Ieri ho incontrato A. fuori da scuola. E’ una mia ex studentessa. Era raggiante, felice, serena, come raramente l’avevo vista negli ultimi anni del liceo. Ad A. era capitato di recuperare materie a fine agosto e non era per niente certa dell’ammissione all’Esame di Stato. Nell’ultimo anno l’ho vista spesso con gli occhi rossi, sfiduciata, arrabbiata e delusa. Una delle ultime lezioni mi aveva detto: “La cosa che più mi dà fastidio è essere giudicata, male, prima di poter dimostrare quanto valgo”. Ieri la prima cosa che mi ha detto, con un enorme sorriso, è stata: “Ieri ho dato il quarto esame, è andata benissimo”.
Urge una riflessione, è tanto che lo penso e lo dico. C’è qualcosa che non va, che non funziona. Dobbiamo cambiare qualcosa, non possiamo più aspettare. Emerge anche dalle discussioni di fine anno che sto facendo con le mie classi, soprattutto quelle del triennio. Gli studenti non chiedono di studiare meno, ma che gli venga riconosciuto quanto fanno. Anzi, molti di loro chiedono di poter essere formati meglio in certe discipline, quelle per cui hanno delle predilezioni. Non possiamo non ascoltare queste e altre richieste. Ciao A., è stato bellissimo vederti sorridere, ancora una volta, buona strada…
Asticelle e punti
“Ma noi non chiediamo più nulla ai figli, neanche «come stai». Abbiamo paura di disturbare. Di interrompere il loro sonno chiamato giovinezza. Quando gli chiediamo di studiare, siamo patetici. Glielo chiediamo così, perché si fa, perché ci è rimasto dalla tradizione che un figlio deve studiare, ma non lo sappiamo più bene neanche noi perché; e loro lo sentono che glielo chiediamo senza uno scopo, sentono che dietro quella richiesta c’è il vuoto. Perché in fondo non c’è più niente che vogliamo da loro. I miei genitori invece lo sapevano bene, i miei volevano che io andassi avanti, che io li superassi. Continuare la loro corsa, ecco; loro si fermavano a un certo punto perché di più non potevano, e a me chiedevano di oltrepassare quel punto. Era molto chiaro. Ed era anche molto commovente. Si piangeva il giorno della laurea, ad esempio. Si piangeva di una commozione che aveva in sé tutto: mio padre piangeva perché per lui era un sogno che la figlia di un operaio si laureasse in Lettere e Filosofia; mia madre piangeva perché aveva passato la vita a badare a me, in casa tutto il giorno a fare, come si dice, la casalinga e a risparmiare persino sull’aria che si respirava; e io piangevo perché non lo so, mi sembrava di avere il mondo in mano e che sarei diventata non so cosa. C’era l’idea di un compimento, l’idea di un inizio, e anche l’idea di una morte, della loro e poi della mia morte. Insomma l’idea del tempo. Ma noi qui il tempo l’abbiamo abolito. Lo facciamo solo passare. E questo i figli lo sentono.” (Paola Mastrocola, Palline di pane, pp 145-146)
Ho letto due volte il passo perché sentivo che in me c’era qualcosa che suonava rotto… Mi sono immedesimato nell’unica delle due esperienze che fino ad ora ho vissuto sulla mia pelle: quella di figlio. E mi son detto: dipende da che genitori hai… Se tuo papà ha vinto il Nobel per la letteratura e tua mamma quello per la medicina, hai voglia a superarli… Fuor di facile banalizzazione: a che punto i genitori hanno collocato l’asticella del superamento? A che punto si sono fermati per fissare il sorpasso? E’ lì, immagino, che il genitore può dimostrare di essere veramente in gamba: spronarti, stimolarti, pungolarti ma desiderare per te, essenzialmente, il tuo essere felice, reale ed autentico, al di là dell’altezza dell’asticella e del punto di sorpasso.
Aspirando alla felicità
Questo brano di Seneca penso possa essere utile a molte e a molti. Premetto anche che non lo intendo come riferimento alle recenti elezioni o alla politica; in questo momento do al brano un significato esclusivamente esistenziale in riferimento alle scelte di vita e adesso è tutto per E.
