“Per la Gemma di quest’anno ho deciso di portare il mio primo body di twirling. Può darsi che qualcuno di voi si stia chiedendo “cos’è il twirling?”, ora ve lo spiego io così vi risparmiate il tempo della ricerca. Il twirling è una disciplina agonistica tecnico-combinatoria che esalta i fattori fisici individuali, mettendo in evidenza l’aspetto estetico del movimento. Unisce a movimenti propri della danza, ginnastica ritmica ed artistica, l’uso di un bastone che viene lanciato in aria o fatto roteare sul corpo. Ma il twirling non è solo uno sport, è anche un’ arte. Arte perché si richiede stile e bellezza, sport perché combina intensa coordinazione nel mantenere il bastone in movimento mentre il corpo si muove con grazia, attraverso vari movimenti adattati con interpretazione musicale, alti livelli di concentrazione e sforzo fisico. Io pratico questo sport da ormai 12, quasi 13, anni, quindi dalla stagione 2010/2011; ho deciso di portare il primo body proprio perché per me ha un ricordo veramente speciale, per me è l’inizio di una storia che va avanti da tempo. Per me il twirling è tutto, è una valvola di sfogo quando tutto va male, parecchie volte mi sono anche arrabbiata, sono caduta molte volte, a volte mi sono fatta così tanto male che ho pensato “no ora smetto, non ce la faccio più”, ma poi ho pensato, “voglio veramente buttare via tutti questi anni di sforzo”? La risposta era sempre no, quindi mi sono rialzata, mi sono fatta forza e sono andata avanti. Quando le persone mi chiedono “ma non ti sei stufata? É dodici anni che vai avanti” la risposta è NO, perché io mi ricordo ancora la me bambina che sognava di arrivare in nazionale, e adesso ce la sto facendo, sto realizzando il mio sogno. La me di 11/12 anni fa non avrebbe mai immaginato di arrivare fino a qui, la me che indossava questo body, non avrebbe mai pensato che potesse accadere una cosa così grande. Quindi questo body per me è tutto, qua rivedo tutti i miei ricordi passati, e spero in futuro di vederne ancora di più belli”. (S. classe seconda).
“Come gemma di quest’anno ho scelto di portare le mie prime punte di danza, che conservo ancora oggi e simboleggiano la mia passione più grande. La danza per me non è solo un semplice sport o una disciplina ma è qualcosa di speciale, un’arte con cui poter esprimere i miei sentimenti e le mie emozioni. Avevo quasi quattro anni quando i miei genitori mi accompagnarono alla scuola di danza per la mia prima lezione. Mi ricordo ancora l’agitazione e l’emozione di iniziare questa incredibile disciplina che tutt’oggi rappresenta una parte integrante nella mia vita. La danza rappresenta per me un momento di svago, un momento nel quale posso davvero distaccarmi da tutto e da tutti riuscendo ad esprimere tutta me stessa, senza pensare ad eventuali difficoltà quotidiane. Danzare è una sensazione bellissima che mi permette di liberare la mente lasciandomi trasportare dalla musica. È insomma veramente importante per me e, nonostante i sacrifici e l’impegno che implica, non avrei mai pensato di poterla abbandonare” (G. classe terza).
“Quando rifletto su una parola che mi possa rappresentare penso alla creatività. Io sin da piccola sono stata una ragazza che non sta mai ferma o con le mani in mano, che preferisce spendere il suo tempo ad esprimersi … come? Ho diversi modi per farlo, ma i due che preferisco di più sono ballare e disegnare. Ho iniziato a ballare danza classica e moderna a 3 anni e non ho mai smesso. Anche sotto la doccia o davanti allo specchio mi piace ascoltare musica senza badare a chi mi sta vicino. Quando ballo posso definirmi me. Quando ballo non m’interessa cosa possa accadere in quel momento, io continuerò ad essere me stessa. Di certo non ho paura di sbagliare, perché anche se sbagliassi saprei che quell’errore farebbe parte di me. Ora mi ritrovo in una situazione in cui non posso utilizzare le punte, ma nonostante questo la mia passione per la danza non è svanita. Ballare trasmette pensieri e idee senza parole. La creatività di questa disciplina sta nel credere in tutti questi pensieri e idee attraverso il cuore e l’anima. Questo, di sicuro, è valido per qualsiasi passione che ognuno ha.
Anche il disegno è una passione che porto con me da bambina e non mi sono mai stancata a prendere la penna per sprigionare le mie emozioni. Un aspetto che mi piace di questa attività è di poter prendere qualsiasi cosa astratta e renderla concreta. Ogni volta che finisco un disegno sono soddisfatta e felice, perché nella fase d’opera mi diverto a scoprire nuove tecniche e colori (proprio come una bambina). Credo che la creatività sia il modo migliore per esprimermi, spero di non perderla per strada” (G, classe prima).
“Ho portato questo mio album di disegni che ho utilizzato principalmente tra settembre e dicembre del 2020, un periodo non proprio bellissimo per me. Allora disegnavo tantissimo: non sono collegati a nulla questi disegni, avevo solo voglia di farli e vi sono molto affezionata”. Mi piace Van Gogh, mi piace anche leggere Van Gogh: “Cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile che sembra trovarsi tra ciò che si sente e che si può”. Chissà se è la stessa cosa che ha fatto M. (classe prima)?
“Da quando ci è stato assegnato questo compito ho pensato spesso a cosa avrei potuto portare come gemma. Ho optato prima per un orso di peluche che mi accompagna da quando sono piccola e nel quale cerco conforto quando non posso farlo con chi vorrei in quel momento. Poi avevo deciso di portare il biglietto di un concerto, purtroppo annullato a causa covid, al quale sarei dovuta andare con le mie tre più care amiche in quanto sia loro che il gruppo musicale sono estremamente importanti per me. Entrambe queste idee però non si sono concretizzate. Giorni fa mi sono sfogata con queste mie amiche perché è un periodo caotico, per così dire. Fortunatamente ho delle persone al mio fianco che mi rendono felice nonostante il contesto. Tra queste ce n’è una che proprio in quel mio momento di sfogo ha deciso di dedicarmi la frase di una canzone: “E per quanta strada ancora c’è da fare, amerai il finale”. Quando ho letto quel messaggio i miei occhi sono diventati lucidi, mi ha scaldato il cuore e ho pensato “la mia Gemma sarà proprio questa frase”. Con essa in mente percepisco una voglia più forte di spingere me stessa a continuare a impegnarmi e andare avanti perché quel traguardo felice voglio raggiungerlo. Un’altra frase che completa la mia gemma l’ho sentita da un video apparsomi nella sezione “per te” di un social. Il video non l’ho salvato perché sapevo mi sarei ricordata questa citazione. È infatti da qualche tempo che mi accompagna nei momenti di insicurezza. Dice: “She never looked nice. She looked like art, and art wasn’t supposed to look nice; it was supposed to make you feel something.” Il significato è “Lei non è mai stata carina. Lei sembrava arte. E l’arte non è fatta per essere semplicemente carina, l’arte è fatta per farti provare qualcosa”. Quando l’ho sentita e quando ci ripenso, mi sembra di essere abbracciata da una voce che mi sussurra “sei speciale”.”
Questa la gemma di A. (classe terza). Oggi pomeriggio ho seguito una formazione online durante la quale è stato mostrato un pezzo di un video che qui inserisco per intero (sono 6 minuti più o meno). Si tratta di un’intervista fatta a Mattia, uno studente di liceo scientifico. Non voglio paragonare A. e Mattia, proprio no, non è questo il punto. Ma ho sentito risuonare alcune delle parole di A. (“è un periodo caotico… mi ha scaldato il cuore… quel traguardo felice voglio raggiungerlo… mi sembra di essere abbracciata da una voce che mi sussurra “sei speciale”) in alcune di quelle usate da Mattia: “i professori mi guardavano negli occhi… avrei voluto che qualcuno mi guardasse negli occhi e mi dicesse puoi essere fragile, puoi dirlo che non stai bene”. E ho pensato alla bellezza di quando si incontra qualcuno che è un’opera d’arte, che ti fa provare qualcosa, che ti guarda negli occhi, che ti sussurra “sei speciale” e ti fa sentire libero di essere fragile.
“Ho scelto di portare questo dipinto che ho concluso pochi giorni fa. L’ho voluto portare sia perché sono abbastanza soddisfatta di com’è venuto, sia per l’interpretazione personale. Guardando il cielo mi viene in mente un posto sereno, senza regole, dove puoi essere chi vuoi, soprattutto te stesso; guardando invece la città, disegnata solo con il pennello rispetto al cielo, mi viene in mente un posto dove non puoi essere te stesso perché ci sono le persone che ti giudicano”.
E’ artistica la gemma presentata da F. (classe terza). Le parole che ha detto le accompagnerei con una canzone che ho fatto ascoltare il primo giorno di scuola in tutte le classi due anni fa, che altre volte ho ripreso, ma alla quale non ho mai dedicato un post qui sul blog. Si tratta di Io sono l’altro di Niccolò Fabi (dall’album Tradizione e tradimento). Lui stesso presenta la canzone così: “Esiste un’espressione ‘In Lak’ech’ che nella cultura Maya non è solo un saluto ma una visione della vita. Può essere tradotta come “io sono un altro te” o “tu sei un altro me”. Che si parta dalla mistica o dalla fisica quantistica si arriva sempre alla conclusione che l’altro è imprescindibile nella nostra vita e che siamo solo particelle di un tutto insondabile. Allora l’empatia diventa non solo un dovere etico, ma l’unica modalità per sopravvivere, l’unica materia che non dovremmo mai dimenticarci di insegnare nelle scuole. Conoscere e praticare i punti di vista degli altri è una grammatica esistenziale, come riuscire ad indossare i loro vestiti, perché sono stati o saranno i nostri in un altro tempo della vita.” Ed è la base per non giudicare. Qui sotto testo e video.
