Gemma n° 2663

“Come gemma di quest’anno ho deciso di portare la Polonia, il Paese d’origine dei miei genitori. In questi anni mi sono sempre chiesta se sia anche il mio Paese d’origine o meno. Tutta la mia famiglia vive lì, ci passo ogni vacanza di Natale e parte delle vacanze estive e a casa parlo polacco con i miei genitori; sicuramente le mie origini sono legate alla Polonia ma non ho mai capito se quello fosse mai stato il mio posto o meno. Per questo ho sempre avuto un rapporto di amore e odio con il fatto di vivere in Italia e avere una diversa nazionalità. Questo stile di vita mi ha sempre creato molta confusione riguardo a quello che sarà il mio futuro. Non credo che riuscirò mai ad attardarmi allo stile di vita che c’è lì, e in particolare al freddo e all’alimentazione; per me è un posto dove posso andare in vacanza, visitare i miei parenti e prendermi una pausa terapeutica dalla mia vita qui in Italia. Pur sentendomi molto meglio in Italia, mi ricorderò sempre delle mie radici perché mi hanno aiutata tanto ad avere una sensibilità e una prospettiva più ampia riguardo a certe cose, a prendere in considerazione due modi di vivere molto diversi nelle mie scelte future” (K. classe quinta).

Gemma n° 1750

Fonte immagine: Vox zerocinquantuno

Era iniziata così, il 21 settembre del 2014: “Ho chiesto ai miei studenti di pensare a qualcosa (una canzone, una scena di un film, una pagina di un libro, un quadro, una foto, un oggetto…) per loro significativo e che desiderano far conoscere ai compagni come fosse una gemma preziosa.” Il 1° ottobre ho pubblicato sul blog la prima gemma. Si trattava di una scena del film Mr. Nobody proposta da una allieva di seconda. Dopo i primi due anni, per mancanza di tempo, ho smesso di riportarle sul blog: l’ultima, la numero 503 consisteva nella lettera al basket da parte di Kobe Bryant, proposto da una ragazza di terza. Abbiamo continuato le gemme in classe ma negli ultimi due anni, tra dad e quarantene, tra classi a metà e frequenze a settimane alterne, tra giorni pari e giorni dispari, l’attività è spesso proceduta a singhiozzo.

Desidero allora rilanciare la proposta, cercando di dare alle gemme l’importanza e lo spazio che si meritano. Le faremo anche nelle classi prime e tenterò di riprenderle sul blog: non mi va di ripartire con la gemma 504, come se in mezzo non ci fosse nulla… C’è una ricchezza enorme lì dentro: è capitato sovente di commuovermi, lì dentro. Allora ho fatto una stima di circa 250 gemme all’anno e quindi ripartiremo dalla gemma 1751. Ma come ho fatto il 21 settembre di 7 anni fa, propongo io una prima gemma, la 1750, con la quale voglio semplicemente dire cosa siano per me le gemme. Lo faccio attraverso un pezzettino del prologo del libro Ogni storia è una storia d’amore di Alessandro D’Avenia:
“Col suo amato, a fine giornata, quando la luce allenta la sua morsa sul mondo e sulla carne, faceva sempre un gioco: raccontarsi a vicenda la cosa più bella di quel quotidiano trascorrere, perché era l’unico modo di salvarla per sempre, non di sconfiggere il tempo ma di scommettergli contro. La luce rifratta dalle foglie bagnate d’autunno, l’incanto di un racconto d’amore e di morte, il bagliore di un fuoco in una casa strappata a una notte di ghiaccio, il rumore costante di un torrente che canta proprio quando incontra un ostacolo… Quella cosa bella non salvava solo se stessa, ma tutta la giornata, come ne fosse il centro, il punto di leva e di espansione, la benedizione. Era l’istante affrancato dal tempo, pur essendo nel tempo generato.
Da quella donna ho compreso che salvo è tutto ciò che si sottrae alla seduzione della polvere: ciò che senza rinunciare al tempo viene dal tempo liberato e se ne fa misura, e dello spazio che gli è concesso fa la sua dimora.”.

Buona ricerca della vostra gemma, non vedo l’ora di darle tempo e spazio.

