e del corpo), mentre le pratiche che si ispirano alla tradizione buddhista attivano prevalentemente le strutture del lobo frontale (aree associate alle funzioni esecutive e all’attenzione volontaria) (Tomasino et al., 2012; Tomasino, Chiesa, Fabbro, 2014; Raz, Fan, Posner 2006)” – pp. 434-435.
Franco Fabbro, già docente di Fisiologia umana, è professore ordinario di Neuropsichiatria infantile all’Università di Udine, e ha all’attivo numerose pubblicazioni in italiano e in inglese.
Quindi?
Con questo non si dimostra né la verità della religione né l’esistenza di Dio né nulla di esterno all’uomo; si dimostra solo che la dimensione religiosa è fisiologicamente coerente con il fenomeno umano. Del resto c’è tutta la storia dell’umanità a dimostrarlo. Ovviamente con tutta la sua ambiguità, perché è noto che la religione, esattamente come l’umanità (scienza compresa), produce bene e anche male, e nessuno sa con certezza, se ci fosse una bilancia e si potesse pesare, se risulterebbe più pesante il bene oppure il male.
Tutto qui. Ovvero, summa summarum: chi ancora oggi medita e coltiva una dimensione spirituale non tradisce la sua umanità, ma la vive in pienezza a modo suo.”

Un’occasione per riflettere.

Gemme n° 385

Ho portato come gemma la sequenza di un film che consiglio perché ricco di scene e discorsi belli e commoventi: questa è una delle mie preferite”. Così si è espressa M. (classe quarta).
Riporto la frase del film tratto da “Novecento” di Alessandro Baricco: “Sapeva leggere Novecento, non i libri. Quelli sono buoni tutti. Sapeva leggere la gente, i segni che la gente si porta addosso, posti, rumori, odori. La loro terra, la loro storia, tutta scritta addosso. Lui leggeva e con cura infinita catalogava, sistemava, ordinava in quella immensa mappa che stava disegnandosi in testa. Il mondo magari non l’aveva visto mai, ma erano quasi trent’anni che il mondo passava su quella nave. Ed erano quasi trent’anni che lui su quella nave lo spiava. E gli rubava l’anima.” Novecento lo fa attraverso un pianoforte; a me piace farlo da dietro l’obiettivo di una macchina fotografica. Immortalare una persona sconosciuta, immaginarne la storia, i pensieri, le emozioni; farli miei, darne un’interpretazione personale. Non è detto che corrisponda alla verità, non è quello che conta.

Gemme n° 330

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Questo foglio è l’ultima cosa datami da mia madre l’ultima volta che ci siamo visti. Volevo portare altre due cose, poi ho deciso per questa perché mi rende felice. Ieri ho avuto il coraggio di rileggerlo per la prima volta, perché mi bastava pensare alle parole che mi aveva scritto per essere contento. Ho pensato al bellissimo rapporto che ho sempre avuto con lei. E allora ho voluto portare qualcosa di positivo perché ultimamente vedevo le cose in modo piuttosto negativo. Ieri, dopo aver riletto il foglio, non sono stato bene per un po’, anche perché ci sono due frasi personali in cui mi dice delle cose bellissime.” Questa è stata la toccante ed emozionante gemma di G. (classe quinta).
Sto sistemando le gemme in questa mattina di giorno libero di un venerdì di novembre avvolto dalla nebbia; ripenso alla commozione vissuta da G. mentre parlava e a quella dei compagni che lo ascoltavano con gli occhi lucidi. E mi viene da dire una cosa agli adulti. Non ignoriamo questi ragazzi che vivono le nostre città, non sottovalutiamo quello che hanno dentro; ci sono mondi bellissimi, fatti di sensibilità, unicità, sentimenti nobili. Non fermiamoci alla nebbia del “Ah… questi giovani…”. Ci sono tante anime belle, basta guardarle con gli occhi del cuore.

