Un piede sulla lavagna, un piede sull’altare

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Ormai un classico appuntamento del blog: quello con le Interferenze di Gabriella Greison su Avvenire. Il 14 novembre si è dedicata a Georges Lemaître.

“Georges Lemaître non indossava un camice, ma una tonaca. Non lavorava solo tra telescopi e lavagne, ma anche tra chiese e cattedrali. Era un sacerdote cattolico e, nello stesso tempo, uno dei più grandi cosmologi del Novecento. L’uomo che per primo ha osato dire una frase rivoluzionaria: “L’universo ha avuto un inizio”. Lo chiamavano “il prete che ha inventato il Big Bang”. In realtà lui preferiva parlare di “atomo primitivo”: una minuscola particella cosmica compressa oltre ogni immaginazione che, disgregandosi, avrebbe dato origine a tutto ciò che conosciamo — galassie, stelle, pianeti, persino noi. Quando Lemaître lo propose nel 1931, l’accoglienza fu tiepida se non ostile: Einstein, dopo una sua conferenza, gli disse con l’aria di chi mette un punto: i calcoli sono corretti, ma la fisica è “abominevole”. Non proprio un incoraggiamento. Eppure quel giovane prete belga non si spaventò. Continuò a fare i conti, a immaginare il cosmo come una pellicola che non si srotola solo in avanti ma può essere riavvolta: se oggi vediamo le galassie allontanarsi, allora ieri dovevano essere più vicine, e prima ancora più vicine, fino a un primo respiro, un lampo d’origine. Un universo che si espande implica un’origine, e un’origine cambia tutto. Non più un cosmo eterno e statico, ma una storia.
Molti, ancora oggi, faticano a credere che Lemaître fosse entrambe le cose: sacerdote e scienziato. Come se la fede e la ricerca fossero incompatibili per statuto. Lui non vedeva alcuna contraddizione. Celebrare la Messa e scrivere equazioni erano due modi di entrare nello stesso mistero, con due grammatiche differenti. Diceva che tra l’inizio della materia e l’atto della creazione c’è un abisso che la fisica non colma e che la teologia non misura; la fisica racconta il “come”, la fede interroga il “perché”. Due domande diverse, entrambe necessarie. Per questo non usò mai la fede per tappare i buchi della scienza, né la scienza per dimostrare l’esistenza di Dio: manteneva un equilibrio raro, una distanza di rispetto tra i linguaggi. Era convinto che la matematica potesse dire l’universo con una chiarezza che nessun’altra lingua possiede, ma che il mistero del suo perché restasse oltre ogni formula.
C’è un fotogramma che amo: Lemaître alla lavagna, gesso in mano, il colletto bianco in evidenza, e quegli occhi da alpinista dell’ignoto. Pochi sanno che prima della “teoria dell’atomo primitivo” c’è un suo articolo del 1927, quasi ignorato, in cui ricava — con naturalezza disarmante — l’idea che lo spazio si stia espandendo e collega la distanza delle galassie alla loro velocità di allontanamento. Quella che poi diventerà la “legge di Hubble” l’aveva già messa nero su bianco lui, con la serenità di chi non ha urgenza di intestarsi i meriti. Non cercava fama, cercava coerenza: se i dati dicono questo, è lì che dobbiamo andare, anche se la filosofia del tempo preferisce un universo.
La sua tenacia era quasi monastica: niente clamore, solo lavoro. E quando negli anni ’50 qualcuno provò a trasformare la sua intuizione in bandiera apologetica — “il Big Bang conferma la creazione biblica” — Lemaître fu il primo a frenare: mischiare i piani, semplificare, usare la fisica come prova di Dio, era per lui un errore concettuale e spirituale. “La scienza non ha bisogno di Dio per funzionare. E Dio non ha bisogno della scienza per esistere.” In una riga toglieva secoli di malintesi.
Il suo temperamento era così: una spiritualità silenziosa, fatta di dedizione, di studio, di ascolto del cielo. Non predicava dai pulpiti: lasciava che le equazioni diventassero finestre. E mentre il dibattito infuriava tra universi eterni e universi a nascita, tra staticità rassicuranti e dinamiche vertigini, Lemaître continuava a fare ciò che sapeva fare meglio: affinare i conti, interrogare i dati, accettare che il reale potesse essere più audace delle nostre abitudini mentali. L’idea di un “giorno senza ieri” era un terremoto non solo scientifico ma culturale: se il tempo ha una nascita, allora la storia del cosmo è davvero una storia, con un incipit, uno svolgimento, una trama che continua a dispiegarsi. Il che non “dimostra Dio” — Lemaître non lo disse mai — ma ci espone a una domanda più radicale: perché ci sono leggi così fini da permettere stelle, chimica, coscienze? Perché la musica delle costanti fisiche suona nella tonalità giusta per far emergere la vita? La scienza descrive; la spiritualità, se è onesta, non invade ma domanda.
C’è anche un’altra immagine: Lemaître seduto a un tavolo di lavoro nell’Università di Lovanio, fuori la luce grigia del Belgio, dentro una lavagna piena. Accanto, non premi e medaglie, ma libri sgualciti. Poteva pretendere riconoscimenti; scelse la discrezione. Più tardi sarebbe diventato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, proprio perché capace di tenere i ponti aperti senza confondere le sponde. Non cercò mai d’essere protagonista: preferì aprire una strada e sparire ai margini del quadro. E proprio per questo la sua figura oggi risplende: perché ha lasciato spazio all’oggetto del suo amore — l’universo — più che al soggetto che lo raccontava.
Se dovessimo definire la sua spiritualità, potremmo chiamarla “spiritualità della ricerca”: lavoro silenzioso, fedeltà ostinata, meraviglia disciplinata. Non dogmi urlati, non scorciatoie. Un credente capace di custodire la trascendenza senza usarla come tappabuchi, uno scienziato capace di amare i limiti del proprio metodo senza trasformarli in muro. Ha accettato che la verità avesse più piani di profondità, che una formula potesse illuminare il come e una preghiera potesse sostenere il perché, senza che nessuna delle due pretenda l’ultima parola. In questo equilibrio sta la sua eredità più grande: la possibilità di abitare due mondi senza scegliere l’esilio.
E poi c’è l’epilogo che sembra scritto per il cinema: 1965–66, la scoperta della radiazione cosmica di fondo — quel fruscio termico che ci arriva da ogni direzione, eco tiepida della prima luce — che offre una conferma potente alla visione di un universo caldo e giovane che si espande. Lemaître ne viene a conoscenza poco prima di morire. Non fa proclami, non esulta: sorride con quella compostezza di chi sa che la scienza procede per indizi, mai per trionfi definitivi. È una tappa, non un arrivo. Anche la prova più elegante è sempre una soglia.
Lo confesso: quando racconto Lemaître io non sono una semplice cronista. Mi riguarda. Anche io vivo su quel crinale dove la ragione spinge e lo stupore trattiene; dove le equazioni aprono e le domande fanno aria; dove il “come” è una musica che voglio imparare e il “perché” è la vibrazione che non smette di chiamare. Non cerco dimostrazioni travestite da miracoli né miracoli travestiti da dimostrazioni. Cerco un luogo in cui ragione e poesia stiano nello stesso respiro. Per questo, quando parlo della sua teoria, non mi limito alla dinamica dello spazio-tempo che si dilata: sento, nello stesso gesto, una pedagogia del limite. La scienza non tutto può dire; la spiritualità non tutto deve dire. È nel varco tra i due che passa l’aria.
Georges Lemaître è morto nel 1966, pochi giorni dopo aver appreso che il cielo conserva ancora, ovunque, la memoria termica della sua nascita. Forse gli bastava: non l’ultima parola, ma un segno. La sua lezione, oggi, suona più necessaria che mai: il cosmo non è un problema da risolvere in fretta, è una storia da contemplare con attenzione. La fisica può dirci come procede; la spiritualità ci chiede perché ci riguarda. Tenere insieme queste due posture — senza confonderle, senza contrapporle — è l’arte sottile che lui ha praticato con una grazia che fa scuola.