Io sono l’altro, sono quello che ti spaventa, sono quello che ti dorme nella stanza accanto Io sono l’altro puoi trovarmi nello specchio, la tua immagine riflessa, il contrario di te stesso Io sono l’altro, sono l’ombra del tuo corpo, sono l’ombra del tuo mondo, quello che fa il lavoro sporco al tuo posto Sono quello che ti anticipa al parcheggio e ti ritarda la partenza, il marito della donna di cui ti sei innamorato, sono quello che hanno assunto quando ti hanno licenziato, quello che dorme sui cartoni alla stazione, sono il nero sul barcone, sono quello che ti sembra più sereno perché è nato fortunato o solo perché ha vent’anni di meno Quelli che vedi sono solo i miei vestiti adesso facci un giro e poi mi dici e poi… Io sono il velo che copre il viso delle donne, ogni scelta o posizione che non si comprende Io sono l’altro quello che il tuo stesso mare lo vede dalla riva opposta Io sono tuo fratello, quello bello Sono il chirurgo che ti opera domani, quello che guida mentre dormi, quello che urla come un pazzo e ti sta seduto accanto, il donatore che aspettavi per il tuo trapianto, sono il padre del bambino handicappato che sta in classe con tuo figlio, il direttore della banca dove hai domandato un fido, quello che è stato condannato, il Presidente del consiglio Quelli che vedi sono solo i miei vestiti adesso vacci a fare facci un giro e poi mi dici, e poi mi dici, mi dici…
Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. L’ottavo è esplicato da Eike Dieter Schmidt, storico dell’arte tedesco, direttore delle Gallerie degli Uffizi di Firenze. Lo si può trovare a questo link.
“Difendere la bellezza: un compito facile e chiaro nel periodo di Kant e Canova, quando l’umanità era convinta dell’unità ideale di Bello e di Bene. A livello teorico, questa armonica convergenza si disintegra poco dopo, già con la «scoperta» ottocentesca – intesa come liberatorio sovvertimento dell’ordine – dei Fiori del Male. A seguire, gli esempi si moltiplicano, e basta additarne un paio: da parte dei nazisti, la stigmatizzazione come «degenerata» di tutta l’arte non devota ai canoni tradizionali; e le celebrazioni grottesche, neroniane degli attentati dell’11 settembre quali spettacoli di suprema bellezza da parte di Karlheinz Stockhausen e Damien Hirst. Allora ci si deve porre la questione preliminare di quale sia la bellezza da difendere, e come si possa evitarne la deturpazione. Certo è che al giorno d’oggi la teoria estetica e la prassi della critica e storia dell’arte evitano accuratamente di affrontare la categoria del Bello. Tuttavia, questo progressivo spegnimento dei richiami estetici nel campo dell’arte è stato controbilanciato da una fioritura nell’altro campo in cui essi sono tradizionalmente radicati, ovvero la matematica. Specialmente dopo l’applicazione della geometria frattale sviluppata da Benoît Mandelbrot nel 1979 sull’insieme di Gaston Julia, la bellezza matematica, fatto puramente teorico e intellettuale, si è amalgamata con quella estetica, percepibile con i sensi. A questo possiamo aggrapparci, perché il concetto matematico di Bellezza, già applicato in altri campi del pensiero astratto attraverso la logica, ci fornisce uno strumento potentissimo per capire meglio e agire di conseguenza. La rivoluzione digitale degli ultimi decenni, un fiume in piena, ci ha travolti tutti portando Turpitudine insieme alla Bellezza 4.0, la volgarità social insieme all’informazione capillare, il falso e il brutale confusi con il vero. È questo il punto: cosa c’è di buono, di utile, o anche di «diversamente bello» in un’edilizia sfrenata e mercantile – pensiamo alle monotone fungaie di brutti grattacieli costruiti davanti a splendide spiagge. Ma la turpitudine di certi fenomeni consiste anche nel fatto che danneggiano e distruggono sistemi complessi e stringenti, che appiattiscono e abbassano trovate geniali dell’uomo e della Natura; che sono mutili, illogici, falsi. Ecco il dovere morale che nasce dalla falsità del brutto. Con la rivoluzione digitale in pieno corso, il comandamento di non deturpare la bellezza non può limitarsi soltanto alla realtà concreta, on site, ma deve allargarsi anche a quella virtuale, on line.”
Forse è la più antica, ma non si sa da dove proviene, l’Ultima Cena del Codex Purpureus, un evangeliario greco miniato oggi conservato nel Museo diocesano di Rossano Calabro, Cosenza. Dei 400 fogli originali, in pergamena tinta di porpora, ne restano 188. Contengono l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco, con caratteri in oro e argento. Delle quindici miniature, una dozzina raffigura la vita di Cristo. Tra queste compare l’Ultima Cena. L’ipotesi oggi più accreditata dagli studiosi è che il Codex Purpureus sia stato creato tra il IV e il VII secolo in Siria, forse ad Antiochia, e portato in Calabria durante l’ondata migratoria dei monaci grecoorientali in fuga dal primo iconoclasmo bizantino.
Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna, Ultima cena https://www.geometriefluide.com/foto/PIC97O.jpg
Siedono molto stretti gli apostoli al tavolo nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. L’anomalia si spiega col fatto che la Cena si svolge attorno a uno stibadium, la mensa usata dagli antichi romani in alternativa al triclinio. Anziché tre letti intorno a una tavola quadrata, come accadeva nel triclinio, lo stibadium aveva tavola e letto a forma di un arco di cerchio: benché a rigore potesse ospitare fino a nove persone, di solito non ne accoglieva più di sette od otto, figuriamoci tredici. Se gli invitati erano più di nove bisognava disporre altri stibadia. Cristo e Giuda sono seduti alle due estremità, occupate, anche tra i Romani, dagli ospiti più importanti. L’immagine ravennate (sotto) è tra le più antiche raffigurazioni (V-VI sec.) del banchetto pasquale di Gesù, insieme a quelle del Codex Purpureus di Rossano Calabro (Cs), del Dittico delle cinque parti nel Museo del Duomo di Milano, della Pala d’oro che rifulge dietro l’altare maggiore nella basilica di San Marco di Venezia.
Duomo di Modena, Ultima cena https://www.geometriefluide.com/foto/PIC97O.jpg
Verso la fine del 1100 apparvero Cenacoli con i commensali in piedi. Un esempio straordinario si trova nel Duomo di Modena, dove l’Ultima cena è scolpita nel marmo del pontile che separa la navata centrale dal presbiterio rialzato (sotto). La realizzarono, tra il 1209 ed il 1225, i maestri campionesi, che erano scesi dalla zona dei laghi lombardi, guidati da Anselmo da Campione, per lavorare in varie regioni della penisola. Gli apostoli qui sono in piedi su un solo lato della lunga tavola coperta da una candida tovaglia a pieghe. Gesù è al centro tra di loro e sporge il braccio, passandolo sopra Giovanni che dorme con il capo reclinato sul suo petto, per offrire a Giuda il famoso boccone rivelatore del tradimento. Soltanto Simone Zelota, che chiude la tavolata sul lato corto di destra, è seduto su uno scranno con braccioli, all’uso germanico: lo identifichiamo perché il suo nome è scritto in alto, come i nomi degli altri apostoli che segnano i rispettivi posti.
Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova, Ultima Cena https://it.wikipedia.org/wiki/Ultima_Cena_(Giotto)
Una piccola stanza. Gesù e gli apostoli siedono stretti l’uno all’altro sulle due banche ai lati lunghi del tavolo. Dalle quattro finestre, mezze chiuse da imposte di legno, filtra un chiarore azzurro luminosissimo, come al tramonto o all’alba, quando il sole è appena sotto l’orizzonte. Al tramonto di una sera di primavera con la luna piena Gesù cenò con i suoi. La stessa ora in cui cenavano i Romani, che all’epoca occupavano la Giudea. Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova ha riprodotto esattamente quell’ora e quella luce. E ha dipinto di giallo il vestito di Giuda, come quasi tutti i pittori dei cenacoli, perché nel Medioevo il giallo, soprattutto quello bilioso tendente al verde, era simbolo dello zolfo infernale, del tradimento, dell’oro falso che ha perduto il suo splendore e diventa inganno. Con i secoli hanno perduto l’oro anche le aureole degli Apostoli raffigurati da Giotto: in origine l’unica aureola nera era quella che incorniciava il capo di Giuda.
L’Ultima Cena dipinta nel 300 da Pietro Lorenzetti sui muri della Basilica inferiore di San Francesco d’Assisi è una delle pochissime che, accanto alla stanza dove Gesù è seduto a tavola insieme agli apostoli, mostra anche la cucina. A sinistra del cenacolo, divisa da una parete, c’è la stanza col focolare acceso. Davanti al fuoco, un inserviente che pulisci piatti con un canovaccio, un cane che mangia gli avanzi, un gatto che sonnecchia. Sullo sfondo la credenza con le stoviglie. Dietro il garzone, un uomo in piedi indica col pollice sinistro i commensali, come a dire di accelerare il servizio. Due servitori, che dai vestiti simili a quelli degli Apostoli devono essere di rango superiore, discutono in piedi nel vano della porta che mette in comunicazione i due locali. Anche i gatti in cucina sono una novità. Nell’iconografia del cenacolo, si trovano quasi sempre ai piedi della tavola, accanto a Giuda, in quanto simbolo di tradimento, lussuria, demonio.