Fame di anima

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E’ dal 15 ottobre che sul blog compaiono “soltanto” le gemme. Sono stato assorbito da impegni di lavoro stringenti, l’ultimo dei quali, ieri pomeriggio, mi ha lasciato l’amaro in bocca e la sensazione che il lavoro che ho scelto di fare si stia lentamente trasformando in altro se non sto attento a mettere in chiaro delle cose con me stesso e con gli altri. Non è la prima volta che succede e ormai ho capito quale sia la migliore medicina in queste occasioni: nutrire la mia anima con quella di qualcun altro. Ho scelto le parole di Alda Merini e di una pagina del suo “Cantico dei Vangeli”:

Alzatevi dalle vostre sedie di dolore
e mangiatevi un corpo d’anima
e dimostrate a tutti
che senza denti voi divorate l’acqua
e che i secoli discendono dalle montagne.

Voi siete padroni dei secoli;
cosa vale un tradimento
di un miserrimo Giuda
di fronte all’incantesimo del mio respiro?
Io alito su tutte le cose,
sono il germe di Dio,
sono il fabbriciere delle nuvole,
dei tuoni,
delle profondità della terra.
Vi do il mio pane
perché sappiate di quanta abbondanza
un giorno voi sazierete la vostra anima.
Voi avete fame di anima,
e io ve la regalo
perché l’anima è come un feto
che sta nel vostro grembo
e non riesce a giungere
al nono mese
né riesce a risalire
le correnti del grande dolore.
Ma io vi stupirò
dimostrando che voi vivete
accanto all’uomo
che è identico a voi stessi,
che sono io,
io, la vostra anima.”

Pentolino di latta

pentolino

Nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza, e la parola umana è spesso come un pentolino di latta su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle.”
(Gustave Flaubert, Madame Bovary)

“Viaggiatori di mari e monti, procacciatori d’orizzonti, esploratori d’anime”