E allora, la domanda inevitabile: davanti a un universo che ha avuto un inizio, davanti a un cielo che porta ancora l’eco di quel primo respiro, che cosa ne facciamo noi? Preferiamo archiviare tutto come caso, o sentiamo — anche solo per un istante — che dentro quell’inizio c’è una chiamata alla responsabilità, alla gratitudine, alla ricerca? Siamo disposti a vivere nell’apertura che Lemaître ci ha consegnato — un piede sulla lavagna, un piede sull’altare — senza chiedere all’uno di divorare l’altro, ma lasciando che insieme, finalmente, ci aiutino a guardare più lontano?”

Il dissing tra Esaù e Giacobbe

Un brain-storming sui personaggi biblici, tutti quelli che sono venuti in mente.
Un’ora per metterli in ordine di comparsa nella Bibbia (e così ripercorrere le vicende narrate).
Due ore per creare una specie di digital storytelling o, comunque, trovare un modo creativo di presentare un personaggio biblico: un’autobiografia, un’intervista impossibile, un podcast, un video, un diario…
Ebbene, Mattia Arboritanza e Sabrina Maxim, classe seconda, hanno prodotto il video che pubblico qui sotto. L’ho trovato geniale, creativo, divertente, stimolante, meravigliosamente folle.

Le 12 tesi di Spong. 3

Pubblico la terza tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

Il racconto biblico di una creazione perfetta e compiuta dalla quale noi, gli esseri umani, “siamo caduti” con il peccato originale è mitologia pre-darwiniana e non ha più senso.
(…). Questo mito delle origini includeva cinque grandi principi. Primo, si sono affermate la bontà e la peccato-originaleperfezione originali della creazione. Secondo, è stato l’atto umano di disobbedienza a provocare la caduta dall’opera perfetta di Dio, finendo per prendere il nome di “peccato originale”. (…). Terzo, si è narrata la storia di Gesù in termini di riscatto offerto da Dio per salvare dalla caduta un’umanità peccaminosa e un mondo peccaminoso. Il mito suggeriva che Gesù avesse realizzato tale proposito pagando il “prezzo” reclamato da Dio e assumendo il castigo, castigo che gli esseri umani meritavano in quanto peccatori. Questo atto di redenzione è stato compiuto mediante quello che è stato chiamato “il sacrificio della croce”. Da questa prospettiva teologica del IV secolo sono derivate le parole “Gesù è morto per i miei peccati”, che in un tempo relativamente breve sono diventate un autentico “mantra” cristiano. (…). Il nostro peccato è stato presentato come la causa e come la ragione della sofferenza di Gesù. Così, la colpa è diventata moneta di scambio nel cristianesimo. La salvezza veniva dal riconoscere che la sofferenza e la morte di Gesù per noi si erano prodotte perché Dio, nella persona di suo figlio, aveva assunto il castigo meritato da noi esseri umani.
Si è stabilito il battesimo come forma sacramentale con cui lavare il “peccato originale” di chi è appena nato. (…). L’eucarestia cristiana era il cibo che permetteva di assaporare per la prima volta il regno di Dio. La fede nella resurrezione significava che Gesù aveva vinto la morte dando compimento al castigo reclamato da Dio per il peccato di Adamo che aveva stravolto il mondo perfetto di Dio. (…). Infine, ci è stato insegnato che con il sacrificio della vita di Gesù noi esseri umani siamo stati ristabiliti nella nostra perfezione originaria e che la vita eterna è il culmine della nostra restaurazione. Questo quadro teologico è diventato così forte nella teologia cristiana (…) da impadronirsi di ogni aspetto del messaggio cristiano. (…). Questo quadro teologico ha prodotto anche cose terribili che per secoli non si sono colte. Ha trasformato Dio in un mostro che non sa perdonare. Lo ha dipinto come qualcuno che richiede un sacrificio umano e un’offerta di sangue prima di offrire il proprio perdono. (…). In secondo luogo, questa teologia ha reso Gesù una vittima cronica (…), in quanto i ripetuti peccati degli esseri umani esigono continuamente la sua sofferenza e la sua morte. (…). In terzo luogo, questa teologia ci ha oppresso con uno schiacciante e anche malato senso di colpa. (…). Un’analisi di questi temi, arrivati a costituire quella che abbiamo chiamato “teologia dell’espiazione”, ci convincerà rapidamente del fatto che questo modo di intendere Gesù e il racconto cristiano è distruttivo e contrario alla vita. (…).