In una decina di anni, tra il 1476 e il 1486, Domenico Bigordi detto Ghirlandaio dipinse tre cenacoli: nel convento di Badia a Passignano e in quelli fiorentini di Ognissanti e di San Marco. Fu uno dei primi artisti a riprodurre la trasparenza delle stoviglie in cristallino, che cominciavano ad arrivare dai vetrai della Valdelsa. La esaltò con tocchi di bianco, facendo intravedere gli oggetti collocati i bicchieri e bottiglie e copiando i riflessi della luce sulle pareti sottili. Le tovaglie dei cenacoli fiorentini sono cosparse di ciliegie: 37 a Ognissanti, 61 a San Marco. A Passignano, nessuna. Forse a causa della lite con i frati vallombrosani che, secondo il racconto del Vasari, trattavano il pittore e i suoi aiutanti non come artisti, ma come manovali, servendo loro scodelle di minestra e “tortacce da manigoldi”. Vennero alle mani. E pareva che “‘l monistero rovinasse”. Domenico e i suoi, per andarsene al più presto, avevano apparecchiato la tavola di Gesù nella maniera più sbrigativa.
Una tovaglia invasa dai gamberi: si trova nella chiesa di Santo Stefano a Carisolo, in provincia di Trento, affrescata nel 500 dai pittori della famiglia Baschenis, di origine bergamasca ma attivi nelle valli sotto le Alpi, dal lago Maggiore al Piave. I Baschenis, che si trasmettevano il mestiere di padre in figlio, dipinsero per anni, in oltre 150 chiesette di questi territori, cenacoli con gamberi di fiume. I gamberi di fiume erano uno dei piatti più frequenti in tempo di quaresima. Per il rinnovo periodico del carapace, la corazza esterna che cotta diventa rossa, erano simbolo di morte e risurrezione. Poiché camminano a ritroso, deviando dalla retta via, erano anche simbolo di eresia: rappresentavano il dissenso teologico sulla presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nelle forme del pane e del vino, codificato dalla dottrina protestante. Alcuni studiosi collegano la presenza dei gamberi, cibo impuro per gli ebrei, alla propaganda antiebraica molto attiva in quegli anni.
Tra i pittori chiamati nel 1480 da Sisto IV ad affrescare le pareti laterali della Sistina, c’era Cosimo Rosselli, definito dal Vasari “non però eccellente e raro”. Insomma non all’altezza di artisti come il Ghirlandaio, il Perugino, Sandro Botticelli, Luca Signorelli, che lo affiancavano nell’impresa di raccontare con i colori le storie di Cristo e di Mosè. Proprio a Cosimo toccò la scena dell’Ultima Cena. I colleghi-avversari lo prendevano in giro perché non era capace di disegnare correttamente l’’anatomia dei personaggi. Suppliva a questa mancanza con l’uso abbondante dell’oro, l’applicazione sapiente dei pigmenti, la meticolosità nel riprodurre certi particolari come la trama a losanghe della tovaglia. Il papa aveva promesso un premio, oltre il pagamento, al pittore che a suo giudizio avesse lavorato meglio. Con stupore di tutti, dichiarò vincitore Rosselli perché “con molto oro illuminò la storia”. E ingiunse agli altri, loro malgrado, di aggiungere quell’oro, giudicato ormai arcaico, anche ai loro affreschi.
Girolamo Romanino, nella pala d’altare del Duomo di Montichiari, in provincia di Brescia, illustrò le buone maniere da seguire a tavola. siamo nel 1542. I due Apostoli seduti in primo piano e quello in piedi accanto a Pietro hanno dispiegato il tovagliolo sulla spalla sinistra. Un dettaglio curioso e insolito nei dipinti del 500. In realtà una finezza da galateo, raccomandata una decina di anni prima da Erasmo da Rotterdam nel De civilitate morum puerilium, dove si prescrive: “se ti viene dato un tovagliolo, devi poggiarlo sull’omero o sul braccio sinistro”. Il filosofo raccomanda inoltre di tenere puliti cucchiaio e coltello, mentre a chi non era dotato di posate suggerisce di mangiare facendo uso di tre dita soltanto, che non andranno leccate o pulite sul vestito. Deplora l’abitudine di offrire a un altro commensale bocconi già masticati, l’usanza di grattarsi, il giocare con il coltello e l’usarlo per pulirsi le unghie.
Il telero con l’ultima cena, sei metri per tredici, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, fu commissionato a Paolo Veronese da frate Andrea de’ Buoni per il convento dei Santi Giovanni e Paolo. L’artista consegnò il dipinto il 20 aprile 1573; il 18 luglio fu convocato dal Tribunale dell’Inquisizione. L’accusa: interpretazione poco rispettosa del racconto evangelico. Gli veniva contestata la tavola imbandita, che riflette la magnificenza dei banchetti offerti dai signori del Rinascimento. E poi i cani, un piccolo moro che accarezza un pappagallo sul braccio di un nano, un servo a cui esce il sangue dal naso, un commensale che si pulisce i denti con la forchetta. Veronese si difese citando Michelangelo, che nella cappella Sistina “con poca riverenza” aveva dipinto nuda tutta la corte celeste. Gli fu ordinato di correggere il quadro entro tre mesi, a proprie spese. Risolse il problema cambiando il titolo, e scrivendolo a grandi lettere sulla cornice dei pilastri, Convito in casa di Levi.
Sembra un astronave quella in cui Salvador Dalì ambientò nel 1955 la sua Ultima Cena, oggi alla National Gallery di Washington. In realtà si tratta di un dodecaedro, solido geometrico che secondo Platone simboleggia la perfezione dell’universo, perché le 12 facce rimandano alle 12 costellazioni dello Zodiaco e perché contiene in maniera naturale gli altri quattro soldi, che erano associati ai quattro elementi. Secondo il filosofo greco, nel dodecaedro sono infatti compresi il tetraedro che generò il fuoco, l’ootaedro che generò l’aria, l’icosaedro che generò l’acqua, il cubo che generò la terra. In Dalì le 12 facce del solido corrispondono ai 12 apostoli, i cui volti non si vedono, perché chini in preghiera. Soltanto il volto di Gesù è visibile e ricalca le sembianze del viso di Gala, la moglie-musa di Dalì, da lui ritratta infinite volte. Per avere osato sovrapporla a Cristo fu accusato da molti di blasfemia. Il paesaggio sullo sfondo è lo stesso che il pittore catalano vedeva dalla finestra di casa sua, affacciata sulla baia di Port Lligat.
Andy Warhol conservava sul comodino una cartolina con il Cenacolo vinciano, che gli aveva regalato la madre quando era bambino. Ma soltanto due anni prima di morire cominciò a lavorare alle sue Last Supper. Giovedì 25 Aprile 1985 scrisse nei diari: “Sto cercando di trovare un altro negozio dove vendano la scultura de L’Ultima Cena, quella di circa 45 centimetri la vendono in uno dei negozi importanti della Fifth Avenue, vicino al Lord & Taylor, chiedono molto, circa $2500. Così sto cercando di trovarla a buon mercato in Times Square”. Il modellino che Warhol cercava fu ritrovato nel suo studio dopo la morte: misurava 10,8 cm x 8,6. Lo riprodusse in una serie di polaroid in bianco e nero, che trasferì in sequenza nelle serigrafie delle grandi Last Supper. La Sixty Last Supper (60 volte l’originale di Leonardo), è stata venduta nel novembre 2017 da Christie’s New York (dopo essere passata dal Museo del Novecento di Milano) per 60.875.000 dollari.
Lunedì 29 gennaio si è inaugurato a Berlino il primo padiglione della House of One, che vuole raccogliere i fedeli dei grandi monoteismi, laici, atei, agnostici e studiosi. Una casa per tre religioni, intervista a Andreas Nachama, Gregor Hohberg e Kadir Sanci a cura di Marco Ventura. Da La Lettura di domenica 28 gennaio 2018, reperibili qui o qui.
