Un piede sulla lavagna, un piede sull’altare

Fonte immagine

Ormai un classico appuntamento del blog: quello con le Interferenze di Gabriella Greison su Avvenire. Il 14 novembre si è dedicata a Georges Lemaître.

“Georges Lemaître non indossava un camice, ma una tonaca. Non lavorava solo tra telescopi e lavagne, ma anche tra chiese e cattedrali. Era un sacerdote cattolico e, nello stesso tempo, uno dei più grandi cosmologi del Novecento. L’uomo che per primo ha osato dire una frase rivoluzionaria: “L’universo ha avuto un inizio”. Lo chiamavano “il prete che ha inventato il Big Bang”. In realtà lui preferiva parlare di “atomo primitivo”: una minuscola particella cosmica compressa oltre ogni immaginazione che, disgregandosi, avrebbe dato origine a tutto ciò che conosciamo — galassie, stelle, pianeti, persino noi. Quando Lemaître lo propose nel 1931, l’accoglienza fu tiepida se non ostile: Einstein, dopo una sua conferenza, gli disse con l’aria di chi mette un punto: i calcoli sono corretti, ma la fisica è “abominevole”. Non proprio un incoraggiamento. Eppure quel giovane prete belga non si spaventò. Continuò a fare i conti, a immaginare il cosmo come una pellicola che non si srotola solo in avanti ma può essere riavvolta: se oggi vediamo le galassie allontanarsi, allora ieri dovevano essere più vicine, e prima ancora più vicine, fino a un primo respiro, un lampo d’origine. Un universo che si espande implica un’origine, e un’origine cambia tutto. Non più un cosmo eterno e statico, ma una storia.
Molti, ancora oggi, faticano a credere che Lemaître fosse entrambe le cose: sacerdote e scienziato. Come se la fede e la ricerca fossero incompatibili per statuto. Lui non vedeva alcuna contraddizione. Celebrare la Messa e scrivere equazioni erano due modi di entrare nello stesso mistero, con due grammatiche differenti. Diceva che tra l’inizio della materia e l’atto della creazione c’è un abisso che la fisica non colma e che la teologia non misura; la fisica racconta il “come”, la fede interroga il “perché”. Due domande diverse, entrambe necessarie. Per questo non usò mai la fede per tappare i buchi della scienza, né la scienza per dimostrare l’esistenza di Dio: manteneva un equilibrio raro, una distanza di rispetto tra i linguaggi. Era convinto che la matematica potesse dire l’universo con una chiarezza che nessun’altra lingua possiede, ma che il mistero del suo perché restasse oltre ogni formula.
C’è un fotogramma che amo: Lemaître alla lavagna, gesso in mano, il colletto bianco in evidenza, e quegli occhi da alpinista dell’ignoto. Pochi sanno che prima della “teoria dell’atomo primitivo” c’è un suo articolo del 1927, quasi ignorato, in cui ricava — con naturalezza disarmante — l’idea che lo spazio si stia espandendo e collega la distanza delle galassie alla loro velocità di allontanamento. Quella che poi diventerà la “legge di Hubble” l’aveva già messa nero su bianco lui, con la serenità di chi non ha urgenza di intestarsi i meriti. Non cercava fama, cercava coerenza: se i dati dicono questo, è lì che dobbiamo andare, anche se la filosofia del tempo preferisce un universo.
La sua tenacia era quasi monastica: niente clamore, solo lavoro. E quando negli anni ’50 qualcuno provò a trasformare la sua intuizione in bandiera apologetica — “il Big Bang conferma la creazione biblica” — Lemaître fu il primo a frenare: mischiare i piani, semplificare, usare la fisica come prova di Dio, era per lui un errore concettuale e spirituale. “La scienza non ha bisogno di Dio per funzionare. E Dio non ha bisogno della scienza per esistere.” In una riga toglieva secoli di malintesi.
Il suo temperamento era così: una spiritualità silenziosa, fatta di dedizione, di studio, di ascolto del cielo. Non predicava dai pulpiti: lasciava che le equazioni diventassero finestre. E mentre il dibattito infuriava tra universi eterni e universi a nascita, tra staticità rassicuranti e dinamiche vertigini, Lemaître continuava a fare ciò che sapeva fare meglio: affinare i conti, interrogare i dati, accettare che il reale potesse essere più audace delle nostre abitudini mentali. L’idea di un “giorno senza ieri” era un terremoto non solo scientifico ma culturale: se il tempo ha una nascita, allora la storia del cosmo è davvero una storia, con un incipit, uno svolgimento, una trama che continua a dispiegarsi. Il che non “dimostra Dio” — Lemaître non lo disse mai — ma ci espone a una domanda più radicale: perché ci sono leggi così fini da permettere stelle, chimica, coscienze? Perché la musica delle costanti fisiche suona nella tonalità giusta per far emergere la vita? La scienza descrive; la spiritualità, se è onesta, non invade ma domanda.
C’è anche un’altra immagine: Lemaître seduto a un tavolo di lavoro nell’Università di Lovanio, fuori la luce grigia del Belgio, dentro una lavagna piena. Accanto, non premi e medaglie, ma libri sgualciti. Poteva pretendere riconoscimenti; scelse la discrezione. Più tardi sarebbe diventato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, proprio perché capace di tenere i ponti aperti senza confondere le sponde. Non cercò mai d’essere protagonista: preferì aprire una strada e sparire ai margini del quadro. E proprio per questo la sua figura oggi risplende: perché ha lasciato spazio all’oggetto del suo amore — l’universo — più che al soggetto che lo raccontava.
Se dovessimo definire la sua spiritualità, potremmo chiamarla “spiritualità della ricerca”: lavoro silenzioso, fedeltà ostinata, meraviglia disciplinata. Non dogmi urlati, non scorciatoie. Un credente capace di custodire la trascendenza senza usarla come tappabuchi, uno scienziato capace di amare i limiti del proprio metodo senza trasformarli in muro. Ha accettato che la verità avesse più piani di profondità, che una formula potesse illuminare il come e una preghiera potesse sostenere il perché, senza che nessuna delle due pretenda l’ultima parola. In questo equilibrio sta la sua eredità più grande: la possibilità di abitare due mondi senza scegliere l’esilio.
E poi c’è l’epilogo che sembra scritto per il cinema: 1965–66, la scoperta della radiazione cosmica di fondo — quel fruscio termico che ci arriva da ogni direzione, eco tiepida della prima luce — che offre una conferma potente alla visione di un universo caldo e giovane che si espande. Lemaître ne viene a conoscenza poco prima di morire. Non fa proclami, non esulta: sorride con quella compostezza di chi sa che la scienza procede per indizi, mai per trionfi definitivi. È una tappa, non un arrivo. Anche la prova più elegante è sempre una soglia.
Lo confesso: quando racconto Lemaître io non sono una semplice cronista. Mi riguarda. Anche io vivo su quel crinale dove la ragione spinge e lo stupore trattiene; dove le equazioni aprono e le domande fanno aria; dove il “come” è una musica che voglio imparare e il “perché” è la vibrazione che non smette di chiamare. Non cerco dimostrazioni travestite da miracoli né miracoli travestiti da dimostrazioni. Cerco un luogo in cui ragione e poesia stiano nello stesso respiro. Per questo, quando parlo della sua teoria, non mi limito alla dinamica dello spazio-tempo che si dilata: sento, nello stesso gesto, una pedagogia del limite. La scienza non tutto può dire; la spiritualità non tutto deve dire. È nel varco tra i due che passa l’aria.
Georges Lemaître è morto nel 1966, pochi giorni dopo aver appreso che il cielo conserva ancora, ovunque, la memoria termica della sua nascita. Forse gli bastava: non l’ultima parola, ma un segno. La sua lezione, oggi, suona più necessaria che mai: il cosmo non è un problema da risolvere in fretta, è una storia da contemplare con attenzione. La fisica può dirci come procede; la spiritualità ci chiede perché ci riguarda. Tenere insieme queste due posture — senza confonderle, senza contrapporle — è l’arte sottile che lui ha praticato con una grazia che fa scuola.