Peccato-originale (1)La teologia dell’espiazione assume una teoria sulle origini della vita che, nel mondo astrofisico o biologico, oggi nessuno accetta. È dimostrabile che la premessa da cui parte è falsa. Da quando Charles Darwin pubblicò la sua opera a metà del XIX secolo, sappiamo che non vi è mai stata una perfezione originaria. La vita umana è, piuttosto, il prodotto di un viaggio biologico partito da semplici cellule apparse 3.800 milioni di anni fa. (…). Da 100-80 milioni di anni fa fino a circa 65, i rettili furono i signori del pianeta. (…). Sulla Terra, il dinosauro non aveva eguali e, pertanto, non aveva nemici. Tuttavia, un qualche tipo di disastro naturale colpì il pianeta circa 65 milioni di anni fa e (…) provocò un cambiamento nel clima che avrebbe condotto all’estinzione dei dinosauri e aperto la porta ai mammiferi, dando il via alla loro scalata verso il predominio. Da questi animali dal sangue caldo e vivipari emerse infine la linea dei primati, creature simili agli umani. E questo avvenne circa 4 o 5 milioni di anni fa. In questo tempo, il cervello di tali creature si ingrandì, la mandibola si ritrasse, scese la laringe, si sviluppò la capacità di parlare e, infine, queste creature attraversarono la grande linea divisoria, passando dalla semplice coscienza all’autocoscienza.
Ora, questa creatura era cosciente della propria separazione rispetto alla natura. E assunse anche la propria mortalità. Iniziò a pensare anticipatamente alla propria morte, maturando una sorta di inquietudine esistenziale cronica che nessun animale aveva conosciuto prima. Le inquietudini dell’autocoscienza erano così forti da indurre questa creatura a sviluppare meccanismi di difesa. La religione fu uno di questi. (…).
Tuttavia, nella misura in cui questa creatura umana acquisiva una maggiore conoscenza rispetto alle origini dell’universo, diventava chiaro che non c’era mai stata una perfezione originaria e che la creazione è un processo continuo, mai compiuto. (…). Nulla di ciò che ha a che vedere con la vita è statico. Non c’è mai stato nulla di statico riguardo alla vita e mai ci sarà. (…).
Vediamo ora quello che tali scoperte significano per la nostra comprensione del cristianesimo.
Se non c’è stata una perfezione originaria, non ha potuto esserci una caduta da questa nel peccato. Ciò significa che l’idea del “peccato originale” è semplicemente sbagliata. (…). Se non c’è stato peccato originale, neppure c’era necessità di qualcuno che salvasse da questo peccato o che riscattasse dalla caduta. (…). Improvvisamente, tutto il quadro che per secoli aveva configurato le basi del racconto cristiano è crollato. (…). Pertanto, non possiamo più pretendere di continuare a presentare con questi concetti il racconto cristiano nel nostro mondo contemporaneo. Semplicemente, non funziona. Allora, per molti, la domanda è: possiamo continuare a raccontare la storia di Cristo in qualche modo? Possiamo distinguere tra la realtà di Cristo e il quadro interpretativo del passato nel quale questa realtà è stata colta, e anche così trovare in Lui qualcosa che parla alla nostra umanità e la rende migliore? (…).
Le vecchie parole non ci condurranno mai a queste mete. (…). La ricerca di nuove parole con cui presentare il nostro racconto deve diventare il compito principale della Chiesa cristiana nel nostro tempo. Se non assumiamo questi cambiamenti, non ci sarà speranza di un futuro per il cristianesimo. (…). La salvezza del cristianesimo merita lo sforzo e il costo? Credo di sì. L’appello a una riforma radicale è la sfida a cui la nostra generazione deve rispondere. Comincerà con una nuova comprensione di ciò che significa essere umani. Non siamo peccatori caduti, siamo esseri umani incompleti. Non abbiamo bisogno di essere salvati dal peccato, abbiamo bisogno della forza per accogliere la vita in una forma nuova.”