“Tre religioni, una casa. È lo slogan della House of One, la Casa dell’Uno, il cui primo padiglione viene inaugurato a Berlino domani, lunedì 29 gennaio. Il progetto prevede una sinagoga, una moschea e una chiesa riunite nel medesimo complesso architettonico. Secondo l’idea dello studio d’architettura berlinese Kuehn Malvezzi, i tre spazi per la preghiera e la celebrazione dei riti saranno uniti da una hall in cui si svolgeranno attività comuni. L’impresa fu annunciata nel 2011. Nel 2012 si svolse il concorso per l’assegnazione del progetto. L’inizio dei lavori è previsto nel 2019. La House of One sorgerà a Petriplatz, luogo simbolo della città medievale. Negli ultimi anni Berlino è diventata un laboratorio sulla religione. Il festival Faiths in Tune riscuote un successo crescente. La sperimentazione sull’insegnamento non confessionale della religione e dell’etica nelle scuole prosegue dopo la vittoria dei proponenti nel referendum del 2009. La città ospita la moschea progressista Ibn Rushd-Goethe dove grazie alla guida di una donna — sotto scorta per le minacce ricevute — si pratica l’eguaglianza di genere e si insegna la tolleranza verso i non musulmani. Il progetto della House of One, tuttavia, è diverso. È più grande. Appartiene a Berlino, certo, ma la trascende per abbracciare un mondo affamato di dialogo. Di qui la scelta dell’inglese, House of One, un’espressione che gli stessi ideatori non traducono in tedesco. L’avventura è non meno grande dal punto di vista teologico. Si tratta di un progetto ardito, eppure opera di individui e comunità radicati nelle tre tradizioni monoteiste. È un tentativo di alfabetizzazione al religioso e di unità in nome dei principi consacrati nella Carta della House of One: non violenza, solidarietà, rispetto, eguaglianza, pari diritti. Una casa, tre religioni. E tre leader. I responsabili del progetto: il rabbino Andreas Nachama, 67 anni; padre Gregor Hohberg, 50 anni; l’imam Kadir Sanci, 40 anni. Rispondono insieme alle domande de «la Lettura» via Skype da Berlino. La conversazione si svolge in inglese. Intervista a Andreas Nachama, Gregor Hohberg e Kadir Sanci Cominciamo da voi. Dalle vostre storie. PADRE HOHBERG — Sono un berlinese, nato e cresciuto nella Germania dell’Est in una famiglia protestante. Anche mio padre era un ministro della Chiesa. In quanto cristiano durante il comunismo ero all’opposizione. Grazie alla fede e all’appartenenza a una Chiesa mi sentivo parte della forza più progressista della società. Le Chiese erano lo spazio per la democrazia e la libertà. Poi nel 1989 venne il tempo del cambiamento. Un tempo straordinario per me. Le parole della Bibbia, le candele, le preghiere avevano il potere di cambiare il sistema politico… Candele e preghiere? PADRE HOHBERG — Sì. Avevano il potere di cambiare. Facevano venire giù il muro. Senza un solo sparo. Solo con la preghiera e la parola di Dio. Fu un’esperienza decisiva per me. Viene da lì la mia speranza che anche questo progetto abbia il potere di cambiare il sistema di portare libertà e pace tra gruppi diversi. E lei, Rabbi Nachama? Anche lei è berlinese? RABBI NACHAMA — Sono cresciuto a Berlino, ma all’Ovest. Entrambi i miei genitori erano sopravvissuti all’Olocausto. Mio padre era stato in vari Lager. Mia madre si era salvata grazie a una famiglia cristiana che l’aveva tenuta nascosta. Durante la mia infanzia, il dialogo tra ebrei e cristiani non era una cosa da sinagoga o da chi sa. Aveva luogo in casa mia, ogni volta che veniva a trovarci questa famiglia fortemente cristiana, che aveva nascosto e salvato mia madre. Poi ho studiato religione nella Libera Università di Berlino, ho seguito i corsi che venivano offerti in teologia protestante. Ho studiato cristianesimo e anche l’islam. Il dialogo interreligioso così è diventato sempre più parte della mia vita. Lei è un altro testimone della fine del Muro. RABBI NACHAMA — Ho visto nella Germania dell’Est il potere delle parole nell’azione delle Chiese da cui è nata la rivoluzione del 1989. La mia speranza è che il potere del nostro stare insieme possa contribuire non soltanto a risolvere il conflitto in Medio Oriente, ma anche ad affrontale i problemi della nostra società. Imam Sanci, il suo percorso è molto diverso. IMAM SANCI — Sono nato in Germania da una famiglia immigrata dalla Turchia, una famiglia appartenente a una minoranza. Per questo mi sono trovato spesso nella condizione di ambasciatore… Ambasciatore? IMAM SANCI — Anzitutto un ambasciatore per i miei genitori che avevano difficoltà con la lingua. Ad esempio quando c’era da andare dal dottore, o negli uffici. Poi sono diventato anche un ambasciatore dell’islam. Spesso a scuola i compagni e gli insegnanti mi facevano domande sulla mia comunità. Non sapevo le risposte, ho studiato, ho imparato. E sono diventato anche un ambasciatore della religione e della cultura dell’islam. Ho cominciato così con la religione: trovandomi a dover parlare dell’islam. Poi nel 2001 c’è stato l’11 settembre. Che cosa è cambiato dopo le Torri gemelle? IMAM SANCI — Non potevo capire come gente che si diceva musulmana potesse aver fatto una cosa tanto terribile. Allora ho sentito la responsabilità, dovevo trovare un modo di rispondere, di combattere quelle idee. Mi sono messo a studiare. L’islam, ma anche l’ebraismo e il cristianesimo… Viene dunque da lì il suo interesse per l’House of One. Più precisamente come si è trovato coinvolto? IMAM SANCI —Durante i miei studi visitai la comunità ecumenica di Darmstadt-Kranichstein, cattolici e protestanti uniti nel desiderio di «due chiese sotto lo stesso tetto». Incontrai il pastore e gli dissi: dobbiamo fare la stessa cosa per i musulmani. Mi rispose: per noi protestanti e cattolici ci sono voluti sei secoli, dovrai munirti di pazienza. Poi mi arrivò la notizia di questo progetto e decisi di trasferirmi a Berlino per contribuire. A prima vista, quello che state facendo è molto nuovo. E se ci fosse anche qualcosa di meno nuovo, o addirittura di antico in questo progetto? RABBI NACHAMA — Abbiamo imboccato una nuova strada. Questa strada però è già stata aperta nel XX secolo. Abbiamo avuto già allora la prova che le comunità religiose e i singoli credenti possono cambiare il mondo. IMAM SANCI — Cos’è antico e cos’è nuovo nel progetto? La preghiera e i riti sono tradizionali, non sono nuovi. Restiamo all’interno delle nostre tradizioni. Ma la nostra visione è nuova. Cerchiamo insieme, in libertà. Questo andare insieme è nuovo. Cerchiamo soluzioni. Nella storia ognuno ha cercato soluzioni da solo — ebrei, cristiani e musulmani — ognuno per conto proprio. Ora cerchiamo insieme. Questa è la novità. Padre Hohberg, lei è cresciuto nella Germania dell’ateismo di Stato. Nel vostro stare insieme non c’è forse il compattarsi di un fronte religioso davanti alla crescente percentuale di non credenti in Occidente? PADRE HOHBERG — La maggior parte delle persone a Berlino è non credente. Vogliamo dialogare anche con loro, con la società laica. È parte del progetto. Nella House of One avremo quattro spazi. Tre per la chiesa, la sinagoga e la moschea. Il quarto sarà per chi cerca la religione, chi la critica, atei e agnostici. Dobbiamo tenere in considerazione la maggioranza laica… RABBI NACHAMA — Pensiamo che sia importante il dialogo fra noi tre, ma anche con tutti coloro che sono interessati a entrare in contatto con noi, siano essi non credenti o credenti di altre religioni. Pensiamo che la pace nella società possa essere raggiunta solo se tutte le componenti si impegnano in una qualche forma di dialogo. Naturalmente sappiamo bene che in una città di quasi quattro milioni di abitanti non possiamo parlare con tutti, ma cerchiamo di fare il possibile! (Ride). IMAM SANCI —Dunque abbiamo tre tipi di dialogo. Il primo tipo è tra noi. È un processo lungo. Non è semplice formare un’unità. Il secondo tipo è il dialogo tra noi, tra noi nella nostra unità, e i credenti di altre religioni. Infine c’è il dialogo tra noi e i non credenti. PADRE HOHBERG — La cosa veramente importante è che qui a Berlino la reazione dei più laici al nostro progetto è molto positiva. Quanto è stata importante l’unità tra voi sul piano personale? Non sarà stato facile imparare a lavorare insieme. RABBI NACHAMA — Quando sono arrivato, due anni e mezzo fa, per sostituire il mio predecessore, non mi preoccupava affatto l’incontro con il pastore, ma avevo timore dell’imam. Ora siamo amici. Credo che quando inizi ad ascoltare e parlare… e ascoltare e parlare, allora non ci accorgiamo nemmeno più che siamo insieme. Ma siamo insieme. Formiamo un’unità. Dico sempre che siamo davvero fratelli in questo compito. IMAM SANCI — Non è una cosa facile. Il successo dipende dalle persone che sono impegnate nel progetto. Ringrazio Dio di essere seduto qui con Gregor Hohberg e Andreas Nachama. Se abbiamo successo è perché ascoltiamo, e perché siamo… Come si dice Ehrlich? RABBI NACHAMA — Onestamente. IMAM SANCI — Onestamente in dialogo. Non abbiamo altri fini. Solo avere un dialogo sincero. In un tempo di irrigidimento delle identità religiose, voi andate controcorrente. Immagino che nelle vostre comunità non manchino le riserve, le