E allora, la domanda inevitabile: davanti a un universo che ha avuto un inizio, davanti a un cielo che porta ancora l’eco di quel primo respiro, che cosa ne facciamo noi? Preferiamo archiviare tutto come caso, o sentiamo — anche solo per un istante — che dentro quell’inizio c’è una chiamata alla responsabilità, alla gratitudine, alla ricerca? Siamo disposti a vivere nell’apertura che Lemaître ci ha consegnato — un piede sulla lavagna, un piede sull’altare — senza chiedere all’uno di divorare l’altro, ma lasciando che insieme, finalmente, ci aiutino a guardare più lontano?”

Fare teologia in Italia

Immagine di Chiara Peruffo tratta da pagina Fb del CTI

Oggi pubblico un articolo piuttosto denso, dedicato più a colleghe e colleghi che a studentesse e studenti. A scrivere è la teologa Selene Zorzi sulle pagine di Rocca. Si parla di teologia: di quanto sia importante oggi e di come sarebbe interessante proporne l’insegnamento. E’ un punto di vista chiaro, netto, fuori dal coro. Era inevitabile che suscitasse la mia attenzione. Buona lettura.

“La teologia italiana oggi vive in un paradosso: mentre il patrimonio culturale e spirituale del cristianesimo permea la storia e l’identità nazionale (“donna, madre e cristiana”), la riflessione teologica rimane sostanzialmente sconosciuta ai più. Questa situazione genera una frattura tra l’eredità cristiana come fenomeno culturale e la sua comprensione critica da parte della società civile.
Il cittadino medio che volesse approfondire questioni teologiche si trova di fatto escluso dai percorsi formativi esistenti: da un lato gli Istituti teologici (o gli Issr), sotto stretto controllo dell’autorità ecclesiastica e orientati prevalentemente alla formazione intraecclesiale; dall’altro la teologia è estromessa dalle facoltà universitarie statali. Cosa può fare chi, pur non condividendo la fede cristiana – magari ateo e materialista – è intellettualmente attratto da questioni teologiche che nutre legittime riserve verso l’istituzione ecclesiastica ma che riconosce la rilevanza culturale e filosofica del pensiero teologico? È un profilo tutt’altro che marginale nella società contemporanea! Le università che offrono un percorso di Storia del pensiero teologico (perché la parola Teologia non può essere usata in ambito pubblico senza il patrocinio Cei) sono pochissime e comunque nessuna università italiana concede un titolo in Teologia che del resto non avrebbe sbocchi.
Le resistenze ad iscriversi ad un corso di Teologia confessionale sono comprensibili: la diffidenza verso il clero, acuita dalle recenti cronache di abusi; il timore dell’indottrinamento; l’incompatibilità tra i propri impegni professionali e la struttura rigida dei corsi ecclesiastici.
Queste barriere stanno creando un disastro culturale. Il cristianesimo finisce per essere rappresentato solo nei suoi lati più imbarazzanti: politici che sventolano rosari, il cristianesimo associato solo alla retorica moralista, gli scandali del clero che fanno perdere credibilità al messaggio evangelico. Tutto il resto, la ricchezza filosofica e culturale di secoli di pensiero, rimane ignorato o sottostimato. Anche le agorà culturali, al di là dell’entusiasmo, che può avere vita breve, non trasmettono né accompagnano in approfonditi percorsi di riflessione teologica.

IL PARADOSSO DELLA TEOLOGIA ITALIANA
Mancano strutture in grado di rispondere all’esigenza di colmare questo vuoto ma non è difficile immaginarle anche sulla base del fatto che da decenni si sono moltiplicati luoghi di studio e diffusione della teologia (Scuole di Teologia diocesana, percorsi spirituali e culturali nelle foresterie monastiche, corsi o incontri promossi da parrocchie, reti e associazioni). Nessuno di questi appare del tutto scollegato da un beneplacito ecclesiastico.
Oggi vediamo anche il moltiplicarsi di proposte di riflessione e percorsi biblici e teologici, permesse soprattutto dalla presenza virtuale e dal nuovo protagonismo delle teologhe (si pensi al successo che hanno i corsi di Teologia online del Coordinamento teologhe italiane). In tale moltiplicazione di iniziative si trova anche chi ha il coraggio di offrire una riflessione fuori dalle braccia di Madre Chiesa.
Nel contesto italiano, dove la teologia è spesso ancora intrecciata con l’autorità ecclesiastica, tale autonomia di pensiero rischia di essere letta come minaccia o arroganza. L’accusa implicita di egocentrismo, l’invito a lavorare “in rete” e la diffidenza nei confronti di iniziative autonome e fuori dagli schemi tradizionali pone quindi una domanda cruciale: chi ha il diritto di fare teologia? E come?
Chi vive una tensione tra competenza personale e il riconoscimento istituzionale può sentire una frustrazione che però potrebbe essere generativa di nuove posture: la marginalità e il desiderio di portare la teologia fuori dai recinti ecclesiastici possono costituire una opportunità.
Sembra emergere oggi un bisogno: in un’epoca di crescente secolarizzazione, ma anche di nuove ricerche di senso e di crisi delle certezze moderne, la riflessione teologica può assolvere ad una missione culturale più ampia. Mantenerla confinata negli ambienti ecclesiastici significa privarla della sua potenziale funzione pubblica.
Occorre quindi pensare e moltiplicare centri culturali capaci di operare secondo principi radicalmente diversi da quelli degli istituti ecclesiastici tradizionali.
Queste “scuole” dovrebbero adottare un approccio storico-filosofico o comparativo alle questioni teologiche, privilegiando il rigore critico rispetto all’adesione confessionale. Questo non significa necessariamente coltivare luoghi di ostilità verso la fede o la Chiesa cattolica, ma piuttosto la creazione di uno spazio dove credenti e non credenti possano confrontarsi su un piano paritario (fa scuola la cattedra dei non credenti creata dal card. Martini).
La teologia deve avere il coraggio di diventare divulgativa senza cadere nell’apologia o nel catechismo: andrebbe quindi abbandonato il gergo specialistico per adottare un linguaggio diretto e comprensibile. La fortuna che hanno fenomeni come Vito Mancuso, Michela Murgia, Massimo Recalcati non sta solo nel fatto che hanno intercettato un bisogno evidente nella società di oggi, ma soprattutto perché hanno saputo spezzare l’involuto linguaggio teologico per renderlo accessibile a tutti.
Non si tratta di semplificare i contenuti, ma tradurli in modo da rendere le questioni fondamentali accessibili anche a chi non possiede una formazione (ecclesiale).
Un elemento determinante per garantire l’autonomia intellettuale di questi percorsi e l’apertura al di fuori dei confini confessionali sarà il fatto che i preti dovranno lasciare la scena: il corpo docenti dovrà essere formato da laici. E oggi sono soprattutto le donne a garantire una riflessione teologica sottratta alle dinamiche di autorità proprie delle istituzioni ecclesiastiche per il fatto che non possono essere ordinate.
D’altra parte le donne stesse dovranno vigilare a non riprodurre dinamiche di controllo o di potere da Congregazione per la dottrina della fede che avendo subito possono inconsapevolmente essere messe in atto. La lezione di “autodeterminazione” che abbiamo imparato dal femminismo deve valere per noi ma anche per le generazioni dopo di noi.
Superando il modello della lezione frontale, questi luoghi dovrebbero privilegiare metodologie partecipative: seminari, tavole rotonde, classi capovolte, laboratori di pensiero che favoriscano il confronto critico e la co-costruzione del sapere. Il modello “formazione” già abbondantemente presente nelle aziende (e che viene imposto oramai sempre più purtroppo anche ai ragazzi nelle scuole, dove però sortisce effetti anche controproducenti) si presenta come metodo più adatto per gli adulti.
Particolare attenzione andrebbe rivolta al dialogo interdisciplinare, invitando esperti di altre discipline – filosofi, sociologi, psicologi, scienziati – a confrontarsi con le questioni teologiche contemporanee.
In questo senso, tematiche come l’etica dell’intelligenza artificiale, la teologia della sostenibilità ambientale, o l’analisi critica dei messaggi populisti che strumentalizzano il religioso, la relazione con le scienze, le arti e la letteratura, il cinema, la musica, potrebbero rappresentare terreni privilegiati di incontro e reciproca fecondazione tra saperi diversi.
Il presupposto teoretico fondamentale è che la teologia, in quanto riflessione sistematica sul rapporto tra umano e trascendente, costituisce un patrimonio culturale che trascende i confini confessionali. Le grandi questioni teologiche – il senso dell’esistenza, il rapporto con il limite e la finitudine, la dimensione simbolica dell’esperienza umana – interpellano ogni essere pensante, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose.