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Veronica è stata una mia studentessa, uscita dal liceo qualche anno fa. Cervello finissimo, idee acute, sensibilità profonda. Sul sito L’undici così si presenta: “In bilico fra cosmopolitismo e apolidia, sono figlia contraddittoria di un decennio complesso. Esteta ed esistenzialista, amo definirmi controcorrente e resiliente, in preda a un’irrinunciabile crisi di fine secolo. Szymborska e Cioran i miei feticci letterari, il dottor Sean McGuire e il professor John Keating i miei guru spirituali, Hopper nell’arte e Einaudi al piano i quotidiani sollievi dall’affanno. Scrivere è un modus vivendi, citare latinismi un hobby. Mi nutro di parole, dubbi e verità. Talvolta, rido. Infine, amo.” Da poco ha scritto questo articolo che trovo ricco di spunti, suggestioni, idee, occasioni per riflettere. Sì, è un po’ lungo, ma è un viaggio che vale il costo del biglietto.
«Naufragium feci, bene navigavi»
Semplicità in pillole, come ogni aforisma che si rispetti: lapidario, come ogni piccola grande verità formato tascabile; imperfetto, come ogni prodotto d’umana fattura.
A colpo d’occhio, complice il maldestro latino di chi scrive, anche la traduzione risulta criptica come non mai: “Sono naufragato, ho ben navigato”. Sarà effettivamente vero?
Attribuite a Zenone di Cizio, quelle poche parole si imprimono – indelebili – come una pronuncia di condanna. Un incipit malaugurante? Non direi. Si tratta piuttosto di una sentenza che evidentemente ha sortito l’effetto sperato dall’autore, cogliendo nel segno dell’applicabilità universale: difficile non ritrovarcisi. Seppur in modi diametralmente opposti a quelli del padre fondatore dello stoicismo, mi sono più volte interrogata su dubbi d’antidiluviana memoria, anche se con risultati scarsamente brillanti. A mia discolpa, non posso che raccontarvi la storia dietro i volti di chi ho conosciuto, volutamente o per sbaglio: frammenti d’identità che si inscrivono in quella galassia multisfaccettata chiamata “vita”. O “viaggio”. Facite vos.
Cos’è il viaggio, in fondo?
Quale intendimento primigenio ne è alla fonte? Quali considerazioni spingono una persona, con le sue complessità e i suoi dubbi, a prendere il largo, armi e bagagli appresso? Forse, il desiderio di lasciarsi alle spalle un passato scomodo in forza di un futuro non meglio specificato? Oppure il naturale prosieguo di un’esistenza il più delle volte bisognosa di sale, pepe e spezie? Che sia la metafora di un lavorio interiore? La pura meccanica dello spostamento di fisicità da un luogo a un altro? Partecipazione emotiva o distacco “fotografico”? Piacere tout court o sofferente necessità?
Tralasciando celebri similitudini d’altri tempi e d’oggigiorno, mi chiedo cosa rappresenti per le persone come noi. Certo, come me, come Voi. Non per l’eclettico Steinbeck, né per il nostalgico Proust sempre in odor di madeleine; non per il pragmatico Bukowski, né tantomeno per quel “disobbediente civile” patentato di Henry David Thoreau. Non è la percezione letteraria che vado cercando, bensì il significato e il significante che il viaggio assume per ognuno di voi, cari Lettori. Con tutto ciò che ne consegue, luci e ombre. Al solito, la straordinaria varietà umana giunge in mio soccorso, dandomi man forte anche in questo ennesimo percorso di ricerca. È così che ho conosciuto decine di storie, di falsi miti, di autoinganni, di luoghi comuni, di esigenze fasulle, di sogni infranti, di vite spezzate, di velleità traballanti, di certezze apparentemente incrollabili.
E penso al “viaggio della speranza” di Alina, madre ancor prima che grande lavoratrice, partita molti anni or sono per un paese lontano con un biglietto di sola andata, vane speranze, tante aspettative e un pensiero sempre fisso: garantire un futuro migliore ai propri figli. Ci è riuscita. Rifletto poi sul beffardo destino di Paola che, come una fenice risorta dalle ceneri di un’insicurezza antica, ha saputo ergersi al di sopra d’ogni convenzione sociale, in barba al finto buonismo che permea menti e cuori di molti. Dopo immani sforzi, ora è tornata a nutrirsi nuovamente di vita, incurante e al contempo cosciente dei rischi corsi. Il timore della perdita, l’incertezza dell’ignoto, la voglia di ricominciare daccapo, la beltà di riscoprirsi in terra straniera: il viaggio è questo e molto altro.
Rimugino ancora e, fra mille trame intricate, scorgo quelle di Erica, temprata da tante remore e altrettanti andirivieni, sempre in bilico fra il coraggio di restare e la forza di andare. Salpare verso nuove frontiere, perdersi nelle esistenze altrui, trovarsi su sentieri sconosciuti capaci di (tra)valicare il senso stesso del vissuto, smarrirsi nella prepotenza di certi incontri e librarsi nella delicatezza di tanti altri: anche questo è viaggiare, ognuno a modo suo e per conto suo. Difficilmente si vaga senza meta, anche quando la bussola impazza.
E nel mio veleggiare di memorie, m’imbatto tutto a un tratto in Anna, nel suo dolore. Divenuta precocemente donna, ha saputo trascendere l’ordinario, colmando il vuoto della perdita con l’affanno della frenesia: il lavoro, gli impegni, le rinunce, l’ansia, le privazioni. Resilienza e sublimazione. Perché il viaggio è anche questo: talvolta, un approdo sicuro al riparo dalla tempesta; altre volte, una risacca che sospinge verso il mare in burrasca. Naufragium feci.
Accantono le contorsioni mentali – mi spingerebbero troppo al largo – e, con fare quasi voyeuristico, decido di soffermarmi sui più piccoli particolari di quello spaccato d’umanità che ho sbadatamente incrociato e che, lo ammetto, si è rivelato provvidenziale. Ho avuto la fortuna di essermi trovata vis-à-vis con report di viaggio sorprendenti: stralci di vita che, proprio in virtù della loro diversità, riguardano chiunque e spiegano tutto. In cuor mio, mi rallegro per l’esperienza – anche indiretta – che mi scorre nelle vene: la sento viva, pulsante, chiaramente vibrante.