“Tutti aspiriamo alla felicità, ma, quanto a conoscerne la via, brancoliamo nel buio. E’ infatti così difficile raggiungerla che più ci affanniamo a cercarla, più ce ne allontaniamo, se prendiamo una strada sbagliata e se questa, poi, conduce addirittura in una direzione contraria (…)
(…) Perciò dobbiamo avere innanzitutto ben chiaro ciò che vogliamo, dopodiché cercheremo la via per arrivarci, e lungo il viaggio stesso, se sarà quello giusto, dovremo misurare giorno per giorno la strada che ci lasciamo indietro e quanto si fa più vicino quel traguardo a cui il nostro impulso naturale ci porta. (…) Non c’è nulla di peggio che seguire, come fanno le pecore, il gregge di coloro che ci precedono, perché essi ci portano non dove dobbiamo arrivare, ma dove vanno tutti. Questa è la prima cosa da evitare. Niente c’invischia di più in mali peggiori che l’adeguarci al costume del volgo, ritenendo ottimo ciò che approva la maggioranza, e il copiare l’esempio dei molti, vivendo non secondo ragione ma secondo la corrente. (…) Sforziamoci dunque di vedere e di seguire non i comportamenti più comuni ma cosa sia meglio fare, non ciò che è approvato dal volgo, pessimo interprete della verità, ma ciò che possa condurci alla conquista e al possesso di una durevole felicità.” (Dal “De vita beata”, Lucio Anneo Seneca)
Happy
Prima ho pubblicato un post sulla felicità quotidiana. Quando mia moglie è tornata dal lavoro glielo ho mostrato e lei mi ha detto “Aspetta, guarda questo!”
FANTASTICO ED EMOZIONANTE!
La felicità del quotidiano
Quando un videoclip può fare la differenza…
Prendo una canzoncina che quand’ero piccolo (quasi quaranta anni fa) andava per la maggiore. Il testo era una filastrocca che invitava i bimbi al movimento: “Se sei felice tu lo sai batti le mani… se sei felice tu lo sai batti i piedi…”. Metto un video recente, adatto ai bambini.
Oggi c’è una versione adulta: il testo di “Happy” di Pharrell Williams non è poi molto più intelligente: “Potrebbe sembrare da pazzi ciò che sto per dire: i raggi del sole sono qui, puoi portarli via, sono una mongolfiera che potrebbe arrivare nello spazio con l’aria come se comunque non mi interessasse. Perché sono felice, batti le mani se ti sembra di essere una stanza senza un tetto. Perché sono felice, batti le mani se ti senti che la felicità sia la verità. Perché sono felice, batti le mani se sai cosa è per te la felicità. Perché sono felice, batti le mani se senti che è quello che vuoi fare. Ed ecco le cattive notizie. Yeah, dammi tutto ciò che hai non fermarti, Yeah, probabilmente dovrei metterti in guardia che starò bene, Yeah, senza offesa non perdere il tuo tempo ecco perché”. Ma il colpo di genio è il video: persone qualsiasi di Los Angeles vengono invitate a danzare sulle note di “Happy”, con l’intento di formare un video di 24 ore, frutto del montaggio di tutte quelle immagini. Che idea ne deriva? La felicità del quotidiano.
Praise the Almighty
Leggo su UdineToday questo articolo di una collaborazione tra Dj Tubet e Mikeylous. Il pezzo è di Giancarlo Virgilio. A presto ci sarà il videoclip ufficiale.
«“Praise the Almighty”, l’ultima produzione di Dj Tubet è una canzone nata in rete. Su internet, attraverso Facebook, Soundcloud, Myspace e altri portali musicali, il rapper di Nimis ha conosciuto il giamaicano Mikeylous e da là è iniziata una forte amicizia rafforzata anche da alcune analogie.
