La perseveranza nella possibilità

Immagine creata con Gemini®

Una decina di giorni fa avevo pubblicato il primo articolo di Gabriella Greison per la rubrica Interferenze di Avvenire. Qualche giorno fa è uscito il secondo dedicato a Marie Curie.

“Marie Curie non aveva tempo per i dogmi. Non amava i riti, non cercava consolazioni nei libri sacri. Eppure la sua vita è una delle testimonianze più radicali di cosa significhi credere in qualcosa che non si vede. Non pregava, ma vegliava per notti intere sopra un forno improvvisato. Non cercava miracoli, ma li provocava senza saperlo. Quando scoprì la radioattività, non sapeva ancora cosa fosse. Non c’erano parole, né modelli teorici, né manuali per spiegarla. Sapeva solo che da quelle pietre di pechblenda che le arrivavano sporche di fango e carbone, in sacchi da tonnellate, si sprigionava un’energia misteriosa.  Una luce invisibile che attraversava la materia, che lasciava tracce su lastre fotografiche dimenticate in un cassetto, che si rivelava con una luminescenza tenue nei suoi laboratori scuri. Non si vedeva a occhio nudo, ma era lì, reale, tangibile. Una presenza che sembrava più spirituale che materiale.
Marie Curie non lavorava con strumenti sofisticati: aveva provette spaiate, pentole crepate, mani  segnate dalla fatica. Il laboratorio era poco più di una baracca: d’inverno il freddo entrava dalle finestre rotte, d’estate il caldo scioglieva il piombo. Eppure, in quelle condizioni, scoprì che l’universo custodiva una scintilla segreta. Una scintilla che illuminava senza fiamma, che scaldava senza fuoco, che parlava senza voce. Una dedizione totale a quello che faceva.
Forse la sua spiritualità era questa: restare fedele a una ricerca che non prometteva nulla, se non il brivido del mistero. Non cercava un Dio personale, ma neanche si accontentava di un mondo già catalogato. La sua fede era nel lavoro, nella sua dedizione, nella possibilità che dietro l’apparenza ci fosse altro. E mentre gli uomini intorno a lei facevano carriera nelle accademie, Marie continuava a rimestare tonnellate di materiale grezzo. “Ho dovuto trascinare carri, spezzare pietre, accendere forni, come un contadino”, raccontava. Eppure, mentre sudava e tossiva in quella baracca, si accorgeva che stava accendendo una luce nuova sul mondo.
C’è una frase di Marie che mi colpisce sempre: «Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire». È un manifesto che potremmo appendere ovunque. Significa che la paura nasce dal buio, e che la conoscenza è una forma di luce. Eppure, proprio lei che aveva acceso quella luce, pagò il prezzo più alto: il suo corpo assorbì lentamente la radiazione che non sapeva ancora come domare. Le sue ossa si incrinavano, le sue mani tremavano, i suoi taccuini restano ancora oggi radioattivi, custoditi in piombo nelle biblioteche di Parigi.
In questo c’è una grande lezione di spiritualità: si può credere al punto da consumarsi, si può amare il mistero fino a farlo entrare nelle ossa. Non perché si sia fanatici, ma perché si riconosce che la vita ha senso solo se ci si dona a qualcosa che ci supera. Marie Curie non parlava di Dio, ma ci ha consegnato un’idea che gli somiglia: la convinzione che nell’invisibile ci sia la verità. E che la nostra parte più autentica non si trovi in quello che possediamo, ma in quello che siamo disposti a cercare. Forse la sua eredità non sono solo l’uranio o il polonio, né i due premi Nobel, né le onorificenze che le hanno consegnato troppo tardi. Forse la sua vera eredità è averci insegnato che la luce non è solo quella che vedono gli occhi. Ce n’è un’altra, più sottile, che ci chiede di avere coraggio, pazienza, dedizione.
Perché la sua grandezza non sta solo nell’aver aperto una strada nuova alla scienza, ma nell’averci  ricordato che il mistero non si doma: lo si accompagna. Si vive accanto a lui, lo si accetta, lo si interroga. Si lascia che diventi parte di noi. Eppure, per capire Marie, bisogna tornare all’inizio. Una ragazza di Varsavia, in un tempo in cui alle donne non era concesso quasi nulla: non le aule ufficiali, non le cattedre, non il diritto a una curiosità senza permesso. Studio clandestino, libri presi di nascosto, una fame di sapere che non si spegne. È lì che nasce la sua “preghiera laica”: imparare, anche quando tutto intorno dice di no.
Poi l’incontro con Pierre: due vite che si uniscono non per completarsi, ma per moltiplicarsi. Non  un altare, ma un banco da lavoro; non promesse solenni, ma una cassa di legno piena di minerali, campioni, strumenti. L’amore, per loro, è un’alleanza con la materia. E quando la materia restituisce il suo segreto, loro lo chiamano con nomi di patria e affetto: polonio, radio. Nella scelta dei nomi c’è la loro geografia interiore: il luogo da cui si parte e il fuoco che si è trovato. E poi la perdita. Un carro, un incidente, il mondo che si spezza. Marie rimane davanti a un’assenza che non ha linguaggio. Non scrive preghiere, non chiede risarcimenti al cielo. Torna in laboratorio, accende il forno, rilegge gli appunti. È una fedeltà senza spettacolo: l’idea che la vita riprenda senso stando vicino alla sorgente di luce che si è accesa insieme. Quella fedeltà è una forma di spiritualità: restare dove arde, anche quando brucia. E arriva la guerra. Non una parentesi, ma una chiamata. Marie prende la luce invisibile e la porta dove serve: sul fronte, negli ospedali, nelle baracche di fortuna. Addestra infermiere, guida camion, spiega come mettere a fuoco un’ombra dentro un corpo per salvare un arto, una vita. Non discute teorie: accende apparecchi. La scienza, in quelle ore, è una carezza che vede ciò che l’occhio non vede. La sua spiritualità è diventata azione: non parole, ma voltaggi e immagini che rimettono insieme ciò che la guerra rompe.
E c’è la fama, che non consola. Premi, medaglie, scandali, sospetti. La diffidenza verso una donna  “troppo donna per la scienza, troppo scienza per il salotto”. Marie non risponde. Lavora. Quando la vita di superficie si agita, lei scende di un livello e tace, come fanno i minatori quando la galleria vibra. È un gesto spirituale: scegliere la profondità quando la superficie fa rumore. Se guardiamo bene, tutto in lei è un esercizio di presenza. Restare, anche quando fa male. Cercare, anche quando non c’è garanzia di trovare. Illuminare, anche quando nessuno ringrazia. È una mistica senza dogmi, una scienziata senza retorica. La sua “preghiera” è una formula semplice: “continua”. Ed è proprio in questo verbo che la scienza e la spiritualità si toccano: nella perseveranza che non pretende risultati immediati, ma tiene aperta la possibilità.
E allora la domanda diventa nostra: cosa ce ne facciamo, oggi, della sua luce invisibile? In che  modo possiamo rimanere accanto a ciò che non capiamo, senza fuggire? Possiamo imparare anche noi a “vedere dentro” — nelle cose, nelle storie, nelle persone — con un apparecchio che non ha manopole ma ha un nome antico: attenzione. Forse l’attenzione è la radiografia dell’anima: mette a fuoco l’invisibile e lo rende abitabile. Ecco perché Marie Curie appartiene a questa rubrica: perché ci ricorda che la scienza, quando tocca l’invisibile, diventa preghiera. Non detta formule, ma ci invita a restare in ascolto. Non costruisce dogmi, ma apre spazi. Non ci promette risposte definitive, ma ci regala la capacità di non smettere di domandare.