E mi commuovo pensando a Melania, al vuoto emozionale che la circonda e all’inesauribile ricchezza interiore che l’alimenta.
E mi tocca il cuore il coraggio di Matteo che, sordo dinanzi alla sfiducia di amici e familiari, ha lasciato un lavoro inappagante per inseguire un sogno d’infanzia, a detta di tutti mera “utopia fanciullesca”: oggi Matteo è ciò che voleva essere e lo deve soltanto a se stesso, al suo istinto, all’averci creduto. Bene navigavi.
Il viaggio è anche ma soprattutto questo: una lotta contro il tempo, una fuga dall’incomprensione, un rimedio all’indifferenza, un antidoto all’incomunicabilità, un modo di essere con se stessi e il mondo attorno; non da ultimo, una forma di libertà.
Al di là di ciò che si voglia o possa pensare, il viaggio è un passaporto per una vita inclassificabile, fuori dagli schemi convenzionali in cui tendiamo ossessivamente a collocarci: da qui la sua “funzione pubblica”, quale via salvifica per contrastare la tirannia dell’effimero che intacca purezza e nobiltà d’intenti. In sintesi, la nostra felicità.
Le circostanze in cui siamo immersi, quella congiuntura storica che ci rende tutti figli di un secolo incredibilmente contraddittorio, l’onnipresente economia di mercato, quel turboliberismo che – nell’offrirci troppo – non ci lascia scelta, la “modernità liquida”, l’inconsistenza delle convinzioni, la fluidità del pensiero, quelle ideologie che – date per morte – ancor oggi informano governi e società, le torsioni distopiche, le incertezze ontologiche: sono questi gli elementi che più ci spingono a viaggiare, a scappare da fame e guerra, dalla mancanza di comodità, da un disturbo compulsivo, dalla bulimia mediatica, dalla persona che ci ha tradito, da un lutto non rielaborabile, da una delusione cocente, dalla frustrazione di una condizione familiare non più sostenibile. A conti fatti, il viaggio non è che una reazione sociale: ci si tende a dileguare da un mondo non più a misura d’uomo, malato di competizione, patologicamente afflitto dal denaro e dimentico della sua umana dimensione. Pertanto, il lascito di un’epoca come la nostra rende il viaggio sì faticoso, ma anche una tappa obbligata: un’indiscussa opportunità di rinascita, che richiede audacia e temerarietà. Insomma, il viaggio non è per tutti, ma fa al caso di molti, questo sì.
La dilatazione spropositata delle categorie che ci orientano nel quotidiano – spazio e tempo in primis – porta con sé annessi e connessi, eppure è proprio grazie all’unitarietà della comunicazione globale che ho riscoperto il fascino perduto per “le vite degli altri”. Non quelle tratteggiate dal premio Oscar von Donnersmarck, s’intende: qui l’unico muro è quello dell’immaginazione, dell’infinito oltre la siepe che tutto può, crea, distrugge e improvvisa dal niente.
Il bagaglio esperienziale e interpersonale, proprio della dimensione erratica, fa del viaggio un leitmotiv letterario, un fil rouge che lega persone spiritualmente feconde a vicende errabonde: un patrimonio a disposizione di tutti. È proprio dall’incontro tra la letteratura e questa quotidianità che nascono i grandi classici, “capolavori trasversali”: quelli che sanno parlare in più epoche a più generazioni di più genti, usi, costumi, formae mentis, in un formato a prova d’estinzione. È così, con la parola scritta più che con la trasmissione orale, che “le vite degli altri” divengono in parte anche “nostre”, da storie individuali a racconto collettivo: testimonianze di un adattamento sempre possibile, anche dinanzi alle avversità; eredità formative, capaci di ergerci all’altezza delle sfide culturali e degli intoppi esistenziali che il vivere comunitario spesso comporta.
Chi viaggia cresce, pensa, fa: indipendentemente dal fatto che si trovi sul vagone di un treno, sull’onda di un pensiero o sul sedile del passeggero; poco importa se sia sotto la spinta di un ricordo di gioventù, di un profumo o di un déjà vu. Chi viaggia fuoriesce dal tracciato di quella routine che succhia vita fino al midollo, cappa persistente di un’accidia che, abbandonata la palude Stigia della Commedia, sommerge gli animi (postmoderni) più indolenti. Chi viaggia non può che amare il gusto della scoperta, la flessibilità della ricerca: che sia del proprio posto nel mondo, di un lavoro ben retribuito o di una casa in campagna, non sembra rilevare. Ciò che conta è altro. Sia esso un “folle volo” verso una maggiore conoscenza di sé o un Gran Tour diretto al soddisfacimento di vizi e diletti, il viaggio rappresenta una cesura nella vita di chiunque lo intraprenda: la metanarrazione preferita dalle donne e dagli uomini d’ogni luogo, tempo ed età.
L’uomo è un essere straordinario, un paesaggio d’indomita natura, un soggetto letterario di grandissima versatilità, in continuo divenire: nel quotidiano vive splendori e nefandezze, quegli stessi splendori e quelle stesse nefandezze che reportage, documentari, racconti, diari, romanzi e poesie non fanno che riportare nero su bianco, con risultati (più o meno eccelsi) che sta al solo “lettorato” giudicare. Fuor di metafora, infatti, siamo tutti viaggiatori di mari e monti, procacciatori d’orizzonti, esploratori d’anime, osservatori di colori, fruitori di suoni e odori, spettatori di drammi, protagonisti di tragedie, attori d’opera. Anche da tre soldi.
La scoperta parte da noi stessi, il viaggio pure. On the road, il naufragio è un rischio da tenere in conto, non una variabile determinante. Prendete un ombrello, fuori piove spesso. Magari anche un berretto, il sole scotta. E se avete qualche madeleine nello zaino, ben venga.”