“Lui è un campagnolo del nord della Giamaica, luogo dove è nato inoltre Bob Marley e che presenta forti affinità con il Friuli, essendo anche la terra che ospita il festival reggae Sunsplah, come un tempo noi ospitavamo il nostro Rototom Sunsplash. Il pezzo – ci spiega dj Tubet – è andato avanti e indietro tramite internet fra la Giamaica e Nimis. Volevamo dare un’idea generale di umiltà attraverso le nostre culture . La mia parte è in italiano e friulano, la sua in patois giamaicano”.
La canzone, il cui titolo è ‘Prega l’Altissimo’, rappresenta un punto di incontro tra la visione della preghiera di Mauro Tubetti e la religiosità giamaicana. Il pezzo ha un ritmo registrato a Ocho Rios – Saint Ann in Giamaica e contiene delle liriche che mettono in luce l’importanza di percorrere la strada affidandosi al volere del Padre. Questo il senso che l’artista vuole trasmettere.
“La mia idea del Divino e l’importanza delle sacre scritture come ispirazione. La preghiera come fondamento della nostra esperienza religiosa. Tutto questo va poi a mescolarsi con la visione religiosa nera. Una sorta di Europa che incontra l’Africa e le isole caraibiche. Mikeylous in una sua strofa afferma che hanno venduto e ucciso tutti i profeti, da Cristo ai profeti neri (Malcom X, Martin Luter, Marcus Garvey e lo stesso Bob Marley), perciò non resta altro che porre la sorte nelle mani di Dio.”
La canzone, contenete anche delle parti in lingua friulana, è stata trasmessa da Irie fm, la radio numero 1 per il reggae in Giamaica, e da alcune radio inglesi come City Lock Radio e Stingdemradio, oltre che da alcune radio regionali, fra cui Radio Onde Furlane.
“Penso che questa collaborazione sia un passo molto importante anche per la nostra lingua. Varca i confini e viene trasmessa su stazioni radiofoniche dove, molto probabilmente, è la prima volta che la sentono parlare. Fra poco dovrei andare a Londra per girare il video. Incrociamo le dita”.»
Intanto questo è il video con il testo (Dj Tubet canta prima in italiano e poi in friulano).
Per lui è tutto
Ho intenzione di proporre sul blog alcuni scritti provenienti dalle diverse tradizioni religiose. Alcuni saranno tratti dai libri che ho a casa, altri da siti che di volta in volta segnalerò. Inizio con un delicato racconto della tradizione islamica sufi, preso qui.
L’acqua del paradiso
Nel corso della loro vita da nomadi, Harith il Beduino e sua moglie Nafìsa erano soliti piantare la loro logora tenda dove potevano trovare qualche palma da dattero, qualche ramoscello rinsecchito per il loro cammello, o uno stagno di acqua salmastra.
Erano anni che facevano questa vita e ogni giorno Harith compiva gli stessi gesti: con la trappola prendeva i topi del deserto per via della loro pelle, e con le fibre di palma intrecciava corde che vendeva alle carovane di passaggio.
Un giorno, tuttavia, una nuova sorgente sgorgò dalle sabbie del deserto. Harith si portò l’acqua alle labbra e gli sembrò l’acqua del paradiso. Quell’acqua, che noi avremmo trovato terribilmente salata, era infatti molto meno torbida di quella che era abituato a bere. “Devo assolutamente farla assaggiare a qualcuno che sappia apprezzarla”, si disse Harith.
Si incamminò quindi sulla strada per la città di Bagdad e per il palazzo di Harun El-Rashid, fermandosi solo per sgranocchiare qualche dattero. Portava con sé due otri pieni d’acqua: uno per sé e l’altro per il califfo.
Alcuni giorni dopo raggiunse Bagdad e andò direttamente a palazzo. Le guardie ascoltarono la sua storia e, non potendo fare altrimenti – era questa l’usanza – lo ammisero all’udienza pubblica tenuta dal califfo.
“Comandante dei credenti”, disse Harith, “sono un povero beduino e conosco tutte le acque del deserto, benché sappia ben poco di altre cose. Ho appena scoperto quest’Acqua del Paradiso e ho subito pensato di portarvela perché, in verità, è un regalo degno di voi”.