PS: Scrivo questa rubrica anche per questo: perché sento il bisogno di rileggere figure come Marie Curie non solo come scienziate, ma come donne e uomini che hanno interrogato il mistero. Anch’io sono — come tutti, forse — alla ricerca di un nuovo significato da dare alle cose del mondo. Non basta spiegare, non basta calcolare. Voglio trovare parole che tengano insieme ragione e stupore, numeri e silenzi. In questo cammino, anche Marie Curie diventa per me una compagna di viaggio, come Einstein e altri fisici che hanno scavato nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni. Non tanto perché abbiano trovato risposte definitive, ma perché hanno avuto il coraggio di convivere con l’invisibile. Domanda per voi: qual è la vostra luce invisibile, quella a cui vi affidate nei momenti bui?”

Gemma n° 2380

“Come Gemma ho scelto la canzone Photograph di Ed Sheeran.
Questa canzone occupa un posto speciale nel mio cuore nonostante non mi riporti alla mente solo ricordi felici.
È stata infatti utilizzata come sottofondo nel video ricordo realizzato per una mia insegnante di danza venuta a mancare ormai 6 anni fa a causa di un incidente.
È difficile per me ascoltare questa canzone senza pensare a quanto lei fosse speciale nelle nostre vite e di come questa notizia improvvisa abbia ribaltato completamente la nostra realtà ma, nonostante ciò, voglio ricordarla in tutta la sua dedizione e passione perché lei è stata e sarà sempre per me un esempio da seguire non solo nella danza ma anche nella vita di tutti i giorni” (A. classe terza).

Gemma n° 1947

“Ho portato una foto dei sottopassi, dei manichini, delle pinne e della sacca con gli attrezzi che utilizzo per gli allenamenti. Il nuoto è uno sport che pratico da quando sono piccola e ci sono molto legata e mi sono concentrata sul salvamento perché lo preferisco. Le pinne, in particolare, sono importanti perché le porto anche alle gare e mi hanno accompagnato anche ai nazionali (è stata proprio la prima gara)”.

E’ bello guardare la foto portata da G. (classe prima), una foto costituita da oggetti inanimati che però prendono vita e vigore al suono delle sue parole, segno della sua passione, del suo impegno, della sua forza.