VERSO UNA TEOLOGIA PUBBLICA E PARTECIPATIVA
L’urgenza di questo approccio si manifesta con particolare evidenza nel contesto delle crisi contemporanee. I conflitti bellici che attraversano l’Europa orientale e il Medio Oriente riattualizzano drammaticamente la questione teologica del male e della teodicea, mentre le derive populiste che investono le democrazie occidentali sollevano interrogativi profondi sul rapporto tra religione e potere politico. La crisi sistemica del capitalismo neoliberista pone con forza rinnovata la questione della giustizia sociale e dell’economia della condivisione, temi centrali nella tradizione profetica biblica.
In un mondo come l’attuale, dove la vita delle persone appare senza “valore” se non produce ricchezza, dove il sapere tecnico diventa l’unico pattern per pensare, credere di poter mantenere il monopolio della teologia significa non credere nel suo potenziale pubblico e sociale, oltre ad essere una operazione impraticabile.
L’implementazione di un tale progetto non è senza ostacoli. Primo fra tutti, la resistenza del mondo ecclesiastico, che potrebbe percepire questa iniziativa come una sottrazione di competenze, autorità e di uditorio. In secondo luogo, la diffidenza del mondo laico, che potrebbe sospettare strategie di proselitismo mascherato. Per non parlare delle questioni logistiche ed economiche.
Esperienze già attuate e presenti dimostrano la fattibilità di simili progetti magari sponsorizzati da aziende o da privati in forma di accordo economico con un/a professionista.
Immaginare una teologia che sappia uscire dalle proprie roccaforti istituzionali per confrontarsi con la complessità del mondo contemporaneo significa riconoscere che la verità teologica, se tale è, non può temere il confronto con altre forme di sapere.
Restituire alla teologia la sua vocazione pubblica, sottraendola al monopolio ecclesiastico e al disinteresse laico costringe a immaginare percorsi che meritano la libertà di essere sperimentati, nella convinzione che il dialogo critico e rispettoso tra visioni del mondo diverse costituisca una risorsa preziosa per l’intera società.
Occorre il coraggio di sollevare i vescovi dall’obbligo di dare la loro “benedizione” a percorsi che essi non possono e non devono riconoscere.
Solo così si potrà evitare che il cristianesimo continui a essere percepito unicamente attraverso le sue manifestazioni più deteriori, e si potrà favorire una comprensione più profonda e articolata del suo contributo al pensiero occidentale e alla ricerca di soluzioni per le sfide epocali che ci attendono.
Il dissidio della teologia italiana tra le forme istituzionali appiattite su dinamiche di potere da un lato e un crescente bisogno di pensiero, spiritualità e confronto proveniente dalle periferie ecclesiali e culturali attraversa potentemente l’esperienza di chi ha maturato competenze teologiche e intende avviare percorsi teologici fuori dall’asfittico mondo seminaristico. La frustrazione che ne emerge può funzionare da detonatore per iniziative nei quali proprio la marginalità diventi luogo teologico e il desiderio di portare la teologia fuori dai recinti ecclesiastici costituisca nuove forme di fecondazione per la teologia.
In questa tensione si apre infatti una possibilità feconda: quella di una teologia che non cerca solo riconoscimento, ma significato, che non si misura sulla base della legittimità ricevuta dall’alto, ma della risonanza che genera nei vissuti concreti delle persone. Si tratta, in sostanza, di pensare la teologia non come sistema dottrinale da trasmettere, ma come strumento di pensiero critico e di discernimento, capace di generare coscienza e orientamento. Abbiamo bisogno di luoghi di studio che si presentino come “cattedra dei non credenti”, con persone professionalmente competenti per una consulenza teologica (non basta sentirsi ontologicamente superiori per avere anche capacità di gestione di un dialogo spirituale): laboratori di umanizzazione.
Proprio lì, nel punto in cui l’io incontra il limite, si può aprire lo spazio per una teologia incarnata, significativa, politica.”

Si può non fare

Immagine creata con ChatGPT®

Ho da poco terminato il libro “L’uomo oltre l’uomo. Per una critica teologica a transumanesimo e post-umano” di Tiziano Tosolini. La lettura è stata molto piacevole e stimolante. All’interno varie chicche. Ne riporto una, che in realtà è una citazione del filosofo italiano Giorgio Agamben dal suo libro Nudità:
“Paradossalmente la non accettazione della propria impotenza toglie all’uomo la sua vera e propria dignità: “impotenza” non significa qui soltanto assenza di potenza, non poter fare, ma anche e soprattutto “poter non fare”, poter non esercitare la propria potenza. Separato dalla sua impotenza, privato dell’esperienza di ciò che può non fare, l’uomo odierno si crede capace di tutto e ripete il suo gioviale “non c’è problema” e il suo irresponsabile “si può fare”, proprio quando dovrebbe invece rendersi conto di essere consegnato in misura inaudita a forze e processi su cui ha perduto ogni controllo. Egli è diventato cieco non delle sue capacità, ma delle sue incapacità, non di ciò che può fare, ma di ciò che non può, o può non, fare” (pag. 82).
Tecnologia, bioetica, politica, sport, lavoro, competitività … a tanti ambiti può essere riferito il testo sopra riportato. Buona riflessione.

D’amore, di morte, di potere, ma soprattutto d’amore

Pubblico un altro editoriale di Fabio Cantelli Anibaldi scritto su Lavialibera. Parte da una considerazione della saggista Anne Applebaum (di cui ho apprezzato il libro Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici) su Vladimir Putin per poi considerare una paura che accomuna tutti gli uomini ma che viene affrontata in modi molto diversi: la paura della morte. Riflette su come il potere e il suo esercizio possano regalare l’illusione di dominare il tempo e, di conseguenza, sottomettere la morte. Solo facendo pace con il proprio limite, con le proprie paure, con il proprio bisogno d’amore, si può arrivare ad amare sorella morte e apprezzare la vita come “un’avventura di amore e di pace, di passione e di conoscenza”. Ritengo che gli spunti di riflessione siano veramente molti.