Harun il Sincero assaggiò l’acqua e, dato che capiva i suoi sudditi, ordinò alle guardie di far accomodare il beduino e di trattenerlo finché non avrebbe fatto conoscere la sua decisione. Poi chiamò il capitano delle guardie e gli disse: “Ciò che per noi è niente, per lui è tutto. Al calar della notte conducetelo fuori dal palazzo. Non lasciate che veda il possente Tigri; scortatelo fino alla sua tenda senza permettergli mai di bere acqua dolce. Poi dategli mille monete d’oro con i miei ringraziamenti per i suoi servigi. Ditegli che lo nomino guardiano dell’Acqua del Paradiso e che dovrà offrirne da bere a mio nome a tutti i viaggiatori”.
Questo racconto s’intitola anche: “La storia dei due mondi”. Risale ad Abu El-Atahiyya, della tribù degli Aniu, contemporaneo di Harun El-Rashid e fondatore dei dervisci Maskhara, ‘Gaudenti’, in Occidente sono conosciuti col nome di ‘Mascara’ e hanno adepti in Spagna, Francia e in altri paesi. El-Atahiyya è stato chiamato “il padre della poesia araba sacra”. Morì néll’828.
Granelli di felicità
Rubo dal profilo fb di un’amica.
“La vita è fatta di piccole felicità insignificanti simili a minuscoli fiori.
Non è fatta solo di grandi cose come lo studio, l’amore, i matrimoni, i funerali.
Ogni giorno succedono piccole cose, tanto da non riuscire a tenerle a mente né a contarle.
E tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percettibile che l’anima respira e grazie alla quale vive.” (B. Yoshimoto)
Dal PIL alla FNL
In quinta stiamo parlando di globalizzazione. Sono emerse varie ipotesi e possibilità riguardo allo sviluppo economico: crescita, decrescita, pausa… Pubblico un articolo di Vandana Shiva, preso da questo sito e originariamente comparso su The Guardian.
“La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (PIL), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il PIL si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita”, misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci.
Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi. I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate.
L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene
fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una carestia d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 km, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.
Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica, produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprare di più ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori é aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.
La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso, e la gente diventa più povera.
Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per casa. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, essa riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Essa era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.
Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.
L’aumento del flusso di denaro attraverso il PIL si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete conduce essi all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen, hanno riconosciuto che il PIL non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la felicità nazionale lorda al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il PIL, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.”
La felicità del dono
Gente sfumata
A proposito dell’ultimo post sul vivere le relazioni fino in fondo assumendosene il rischio, aggiungo le parole di un libro che ho finito di leggere da poco. Quando leggo mi appunto sulla prima pagina interna del libro il numero di facciata dove ho fatto un segno di matita su un passo che mi ha colpito. Poi ricopio il passo su un quadernetto dove numero le citazioni. La numero 1524 è presa da “Una certa idea di mondo” di Alessandro Baricco, che a pag. 165 scrive: “… siamo goffi al cospetto della felicità, e dignitosi nelle avversità: così manchiamo lo spettacolo della vita spesso, ma ne rispettiamo la dignità come pochi altri. Ciò fa di noi gente sfumata, spesso destinata ai titoli di coda.”
Non sono nato felice
Alcune parole di Bertrand Russell (cui ho accennato già mercoledì) che possono diventare una sorgente molti ricca di riflessioni.