Gemma n° 1773

“Inizialmente non sapevo proprio cosa portare come gemma, ma alla fine ho optato per la prima medaglia vinta nello sport che pratico ancora, ovvero l’atletica. Ho fatto per diversi anni nuoto, ma dopo un po’ mi ero accorta che non mi piaceva più e di conseguenza era diventato come una sorta di peso, così decisi di provare ad iniziare atletica; era il settembre 2016. All’inizio non fu affatto facile; speravo di ottenere dei buoni risultati sin da subito; ovviamente non fu così, c’era tanto che dovevo ancora imparare. Ad una delle ultime gare della prima stagione, i campionati regionali, quindi era più o meno ottobre del 2017, finalmente riuscii a vincere la mia prima medaglia. Ero davvero molto felice, tant’è che portai la medaglia al collo per l’intera giornata.
Ho deciso di portare questa medaglia come gemma perché questo sport mi ha davvero insegnato molte cose e continua ancora a farlo. Mi ha accompagnato nella mia crescita, mi ha messo di fronte a diversi ostacoli, mi ha fatto capire che alla fine se voglio ce la posso fare e che non sempre tutto può andare bene. In qualche modo mi ha sempre aiutata nei momenti meno belli. All’atletica devo molto, anche le persone a cui sono tanto legata.
Un giorno probabilmente questo mio percorso finirà, ma mi lascerà tantissimi ricordi (sia belli che meno belli) perché questo per me non è solo un semplice sport ma qualcosa di più”.

Anche la gemma di E. (classe terza) è dedicata allo sport. Nel mese di maggio mi sono imbattuto in un podcast di Mario Calabresi (lo trovate su Spotify) in cui intervistava Veronica Yoko Plebani, atleta che poi in agosto avrebbe vinto uno splendido bronzo nel triathlon alle paralimpiadi di Tokyo. Un giorno, non appena finisco il suo libro Fiori affamati di vita, scriverò sicuramente un post su di lei. Ad un certo punto, parlando del suo corpo (colpito da una meningite fulminante a 15 anni), dice “Il corpo è stata la mia soluzione. Attraverso lo sport faccio delle cose incredibili quindi non vedo niente di male nel mio corpo, anzi, vedo solo cose bellissime e questo mi aiuta a non avere nessun problema nel mostrarlo. Con il tempo ho capito che questo può essere d’aiuto anche per gli altri: è come se fossi diventata uno spazio dove le persone sanno riconoscere la fragilità. Molti sentono che è possibile avere delle fragilità e mostrarle e capiscono che si possono anche trasformare in qualcosa di positivo e accettarle”. La potenza dello sport! Consiglio: seguite su Instagram questa ragazza, fa bene all’anima.

Gemme n° 434

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Ecco le mie prime punte di danza. Rappresentano una grande passione, iniziata quando avevo 6 anni: sono state un piccolo traguardo. Le ho potute mettere dopo anni di prove e fatica. Già da subito volevo dare il massimo per arrivare a indossarle: sono il frutto di fatica e determinazione. Ora cerco sempre di dare il massimo e di immedesimarmi nei vari ruoli che interpreto.” Queste le parole di N. (classe seconda).
Uno degli ultimi allenatori della nazionale di calcio non ha terminato bene la propria esperienza in azzurro, eppure era stato uno dei più apprezzati per la sua umanità. Mi sto riferendo Cesare Prandelli, che ha affermato: “La pratica sportiva è un microcosmo della vita fatto di sacrifici, applicazione nel lavoro, rispetto delle regole, successi e delusioni. Ma è soprattutto un modo sano di intendere la vita, a prescindere dai risultati che ciascuno può ottenere.”

Gemme n° 259

Ho portato l’ultima scena di questo film, in cui si parla del rapporto tra una coppia e cane Marley. Penso che avere un cane sia una delle cose migliori: non chiede niente e ti dà affetto”. Queste le parole di M. (classe terza).
Due frasi sull’atteggiamento che hanno spesso i cani nei confronti degli umani che vivono con loro. La prima è anonima: “Signore, lasciami essere metà dell’uomo che il mio cane pensa io sia”. La seconda, invece, è di Miguel de Unamuno: “Io ero la tua religione, ero la tua gloria… Se tu potessi sapere, o mio caro cane, quanto il tuo dio è triste per la tua morte… Gli dei piangono quando muore il cane che gli leccò la mano”.
Un saluto da Mou.

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Gemme n° 34

La gemma che ha portato M. (classe terza) è la parte finale del suo saggio di danza. “Ballare per me è tutto, è la cosa più importante. Guardi prof, mi tremano le mani solo a pensarci. E’ ciò che mi fa stare bene con me stesso, che mi rende orgoglioso di ciò che sono e rende orgogliosi anche i miei genitori”.
Mi è venuta in mente la lezione di ballo liscio di ieri sera, in cui sono impazzito per capire come funziona il giro a sinistra della mazurka (sigh!). Non è la mia passione il ballo, almeno per ora, però è una cosa che mi piace fare insieme a mia moglie e per questo è importante. Però adoro vedere chi ci mette l’amore e la passione nelle cose che fa, e si emoziona parlando di esse e si fa trasportare come nel video qui sotto…