Sembra ossessionato e pieno d’odio. Sembra entrato in una fase nuova. Non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere. Di certo è vissuto isolato per due anni, a causa della pandemia. Mi chiedo cos’abbia fatto, cos’abbia letto e guardato, per tutto quel tempo, da solo. Oggi sembra un uomo malato, disturbato. Così parla di Vladimir Putin la saggista americana Anne Applebaum, vincitrice nel 2004 del Pulitzer con un monumentale studio sui Gulag sovietici, intervistata dal Corriere della Sera.
Parole che dicono l’incapacità e insieme il timore dell’Occidente a indagare le radici della guerra, limitandosi a una scontata condanna morale corroborata da manifestazioni in cui urlare la propria indignazione. Non metto in dubbio la buona fede di chi è “sceso in piazza” né la buona volontà del Papa che invita anche i non cristiani a digiunare il primo giorno di Quaresima. Penso solo che non serva a nulla, che la guerra non si ferma denunciandone l’orrore – quante migliaia di volte è stato fatto? – e che chi la fa troverà sempre una buona ragione o almeno un alibi per continuare a farla, tanto più se i suoi accusatori lo definiscono un criminale: cosa che, lungi dal ferirli, esalta i criminali.
Le parole di Applebaum sono in tal senso emblematiche. La studiosa si avvicina al nocciolo della questione quando osserva che, dopo la pandemia, Putin pare entrato in una fase nuova: ossessiva, disturbata, malata. Ma subito se ne allontana quando commenta: “non so di cosa abbia paura, se della morte o di perdere il potere”.

È proprio questa presunta alternativa a impedirle di capire che le due paure sono, in realtà, una: paura della morte e di perdere il potere sono facce di una stessa medaglia quando l’esercizio del potere assume forme patologiche, ossia quando diventa, come perlopiù accade, una droga.  In tal senso per Putin – come per tutti i potenti della Terra – la lunga stagione del covid dev’essere stata un incubo. Non tanto o non solo perché ha sentito la propria incolumità in pericolo, ma perché il covid ha dimostrato un potere sulle vite degli altri infinitamente maggiore del suo. Per un uomo di potere – politico o economico che sia – la morte è pietra d’inciampo, smacco, scandalo perché è l’unica cosa sulla quale il suo potere non può nulla. La morte rivela la natura fittizia, teatrale del delirio di onnipotenza degli esseri umani quando non sono educati a riconoscere il loro limite costitutivo, il loro essere irrimediabilmente mortali. Delirio che però non riguarda solo gli uomini che concentrano su di sé enormi quantità di potere. Troppo bello se il problema fosse riducibile ai Putin, ai Bolsonaro e alle loro imitazioni in salsa pseudodemocratica tipo Johnson. O ancora, spostandosi in ambito economico-finanziario, ai vari Bezos, Musk, Zuckerberg… Il problema si estende agli innumerevoli che, se fossero al posto dei succitati, si comporterebbero allo stesso modo se non peggio. Se concentrato nelle mani di un autocrate vero o potenziale – cioè di qualunque persona si identifichi con un “io” non avendo scoperto come Rimbaud che «io è un altro» – il potere è droga che fa sentire onnipotenti perché decide sulla vita e la morte degli altri, considerati alla stregua di sudditi, soldati o impiegati di quel potere. 
Lo stesso vale per il denaro. Il time is money di Rockfeller e dei primi miliardari moderni si è capovolto in money is time: possedere denaro dà l’illusione di vivere più a lungo, accumularlo quella di vivere per sempre. Il predominio del capitale poggia su una garanzia di durata: se sono ricco potrò fronteggiare gli imprevisti della vita, se ho miliardi di euro o dollari ne uscirò indenne da quasi tutti. Quel “quasi” allude all’incontro con la morte, eventualità che i super-ricchi e gli autocrati rimuovono costantemente dal loro orizzonte psichico e esistenziale proprio perché la temono come nulla al mondo. La morte: screanzata guastafeste che osa presentarsi nella sala dove il potente e la sua cricca stanno ridendo, ballando, gozzovigliando, fornicando per ricordare a tutti che la festa un giorno finirà. Magnati e dittatori sono accomunati dalla stessa priorità: rimuovere il pensiero della morte per abbandonarsi spensierati all’ebbrezza che procura l’eccesso di soldi e di potere.
Chissà cos’ha fatto, si chiede Applebaum, Putin durante l’epidemia? Cosa avrà pensato nei momenti infinitamente lunghi in cui il suo potere non valeva quasi più nulla? In cui non poteva più addobbarsi di costumi magniloquenti o intimidatori, in cui era stato sottratto alla sua scena?  Se non fosse l’omuncolo tronfio e anche pavido che è, si sarebbe sentito mancare il terreno da sotto i piedi e, abbandonandosi al vuoto, avrebbe fatto pace con il suo limite, con le sue paure, con il suo bisogno d’amore, il bisogno d’amore che segna il soggiorno degli umani su questa Terra perché nasce dalla consapevolezza di esserne ospiti contingenti, viandanti mortali.  Ma è come togliere a un tossicomane l’eroina: superata la crisi d’astinenza si pone per lui il vero problema, cioè avere il coraggio di cambiare davvero, di andare al fondo delle sue paure – in primis quella di morire – e scoprire cosa c’è alla radice della dipendenza, il bisogno di amare e di essere amato, di sentirsi nutrito e protetto come nel grembo materno. Se questo coraggio non c’è e se non c’è nemmeno l’umiltà di chiedere sostegno affinché maturi in lui, il canto delle sirene della droga diventa richiamo ammaliante e irresistibile. Putin questo coraggio non ce l’ha avuto, come miliardi di uomini su questa Terra, ed ecco allora che il mondo dopo la pandemia si prospetta minacciosamente simile se non uguale al precedente, come se la lezione della pandemia – siete tutti interdipendenti, siete tutti vulnerabili – non fosse servita a nulla. Uscire da una crisi ma uscirne uguali è il peggio che ci si possa augurare: una crisi è, sempre, un’occasione di cambiamento cioè di vita, perché la vita è nella sua essenza divenire. La vita gira al largo dalle anime cristallizzate, si ritira dagli uomini che non mollano la presa da sé stessi, gli uomini che si preoccupano soltanto  di affermarsi e durare.
Tornando alla guerra, è la rimozione della mortalità a rendere crudele il potere e intrinsecamente violento il sistema che gli fa capo. Chi detiene il potere ma disconosce la sua mortalità per ciò stesso si costruisce un’immunità psicologica dalla morte uccidendo o facendo uccidere. La logica che, a loro insaputa – ne sono vittime ma non lo sanno – guida tutti i Putin di questa Terra può essere espressa così: ti faccio uccidere quindi prendo il posto della morte impersonale che colpisce a caso, la morte che accade a tutti e per tutti meno che a me, che la eguaglio per onnipotenza. Una civiltà che non riconosce la morte la infligge, e quel che resta dell’Occidente è un infliggere la morte per sentirsi onnipotenti e, finché si può, immortali.
Poi c’è modo e modo d’infliggere la morte e in tal senso mi pare che si debba almeno riconoscere a Putin il merito di giocare a carte scoperte, usando gli eserciti e le armi. C’è un modo più subdolo e vigliacco di uccidere con l’economia. Si parla in questi giorni di “sanzioni” contro la Russia come se il sistema economico neoliberista non fosse di per sé sanzionatorio, mosso da una logica selettiva che prevede diritti ridotti a privilegi, appannaggi riservati a chi se li può permettere, cioè a chi ha i soldi per acquisirli. Il “mercato” è una prosecuzione su vasta scala della logica dei lager o dei gulag, dove, tolti i comandanti dei campi e le loro cricche – i Rudolf Höss, gli Franz Stangl, i Naftaly Frenkel – non veniva subito ucciso solo chi era in grado di lavorare, venendo ucciso poi dal carico di lavoro, dalla fame, dalle malattie. 
In conclusione, come uscire da questo circolo vizioso che riguarda non solo autocrati e magnati ma la natura umana in generale, come ci racconta da sempre la grande arte e letteratura, affascinata di come basti un po’ di potere per corrompere l’animo dell’uomo, essere in gran parte codardo, incapace di guardare in faccia la sua fragilità?È evidente che non se ne esce senza una nuova cultura ed educazione che, a differenza di quelle tecnologiche/tecnocratiche, tutte volte a formare impiegati del “sistema mercato”, insegni a riconoscere e a rispettare la morte, a tenerne conto. E infine a volerle bene, perché è per lei, grazie a lei, che sentiamo il bisogno di amare e di essere amati, è solo per lei che la vita può essere una meravigliosa avventura di amore e di pace, di passione e di conoscenza.”