“Io non sono nato felice. Da bambino il mio salmo preferito era: «Stanco della terra e carico dei miei peccati». A cinque anni, mi dissi che, se dovevo vivere fino ai settanta, avevo sopportato soltanto, fino a quel momento, la quattordicesima parte di tutta la mia vita, e, intravvedendo davanti a me il tedio che mi attendeva su di un cammino così lungo, lo giudicai insopportabile. Durante l’adolescenza, la vita mi era odiosa e pensavo continuamente al suicidio; ma questo mio proposito era tenuto a freno dal desiderio di approfondire la mia conoscenza della matematica. Ora, al contrario, godo la vita; posso quasi dire che ogni anno la godo di più. Ciò è dovuto in parte all’aver scoperto quali fossero le cose che maggiormente desideravo e all’averne gradatamente acquisite molte, in parte all’essere riuscito a rinunciare a determinate aspirazioni, quali l’acquisizione di una conoscenza assoluta di questa o di quella cosa, perché essenzialmente irraggiungibile. Ma soprattutto ciò è dovuto al fatto che mi sono abituato a preoccuparmi sempre meno del mio io. Come molti di coloro che hanno ricevuto un’educazione puritana, io avevo l’abitudine di meditare sui miei peccati, le mie follie, le mie manchevolezze. Apparivo a me stesso, senza dubbio giustamente, un misero esemplare d’uomo. Gradatamente imparai a non badare a me stesso e alle mie deficienze; giunsi a concentrare sempre più la mia attenzione su oggetti esteriori: le condizioni del mondo, varie branche del sapere, individui ai quali ero affezionato. Gli interessi esterni, è vero, possono essere ognuno causa di sofferenza, il mondo può precipitare nella guerra, la conoscenza di questa o di quella branca del sapere può essere difficile da acquisire, gli amici possono morire. Ma questi dolori non distruggono la qualità essenziale della vita, come fanno quelli che hanno origine dal disgusto di noi stessi. Ed ogni interessamento esterno spinge a qualche attività la quale, fintanto che l’interesse si conserva vivo, è un sicuro preventivo contro l’ennui. L’interesse per il proprio io, al contrario, non spinge ad alcuna attività di carattere costruttivo. Può indurre a tenere un diario, a sottoporsi a un esame psicoanalitico, o forse a farsi monaco. Ma il monaco non sarà felice fino a quando le occupazioni quotidiane del monastero non l’avranno reso dimentico della sua anima. Quella felicità che egli attribuisce alla religione, avrebbe potuto raggiungerla anche diventando spazzino, purché fosse stato costretto a rimanere tale. La disciplina esteriore è la sola via che conduca alla felicità per quegli infelici, troppo dediti all’introspezione per poter essere curati in altro modo.”
Avvolga pure
Un’ora fa un’ex alunna su fb ha scritto “La vita è una questione di scelte…. giuste o sbagliate che siano ..ciò che importa è che sia tu a scegliere ….”. Poco dopo mi sono imbattuto in queste parole di Salvatore Natoli, contenute in “La felicità. Saggio di teoria degli affetti”, e che alla fine riportano una citazione di Orazio: una spinta per sentirsi un po’ più protagonisti e artefici della nostra vita.
Belando di economia
Articolo di Roberta Scorranese nella sezione “Cultura” del Corriere di oggi. Lo consiglio, soprattutto agli studenti del Les e a quelli che hanno apprezzato il tema della globalizzazione. L’articolo lo trovate qui in pdf.
“Ogni famiglia felice si fraintende a proprio modo. E così succede che, mentre una mamma e un papà della buona borghesia credono il giovane e intelligente Filippo intento nei suoi alti studi di economia a Stanford, questi irrompa in un convegno a Oxford accompagnato da un gregge belante di pecore. Pecore vere. È spiazzante l’inizio di “Non so niente di te”, il romanzo che segna il passaggio di Paola Mastrocola da Guanda a Einaudi. Spiazzante non solo nella combinazione narrativa, ma anche nella «metafisica del racconto». Si parte dallo stupore di Guido e Nisina Cantirami, lui avvocato benestante, lei arredatrice per diletto, che scoprono un’ombra sulla vita apparentemente regolare del loro figlio maggiore. Da email, sms, conversazioni via Skype, lui offre un ritratto rassicurante da studente di economia come tanti. Ma, da un’improvvisa falla, una realtà ben diversa irrompe con veemenza crescente, tratteggiando una vita differente. Emerge una scelta netta, da rivoluzionario moderno che mette in discussione la «vecchia» economia. Inizia qui il faticoso viaggio della famiglia alla ricerca del «vero» Filippo, in un crescendo di tensione alla Dürrenmatt, nell’indagine più difficile che esista: conoscere i propri figli.