critiche, magari anche gli attacchi. RABBI NACHAMA — La mia comunità… sono il rabbino dell’unica comunità ebraica riformata di Berlino… non solo mi sostengono, ma apprezzano il progetto. Per la festa dell’Hanukkah, in dicembre, abbiamo avuto una celebrazione in sinagoga e sono state invitate le persone che lavorano alla House of One. No, le cose vanno bene. La gente ci chiede piuttosto perché non ce ne sono di più nel mondo di House of One. Qualcuno deve cominciare. Speriamo che il movimento in cui siamo impegnati diventi normale in dieci, vent’anni. Ciascuno ha le sue preghiere e le sue tradizioni. Ma è naturale trovarsi insieme, pranzare insieme. È artificiale non farlo. PADRE HOHBERG — Nella nostra comunità ci sono voci critiche. La maggior parte teme che le religioni si mescolino. Ma se ho tempo per spiegare, la gente comprende che il progetto ha a cuore anche lo studio delle rispettive religioni, e le critiche si attenuano. IMAM SANCI —Anche da noi ci sono critiche. Verso il progetto e verso di me personalmente. Tuttavia ho fatto splendide esperienze. A Berlino e in tutta la Germania molti musulmani hanno fatto donazioni per sostenerci. È un buon segno. Non siamo soli. Siamo aiutati da tante persone, religiose e non religiose. Persone che vogliono vivere in libertà. Le parole di Rabbi Nachama sono molto importanti. Siamo stati invitati nella sinagoga, e poi in chiesa. Li abbiamo a nostra volta invitati da noi per il Ramadan. Questo possiamo farlo solo se c’è gente dalla comunità che ci sostiene. Non posso farlo da solo. La vostra campagna di finanziamento sembra ben organizzata. C’è un organo di controllo indipendente. Le spese amministrative sono basse e contate di spendere per la costruzione più del 90% dei fondi che riceverete. Non avrete nulla dalla tassa di Stato di cui godono le Chiese tedesche. Però il fisco garantirà la deducibilità delle offerte. E fuori dalla Germania? Come sta andando la raccolta internazionale? PADRE HOHBERG — Abbiamo ricevuto donazioni da più di sessanta Paesi. IMAM SANCI — Pensi che il primo dono che abbiamo ricevuto per la House of One è arrivato dall’Italia. Da un’artista cattolica. Non mi ricordo il nome. Tre campane: una con la forma del rabbino, una con la forma dell’imam e una con la forma del pastore. Campane? IMAM SANCI — In ceramica. Con tre ritratti. Cioè il mio, di Padre Hohberg e di Rabbi Tovia Ben- Chorin, predecessore di Rabbi Nachama. Uno splendido regalo. Padre Hohberg, lei appartiene alla Chiesa evangelica luterana tedesca. Ha avuto incarichi anche presso il Berliner Dom. La immagino attivo nei rapporti con la Chiesa cattolica. Quale posizione hanno i vertici diocesani? I cattolici sono coinvolti nel progetto? PADRE HOHBERG — Ci sono molti contatti. Abbiamo avuto un incontro positivo con il nuovo arcivescovo Heiner Koch. Ci aiuterà. Ora stiamo fondando un consiglio scientifico in cui siederanno l’arcivescovo cattolico, il vescovo luterano, i rappresentanti degli uffici centrali tedeschi delle comunità ebraiche e islamiche. RABBI NACHAMA — Stiamo cercando di incorporare nel nostro consiglio scientifico le istituzioni religiose. Niente è chiuso. Siamo aperti. Via via che incontriamo persone disponibili, troviamo il modo di coinvolgerle. Quale servizio religioso avrà luogo in ognuno dei tre spazi? Ad esempio nella cappella, o chiesa cristiana? A proposito, come la chiamerete: proprio chiesa? PADRE HOHBERG — Sì, sarà una chiesa. Ecco, chiesa. Dove si celebrerà con rito luterano, presumo, visto che è questa la sua confessione. PADRE HOHBERG — La nostra idea è che avremo tre spazi sacri. Uomini e donne potranno pregare in uno dei tre. Invitiamo ciascuno a pregare nella propria tradizione. Anche i cattolici, i battisti e gli ortodossi. L’unica condizione è che dovranno sottoscrivere le regole… Le avete elencate nella Charter for a Partnership of Judaism, Christianity and Islam, su «sviluppo concettuale, costruzione e uso della House of One». PADRE HOHBERG — I punti fondamentali sono la democrazia, poi … IMAM SANCI — … l’eguaglianza… PADRE HOHBERG — … eguaglianza tra tutte le persone… IMAM SANCI — … il rispetto… . PADRE HOHBERG — … e il rispetto. Allora, se possono sottoscrivere queste regole, possono pregare in uno dei tre spazi, secondo la propria tradizione. Questo vale anche per la moschea? IMAM SANCI — Sì. Stiamo progettando questi spazi — la moschea, la sinagoga e la chiesa — in modo che possano utilizzarle persone di confessioni diverse. Attraverso questo segno indichiamo agli altri che sono benvenuti, che tutti possono venire alla House of One… PADRE HOHBERG — Sciiti, sunniti Sarà possibile anche per gli sciiti celebrare nella moschea? IMAM SANCI — Sì, sarà possibile. Lei è sunnita, giusto? IMAM SANCI — Esatto. Io vengo dalla tradizione sunnita. Ma non importa a quale confessione si appartiene. Se possono sottoscrivere la Carta della House of One, sono invitati. E possono pregare nella loro tradizione; oppure possono pregare con noi. Questa è la nostra visione. Costruiremo gli spazi perché anche gli altri possano venire. Poi, se verranno o no, questo non dipenderà più da noi. Non sarà in nostro potere. Ma dove pensate possa portare questa unione dei tre monoteismi? Mi pare che stiate ponendo le premesse per un solo grande monoteismo verso cui convergeranno le tre tradizioni. Indipendentemente dalla vostra volontà e dal progetto. So che vi sto mettendo in difficoltà. (Silenzio) PADRE HOHBERG (Rivolto agli altri) — Un unico grande monoteismo? RABBI NACHAMA — Non intendiamo realizzare con gli altri una unione delle religioni. Noi vediamo il mondo come fatto da diverse fedi. La House of One è una casa in cui ognuno può pregare nella propria tradizione. Abbiamo discussioni in cui cerchiamo di imparare circa le altre vie, ma ognuno resta nella sua. PADRE HOHBERG — Abbiamo molte discussioni su queste questioni religiose. Sono difficili. Non abbiamo risposte conclusive. La parola conclusiva spetta a Dio. Questo ci rende umili verso le altre tradizioni. C’è la volontà di Dio, non possiamo conoscerla. Dobbiamo restare disponibili ad essa. State dicendo questo? PADRE HOHBERG — Giusto. IMAM SANCI — Nell’islam fiqh è un termine molto importante. Se ti sei perso… fiqh è la legge islamica. Fiqh significa comprensione. Questo vuol dire che devi capire la parola di Dio e riflettere. Dobbiamo restare umili. Sei solo una persona che cerca di capire l’intenzione di Dio. Non basta dire: questa è la parola di Dio, e dunque questo è assoluto. No. Io sono la persona che cerca di capire la parola di Dio. Questo atteggiamento rende possibile il ritrovarci insieme. Sono sicuro di essere sulla via giusta. Ma devo lasciare la porta aperta, perché sono solo un uomo. Sono… come si dice fehlbar? PADRE HOHBERG — Che posso commettere errori. IMAM SANCI — Posso commettere errori. Posso fraintendere. Il vostro percorso è arrivato a un momento cruciale. Siete pronti per l’apertura? Cosa vi aspetterà poi? PADRE HOHBERG — Lunedì 29 gennaio apriremo un padiglione. Per un paio di anni le attività si svolgeranno lì. Cominceremo la costruzione vera e propria alla fine del 2019. Nel frattempo dovremo lavorare sui contenuti e raccogliere fondi. Ci vorrà molto denaro. In conclusione vi propongo di tornare alla dimensione personale della vostra avventura. Al rapporto che s’è instaurato tra voi. RABBI NACHAMA — Tutte le volte che abbiamo fatto celebrazioni insieme ci siamo posti la stessa domanda. Come dobbiamo fare? Abbiamo seguito la strada più semplice. Qualche volta il pastore ha condotto la celebrazione, qualche volta l’ha condotta l’imam o l’ho condotta io. L’importante è che non dobbiamo dire sì o amen a quello che ciascuno di noi dice. È importante rispettarsi. Conta stare uno accanto all’altro. È una bella sensazione. Come essere seduti insieme, ora, allo stesso tavolo. IMAM SANCI — Quando stavo facendo il mio dottorato in Scienze religiose, Rabbi Nachama si è offerto per aiutarmi con la ricerca. Dedicherò una domenica a fare ricerche che ti saranno utili, mi ha detto. Ha dedicato il suo tempo libero a me, all’imam. È stata una cosa molto importante per me. Ho risparmiato molto tempo. Mi ci sarebbe voluto un mese perché conoscevo poco la materia. E lui avrebbe potuto fare qualcosa di più utile per sé. PADRE HOHBERG — Una volta eravamo seduti insieme, come ora, e parlavamo dello humour nelle religioni. Ognuno ha raccontato una storia divertente dalla propria tradizione. È stata una bella esperienza». (Ridono. Il tempo è finito. Fanno per alzarsi). E le storie divertenti? PADRE HOHBERG — Mi spiace ma proprio non saprei come tradurle in inglese. Ridono ancora. Resto con un’ultima domanda che non voglio fare a loro tre in questo momento. Ai tre uomini. Ai tre uomini leader religiosi. Riguarda le donne: la loro assenza, il loro ruolo, il loro spazio nel progetto. Rivolgo la mia domanda a Kathrin Hasskamp, giurista, direttrice del marketing e dei rapporti con il pubblico per la House of One. Ma ha troppo da fare. L’inaugurazione di domani, lunedì 29, preme. Ci sono tante cose da organizzare e sta crescendo l’attenzione dei media. L’ultima domanda deve aspettare per avere una risposta.”