4. Proteggi i bambini e gli anziani

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi.
Il quarto è esplicato da Francesca Balocco, docente di teologia sistematica a Forlì, appartenente alla Congregazione delle suore Dorotee. Lo si può trovare a questo link.

“Ricordo un proverbio: il vino buono sta nella botte piccola. Un proverbio usato, a volte, non per esaltare il vino ma per giustificare la piccolezza, come se non fosse abbastanza degna di essere vissuta o abbastanza bella per essere guardata e avessimo bisogno di riempirla con qualcosa di molto buono, per superare il disagio che il piccolo porta in sé. Dovrebbe essere naturale custodire il bambino, così come naturale dovrebbe essere la premura nei confronti dell’anziano, fasi della vita che sono la manifestazione di ciò che è piccolo, precario, debole, vulnerabile…, ma forse non è più così naturale se abbiamo bisogno di un «comandamento» per tutelare l’essere umano nel suo affacciarsi alla vita e nel suo congedarsi da essa. L’inizio e la fine della vita sono l’esposizione, senza filtri, dell’estrema debolezza che caratterizza la nostra umanità. Si nasce e si muore nel segno della fragilità del limite, in quegli istanti indisponibili della nostra vita che ne delimitano il corso nel tempo. Ecco perché i bambini così come gli anziani mettono alla prova la nostra com-passione, la nostra capacità di accogliere ed entrare in un mondo che lascia con forza emergere i bisogni. Il piccolo – di qualunque età – chiede e ci interpella ponendoci davanti al dramma di una decisione: rispondere o ignorare la sua voce. I piccoli dicono, a noi e a loro stessi, la loro esistenza attraverso la fame, la sete, il pianto… restando poi in attesa di qualcuno capace di rispondere a questo grido che in alcuni casi tradisce l’aridità degli affetti.
La custodia dell’indisponibile passa anche dalla capacità di cura di ciò che è piccolo in noi nella nostra vita, in ciò che appartiene alla nostra storia, in ciò che ha una prospettiva di crescita o in ciò che a poco a poco stiamo perdendo. Ma la custodia nei confronti di coloro che necessitano di tutela non può essere semplicemente imposta: è necessario riscoprire la possibilità di chinarci sul loro mondo e guardare la realtà dal loro punto di vista, liberandoci dall’inganno che ci porta a credere che il limite non appartenga alla nostra esperienza di pienezza di umanità. L’infanzia negata o la tarda età denigrata esprimono la violenza che si genera dall’incapacità di riconoscere la dignità del limite e della debolezza. Custodire l’indisponibile significa proteggere la vulnerabilità tanto del bambino quanto dell’anziano,  riappropriarci della possibilità di essere traccia luminosa capace di custodire affettuosamente ed efficacemente la fragilità degli estremi della vita umana.” 

Tra passo indietro e passo avanti: la creatura

William_Blake,_The_Temptation_and_Fall_of_Eve.JPG
La tentazione e la caduta di Eva, William Blake

Ho da poco partecipato ad un corso d’aggiornamento per insegnanti di religione nella mia diocesi dal titolo “Riscoprire l’umano: scienza e cultura in dialogo per comprendere l’uomo di oggi”.
Il primo giorno il neurologo Franco Fabbro ha tenuto una conferenza dal titolo “Le neuroscienze svelano la mente umana”: un viaggio a partire dalla medicina e dalla fisiologia per arrivare a spunti di riflessione filosofici.
Il secondo giorno è stata la volta del prof. Filippo Ceretti su “Umanità mediale. Età digitale e sfide educative”: da un’educazione con, a, ne e attraverso i media, è possibile educare i media?
Infine, ieri, il teologo Riccardo Battocchio ha trattato il tema “La teologia interpreta l’uomo moderno: sfide e prospettive”: fra la spinta di fare un passo indietro e quella di fare un passo avanti, riscoprendo l’origine e la chiamata dell’uomo, fra postumanesimo e transumanesimo, c’è spazio per la creatura?
Mentre mi ronzano per la testa numerose domande, tentativi di risposta e riflessioni, leggo proprio oggi su L’Indiscreto questo articolo di Andrea Daniele Signorelli. Lo pubblico anche come appunto per idee per il prossimo anno scolastico…