Nei suoi romanzi precedenti, ma soprattutto nei saggi (come nel Saggio sulla libertà di non studiare, edito da Guanda), Paola Mastrocola ha costruito, negli anni, una visione alternativa al conformismo sociale: un’istruzione malata e un sistema culturale in declino (è la sua riflessione) forse hanno alle spalle un modello di sviluppo da rivedere. E in questo racconto la sensazione è che la scrittrice torinese abbia saputo condensare le riflessioni su economia, società, desertificazione culturale in una storia complessa, tesa e scritta con la consueta eleganza. Proprio come un progressista dostoevskiano, Filippo Cantirami non sceglie la piazza, ma la resistenza morale. La strada individualista alla Ayn Rand e non la risonanza mediatica di Occupy Wall Street. Convinto che l’attuale crisi economico-finanziaria sia innanzitutto un’apocalisse morale. Paola Mastrocola così appaia i destini dei personaggi (indimenticabile quello di zia Giuliana, una «ragazza di mezza età», fallita solo per chi ha lo sguardo ottuso) ad un manifesto economico in controluce. Che va oltre la decrescita felice: invita ad un consolidamento dei volumi attuali, a una valorizzazione di «quel che si ha», contrapposta a un desiderio che si autoriproduce. C’è l’eco di Nikolaj Berdjaev, con la sua lotta al «medioevo dei valori» e la sua difesa della creatività; più che di Serge Latouche, paladino della decrescita, si sente l’influenza colta di Fritjof Capra, il fisico austriaco che, ne “Il punto di svolta” (Feltrinelli) auspica una visione globale delle cose, non settoriale. Ecco lo «scontro» tra il perbenismo convenzionale dei coniugi Cantirami, il «puro» Filippo e la giovinezza agée di Giuliana. E la famiglia resta sullo sfondo, attonita.
Alle dieci e trenta di quel mattino di novembre, la sala più capiente del Balliol College era già gremita da centinaia di persone che, compostamente sedute, aspettavano l’inizio della conferenza. Giovani studenti di varie nazionalità e professori di mezza e tarda età, dai capelli più o meno grigi, sciarpe scozzesi strette al collo e morbide giacche di shetland. Un vocio disciplinato animava la sala.
Il primo relatore, un giovane economista italiano già assurto a fama internazionale per i suoi studi sulla teoria dello sviluppo, arrivò puntuale, alle undici meno cinque. Era un ragazzo dalla capigliatura riccia scombinata e dall’aria timida e confusa. Una giacchetta corta, sgualcita. Salì sul palco, salutò il decano del college che lo avrebbe di lì a poco presentato; si sedette al tavolo e dispose fogli e computer davanti a sé. Si chiamava Jeremy Piccoli e l’università di Oxford lo aveva invitato a parlare della sua sorprendente scoperta, un particolare algoritmo, noto ormai al mondo accademico come algoritmo di Jerfil. Un procedimento di calcolo che forse, se opportunamente applicato, avrebbe potuto secondo alcuni cattedratici ottimisti favorire la ripresa della crescita degli Stati occidentali, fortemente provati dalla recente crisi dei mercati. Il secondo relatore invece era in ritardo e nessuno lo conosceva. Il suo nome era stato aggiunto all’ultimo, perché Jeremy Piccoli aveva chiesto agli organizzatori della conferenza, come condizione imprescindibile, che fosse invitato anche lui a parlare, spiegando che si trattava di un suo brillante compagno di studi nonché amico, al quale doveva in massima parte l’invenzione dell’algoritmo.
Alle undici in punto Jeremy Piccoli si avvicinò al microfono. Annunciò che solo dopo l’arrivo del collega avrebbe cominciato (…). Dopo qualche videata di PowerPoint, entrarono le pecore. Si sentì dapprima un insolito trapestio provenire dall’esterno. Poi sulla porta, dietro al pubblico, apparve un giovane alto e bruno, i capelli corti. Indossava un completo di fustagno grigio e, buttata per traverso, una sciarpa a righe con gli stemmi, stile college. Procedeva lento, le mani in tasca. E gli venivano dietro quelle pecore. Cioè, a vederlo comparire per primo sulla porta, nessuno avrebbe fatto una piega: ecco l’altro giovane relatore, ma guarda che aria distinta, che bel vestito. Peccato che si portava dietro decine e decine di pecore. Bianche e lanose, ammassate le une alle altre: un gregge. Un gregge di pecore cinerine, per l’esattezza: una massa compatta di lana biancosporco da cui uscivano il muso nero e le zampe nere. Pecore di quella particolare razza, molto comune in area britannica, denominata Suffolk.