Visibile e invisibile dell’arte

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Ho avuta la fortuna di avere due ottime colleghe di Storia dell’arte, Paola e Anna. Con una di loro ho collaborato durante l’anno (abbiamo insegnato insieme in tre corsi), con l’altra avevamo solo due classi comuni e la sto conoscendo meglio su facebook, scoprendo un mondo sorprendente. A loro ho pensato leggendo queste parole di Pierangelo Sequeri su un libro che ho appena terminato: “E’ diventato persino doloroso percepire la diffusione epidemica dell’asfissiante vuotezza di quel luogo comune nel quale si riassume la qualità dell’arte: «ci ha regalato emozioni». E’ un modo per non dire niente dell’arte, e delle sue immense corposità spirituali, ammiccando all’idea che, nell’indistinto dell’emozione, si è anche detto tutto quello che c’era da vedere, da sentire e da pensare. E’ il segno più eloquente della morte dell’arte. L’artista si svena per incorporare racconti di pensiero e visione di mondi, e l’utente finale non ha più parole e mente per riceverli. Ha provato emozioni. Ecco tutto. L’enorme lavoro spirituale e mentale dell’arte sincera e più sensibile all’impensato e al non percepito della vita quotidiana, affoga nell’indistinto di un generico senso di benessere e di eccitazione. In questa afasia della mente e dell’anima sensibile è proprio il visibile a morire, nella sua abissale eccedenza di riflessi dell’invisibile. Ed è proprio così che l’invisibile è perso. Narcosi e anestesia dei sensi spirituali, ecco cos’è l’arte come strumento del mero godimento senza mediazione di parole e racconti.” (Pierangelo Sequeri, Non ti farai idolo né immagine)