“Per la prima volta nella storia si muore più per colpa degli eccessi alimentari che per la mancanza di cibo; la morte ci coglie più spesso in tarda età, per vecchiaia, che in gioventù, per malattie infettive; si cessa di vivere più facilmente per mano propria, con il suicidio, che a causa dei rischi connessi alla presenza di soldati, terroristi e criminali messi insieme”. L’umanità è giunta a un momento di svolta – sostiene Yuval Noah Harari in “Homo Deus, breve storia del futuro” (Bompiani) – a un bivio tra incredibili opportunità e tremendi pericoli.
Ora che siamo riusciti a limitare drasticamente l’impatto dei tre nemici storici dell’umanità (carestia, malattia e guerra), l’homo sapiens può infatti concentrarsi sulle conquiste da portare a compimento nel terzo millennio: la perenne felicità (per via chimica) e l’immortalità (per via medica o tecnologica). Non solo: grazie all’editing genetico, o magari alla fusione con macchine super-intelligenti, l’uomo diventerà sempre più simile un dio, trasformandosi in quell’Homo Deus che dà il titolo al saggio.
“L’ingegnerizzazione degli uomini al rango divino può avvenire seguendo indifferentemente tre strade: le biotecnologie, l’ingegneria biomedica e l’ingegnerizzazione di esseri non organici. L’ingegnerizzazione biologica permessa dalle biotecnologie parte dal presupposto che siamo molto lontani dal dispiegare l’intero potenziale dei corpi organici. Per quattro miliardi di anni la selezione naturale ha aggiustato e ricomposto questi corpi, con il risultato che siamo passati dall’ameba ai rettili, ai mammiferi e agli uomini Sapiens. Tuttavia non c’è motivo per pensare che i Sapiens siano l’ultima stazione. Alcune mutazioni, relativamente piccole, nei geni, negli ormoni e a livello neuronale sono state sufficienti per trasformare Homo erectus – che non era in grado di produrre nulla di più impressionante di coltelli di selce – in Homo Sapiens, che costruisce navette spaziali e computer. Chissà dove ci potrebbe condurre un drappello di cambiamenti nel nostro DNA, nel sistema ormonale o nella struttura cerebrale?
Potrebbe sembrare una prospettiva allettante, se non fosse che solo una piccola élite di miliardari illuminati potrà approfittare delle fantascientifiche opportunità offerte dalla scienza e dalla tecnologia, mentre tutto il resto dell’umanità dovrà accontentarsi di giocare con la realtà virtuale e i social network, limitandosi a fornire i dati necessari all’avanzamento di algoritmi in grado di trasformare la medicina, la politica, l’amore e tutta la nostra società; algoritmi talmente potenti da dare vita a una nuova religione: il datismo.
Se Google sa che cosa vogliamo, Facebook sa invece alla perfezione chi siamo. Una volta ulteriormente perfezionati i meccanismi, l’uomo (nella visione di Harari) arriverà inevitabilmente a cedere tutto il suo potere decisionale, lasciando che siano algoritmi che ci conoscono molto meglio di noi stessi a decidere il da farsi.
“Che senso ha indire elezioni democratiche quando gli algoritmi sanno non solo come ogni persona voterà, ma anche le sottostanti ragioni neurologiche secondo cui una persona vota per i democratici mentre un’altra vota per i repubblicani? Laddove l’umanesimo ordinava: “Ascoltate i vostri sentimenti!” ora il datismo ordina: “Ascoltate gli algoritmi!”.
Fin qui, niente di particolarmente nuovo: una visione del futuro – contemporaneamente utopistica e distopica – che viene analiticamente e gelidamente tratteggiata da Harari con un fare speculativo che, in qualche occasione, ricorda più un TED Talk che un libro di divulgazione scientifica e che, nonostante questo, ha la pretesa di costruire una sorta di “teoria del tutto” dell’umanità, in grado di riunire sotto un unico tetto religione, scienza e politica.
Sono però il percorso e le dinamiche storiche inquadrate dall’accademico israeliano a rendere le sue conclusioni (spesso imposte al lettore come fossero verità assodate nonostante un elevato grado di azzardo) affascinanti e non di rado illuminanti. Un percorso che attraversa millenni di religione, politica e società per mostrare come l’uomo sia sempre stato vittima di illusioni elaborate ai piani alti (sia detto senza scadere nel complottismo) affinché i network sociali – che rappresentano la vera forza che ha consentito all’homo sapiens di conquistare il mondo ed ergersi sulle altre creature terrestri – restassero in piedi e prosperassero (da questo punto di vista, è incisivo il parallelismo tra divinità e brand o tra faraoni e popstar).
Per la maggior parte del tempo, queste illusioni sono state rappresentate dalla religione e dalle divinità. Quando però la scienza, almeno in alcune aree del mondo, ha relegato la religione nelle retrovie, il vuoto lasciato è stato colmato da una nuova forma spirituale: l’umanesimo, in cui lo spirito santo viene sostituito dalla coscienza e la ricerca di una verità esterna all’uomo si trasforma nella centralità dell’uomo, vero deus ex machina di se stesso.
“Qual è, allora, il senso della vita? Il liberalismo sostiene che non dovremmo aspettarci che un’entità esterna di qualche tipo ci fornisca una risposta preconfezionata. Piuttosto, ciascun individuo, elettore, consumatore e spettatore dovrebbe fare uso del suo libero arbitrio per dare un senso non solo alla propria vita ma all’intero universo. Le scienze biologiche, però, destabilizzano le fondamenta del liberalismo, perché sostengono che l’individuo libero è soltanto una favola generata da un insieme di algoritmi biochimici. In ogni istante, i processi biochimici del cervello creano un lampo di esperienza che spariscono un attimo dopo. (…) Il sé narrante cerca di imporre un ordine a questo caos intessendo una storia infinita nella quale ogni esperienza trova il suo posto, e dunque un senso duraturo. Tuttavia, per quanto possa essere convincente e affascinante, questa storia è pura finzione. I crociati medievali erano convinti che Dio e il paradiso riempissero la loro vita di senso; i liberali moderni sono convinti che le libere scelte dell’individuo riempiano la vita di senso. Tutti quanti si illudono alla stessa maniera”.
Come affrontare, allora, la recente scoperta (che Harari considera definitiva nonostante sia ancora ampiamente dibattuta) che non esiste il libero arbitrio? Una scoperta che, una volta diffusasi nella società, avrà come logica conseguenza il crollo delle liberal-democrazie riemerse già una volta, quasi per miracolo, dalle tempeste geopolitiche del ventesimo secolo. A colmare il vuoto, ma non senza rovesci della medaglia, ci penserà il già citato datismo, che costringerà l’uomo ad accettare la sua obsolescenza o ad abbracciare un futuro di “umanità aumentata”, che permetterà alla specie (o almeno ad alcuni suoi rappresentanti) di progredire verso la prossima evoluzione.

Dopo il fine vita il fine morte?