Acqua di vita

Poco tempo fa ho pubblicato un post sul mito del diluvio. Sempre a proposito dell’acqua, in seconda abbiamo letto di diverse cosmogonie antiche che fanno riferimento proprio al mondo acquatico. Nel libro “Il principi passione” Vito Mancuso propone le seguenti:

  • Sumeri: il nome Nammu (madre degli dei) si scrive come il mare
  • Egizi: esiste Nun, un oceano primordiale indistinto, a cui tutto tornerà alla fine
  • Babilonesi: il mondo nasce dalla coppia del dio Apsu e della dea Tiamat, personificazione delle acque dolci e delle acque salate
  • Assiri: le acque superiori e inferiori esistono prima che cielo e terra ricevano i loro nomi
  • Ebrei: prima della creazione (Gn 1, 3) ci sono l’abisso e le acque (Gn 1, 2) che si ritraggono per far spazio al mondo (Sal 77, 17; 93, 3-4; 104, 7.9)
  • Hindu: un inno vedico recita “All’inizio c’era la tenebra nascosta dalla tenebra; l’Universo era acqua salsa senza forma distinta”
  • Cinesi: “il Supremo Uno genera l’acqua”
  • Greci: il padre degli dei è considerato Oceano

Mancuso cita anche tre scienziati:

  • G. Schroeder (fisico): “La vita della cellula si svolge in un mare d’acqua, dentro e fuori. Il comune denominatore di tutte le forme di vita conosciute è che sono basate sull’acqua”
  • G. M. Whitesides (chimico): “… al momento non conosciamo eccezioni: la vita avviene nell’acqua”
  • C. De Duve (biologo): “… la vita ha avuto probabilmente inizio in acque vulcaniche calde”.