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Contemplazione

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Alcune persone sono incapaci di cogliere l’essenza della vita e il soffio intrinseco in ciò che contemplano, e passano la loro esistenza a discutere sugli uomini come si trattasse di automi, e sulle cose come se fossero prive di anima e si esaurissero in ciò che di esse si può dire, sulla base di ispirazioni soggettive.” (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio)

Pentecoste, tra Balducci e Michielin

Sta calando la notte su questa domenica di Pentecoste. Venerdì sera non ero in Duomo a Udine, non sono riuscito ad andarci. Mi sono messo a leggere, allora, una vecchia riflessione di padre Ernesto Balducci. La lettura è stata lenta, interrotta da numerose pause di riflessione per far risuonare in me quelle parole e meditare. Ma prima di riportarle, racconto un episodio di tre anni fa; durante una lezioni sul terrorismo e i fondamentalismi religiosi, una studentessa mi ha chiesto: “Prof! Ma lo Spirito Santo, cos’è?”. Ecco, in questo periodo c’è una canzone che non parla direttamente dello Spirito, eppure mi pare così adatta… Si tratta de “L’amore esiste” di Francesca Michielin:
Può nascere dovunque, anche dove non ti aspetti, dove non l’avresti detto, dove non lo cercheresti. Può crescere dal nulla e sbocciare in un secondo, può bastare un solo sguardo per capirti fino in fondo, può invadere i pensieri, andare dritto al cuore, sederti sulle scale, lasciarti senza parole. L’amore ha mille steli, l’amore è un solo fiore.
Può crescere da solo, esaurire come niente perché nulla lo trattiene o lo lega a te per sempre. Può crescere su terre dove non arriva il sole, apre il pugno di una mano, cambia il senso alle parole.
L’amore non ha un senso, l’amore non ha un nome, l’amore bagna gli occhi, l’amore scalda il cuore, l’amore batte i denti, l’amore non ha ragione.
E’ grande da sembrarti indefinito, può lasciarti senza fiato. Il suo abbraccio ti allontanerà per sempre dal passato. L’amore mio sei tu, l’amore mio sei…
Può renderti migliore e cambiarti lentamente, ti dà tutto ciò che vuole e in cambio ti chiede niente, può nascere da un gesto, da un accenno di un sorriso, da un saluto, da uno scambio, da un percorso condiviso…”