mortemessico5.jpg
Nicolàs de Jesùs

Articolo molto stimolante di Enrico Pitzianti (cagliaritano, laureato in semiotica, ha fondato il progetto artistico online GuardieShow ed è consulente per SpaceDoctorsLtd) pubblicato il 3 ottobre su L’Indiscreto. Magari con le classi quarte…
La ricerca scientifica, per via della velocità con cui progredisce, sta drasticamente mettendo fuori gioco il discorso etico-politico rendendolo costantemente inattuale, superato ancor prima che questo possa bodei-limitearticolarsi per far fronte all’esponenziale progressione della tecnica. Questa sembra essere l’idea di fondo che si scorge leggendo l’ultimo saggio di Remo Bodei: Limite, (Il Mulino, 2016) in cui salta agli occhi il tentativo di mettere in luce un edificio teorico che possa scardinare l’idea di ineluttabilità della morte e del destino.
La premessa è forte: i limiti, quelli fisici e tecnici, sono somparsi (o stanno scomparendo) in massa e questi, generalmente intesi, esistono in quanto barriere poste a impedirci la possibilità di infinito. Ci si riferisce all’infinito dell’immaginazione e non a quello dello spazio.
Il limite dell’intelligenza umana sarà superato dall’IA, la stessa creatività – caratteristica considerata tipicamente umana – è oggi riprodotta da algoritmi che ci obbligano a fare i conti con la distopia del nostro tempo. Gli stessi limiti biologici sono messi in gioco quando è ragionevole sostenere che l’uomo più veloce del mondo sarà in futuro più simile a Oscar Pistorius che a Usain Bolt – oggi detentore del record. Così, con un effetto a valanga, vengono a cadere anche i limiti che separano l’uomo dalla macchina, il naturale dall’artificiale e tutta una serie di separazioni che ci ostiniamo a considerare come pertinenti e non, più realisticamente, come mere semplificazioni di un mondo complesso.
Ciò che rimane tra le rovine di queste barriere sembra essere un certo presunto dovere di autoregolare lo strapotere datoci dalla tecnica. Gestirlo da saggi, limitarci, pena la catastrofe. Ne sapremo (sarebbe meglio usare il tempo presente) fare buon uso? Il giudizio si sospende anche se oggi, a prendere come esempio il riscaldamento globale, trarremo una conclusione poco ottimista.
Le biotecnologie, in particolare in campo genetico, stanno abbattendo il primo – forse l’unico – vero dogma rimasto in buona salute nell’era moderna: la morte. L’invecchiamento secondo studi recenti non è innato, ma programmato geneticamente – e quindi riprogrammabile. Con lo studio dei telomeri (le estremità del cromosoma di un organismo eucariote) si è scoperto che la loro estensione diminuisce a ogni riproduzione della cellula. La morte definitiva delle cellule, e quindi la nostra, dipende da questa sorta di timer che l’evoluzione ha costruito per arrivare alla morte programmata. Ed ecco che si scopre un enzima, detto telomerasi, capace di rallentare la progressiva riduzione dei telomeri e questo, insieme alla possibilità di utilizzo delle cellule staminali, apre le porte alla prospettiva di un allungamento della vita umana molto consistente; tanto che secondo Aubrey Grey, dell’Università di Cambridge, nei prossimi decenni si potrebbe riuscire a vivere duecento e più anni.
Se la ricerca scientifica prospetta la possibile “fine della morte” il trend dell’abbattimento dei limiti per sopravvenuta inidoneità a una soddisfacente rappresentazione di ciò che ci circonda sembra essere molto più generale. Ai progressi della tecnica corrisponde infatti un progressivo confutare convinzioni e saperi radicati e dati per scontati, un abolire idee, tradizioni e usi oramai fondati su “idee di destino” irragionevoli alla luce del sapere odierno. Non c’è più l’inscrutabile volontà divina, non c’è più sapere dei saggi che possa stupirci e manca finanche la possibilità stessa di certezze etiche – inscrivibili quasi tutte, oggi, alla categoria dell’ideologia.
Bodei sottolinea come nessuno fin’ora aveva mai dubitato del fatto che gli esseri umani potessero venire al mondo in un modo diverso dal rapporto sessuale, modalità che include rischi di infermità e deformazioni congenite. Merita un’attenzione particolare il fatto che Bodei riassuma le ultime due decadi di storia nel termine “ora”. lo, ad esempio, non ho la stessa percezione di immediatezza di tali cambiamenti dato che avevo solo sette anni quando Dolly – la pecora oggi imbalsamata in qualche museo scozzese – fu clonata. Bodei, che invece di anni all’epoca ne aveva qualcuno di più, vede da una prospettiva privilegiata l’aumento esponenziale della velocità con cui la morte ha cominciato a vedere scalfito il suo potere e il suo fascino, una parabola lunga milioni di anni che in meno di una ventina si è trasformata in quella che oramai sembrerebbe essere un’uscita di scena annunciata – per alcuni già vicina all’improrogabilità.
L’elidersi dei limiti ontologici tra specie diverse di esseri viventi (incroci e selezioni genetiche) vede il parallelo affievolirsi di altri limiti: quelli tra esseri viventi ed esser non viventi – Bodei cita le gambe di Oscar Pistorius e il pacemaker ma è ovvio che la mescolanza sia oramai capillare e abbia radici lontanissime visto che a ricercarne la genesi bisogna arrivare alla capacità umana di maneggiare oggetti passando quindi per ossidiane sbeccate, papiri e occhiali da vista.
Ciò che sfugge a Bodei è che il limite tra vivente e non vivente è in crisi a prescindere dall’odierno predominio della tecnica. Se il vivente e il non vivente stanno diventando indistinguibili non è per via del robot capace di calciare un pallone o scrivere un articolo di giornale.
Su the Scientific American Ferris Jabr descrive bene il perché “la vita non esiste”. Dato che una definizione concisa di “vita” è decisamente troppo complessa da dare, si ricorre solitamente a un elenco di caratteristiche che sarebbero le proprietà fisico-chimiche che differenziano l’essere vivente dal non vivente. L’elenco prevede: l’ordine (molti organismi sono costituiti da una singola cellula con diversi scomparti e organelli); la crescita e lo sviluppo (il cambiare dimensione e forma in modo prevedibile); l’omeostasi (cioè il mantenere un ambiente interno diverso da quello esterno); il metabolismo (lo spendere energia per crescere), la reazione a stimoli; la riproduzione (clonazione o accoppiamento per la produzione di nuovi organismi e trasferimento di informazioni genetiche da una generazione alla successiva), e l’evoluzione (la composizione genetica di una popolazione cambia nel tempo).
Peccato che l’elenco sia inconsistente, scrive Jabr: “Nessuno è mai riuscito a compilare una lista di proprietà fisiche che comprenda tutte le cose viventi ed escluda tutto ciò che etichettiamo inanimato. Quasi nessuno considera vivi i cristalli, per esempio, eppure sono altamente organizzati e crescono. Anche il fuoco consuma energia e diventa più grande, ma non è vivo. Al contrario, i batteri, i tardigradi e anche alcuni crostacei possono passare lunghi periodi di inattività durante i quali non crescono, non metabolizzano, non si modificano in alcun modo, ma non sono tecnicamente morti”.
E ancora: qualsiasi parte di organismo vivente se recisa fa crollare ulteriormente le possibilità di classificazione netta. Una coda di lucertola (Jabr fa l’esempio di una foglia) è da considerare vivente se staccata dal resto dell’animale? Le cellule che la compongono si comportano come si comportavano prima del distacco – non cessano immediatamente le loro attività. Quindi la coda muore al momento del distacco (che ne determinerà il deperimento) o invece quando ogni singola cellula che la compone sarà morta? E se rianimassimo la coda in laboratorio (come il celebre esperimento di Luigi Galvani sulle rane) potremmo considerarla viva dopo la morte?
Insomma, Bodei dice il vero quando parla di limiti valicati e ormai costituiti da termini e definizioni colabrodo, ma la sensazione è che l’aspetto caotico dell’intreccio che comprende l’esistente sia ancora più profondo di come viene descritto nel saggio – e il motivo è in quanto già descritto con le parole dello scrittore statunitense.
Alla possibile fine della morte per proclamata possibilità del suo superamento tecnico (e al suo corrispettivo culturale di “fine della morte in quanto cessazione del suo fascino”) si affianca la sconfitta della morte per assenza di differenze con ciò che dovrebbe contrapporvisi, la vita. Una coppia – quella dell’antropotecnica insieme all’impossibilità di formulare una definizione soddisfacente di vita – che rende conto di un panorama se possibile più distopico di quello che si intravede nelle parole di Bodei.
Rimane la sfida etica, quella di essere consci di questo strapotere e decidere consapevolmente di non abusarne, dei supereroi con tanto di kit di ricambio organi”.

Titubanze

Lignano maggio 09 078 fb

E’ uno scatto di 5 anni fa, 31 maggio 2009, Lignano. Ero in pausa studio, mi stavo preparando a un esame per addetto antincendio. Ho preso la macchina fotografica e sono andato in spiaggia: fresco, nuvoloso, ventilato. Mi sono seduto su un lettino già aperto e ho atteso. Questo bimbo ha cominciato a correre avanti e indietro e ho scattato. Il risultato è una foto che mi incuriosisce.
C’è il mare che mi dà senso di infinito, benché sappia che da qualche parte c’è un limite, il filo di una costa che lo respinge. Ci sono le nuvole scure all’orizzonte, promessa di un temporale, tempo bello per me che li amo nella loro imprevedibilità e nella loro incostanza, così diversi da un cielo terso (che non disprezzo). Ci sono i limiti a ricordare la prudenza, ma anche la voglia di oltrepassarli quando si possiedono gli strumenti per poterlo fare. C’è il bimbo che si tiene i pantaloni, quasi con la paura che l’acqua bassa possa bagnarli; un piede è nelle onde, l’altro è sulla battigia, il corpo è volto allo spazio aperto, non lo sguardo che è basso. Sembra titubante, come se avesse voglia di andare ma ci fosse qualcosa a trattenerlo. Sarà che oggi ho finito di leggere “La luna e i falò”.

E’ già abbastanza temere l’ignoto

Fusine_0032 fbPubblico anche questo piccolo dialogo sempre di Don DeLillo, sempre da “Rumore bianco”, in quanto sembra rispondere al precedente:
“- … Credi che la vita senza la morte sia in qualche misura incompleta?
– E come potrebbe? E’ proprio la morte a renderla tale.
– Non pensi che la nostra coscienza della morte rende la vita più preziosa?
– A che serve una preziosità basata su paura e angoscia? E’ tremendo, è terrificante.
– Vero. Le cose più preziose sono quelle di cui ci sentiamo più sicuri. Una moglie, un figlio. Questo eventuale figlio, lo spettro della morte lo rende più prezioso?
– No.
– No. Non c’è motivo di credere che la vita sia più preziosa perché fugge. Riflettiamo su questo. Bisogna che gli venga detto che deve morire, perché uno possa cominciare a vivere in tutta pienezza la propria vita. Vero o falso?
– Falso. Una volta stabilita la morte, diventa impossibile vivere una vita soddisfacente.
– Preferiresti sapere data e ora esatte della tua morte?
– Assolutamente no. E’ già abbastanza temere l’ignoto. Di fronte all’ignoto possiamo fingere che non esista. Le date esatte indurrebbero molti al suicidio, se non altro per farla in barba al sistema.”