«Nessun simbolo ma culti affacciati su una piazza» intervista all’architetto Simona Malvezzi a cura di Stefano Bucci, in “la Lettura” del 28 gennaio 2018. Coesistenze. Geografie di luoghi senza divisioni : così recitava il titolo della mostra, curata da Dionigi Albera con Manoël Pénicaud, che a Parigi, al Musée national de l’histoire de l’immigration ha raccontato, attraverso gli occhi e i progetti di artisti e architetti, come si potesse «unire senza annullare le identità». Un lungo viaggio «negli interstizi della fede», come lo avevano definito i curatori, che da Marc Chagall porta a Mimmo Paladino, dalla Sinagoga di Djerba dipinta da Maurice Bismouth nel 1920 alla barca dei migranti (con Sacra Famiglia) immaginata da Benito Badolato e Pasquale Godano nel 2013 e oggi conservata nella parrocchia di San Gerlando a Lampedusa. A concludere il percorso (accanto alle immagini dei luoghi di preghiera e di meditazione interconfessionali degli aeroporti di Vienna, di Stoccolma, di Tallinn) c’era The House of One , il progetto per una casa di preghiera e di studio aperta alle tre religioni monoteiste, pensato dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi (fondato a Berlino nel 2001 da Simona Malvezzi, Wilfried Kuehn e Johannes Kuehn). Un progetto da 45 milioni di euro per edificare un luogo di culto comune a un passo dall’isola dei musei, nella Petriplazt. Che lunedì 29 gennaio, domani, alla 12 in punto prenderà definitivamente il via con l’inaugurazione del padiglione in legno, scala 1:1, con lo stesso loggiato del progetto definitivo, che comincerà a presentare (con incontri e riflessioni) il progetto di questa House of One, in attesa dell’inizio dei lavori, previsto per il 2019 (conclusione in due anni). L’intervista «L’idea — spiega Simona Malvezzi a “la Lettura” — è stata quella di una piazza coperta attorno alla quale si innestano i tre luoghi di culto: essi sono collocati in maniera uguale uno rispetto all’altro e non uno accanto all’altro, e circondano in questo modo lo spazio centrale con la cupola, che è l’ampliamento della Petriplatz all’interno dell’edificio. Lo spazio centrale mostra il proprio ruolo di piazza anche attraverso la facciata di mattoni che in qualche modo sembra aprirsi dall’esterno verso l’interno e segna la propria funzione di soglia. Viceversa la sinagoga, la chiesa e la moschea hanno ognuna una configurazione diversa e specifica che rispecchia la propria liturgia». Nelle intenzioni degli architetti e del Trio della tolleranza (come è stato subito battezzato quello composto dal rabbino Tovia Ben-Chorin, prima che arrivasse Andreas Nachama, l’imam Kadir Sanci, il pastore Gregor Hohberg che è all’origine del progetto), la House of One dovrà mettere le tre religioni sullo stesso piano. A questo servirà lo spazio centrale comune (sovrastato da una grande cupola) dove si apriranno la moschea, la sinagoga, la chiesa. Ma per cementare ulteriormente la nuova struttura si è voluto tenere ben presente la storia: il progetto si innesterà infatti sulle fondamenta della chiesa St. Petri, una costruzione ottocentesca demolita dal governo della Germania dell’Est nel 1964. In realtà, la prima chiesa era del 1230 ed era il primo edificio documentato della città di Berlino, dunque un’area centrale e storicamente importante. «Gregor Hohberg, il pastore della comunità protestante a cui doveva essere restituita la proprietà dopo la riunificazione tedesca — precisa l’architetto Malvezzi —, anziché promuovere la costruzione di una nuova chiesa ha pensato di coinvolgere la comunità ebraica e la comunità islamica. Insieme hanno concepito un centro interreligioso delle tre religioni abramitiche. Attraverso un concorso di architettura è stato scelto il nostro progetto per questa tipologia inedita nel luogo più antico della capitale tedesca. Perché questa scelta? «Credo che sia piaciuto il concetto di dialogo su cui si basa la House of One: per aprire un dialogo e un dibattito bisogna avere conoscenza dell’altro e del suo modo di pensare. Ma noi vogliamo che questo progetto sia in qualche modo aperto alle altre realtà: oltre a diventare un luogo di culto abbiamo pensato di dare vita a un centro di educazione che si rivolge a tutti, anche e soprattutto alle persone agnostiche e laiche». La sequenza degli spazi segue il principio della molteplicità in un’unità e dell’eterogeneità in un unico edificio. I rituali sono diversi e «non mischiati», ma nonostante questo l’edificio sarà costruito «con la sfida dell’essere universale». Per gli architetti «è stato interessante soprattutto rendere dal punto di vista costruttivo questa prospettiva nello stesso tempo interculturale e universale, questa idea di costruire un monumento ibrido». Da fuori, oltre la parete di mattoni e cemento non si comprenderà esattamente la natura dell’edificio «perché volutamente non ci sono elementi che richiamino in maniera troppo risolutiva la simbologia delle tre religioni in esso rappresentate. Né campanili, né minareti, né altro». D’altra parte la richiesta specifica del bando era che si potessero intuire le tre diversità nell’universalità. Certamente c’è anche un effetto «sorpresa» per chi viene da fuori. La disposizione interna permetterà di orientare la preghiera nella moschea verso la Mecca mentre nella Sinagoga verso Gerusalemme: entrambe avranno poi spazi dedicati alle donne. Un altro elemento importante sarà quello della luce, ricavata con una serie di tagli di diverso tipo nelle pareti, una luce «che ricopre un importante ruolo simbolico in tutte le religioni». La sicurezza? «Da quando il progetto viene discusso pubblicamente, cioè dal 2012, non vi è stata nessuna aggressione verbale o fisica nei confronti degli ideatori — dice Simona Malvezzi — e non ci aspettiamo particolari problemi di sicurezza. In ogni caso ci sarà, solo, lo spazio per un eventuale controllo di sicurezza all’entrata». Con i finanziamenti raccolti fino a ora, si potrà costruire la prima parte dell’edificio. Dopo la realizzazione del padiglione, i lavori inizieranno nel 2019 e saranno completati circa due anni dopo. Il progetto sarà finanziato dalla comunità di simpatizzanti attraverso un’operazione di crowdfunding gestita sul sito. E con dieci euro qualsiasi cittadino potrà sostenere la posa di un mattone della futura House of One. Il sogno? «Che questo diventi un modello esportabile di dialogo tra le comunità in una reale dimensione di diversità, in cui identità differenti entrano in contatto l’una con l’altra, in uno spazio che le preservi nella loro differenza ma che allo stesso tempo le faccia incontrare»
Pubblico un articolo di Marko Ivan Rupnik comparso su Avvenire nel giugno del 2015. Non è semplice, ma lo trovo ricchissimo di spunti e idee.
“Le pareti degli edifici religiosi sono sempre stati il telo sul quale la Chiesa ha dipinto il suo autoritratto. Tuttavia, oggi non è affatto scontato il rapporto tra l’arte, ormai sganciata dal concetto di bellezza, e la spiritualità, sempre più svincolata dallo Spirito Santo. Se il presbiterio – osserva padre Marko I. Rupnik – «è praticamente l’unica cosa religiosa che ci è rimasta», la possibilità che si delinea è aprirlo agli artisti perché diventi non un generico luogo di espressione, ma lo spazio di un’arte purificata per una Chiesa capace di non escludere nessuno. Padre Rupnik, gesuita sloveno, teologo, mosaicista e docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Liturgico, nel libro «L’autoritratto della Chiesa» edito da Edb (pp. 48, euro 5,50) che esce in questi giorni in libreria, rilegge quell’autoritratto alla luce della bellezza e dell’arte. Anticipiamo alcuni brani sul mistero pasquale dell’arte.
Vladimir Solov’ev
Della bellezza si è perso il significato e la si è coscientemente distrutta con la filosofia idealista, con il romanticismo, avviando, a mio avviso, una deliberata operazione di distruzione della bellezza, perché radicalmente unita al cristianesimo. Non si può distruggere il cristianesimo se non si distrugge la bellezza. Ci hanno inchiodato sull’etica e sulla morale, sul bene, ma una Chiesa brava non attira nessuno, perché è solo una Chiesa bella che fa innamorare. Abbiamo una Chiesa intraprendente, stanca per quanto bene realizza, che però non affascina nessuno e dietro la quale non si incammina nessuno. Siamo bravi, ma nessuno ci vuole seguire. La sintesi migliore sulla bellezza, a mio parere, l’hanno fatta due russi: Vladimir Solov’ëv e Pavel Florenskij. Solov’ëv sostiene che un bene che non diventa bellezza è un pericolo per l’uomo e ciò lo constatiamo continuamente: non esiste sofferenza più grande che avere a che fare con chi ha un’idea del bene che vuole imporre a tutti. La dittatura del bene è la suprema espressione del male. Il bene che non diventa bellezza è un fanatismo. Allo stesso modo, una verità che non diventa bellezza mangia gli uomini, li distrugge, è un drago. In nome della verità noi abbiamo tagliato parecchie teste, nel nome di idee umaniste l’epoca moderna ha ammazzato decine di milioni di persone. Solov’ëv afferma che l’idea che non è capace di incarnarsi come bellezza dimostra la sua impotenza. La bellezza è la carne del bene e del vero, ed è questa la cosa davvero straordinaria. Il bene, per essere veramente tale, ha bisogno di manifestarsi come bellezza. Mio padre, anche se non era un padre della Chiesa, mi diceva sempre che se è vero quello che qualcuno ti vuole dire, lo si vedrà dal fatto che te lo dirà con amore e, quando te lo dirà, sperimenterai un rapporto bello con quella persona. Se, affermando una cosa, non facciamo trasparire la bellezza di un rapporto, ciò che diciamo è frutto di una passione, di un’ideologia e non esprime la verità. Per Solov’ëv «un contenuto ideale che rimanga unicamente una proprietà interiore dello spirito, della sua volontà e del sua pensiero, manca della bellezza e l’assenza della bellezza significa impotenza dell’idea» perciò per lui la bellezza è «l’incarnazione in forme sensibili di quello stesso contenuto ideale che prima di tale incarnazione si chiamava bene e verità»; «Il bene e la verità, per realizzarsi veramente, devono diventare nel soggetto una forza creatrice capace di trasfigurare la realtà, e non solo di rifletterla».
Pavel Florenskij
Secondo Florenskij la Chiesa è bella perché è la comunione delle persone. Se non c’è la bellezza della relazione non c’è la verità. La verità rivelata è l’amore – Cristo – l’amore realizzato è la bellezza. La bellezza è la manifestazione della verità come amore. Se è così, la bellezza è comunicazione teurgica, quando la verità si rivela come amore e l’amore trasfigura. Quando si comunica, la bellezza trasfigura la realtà attraverso la quale si comunica, perciò nella verità che l’altro mi dice sono trasfigurato e lui stesso ne è trasfigurato. La bellezza non è separabile dalla comunicazione, e l’unico vero comunicatore, perché ha qualcuno da comunicare, è Dio Padre. La bellezza impara da Dio Padre, l’artista impara da Dio Padre. E Dio Padre ha comunicato attraverso il Figlio, attraverso una persona. Non si comunicano le idee. Se la verità non si può rivelare come amore, è un idolo. Per comunicare ci vuole la persona. Cristo ha comunicato il Padre e non sono bastati i discorsi. Lo ha comunicato nella sua carne, nel suo corpo, e per questo ci voleva lo Spirito Santo il supremo comunicatore del Padre. Il corpo di Cristo è una figura, e l’arte figurativa è quell’arte che va fino al cielo, perché la carne diventa la carne spirituale. Cristo non ha comunicato il Padre in una forma prestabilita, rinascimentale, classica, perfetta, e neppure in un nichilismo espressionista violento, di denuncia del male e del cuore spezzato. Il Cristo è il più bello e il più brutto, tanto da girare la faccia perché non si poteva guardare, dice la Scrittura (cf. Is 52,14). Dio ha proibito di fare un’immagine di sé, riservandoci il privilegio unico di scolpire la vera immagine di Dio nella carne del Figlio. Il Dio che veneriamo l’abbiamo scolpito noi con il nostro peccato. La più grande opera d’arte che ha fatto l’uomo è la passione di Cristo, fino al suo corpo risorto. Se il Padre lo ha risuscitato dai morti poteva benissimo guarirgli le cicatrici, ma queste sono rimaste, perché solo da quelle fu riconosciuto. La realizzazione dell’amore operata dal Figlio si compie proprio nel Triduo pasquale, perciò la bellezza è pasquale. Non posso credere che i padri fossero meno intelligenti dei teologi degli ultimi cinquant’anni, eppure loro non si sono lasciati affascinare e ingannare dalle forme classiche. La forma classica non può dire la pasqua e, se non può dire la pasqua, è incompatibile con l’amore di Dio Padre. Se un amore non è pasquale, è un amore pagano. Pensare che io amerò senza pagare di persona significa essere un grande idealista pagano, perché la bellezza è pasquale. Perciò l’arte non può pensare di creare senza il martirio dell’arte e dell’artista. Solo così possiamo tornare all’arte, alla grande arte che esprime l’amore e si realizza attraverso la divinoumanità. Per questo ci vuole lo Spirito, l’unico che ci può innestare nel Figlio. Noi non possiamo diventare figli di Dio da soli, non possiamo vivere un amore pasquale accanto a Cristo, ma solo in quanto parte di lui. E questo vale anche per l’artista. In questo senso diciamo che la bellezza, realizzandosi, trasfigura la persona stessa e la vita di questa persona. Se una mamma si santifica amando, se un padre si santifica amando, un artista si santificherà allo stesso modo. È totalmente inutile esaltare un’arte se non si è santificato colui che l’ha fatta. Santificarsi significa consumarsi: questa è per me l’arte della vita, l’arte che diventa bellezza.”