Gemme n° 444

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Questa è la foto col mio corrispondente francese: è stata un’esperienza bella per tutti, ci siamo affezionati a loro. Gli voglio bene e mi ha colpito anche il fatto che io sono italiana e cristiane, mentre lui francese ed ebreo: c’è bel rapporto di amicizia che va oltre le religioni e le cittadinanze”. Così si è espressa I. (classe terza).
Mi piace riportare una frase di Tiziano Terzani alla quale sono molto legato e anche molto grato per alcune suggestioni suscitatemi: “Solo se riusciremo a vedere l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo.”

Globalizzazione e povertà

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Globalizzazione? Crescita? Decrescita? Ricchezza? Povertà? Martedì mattina stavo entrando nel cortile della scuola, quando, durante il mio zapping radiofonico, mi sono imbattuto in un accenno a un fondo di Pierluigi Battista sul Corriere a proposito dei meriti della globalizzazione. Sono andato ad acquistare il quotidiano con l’idea di leggere il pezzo e magari condividerne una parte con le quinte in cui sto trattano l’argomento. Subito sotto pubblicherò una “replica” di Igor Giussani. Infine tornerò al Corriere con alcuni dati riportati da Sara Gandolfi. Ecco le parole di Battista (qui la fonte):

Noi che stiamo nella parte privilegiata del pianeta possiamo borbottare, testi di Piketty alla mano, contro gli effetti della vituperata globalizzazione. Ma 200 milioni di esseri umani potrebbero non essere d’accordo. Secondo le stime della Banca mondiale, infatti, in tre anni il numero complessivo dei poveri nel mondo è passato da 902 a 702 milioni. Un numero ancora mostruoso. Ma non poteva esserci smentita più squillante per chi, seguace di qualche «Occupy» nel mondo, sostiene che la globalizzazione sia la causa delle peggiori nefandezze sociali ed economiche.
Nel 2015 c’è anche una percentuale simbolica che è stata raggiunta: la povertà globale si attesta sotto il 10 per cento della popolazione.
Ci sono 200 milioni di affamati in meno, nel mondo. Ci sono 200 milioni di disperati che sono usciti dall’inferno della miseria assoluta, dell’indigenza più umiliante, dei bambini che muoiono per inedia, a cominciare dall’Africa sub-sahariana. E non per gli aiuti internazionali che spesso vanno ad ingrassare le corrotte oligarchie locali. Ma perché l’economia, il dinamismo economico, quel poco di libero mercato e di libero commercio che riesce ad imporsi pur in condizioni ambientali tanto ostili, sono il peggior nemico della miseria frutto dell’immobilità, della staticità assoluta, della mancanza di libertà. La «narrazione», come usa dire, sulla globalizzazione è suggestiva ma spesso è troppo condizionata dai pregiudizi ideologici anticapitalisti e della retorica che vede nel «liberismo selvaggio» la fonte di ogni male.
poverty2È una narrazione che unisce economisti che conoscono lo statalismo e il dirigismo come unico dogma, cattolici pauperisti, e ultimamente galvanizzati dalle parole papali, che ritengono il libero mercato un’invenzione diabolica, interi ceti sociali che nella libera concorrenza della globalizzazione sentono minacciata la loro posizione. Ma a conti fatti, se davvero abbiamo a cuore la sorte degli esseri umani, dovremmo ammettere che la globalizzazione è la via d’uscita dalla povertà per tanti, troppi dannati della terra. 702 milioni di esseri umani ancora intrappolati nella prigione della miseria assoluta sono ancora uno scandalo morale inaccettabile.
Ma 200 milioni di esseri umani salvati dalla povertà dovrebbe essere una notizia da accogliere con meno cinismo e con un’intelligenza che prevede la non subalternità agli schemi correnti del conformismo culturale. La povertà delle idee, anche questa sarebbe auspicabile che diminuisse.”