Alcuni giorni fa la riproduzione casuale di una playlist che avevo salvato mi ha proposto una canzone del progetto Rezophonic che ci sta a pennello. Il brano “Nell’acqua” è frutto di una collaborazione tra Mario Riso e Caparezza, insieme a Cristina Scabbia e Roy Paci

Ogni astrofisico pensa che la vita sia nata
Con l’esplosione di un’immensa infinita granata
Per i credenti, nada La Terra fu creata
Da un essere supremo in meno di qualche giornata
Ebbene sì, lascia che seguano libri di Genesi
Anche se c’è chi si dilegua come Phil coi Genesis,
I testamenti dispensano nemesi ma
In fondo sono popolari più di Elvis in Tennessee
Mi chiedi: “Credi a quelli là? O credi a questi qua?
Dimmi qual è la verità Chi la merita?”
La vita non è là La vita non è qua
Né là né qua, ma nell’acqua
Ne là né qua, ma nell’acqua
Ne là né qua, ma nell’acqua
La vita non è là La vita non è qua
Ne là né qua, ma nell’acqua!
Sono un credente, eccome! Io credo in Poseidone
Perché se l’acqua scompare… dopo un po’ si muore
Io nella commedia della vita voglio recitare
Anche una particella elementare come Positrone
Perciò non credo a quelli là Né credo a questi qua
Tu vuoi da me la verità? Beh, la verità
La verità non è là La verità non è qua
Né là né qua, ma nell’acqua

E io non seguo gli schemi
Di chi mi crede nato dagli atti osceni degli alieni
Non credo nella cometa che fecondò questo pianeta
In un colpo di reni
Io venero Atraua
Dio dell’acqua degli Aztechi Ti condanna se la sprechi
Se ti ci anneghi e la neghi Se dici che te ne freghi
Sedici Mesi di siccità
E allora capirai che la vita non sta
Ne là né qua, ma nell’acqua
Ne là né qua, ma nell’acqua
La vita non è là La vita non è qua
Ne là né qua, ma nell’acqua!

Diluvi

HicksIn alcune classi abbia dato un’occhiata al racconto del Diluvio Universale presente nel libro della Genesi. Carolina Orsini mostra velocemente come la radice del racconto appartenga a diverse tradizioni:

“Nella storia dell’umanità, di diluvi ce ne sono stati a centinaia. E ogni cultura racconta il suo «Diluvio universale» come quella ebraica fa nella Genesi. Ne abbiamo scelti alcuni che raccontano come diversi popoli abbiano dato ragione di un fenomeno naturale.

SIOUX (Iowa). Unktehi, un mostro acquatico, provocò un grande diluvio per distruggere l’umanità. La gente si ritirò su una montagna, ma l’acqua uccise tutti. Le anime degli uomini si pietrificarono e divennero pipe di pietra.

NAVAJO (Arizona e Nuovo Messico). Gli Uomini-Insetto vennero mandati via dal mondo a causa dei loro peccati: gli dei li inondarono con un grande muro d’acqua.

ESKIMO (Canada). Un diluvio uccise uomini e animali, tranne due sciamani. Essi dormirono insieme ed ebbero dei figli, tra cui la prima donna del mondo.

MAYA (Messico). Gli dei mandarono un diluvio per uccidere gli uomini di legno, una versione imperfetta che abitava il mondo prima dell’umanità attuale.

AZTECHI (Messico). Il dio Tezcatlipoca rivelò a un uomo e una donna che sarebbe giunto un diluvio. Loro si costruirono una imbarcazione con un tronco d’albero e si salvarono. Ma gli venne fame e pensarono di cucinare del pesce. Gli dei, sentendo l’odore del fuoco mandarono Tezcatlipoca a punire i sopravvissuti. Il dio scese sulla terra e li trasformò in cani.

IPURINA (Amazzonia). Mayuruberu, capo delle cicogne, provocò un’inondazione facendo scaldare un paiolo d’acqua vicino al sole e facendolo poi traboccare. L’umanità sopravvisse, ma tutte le piante vennero distrutte.