Così invece “cantava” Ernesto Balducci:
“…Lo Spirito contesta tutte le nostre pretese di unire il mondo con qualcosa che non abbia le misure stesse della creazione. Quindi lo Spirito è innanzi tutto contestazione, è rifiuto di dare valore assoluto al relativo. Se io penso alla mia storia! Se penso alla fatica immane che si è dovuta vivere per abbattere ciò che credevamo assoluto…! A questa costituzione degli assoluti che non sono tali tutto ci ha sospinto: e la cultura profana e l’eredità laica della cultura occidentale e le teologie cattoliche, tutto ci ha portato verso la deformazione del relativo in assoluto. E quante presunzioni, quanti razzismi impliciti, quanti orgogli camuffati di pietà abbiamo accumulato nel cuore! A livello della società quante barriere abbiamo creato! E a livello dei popoli quante discriminazioni ci sono ancora, forse più forti di ieri, perché hanno mutato nome, ma sono diventate più robuste per i meccanismi economici che le contengono come un cemento armato. Lo Spirito Santo viene come un uragano e abbatte tutte le barriere. Lo Spirito fece cadere il Tempio, fece cadere la legge giudaica, e aprì la via della salvezza a tutti i Gentili. Ma noi abbiamo eretto nuovi templi, nuove leggi, nuove sinagoghe, e lo Spirito deve soffiare di nuovo per ridarci l’ansia dell’universalità effettiva, non quella astratta dei filosofi illuministi, ma quella concreta che passa attraverso la partecipazione sofferta, generosa alla condizione umana. Altrimenti anche l’universalità del Vangelo diventa per noi un pretesto presuntuoso. Essa non si dichiara, si prova. Essa non si definisce, si sperimenta. Al livello dell’esperienza dobbiamo dire: no, il nostro Vangelo non è universale. Esso non conosce la «scienza delle voci», lo Spirito che fa di una sola voce molte voci, che adempie l’attesa latente in tutti i popoli, anche dei più diversi, è uno Spirito che noi imprigioniamo continuamente. Esso è l’Antipotere, passa attraverso la croce del Signore. Lo Spirito Santo è lo Spirito di Gesù il crocifisso. Perciò non possiamo appellarci allo Spirito Santo come ad un mistero che serve a crearci tralicci provvidenzialistici quando incontriamo dei burroni e non sappiamo come sorpassarli. Lo Spirito Santo non è il tappabuchi delle nostre miserie, non è il Deus ex machina delle nostre impotenze: è la contestazione in radice della nostra libidine di potere, anche spirituale. Ci riconsegna totalmente al principio della creazione, ci riporta alle radici dell’essere e ci dà la capacità di ascoltare ciò che di nuovo ferve nel cuore dell’uomo. Non dobbiamo legare lo Spirito Santo ad un partito politico, a una cultura, a una egemonia, dobbiamo, anzi, costantemente sapere che lo Spirito passa dall’altra parte, fuori delle mura delle nostre città, non entra nelle nostre chiese, parla con la bocca dei lontani, solleva profeti che non hanno il colore del nostro volto né le nostre tradizioni culturali, che non hanno nemmeno le nostre credenziali, che anzi puntano il dito su di noi eredi dei profeti divenuti ormai archivisti dello Spirito Santo. Questa apertura all’impossibilità è la disposizione evangelica vista dalla Pentecoste. Lo Spirito Santo che, sì, è docilità e contestazione delle false universalità, continua resurrezione dell’afflato dell’universalità, del bisogno di agire per l’uomo, per l’uomo nella sua universalità concreta, storica, determinata e non per l’uomo in genere. Quando facciamo le nostre politiche non pensiamo né agli handicappati, né ai malati, né agli anziani. Pensiamo sempre agli uomini validi, quando facciamo i nostri progetti. Oppure quando pensiamo al futuro del mondo ci pensiamo a partire dai livelli di consumo che abbiamo realizzato senza ricordarci che essi sono cinquanta volte di più di quelli di cui godono o soffrono i meno privilegiati del pianeta, da cui abbiamo preso materie prime, ricchezze per farne il piedistallo del nostro benessere. Sentire costantemente questa provocazioni vuol dire, forse, non avere il piglio del guidatore di popoli, ma vuol dire quanto meno acquistare sempre più la faccia dell’uomo qualsiasi, dell’uomo semplice che, sempre più deluso dalle nostre promesse, rischia di gravare la nostra storia di un peso di disperazione o di diffidenza che potrebbe essere davvero la causa più efficace della nostra rovina futura. La minaccia del futuro non è tanto nelle rivoluzioni quanto nell’inerzia dello spirito, in una specie di paralisi collettiva delle coscienze, di sfiducia totale in qualunque parola e in qualunque messaggio. Sono andato per sentieri che non aveva programmato, obbedendo al mio sentimento interiore, ma credo di non essere stato lontano dall’intuizione di partenza, che cioè i misteri cristiani o noi li percuotiamo perché facciano discendere il loro messaggio nei solchi delle nostre esperienze storiche, oppure anch’essi diventano lontani da noi, occasioni di cerimonie che ormai hanno perso di senso perfino nella coscienza di noi credenti”.
Ernesto Balducci – “Il mandorlo e il fuoco” vol. 2 – anno B