Centinaia di pecore Suffolk invasero dunque la sala conferenze del Balliol. Procedendo sempre ordinate, moderatamente belanti, cominciarono a occupare ogni spazio. Alcune già s’intrufolavano tra le poltrone, affollavano il proscenio; altre indietro, ancora sulle scale. Tutte comunque discrete, composte. Jeremy Piccoli sbiancò e smise di parlare. Alle sue spalle, sul megaschermo, lampeggiava inerte l’ultima frase del suo discorso introduttivo. Arrivato sotto il palco, il giovane in abito grigio salì i pochi scalini, strinse la mano ai professori esterrefatti, abbracciò come nulla fosse l’amico e collega Jeremy e si sedette sulla poltrona lasciata libera, davanti alla quale, sul lungo tavolo, troneggiava la targhetta col suo nome: FILIPPO CANTIRAMI.
Tra appetito e sazietà
Ieri pomeriggio ho terminato di leggere “Io credo. Dialogo tra un’atea e un prete”, il libro curto da Marinella Chirico che ha raccolto le parole di Margherita Hack e Pierluigi Di Piazza. Una delle cose che più mi hanno colpito dell’astrofisica toscana è la continua sottolineatura sulla semplicità della vita, sulla felicità che proviene dalle piccole cose quotidiane: “c’è chi desidera solo quello che può avere, come me, e chi invece è perennemente insoddisfatto. Questo fa la differenza: l’atteggiamento verso la vita” (pag. 72).
E mentre ho ancora nella mente queste parole, ecco che mi imbatto in un passo dell’altro libro che sto leggendo (porto sempre avanti più letture contemporaneamente, scelgo a seconda dello stato d’animo in cui sono). Si tratta di “Aceto, Arcobaleno” di Erri De Luca, pag. 22-23: “Miseria di città, anch’io la ricordavo. Nel banco di scuola delle elementari noi figli di benestanti avevamo la nostra merenda comprata al mattino. Gli altri aspettavano che passasse il bidello a distribuire loro la “refezione”, un pane e una cotognata. Uno alla volta andavano alla cattedra a ritirare dalla mano del maestro il cibo atteso. Tornavano al loro posto guardandosi i passi. All’ora permessa la mangiavano con un gusto così intenso da spingere qualcuno di noialtri bambini a chiedere lo scambio del proprio pane e cioccolata con il loro vitto. Ma bisognava ottenere in baratto anche il loro appetito e il bisogno di quelle merende d’elemosina per poterci affondare i denti con la stessa felicità feroce.”
E allora mi sento in quella zona collocata tra la piccola-grande soddisfazione quotidiana di Margherita e l’appetito che non può mai venir meno di Erri: un appetito che non mi fa sentire sazio di felicità, e una soddisfazione che mi fa apprezzare le gioie della vita.
Quale felicità?
In quarta abbiamo parlato e stiamo ancora parlando di felicità, per ora delle piccole nostre felicità… Contemporaneamente abbiamo iniziato a trattare di induismo e buddhismo. E come primo argomento dell’anno avevamo affrontato morte e aldilà. Tentiamo ora di mettere insieme tre testi. Il primo è inedito con me, non lo abbiamo mai letto in classe, ma è legato agli altri due che invece abbiamo conosciuto e già accostato fra loro. Partiamo da “Le fantasticherie del passeggiatore solitario. Quinta passeggiata” di Jean-Jacques Rousseau:
“Tutto sulla terra è in un flusso continuo. Nulla mantiene una forma costante e fissa, e i nostri sentimenti per le cose esteriori passano e cambiano necessariamente come loro. Costantemente, prima o dopo di noi, esse ricordano il passato che non è più o anticipano il futuro che spesso non deve affatto essere: non vi è là nulla di solido a cui il cuore si possa attaccare. Così non abbiamo quaggiù nient’altro che piacere che passa; in quanto alla felicità che dura, dubito che la si conosca. A malapena si trova nei nostri più vivi piaceri un istante in cui il cuore possa veramente dire: Vorrei che questo istante durasse per sempre; come possiamo allora chiamare felicità uno stato fuggevole che ci lascia poi il cuore inquieto e vuoto, che ci fa rimpiangere qualcosa che era, o desiderare qualcosa che sarà?