“La mia gemma è costituita dalle immagini di Emba, un artista sudamericano poco conosciuto. L’ho scoperto su Instagram: le sue sono immagini molto semplici, fatte di poche linee.” Questa è stata la gemma di M. (classe quinta). Penso che questi tipi di opere rendano bene una famosa frase di Confucio: “La vita è molto semplice, ma noi insistiamo nel renderla complicata”. La pulizia e l’essenzialità delle linee suggeriscono l’idea di semplicità.
“Nell’ultimo anno ho potuto scoprire come la fotografia sia un modo per esprimersi e anche per conoscere come una persona vede le cose o magari le modifica: si vede il suo lato interno e come osserva i vari aspetti del mondo. Si capisce anche cosa la gente pensa vedendo le tue foto, e fa piacere che vengano apprezzate e condivise da qualcuno che le vedo allo stesso modo.” Questa la gemma di N. (classe seconda). Mi piace fotografare e ammirare gli scatti delle altre persone: è come fare un viaggio dentro di loro. Mi diverto anche a mettermi al posto loro: avrei fatto lo stesso scatto? Cosa mi stanno dicendo con quello scatto? Il grandissimo Ansel Adams diceva: “Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato.”
“Questa è la penna stilografica portatami da un’amica da Amsterdam. È quella di Van Gogh, segno di una passione comune, quella per l’arte e per l’artista in particolare. Ha anche mostrato di conoscermi molto bene: forse non tutti sapete che scrivo poesie e mi piace farlo con la stilo. E’ stato un regalo di forte impatto emotivo per me”. Questa la gemma di M. (classe quinta). Chissà se M. mi maledice se le cito Petrarca: “Non v’ha cosa che pesi men della penna, né che più di quella diletti: gli altri piaceri svaniscono, e dilettando fan male; la penna stretta fra le dita dà piacere, posata dà compiacenza, e torna utile non a quegli soltanto che di lei si valse, ma ad altri ancora e spesso a molti che son lontani, e talvolta anche a quelli che nasceranno dopo mille anni.” (Epistole, 1325/74)
Ho avuta la fortuna di avere due ottime colleghe di Storia dell’arte, Paola e Anna. Con una di loro ho collaborato durante l’anno (abbiamo insegnato insieme in tre corsi), con l’altra avevamo solo due classi comuni e la sto conoscendo meglio su facebook, scoprendo un mondo sorprendente. A loro ho pensato leggendo queste parole di Pierangelo Sequeri su un libro che ho appena terminato: “E’ diventato persino doloroso percepire la diffusione epidemica dell’asfissiante vuotezza di quel luogo comune nel quale si riassume la qualità dell’arte: «ci ha regalato emozioni». E’ un modo per non dire niente dell’arte, e delle sue immense corposità spirituali, ammiccando all’idea che, nell’indistinto dell’emozione, si è anche detto tutto quello che c’era da vedere, da sentire e da pensare. E’ il segno più eloquente della morte dell’arte. L’artista si svena per incorporare racconti di pensiero e visione di mondi, e l’utente finale non ha più parole e mente per riceverli. Ha provato emozioni. Ecco tutto. L’enorme lavoro spirituale e mentale dell’arte sincera e più sensibile all’impensato e al non percepito della vita quotidiana, affoga nell’indistinto di un generico senso di benessere e di eccitazione. In questa afasia della mente e dell’anima sensibile è proprio il visibile a morire, nella sua abissale eccedenza di riflessi dell’invisibile. Ed è proprio così che l’invisibile è perso. Narcosi e anestesia dei sensi spirituali, ecco cos’è l’arte come strumento del mero godimento senza mediazione di parole e racconti.” (Pierangelo Sequeri, Non ti farai idolo né immagine)
“Ho portato come gemma un’opera di Vladimir Kush che rappresenta la multipla manifestazione dell’amore. Mi piace questo artista russo surrelista metaforico; porta nei suoi quadri disegni di fiori, farfalle, natura in modo da farci pensare a differenti concetti della vita. Ho scelto “Matrix of love”; secondo l’autore l’amore è un insieme di tante piccole cose e piccole manifestazioni. Sono rappresentati diversi quadri. Il primo è l’amore puro, poi c’è un pendolo con l’età dell’oro e due innamorati. Poi dei fiori. Quindi due foglie dorate che ricordano due innamorati che si stanno guardando. Sotto vi sono due figure che danzano con due hula hoop che ricordano le due fedi di un matrimonio tra loro intrecciate. Poi le forbici, l’unità dei due in uno (rimanda al Simposio: “Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà…”). Il portamonete ricorda la fortuna. La conchiglia conica rappresenta i cromosomi dell’uomo e della donna, l’unione fisica che dà la luce. I calici con due figure sono augurio, auspicio di felicità e amore. C’è poi un altro fiore con due figure nel bulbo. Infine la chiave e il lucchetto, ancora le due metà destinate a cercarsi e trovarsi.” Questa è stata la gemma di M. (classe quinta). Mi soffermo su un particolare che avevo già sottolineato in classe. Tra il quadretto delle due foglie e quello dei danzatori sono appese due carte. Sono due otto. Mi piace pensare che siano due infiniti che si incontrano, si intrecciano e diano origine a un terzo infinito.
Tanti gli spunti offerti da questo articolo di Alessandro D’Avenia sul volto di Dio e sulla Sindone, tante possibilità di riflessione e meditazione. Pubblicato su La Stampa del 19 aprile.