Quel limite di cui abbiamo bisogno

Matrimonio Cate e Vince_0080fbNe stiamo discutendo o ne abbiamo discusso in quarta. Oggi ho trovato queste parole nel libro che sto terminando di leggere: “… ma credo che sia un errore perdere il senso della morte, persino la paura. La morte non costituisce proprio il limite di cui abbiamo bisogno? Non ti sembra che dia una consistenza preziosa alla vita, un senso di chiarezza? Bisogna chiedere a se stessi se tutto ciò che si fa in questa vita avrebbe le stesse caratteristiche di bellezza e significanza senza la consapevolezza che si tende a una linea finale, a un confine, a un limite” (Rumore bianco, Don DeLillo). Certo altri interrogativi attraversano la nostra mente quando l’esperienza della morte è vissuta da vicino, in particolar modo quando tocca vite giovani ancora in attesa di essere vissute nelle loro piene potenzialità…

Dove ha inizio l’infinito?

Varie_0081 fbTrovo molta soddisfazione nel leggere le parole di Roberto Cotroneo sul settimanale inserto del Corriere della Sera: arricchisce, stimola, provoca, fa pensare. Cosa chiedere di più?
“Ma oggi lo sgomento arriva perché, come dice un grande fisico come David Deutsch non sappiamo più dove ha inizio l’infinito. Un tempo l’inizio dell’infinito lo si conosceva assai bene. Pensare l’infinito, che è un po’ la banda larga su cui viaggia l’idea di futuro, è fondamentale. L’infinito è un’idea che portiamo addosso da sempre. La finitezza delle esistenze terrene si fa sopportabile perché è compensata da un’idea di infinito. La domanda classica è sempre stata: se state scrivendo un romanzo, o dipingendo un quadro e vi dicono che un meteorite cadrà sulla terra distruggendo ogni forma di vita, continuereste? Chi risponde sì a questa domanda dichiara il falso. Nessuno può continuare. Ogni opera umana è collegata all’idea che l’infinito ha un inizio. E’ quella spinta iniziale che ci porta a pensare alle cose: a procreare come a generare futuro. Solo che un tempo l’inizio dell’infinito era visibile a tutti. Era una nave di emigranti che approdavano in America. E tra loro ci sarebbero stati milionari. Era il primo metro di rotaia che sarebbe arrivato fino in Siberia, dopo migliaia di chilometri. Era la lente ottica più grande che spostava un po’ più in là la nitidezza dell’universo che ci era concesso di vedere. Oggi gli inizi sono confusi, nebulosi incerti. La circolarità non permette di capire dove è il principio del nostro infinito e come guardarlo. Da quando sappiamo sempre meglio come è l’universo in cui pensiamo e ci muoviamo, la parola futuro ci accompagna come un’esigenza nevrotica e astratta. Da quando sappiamo immaginare tutto,non siamo più capaci di immaginare niente. Da quando non sappiamo più dove inizia l’infinito non riusciamo più a capire dove andare a ritrovarlo.”

Quanto siamo piccoli

Una riflessione di Marina Corradi sull’impresa di Felix Baumgartner. Da Avvenire.

felix-baumgartner-595x315.jpg

“L’immagine di quell’uomo in tuta da astronauta che dalla soglia di una fragile capsula metallica si getta nel vuoto da 39 mila metri di altezza – la Terra, sotto, così terribilmente lontana – dà a chi guarda il video dell’impresa di Felix Baumgartner un attimo di vertigine. È siderale, in quel momento, il nulla attorno; e quell’uomo è così ridicolmente piccolo, e solo, nella immensità del cielo. L’austriaco che a Roswell, New Mexico, ha superato in caduta libera la velocità del suono precipitando a 1.342 km all’ora, ha battuto molti record e – forse – fornito elementi nuovi alla ricerca aerospaziale. Ma dubitiamo che sia per la ricerca che ha fatto ciò che ha fatto; e nemmeno per i soldi dello sponsor. Perché quest’uomo ha voluto tentare un’impresa da cui aveva buone probabilità di non tornare? È la domanda che chi guardi l’attimo del suo tuffo non può non farsi. (Eppure, benché tolga il fiato quell’abisso, ci avverti dentro anche qualcosa che oscuramente ti affascina, a che non ti è del tutto estraneo). Dopo il salto, per quattro lunghi minuti Baumgartner è, nei monitor che dal New Mexico seguono l’impresa, solo un piccolo punto che precipita nel cielo, ruotando vorticosamente su se stesso come un sasso lanciato da un bambino. La forza dell’attrito è terribile, il respiro è colmato dalla bombola di ossigeno. Non è nuovo a imprese estreme, il tuffatore: a 16 anni ha iniziato a lanciarsi da dirupi e grattacieli. Ma mai era salito tanto in alto. Nella sala di controllo, in quei minuti c’è silenzio. Solo i monitor, muti, indicano la velocità di caduta, e l’ossigeno restante, che rapidamente decresce. Poi, dopo quattro minuti e sedici secondi, il paracadute si apre. Un urlo di sollievo a Roswell. Più lentamente ora il piccolo punto si abbassa. Se ne distingono le gambe, le braccia. Si muove, è vivo. Baumgartner tocca il suolo riarso del New Mexico. Per un istante resta in piedi; poi cade in ginocchio, per lo sfinimento, o forse anche nell’istinto di riabbracciare quella Terra che gli era sembrata perduta. E ci si può chiedere a cosa serva, una impresa come questa. Si può pensare che sia inutile, e inaccettabile, rischiare la vita così. Cos’è, Superman, quest’uomo sempre in cerca di vertigine? A guardarlo su Facebook appena dopo il ritorno a casa, Baumgartner non sembra Superman. È molto stanco, e si vede; sorride, e dice che ora vuole soltanto andare a dormire. A chi gli ha chiesto cosa ha provato, lassù, sospeso su un trampolino sull’Universo, ha risposto: «Quando sei lì in piedi in cima al mondo, diventi così umile che non pensi più a battere record. L’unica cosa che vuoi, è di tornare vivo». Non è Superman, uno così – o almeno, non lo è più. Gli hanno chiesto, ma che cosa allora la spinge? Lui ha citato Jean Piccard, esploratore di abissi oceanici, che diceva: «In tutti noi c’è una forza che ci spinge a non riposarci mai, fino a quando non possiamo andare un po’ più in là». C’è allora una inquietudine da Ulisse in un uomo che si getta da un’altezza a cui già la Terra è una sfera, blu gli oceani, uguali le foreste e i deserti, e indistinguibili le città degli uomini? C’è Ulisse, insieme anche alla ‘ubris’ della sfida (sul suo sito Baumgartner aveva scritto: «Tutti gli uomini hanno dei limiti, alcuni non li accettano»). Eppure lo stesso uomo, dopo quell’attimo in cui lo si è visto fermo, in bilico sul buio e sul nulla, si è lasciato andare queste parole: «A volte bisogna andare veramente in alto, per capire quanto siamo piccoli». L’ansia di andare oltre, di violare l’ignoto è stata ed è degli esploratori, e degli uomini di scienza. E qualcosa di forte, scritto nel fondo dell’uomo. Ma a chi lambisce l’ultimo limite può accadere di tornare e testimoniare: bisogna andare veramente in alto, per capire quanto siamo piccoli. Che è, dopo tante sfide, aver saputo, in fondo, l’essenziale.”