“Ho dato al brano una mia interpretazione: dopo la scomparsa di mio nonno avevo detto che non credevo. Adesso le cose sono cambiate, sono molto più contenta e positiva, e non passo il tempo a deprimermi come facevo prima. Ho capito che c’è qualcosa dopo questa vita, non so ancora cosa, ma sento che c’è. Da sei mesi ho iniziato ad avvicinarmi al Gospel. Questo brano lo devo cantare tra 3 giorni, le parole sono semplici: avere sempre la speranza, anche nei periodo negativi”. Queste sono le parole con cui V. (classe quarta) ha presentato la propria gemma.
Non trovo migliore commento di questo:
«Ogni volta è un miracolo.
Tutta questa gente, tutte le preoccupazioni, tutti gli odi e i desideri, tutti i turbamenti […] tutto questo scompare di colpo quando i coristi si mettono a cantare. Il corso della vita è sommerso dal canto, d’improvviso c’è una sensazione di fratellanza, di profonda solidarietà, persino d’amore, e le brutture quotidiane si stemperano in una comunione perfetta. Anche i visi dei coristi sono trasfigurati […].
Vedo degli esseri umani votati al canto. Ogni volta è la stessa storia, mi viene da piangere, ho un nodo alla gola e faccio di tutto per controllarmi, ma quando è troppo è troppo: a stento riesco a trattenermi dal singhiozzare. E quando c’è un canone, guardo per terra perché l’emozione è troppa tutta in una volta: è troppo bello, solidale, troppo meravigliosamente condiviso.
Io non sono più me stessa, sono parte di un tutto sublime al quale appartengo anche gli altri, e in quei momenti mi chiedo sempre perché questa non possa essere la regola quotidiana, invece di un momento eccezionale del coro. Quando il coro s’interrompe tutti quanti, con i volti illuminati, applaudono i coristi raggianti.
È così bello. In fondo, mi chiedo se il vero movimento del mondo non sia proprio il canto».
(M. Barbery, L’eleganza del riccio)