INCA (Perù). L’acqua crebbe fino a sormontare le montagne più alte. Tutto il creato perì, tranne un uomo e una donna che galleggiarono in un guscio.

PIGMEI (Africa). Un giorno un camaleonte, sentendo un rumore dentro un albero, riuscì ad aprirne il tronco. Ma dal tronco uscì una tale massa d’acqua da inondare tutta la terra.

YORUBA (Africa). Il dio Ifa, stanco di vivere sulla terra, andò ad abitare in cielo. Senza il suo aiuto, l’umanità fece arrabbiare gli dei, finché uno di questi, adirato, la distrusse con un grande diluvio.

KIKUYU (Kenya). Gli spiriti anziani distrussero una città inondandola di birra. Gli abitanti si rifugiarono nelle caverne.

HINDU (India). Manu, il primo essere umano, trovò un piccolo pesce nell’acqua in cui si bagnava. L’animale lo pregò di proteggerlo dai pesci più grandi, e in cambio consigliò a Manu di costruire una barca per proteggersi dall’imminente diluvio.

MAORI (Nuova Zelanda). Ci fu un tempo in cui il culto della divinità Tane era trascurato. Due maestri pregarono perché venisse un diluvio, che convincesse gli uomini della sua potenza.

KOOTENAY (Canada). Una piccola femmina di uccello, incurante degli avvertimenti del marito, bevve da un lago proibito. Dalle acque uscì un mostro che la rapì. Il marito la salvò, ma il mostro sollevò una grande mole d’acqua che invase la terra.

PIMA(Arizona). Un grande muro d’acqua verde venne e distrusse tutto. Szeuka, il figlio della terra, si salvò galleggiando su di una imbarcazione a sfera.”

Sculture di vento

Ho letto e riletto questo passaggio di Buon sangue in cui Jovanotti presenta il nono antenato della serie. E dopo un po’ ha cominciato a farsi strada un pensiero, una liberissima interpretazione. Mi son chiesto: in cosa è impegnato il matto? Sta cercando di scolpire delle sculture con il vento, è cioè impegnato in un atto creativo, generativo. Immediatamente ho pensato all’atto creaturale che ho studiato maggiormente. Nel mito cosmogonico raccontato in Genesi è proprio il soffio vitale di Dio a generare! E nell’induismo è fondamentale il concetto di atman; e nello yoga i momenti chiave sono quelli delle due apnee (kumbhaka) perché in essi il respiro è stabile e quindi è stabile anche la mente. Il respiro va poi emesso come se si lasciasse andare via la vita: più lo si trattiene, più si vive un anticipo di immortalità (piccolo ripassino per i ragazzi di quarta ;-). E proprio il riferimento all’induismo mi ha portato alla memoria che uno dei miti cosmogonici più diffusi è quello della danza cosmica. Per gli induisti la danza è più antica del mondo stesso, perché è proprio danzando sul monte Kailāsa che Shiva creò il cosmo e l’epoca attuale. Il Dio creatore pose il piede destro sul capo del demone primordiale, simbolo di ignoranza e cecità, uccidendolo (Eva col suo calcagno sul serpente?); poi sollevò il piede sinistro, a simboleggiare la conoscenza che conduce alla salvezza; nella mano destra levata in alto teneva il tamburo a clessidra (damaru), per scandire il ritmo del mondo, creando, un battito dopo l’altro, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra. Ma dalla stessa danza che risveglia la vita, scaturisce la scintilla che distruggerà la terra (la lingua di fuoco nella mano sinistra). Tamburo e fiamma sono i due elementi del gioco creazione-distruzione. (dalla Garzantina delle religioni). Sarei ora curioso di sapere se il buon Lorenzo l’ha fatto apposta o è solo fantasia mia… (potremmo metterci pure la danza dei dervisci…)

C’era un matto che faceva sculture di vento,Shiva.jpg

si fermavano a guardarlo quando in movimento

modellava ogni dettaglio della sua opera d’arte

dopo un po’ la fissava seduto in disparte,

quasi sempre scontento del suo risultato

con un soffio distruggeva quel che aveva creato.

E la sera la gente a casa ritornava,

con scolpito negli occhi il matto che danzava.

Mentre lui andava a letto sempre insoddisfatto,

proprio come un uomo, proprio come un matto.

Genesi confusa

Dal New Yorker, tramite Internazionale

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“Mi dispiace, ha cambiato di nuovo idea… strisce sulla zebra, chiazze sulla giraffa, niente stelle sul leone e poi l’elefante più grande e l’ameba più piccola”.