Ma se esiste uno stato in cui l’animo trova un equilibrio abbastanza stabile per riposarvisi completamente e raccogliere là tutto il suo essere, senza aver bisogno di ricordare il passato né di sconfinare nel futuro, in cui il tempo non conti e il presente duri sempre, senza però lasciar traccia del suo durare né del succedersi, senza nessun altro sentimento di privazione né di godimento, di piacere né di pena, di desiderio né di timore, se non quello della nostra esistenza che, da solo, possa soddisfare completamente l’animo; fin tanto che questo stato dura, colui che vi si trova può chiamarsi felice, non di una felicità imperfetta, povera e relativa, come quella che si trova nei vari piaceri della vita, ma di una felicità bastevole, perfetta e piena, che non lascia nell’animo alcun vuoto che sia necessario colmare. Questo è lo stato in cui spesso mi sono trovato all’isola di Saint-Pierre durante le mie fantasticherie solitarie, ora sdraiato sulla barca che lasciavo andare alla deriva, in balía delle onde, ora seduto sulle rive del lago agitato, ora altrove, sulla sponda di un bel fiume o di un ruscello mormorante tra i ciottoli.
Di cosa si gioisce in una simile situazione? Di nulla di esteriore a sé, di niente se non di sé stessi e della propria esistenza; fin tanto che dura questo stato si è sufficienti a sé stessi come lo è Dio. Il sentimento dell’esistenza spogliato di ogni altro affetto è di per sé un sentimento prezioso di contentezza e di pace che sarebbe sufficiente da solo a rendere questa esistenza cara e dolce a chi fosse in grado di allontanare da sé tutte le impressioni sensuali e terrestri che vengono continuamente a distrarci e a turbarne, quaggiù, la dolcezza. Ma la maggior parte degli uomini, agitati da continue passioni, poco conosce questo stato d’animo, ed avendolo sperimentato soltanto imperfettamente, per pochi istanti, ne conserva appena un’idea oscura e confusa che non permette di percepirne il fascino.”
Il secondo è di Friedrich Nietzsche, tratto da “Sull’utilità e il danno della storia”:
“Osserva il gregge che pascola dinnanzi a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così dire, dell’attimo, e perciò né triste né annoiato. Vedere tutto ciò è molto triste per l’uomo poiché egli si vanta, di fronte all’animale, della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello – giacché egli vuole soltanto vivere come l’animale né tediato né addolorato, ma lo vuole invano, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua felicità? L’animale voleva rispondere e dire: La ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò”.
L’ultimo è un passo di Giacomo Leopardi, dal “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”:
“O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
– Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? –
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.”
Li riprenderemo in classe quando tireremo le fila del tema della felicità.
Ridere davvero
Una citazione proposta all’interno del lavoro sulla felicità da una studentessa del quarto anno. La pubblico qui, anche perché riprende un argomento toccato con le prime…
Nessuno mai avrà il diritto di controllare la tua felicità.
A nessuno dovrai permettere di provare a dosare i tuoi sentimenti.
La tua gioia non deve avere confini, è già tanto difficile trovarne un po’, spesso ci accontentiamo di surrogati, di sorrisi striminziti, di manifestazioni di euforia appena accennate.
Quando avrai la possibilità di ridere di gusto, fallo fino alle lacrime.
I giorni in cui avrai riso davvero coloreranno di vita i tuoi futuri ricordi!”
Anton Vanligt, Mai troppo folle