Gemme n° 212

La mia insegnante di danza mi ha fatto ascoltare quest’aria perché mi rappresenta. Mi ha detto che sono espansiva e ho l’aria da seduttrice. E’ importante questo brano perché è il primo che ballerò da sola, cosa che mi fa sentire una grande responsabilità”. Questa la gemma di S. (classe seconda).
Canta Carmen:
L’amore è un piccolo zingaro,
Non ha mai, mai conosciuto la legge,
se tu non mi ami, io ti amo
se io ti amo, attento a te!”
Dice un anonimo: “Seduci la mia mente e avrai il mio cuore. Trova la mia anima e sarà tua.”

Gemme n° 185

bardoDopo le lezioni sul buddhismo ho voluto approfondire l’argomento con la lettura del Bardo todol, Il “Libro tibetano dei morti”; l’ho portato come gemma perché al di là di quello che pensavo prima, lo ritengo interessante per chi sente di non trovare abbastanza nella cultura occidentale. E’ il viaggio dell’anima che non si separa solo dal corpo ma anche dal mondo in cui vive. Nella nostra società materialista penso sia importante per l’anima liberarsi da tutto, compresa la concezione di se stessa. Ne ho ricavato anche che il rapporto tra le persone è sempre molto importante e dovrebbe essere sempre disinteressato; l’aiuto reciproco è fondamentale: nel libro si spiega che i parenti del defunto hanno un ruolo di rilievo in quanto dovrebbero aiutarlo nel viaggio di liberazione.” Questa la gemma di D. (classe quarta).
Mi sposto di poco (Cina) e pesco alcune parole di Chuang Tzu:
Quando Lao Tzu morì, Ch’in Yi si recò al funerale. Urlò tre vole e se ne andò. Un discepolo gli chiese: «Non eri amico del nostro maestro?».
«Lo ero», rispose Ch’in Yi.
«Se è così, credi che quella sia una sufficiente espressione di dolore per la sua morte?», aggiunse il discepolo.
«Sì», disse Ch’in Yi. «Pensavo che egli fosse un uomo [mortale], ma ora so che non lo era… Il maestro giunse perché era il momento in cui doveva nascere; e partì perché era il momento di andare. Coloro che accettano il corso naturale e la sequenza delle cose e vivono obbedendovi sono oltre la gioia e il dolore».” (La conservazione della vita).

Gemme n° 176

Ieri ho incontrato una persona che non vedevo da tanto, l’ho guardata negli occhi e da lì ho capito che gli stava andando tutto bene. Questo mi ha fatto pensare a quanto io dia molta importanza agli occhi e a quello che essi possono trasmettere. E riguardo a questo stamattina mi sono ricordata di un libro letto in seconda superiore: “Bianca come il latte rossa come il sangue” e ho trovato un pezzo sugli occhi.

occhi d'aveniaCi sono due modi per guardare il volto di una persona. Uno è guardare gli occhi come parte del volto. L’altro è guardare gli occhi e basta, come se fossero il volto. È una di quelle cose che mettono paura quando le fai. Perché gli occhi sono la vita in miniatura. Bianchi intorno, come il nulla in cui galleggia la vita, l’iride colorata, come la varietà imprevedibile che la caratterizza, sino a tuffarsi nel nero della pupilla che tutto inghiotte, come un pozzo oscuro senza colore e senza fondo. Ed è lì che mi sono tuffato guardando Silvia in quel modo, nell’oceano profondo della sua vita, entrandoci dentro e lasciando entrare lei nella mia: gli occhi. Ma non ho retto lo sguardo. Invece Silvia sì.” Questa la gemma di G. (classe quinta).
Amo guardare gli occhi di una persona, fotografarli; ma sono tranquillo solo se quegli occhi sono rivolti altrove. Altrimenti sono in imbarazzo, le distanze si fanno brevi e distolgo lo sguardo, a meno che il rapporto con quella persona non sia già intimo.

Occhi

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