“Vedere Dio. Chi per verificare che non esiste, chi per dirgliene quattro o scambiare quattro chiacchiere, chi per godersi la sua bellezza. Che lo ammettiamo o no, credenti o no, vorremmo vedere Dio. Per il poeta Eliot ogni cultura non è altro che la risposta data a questo desiderio: nessun uomo se n’è sottratto, anche gli uomini di quelle culture che negavano la possibilità di rappresentare il volto di Dio. Tra i due poli, culture iconoclaste e culture che hanno rappresentato gli dei, ci sono tante sfumature, ma i due poli rendono il punto chiaro, perché lo toccano uno da un margine uno dall’altro: Dio deve avere un volto. Gli Ebrei, proprio perché negavano la possibilità di nominare il nome dell’Altissimo e di rappresentarlo (le teofanie sono iniziative divine: sia che si tratti di fenomeni naturali come il roveto ardente per Mosè, sia che si tratti di presenze di aspetto umano come i visitatori di Abramo), svilupparono un concetto di volto di Dio, totalmente nuovo rispetto alle altre religioni. Il fedele cerca il volto (panim) di Dio, pur non potendolo vedere. Panim è il termine ebraico per indicare il volto come sede visibile dei sentimenti: ira, misericordia, dolcezza, gelosia, amore… Il volto, pur non essendo visibile o riproducibile in immagine, si riempie di un valore essenziale: rappresenta la possibilità di rapportarsi all’Altissimo. Dio è relazione con l’uomo e quindi ha un volto che esprime tutte le sfumature di una relazione d’amore, e il non rappresentarlo in immagini serve a preservarlo da qualsiasi riduzione umana e idolatrica. D’altro canto i Greci intuirono qualcosa di analogo, ma con esiti opposti. Erano convinti che qualsiasi cosa influisse sull’uomo e ne causasse azioni, idee, pensieri, parole non potesse essere di natura inferiore all’uomo. Per questo i loro dei, che si differenziavano dall’uomo per un unico aspetto (l’immortalità), erano antropomorfi, ma non per questo si potevano vedere direttamente. Quando si mostravano agli uomini si travestivano: apparivano come altri uomini o animali o sogni… ma la loro teofania non era mai svelata (prosopon è il termine greco per indicare sia il volto sia la maschera). Se qualcuno avesse visto un dio direttamente sarebbe perito, come racconta il terribile mito di Diana e Atteone, divorato dai suoi cani da caccia, dopo esser stato trasformato in cervo per aver visto la dea bagnarsi nelle acque di un fiume; o come il bellissimo mito di Amore e Psiche, in cui la ragazza, nonostante il divieto, nottetempo spia alla luce di una candela l’aspetto del dio che l’ha fatta sua e per questo viene cacciata dalle sue grazie, e dovrà patire ogni dolore e prova, prima di poter riavere Amore. Le teofanie sono possibili solo attraverso un camuffamento, altrimenti sono letali. Ciò però non preclude all’uomo la possibilità di poter rappresentare gli dei, anzi l’arte greca nasce proprio dall’anelito di vedere gli dei e farseli vicini: è teofania qualificata. La statua di un dio, come ha spiegato Vernant, era considerata un doppio del dio stesso, quasi costretto così, per via di bellezza, ad essere presente. L’arte era lo strumento umano per costruire la soglia tra il mondo profano e il mondo divino, rigorosamente separati. Il cristianesimo, che ha il suo mistero centrale nell’incarnazione di Dio, spezza questa distanza o impossibilità: sacro e profano non sono più separati, perché Dio si è fatto uomo, si è fatto volto, si è fatto parola e immagine, divinizzando da dentro il profano. Non solo si può vedere Dio senza morirne, ma si può toccarlo sino a farlo morire. Così l’estetica cristiana, nutrendosi delle due tradizioni, giudaica e greca, le fonde e supera in una nuova: una gara di bellezza per rendere ancora presente, il più degnamente possibile, la corporeità e il volto di Dio (prosopon viene usato dai teologi cristiani per definire il concetto stesso di “persona”). Le due tradizioni sono infatti ben rappresentate anche nel racconto evangelico. Filippo, ebreo discepolo di Gesù, chiede al suo maestro: “Mostraci il Padre e ci basta”, azzardando la richiesta quasi sacrilega di vedere il volto di Dio. E Gesù gli risponde: “Chi vede me vede il Padre”. In un’altra occasione un gruppo di Greci, desiderosi di conoscere Cristo, si accostano a quello stesso Filippo e gli chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. E quando Filippo riporta la richiesta, Cristo risponde enigmaticamente con l’esempio del chicco di grano: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Risponde alla greca, con “altre spoglie”, e non per nascondersi, ma perché la teofania deve ancora avvenire: la visibilità di Dio, in Cristo, sarà completa nel momento di massima ostensione della sua donazione all’uomo, cioè con la passione, morte e resurrezione. Il cerchio si chiude: per vedere il Padre bisogna vedere Cristo, per vedere Cristo bisogna vedere la sua “passione” di uomo e per l’uomo. Il frutto è una teofania storica affidata poi agli uomini, la visibilità di Cristo per tutti i tempi a venire: la vita dei cristiani stessi, decisi a seguirlo sulle sue tracce (“Chi vuol venire dietro a me mi segua e dove sono io là sarà anche lui”, “Da questo riconosceranno che siete miei, dal fatto che vi amate gli uni gli altri”). Per vedere occorre seguire, perché Dio offre il suo volto solo a chi liberamente si mette sulle sue tracce. In questo senso la sindone è “superflua” per un credente. Egli vede Cristo seguendolo, scorge le sue sindoni quotidiane nei luoghi in cui Cristo ha detto che lo avrebbero visto: nell’altro (“chi serve uno di questi piccoli serve me”), nel culto (“chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha in sé la vita e io e il Padre mio dimoreremo in lui”), nella speranza della visione definitiva dopo la morte (“sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”). Se un credente dimentica queste teofanie, la Sindone rischia di diventare oggetto di superstizione, fine a se stesso, limite e non soglia per un’ulteriore e più piena tracciabilità del divino. Per il non credente la Sindone può e deve essere curiosità (curioso viene da cura: un guardare con attenzione, senza liquidare pregiudizialmente e frettolosamente), perché nessuno scienziato (l’accanimento su quest’oggetto è unico nella storia dell’archeologia) è riuscito ancora a spiegare come questa immagine si sia costituita, dato che non è riproducibile né con colori né con le tecnologie più avanzate. Il lenzuolo è allo stato attuale l’inspiegabile “selfie di Dio”, fatto con la luce sprigionatasi direttamente dalla materia del corpo che conteneva, il corpo di un morto imploso o esploso senza strappi, che conserva tutti i segni della incompletezza della vita umana, una teofania di luminosa imperfezione, questo il paradosso (lo stesso del chicco di grano): dolore, sangue, abbandono, violenza, solitudine, morte sono visibili su quel telo e riscattati dalla e nella luce. Per questo anche per il non credente “il selfie di Dio” resta una sfida che provoca l’istintivo desiderio di vedere Dio. Se mi dicessero che è stato trovato il ritratto di un mio avo di duemila anni fa sarei curioso di vederlo, non mi cambierebbe la vita, ma arricchirebbe il mio senso estetico se si trattasse di opera artistica, della memoria e della storia se si trattasse di opera archeologica, il mio senso etico dal momento che si tratta di un uomo torturato e ucciso violentemente (bellissimo a questo proposito il romanzo di Potok, Il mio nome è Asher Lev), ma se scoprissi che quell’uomo, che diceva di essere Dio, si è fatto una foto in modo inspiegabile per la scienza e la tecnica, la mia curiosità si trasformerebbe in apertura curiosa e, chissà, magari, in ricerca.”
“Due quadri che ho visto di recente: questa è la mia gemma. L’opera di Picasso l’ho ammirata a gennaio a Londra, quella di Monet a Natale a Parigi. Il quadro di Monet l’ho sempre sognato: ho fatto danza classica per 5 anni e il poster di quel dipinto era appeso sul muro della sala di ballo. Sognavo di vederlo dal vivo e quando mi ci sono trovata davanti mi sono emozionata molto. Il quadro di Picasso penso possa rappresentarne l’evoluzione: queste tre ballerine mi hanno commossa.” Queste le parole di B. (classe seconda). Paul Klee afferma che “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Penso che in questo risieda la sua capacità di muovere in noi le emozioni e i sentimenti.
C’è un quadro che ha attirato la mia attenzione qualche settimana fa. E’ “Il filosofo” dipinto da Giacomo Ceruti, qui presentato da Vittorio Sgarbi su Sette.
“L’insolita composizione ci presenta un soggetto più volte affrontato in chiave caravaggesca o tenebrosa nel corso del XVII secolo: il filosofo solitario vestito di stracci come un mendicante che si misura o si accredita con il sapere rappresentato dai libri. Ceruti introduce due varianti che assimilano, vieppiù, il filosofo all’ambiente dei mendicanti. D’altra parte i cinici prendono il nome da kynikos, cane, per esplicito riferimento all’indifferenza per i beni terreni, alla concentrazione nei pensieri, che distoglie da ogni cura o beneficio materiale, assimilando la vita del filosofo a quella del cane. Ceruti interpreta il tema alla lettera, e la sua intuizione formale più evidente e felice è lo spazio davanti a un muro di pietre sconnesse nel quale si accomoda disteso sulla terra il personaggio in cui è inevitabile identificare un filosofo antico che potrebbe essere anche un sofista o Socrate o Diogene in attesa di Alessandro. Diogene Laerzio racconta di Diogene il cinico: «[Alessandro] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. “Io sono Alessandro, il gran re”, disse. E a sua volta Diogene: “Ed io sono Diogene, il cane”. Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: “Mi dico cane perché faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi”». In effetti, in quell’angolo nel quale il pittore lo ha ristretto, il filosofo sembra, con la luminosità che lo irradia, godere del sole per meglio leggere il suo libro, mentre usa gli altri, chiusi, per trovare un comodo appoggio. Possiamo così dire che le varianti del Ceruti, rispetto al soggetto rappresentato nel secolo precedente, sono nel concepire la figura distesa, e non in piedi, di tre quarti, contro uno sfondo indefinito; nell’immaginarla concentrata nella lettura, invece che nell’incrociare il nostro sguardo tra meditazione e desolazione; nell’averla vestita con abiti chiari. Sono elementi che rendono originale e sorprendente l’invenzione del Ceruti, che già si era esercitato, fuori dai soggetti allegorici, in analoghe composizioni, del suo mondo più consueto, come il Pitocco in riposo, davanti a un muro di blocchi di pietra, del ciclo di Padernello.
La consistenza dei panni e il blu dei pantaloni, quasi jeans, rimandano a opere tra il 1730 e il 1735, come il Giovane popolano con cappello. La disarmata semplicità è prerogativa del pittore, soprattutto in quegli anni. Quando i soggetti di poveri e mendicanti sembrano i temi esclusivi del pittore che descrive scene di vita popolare “color di polvere e di stracci”, così da giustificare la definizione di Testori: «L’Omero dei diseredati».”
Il 7 luglio 1973, nel giorno di un suo compleanno, Marc Chagall, all’inaugurazione del Museo con alcune delle suo opere, ha detto queste parole: “Se ogni vita va inevitabilmente verso la fine, dobbiamo, durante la nostra, colorarla, con i nostri colori di amore e di speranza… Forse in questa casa verranno i giovani e i meno giovani a cercare un’ideale di fraternità e d’amore, così come i miei colori e le mie linee l’hanno sognato… Forse non ci saranno più nemici…”.
Mi piacciono perché le posso pensare abbinate a un luogo fisico (una casa, una città, un ufficio, un atelier, uno studio, un luogo di culto, un parco) e a un luogo meno fisico se non addirittura metafisico (la mente, il proprio lavoro, un libro, un quadro, una canzone, un film, una poesia, un sorriso, una relazione, una storia d’amore, una fede, il cuore di ognuno…)
“Come una madre con amore e dolore mette al mondo un bambino, i giovani e i meno giovani costruiranno il mondo dell’amore con un nuovo colore e tutti, qualsiasi religione abbiamo, potranno venirvi e parlare di questo sogno, lontano dalle malvagità e dalla violenza. Vorrei che in questo luogo si esponessero opere d’arte e testimonianze della spiritualità di tutti i popoli; che si facesse udire la musica e la poesia dettate dal cuore di tutto il mondo. E’ possibile questo sogno? Ma nell’arte come nella vita, tutto è possibile se, alla base, c’è l’Amore”
“Cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch’essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere: questo è l’arte.” (James Joyce, Dedalus)