Ecco la replica di Giussani su Decrescita felice:
Sono particolarmente grato a Pierluigi Battista perché, con l’articolo sul Corriere dal titolo ‘Una vittoria dell’«odiata» globalizzazione sulla miseria’, mi ha fatto per un attimo tornare indietro di almeno una quindicina d’anni, quando ero un giovane militante altermondista e politici, economisti e giornalisti ripetevano ossessivamente i mantra delle meravigliose sorti progressive della ‘globalizzazione’, parola oramai quasi bandita dai media. Apprezzo inoltre che Battista, a differenza di altri più noti pifferai del neoliberismo – i vari Thomas Friedman e Jeffrey Sachs, che per inseguire la moda si sono tinteggiati di verde approdando ai lidi dello sviluppo sostenibile – non abbia improvvisamente abiurato il suo credo economico. Cosa ancora più importante, tutti quanti dovremmo essergli riconoscenti perché, in poco più di una trentina di righe, fornisce un’ottima lezione di mistificazione della realtà.
Noi che stiamo nella parte privilegiata del pianeta possiamo borbottare, testi di Piketty alla mano, contro gli effetti della vituperata globalizzazione. Ma 200 milioni di esseri umani potrebbero non essere d’accordo. Secondo le stime della Banca mondiale, infatti, in tre anni il numero complessivo dei poveri nel mondo è passato da 902 a 702 milioni. Un numero ancora mostruoso. Ma non poteva esserci smentita più squillante per chi, seguace di qualche «Occupy» nel mondo, sostiene che la globalizzazione sia la causa delle peggiori nefandezze sociali ed economiche”. Non fosse per i riferimenti a Occupy, si direbbero parole scritte dopo il meeting del WTO di Seattle 1999 o il G8 di Genova 2001. Forse la prevenzione mi acceca, ma non mi pare di aver visto questi 200 milioni di esseri umani (più di tutta la popolazione della federazione russa, per avere un’idea) manifestare in favore della globalizzazione; mi risulta che i fenomeni violenti di reazione alla globalizzazione si siano fatti sempre più virulenti, vedi il fondamentalismo islamista e i rigurgiti nazionalisti; ma chissà, forse i ‘pro-global’ sono più timidi e riservati dei contestatori.
Battista, ansioso di comunicare al mondo i benefici della globalizzazione, è abbastanza impreciso sulla fonte dei dati che sta fornendo, cioé il Global Monitoring Report (GMR) 2015/16, realizzato da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, liberamente scaricabile on line (lo ammetto: malgrado l’avversione profonda per BM e FMI, ne ho sempre apprezzato l’estrema trasparenza. Affamatori di popoli sì, ma con grande classe: questo documento è addirittura distribuito su licenza Creative Commons! Governi di tutto il mondo, imparate!).
Il giornalista del Corriere parla genericamente di ‘poveri’ e ‘povertà’ senza mai specificare esattamente che cosa si intenda con questi termini, mentre il GMR è molto chiaro in proposito: ‘povero’ è chi percepisce un reddito inferiore a due dollari al giorno, meno di 700 dollari all’anno. Chiaramente, una soglia simile non è proponibile in tantissime nazioni, occidentali e no, dove il costo della vita è tale per cui due dollari (o anche tre o più) al giorno sono un biglietto di sola andata per la miseria più nera; la Banca d’Italia, ad esempio, fissa la soglia di povertà intorno ai 10 Euro al giorno. Tutti coloro che nel mondo hanno visto il proprio reddito fortemente danneggiato dalla crisi economica ma riescono ancora a guadagnare almeno 60 dollari al mese, stando ai canoni del GMR non sono poveri. Secondo i criteri dell’ISTAT, che sono ovviamente più consoni al nostro paese di quelli della BM, in Italia i poveri tra il 2011 e il 2014 sono aumentati di più di un milione; l’Eurostat stima che le persone vittime di grave deprivazione materiale nella UE siano passate da più di 41 milioni del 2010 a oltre 48 milioni nel 2014. Nell’euforia di comunicare la buona novella economica, a Battista tutto ciò è completamente sfuggito.
Il pensiero della decrescita ha sempre criticato le concezioni economiciste della povertà, preoccupate solo di quantificare il reddito monetario, perché, se riesci ad autoprodurti gran parte dei beni fondamentali o ti trovi inserito in una rete familiare o comunitaria tale per cui riesci a procurarteli in modo informale, anche con meno di due dollari al giorno si può affrontare vittoriosamente la sfida della povertà. Tenendo a mente ciò, osserviamo il prossimo grafico, tratto dal GMR e relativo all’andamento della povertà nel tempo per aree geografiche:

povertà

E’ evidente come il calo più considerevole della povertà sia avvenuto nell’Asia orientale: in termini assoluti, si tratta di circa 65 milioni di persone, quasi un terzo dei 200 milioni complessivi, dove la Cina ovviamente fa la parte del leone. Tutto ciò mette non poco in crisi le concezioni di Battista.
In primo luogo, la Cina e l’Asia orientale sono state protagoniste di massicci esodi dalle campagne, testimoniati dalla creazione di numerose megalopoli da più di 5 milioni di abitanti: in città il reperimento dei beni fondamentali può avvenire solo tramite scambi monetari, (almeno legalmente: non è un caso che tali realtà iper-sovraffolate subiscano altissimi tassi di criminalità) per cui due dollari o poco più al giorno possono non bastare per un’esistenza dignitosa. Concetto troppo astratto e nebuloso? Cerchiamo allora di dargli una consistenza numerica.
Secondo L’indice globale della fame 2014, 805 milioni di persone assumono una quantità di cibo insufficiente, mentre altre due miliardi soffrono di ‘fame nascosta’, seguono cioè una dieta carente di vitamine e minerali fondamentali. Insomma, 103 milioni di persone si trovano nella strana situazione per cui non sono più povere ma rischiano costantemente l’inedia, mentre un paio di miliardi ha superato la soglia di povertà ma evidentemente non se n’è accorta.
In secondo luogo, il giornalista nel suo articolo presenta la riduzione della povertà come il trionfo di “dinamismo economico, quel poco di libero mercato e di libero commercio che riesce ad imporsi pur in condizioni ambientali tanto ostili”, a dispetto della narrazioni di “economisti che conoscono lo statalismo e il dirigismo come unico dogma”. Sarebbe riduttivo affermare che in Cina statalismo e dirigismo sono “l’unico dogma”, di sicuro però le politiche economiche si sono sempre contraddistinte per il totale disinteresse del verbo neoliberista predicato da BM e FMI e sempre sostenuto a spada tratta da Battista e il suo giornale. Non è un caso che l’India, altra grande nazione emergente la quale però ha seguito una strategia economica un po’ più ‘ortodossa’, patisca un tasso di povertà del 21,2% contro il 6,5% cinese (anche il GMR, malgrado la cruda esposizione dei dati, preferisce glissare e non approfondire).
Il peggio però deve ancora arrivare. E’ sempre antipatico mettere in dubbio la correttezza intellettuale e/o la capacità di comprensione di chicchessia, anche quando si tratta di critici della della crescita e apologeti del neoliberismo, i quali molto spesso ti costringono a pensar male e dubitare di loro. Scrive infatti Battista: “Ci sono 200 milioni di disperati che sono usciti dall’inferno della miseria assoluta, dell’indigenza più umiliante, dei bambini che muoiono per inedia, a cominciare dall’Africa sub-sahariana”.
Rivedendo il grafico appena esposto, è evidente che la curva della povertà rappresentante l’Africa sub-sahariana è proprio l’unica che non accenna a diminuire, fatto a cui il GMR dà per altro molto risalto, dimenticandosi però che quelle nazioni africane – a differenza dell’Asia orientale – hanno pressoché seguito fedelmente i dettami di BM e FMI, in particolare l’adozione dei famigerati piani di aggiustamento strutturale.
Siccome non vogliamo credere che un giornalista serio e preparato come Battista si sia limitato a leggere poche righe di una notizia d’agenzia per dedurne il brillante sillogismo ‘diminuzione delle persone che vivono con meno di due dollari al giorno > riduzione della povertà > trionfo della globalizzazione sui suoi critici’, è evidente che, causa i numerosi impegni, non ha potuto leggere il GMR con la dovuta attenzione e soprattutto con il giusto atteggiamento critico, dal momento che proviene da un’istituzione non certo neutrale sul piano ideologico (per quanto molto più obiettiva di tanti giornalisti, va detto). Per il resto, lo ringraziamo per la preziosa lezione di mistificazione, involontaria o meno che fosse.”

Infine Sara Gandolfi, sempre dal Corriere:

WASHINGTON – Il pianeta è ogni giorno un po’ più ricco e, forse, l’ambizione di sconfiggere la miseria non è un’utopia irrealizzabile. Il numero di persone che vive in povertà estrema scenderà infatti entro fine anno sotto il 10 per cento della popolazione globale. Lo assicura la Banca mondiale che ieri ha presentato le sue ultime proiezioni e ha aggiornato la soglia per definire il problema: è in estrema povertà chi ha meno di 1,90 dollari al giorno (non più 1,25), tenuto conto del reale potere d’acquisto dei singoli Paesi.
Erano 902 milioni — il 12,8% della popolazione — nel 2012 e secondo le ultime stime scenderanno a 702 milioni, ossia il 9,6%, nel 2015. «Siamo la prima generazione nella storia dell’umanità che può porre fine alla povertà estrema», ha commentato il presidente della Banca mondiale, Jim Yong Kim, sottolineando che questo sorprendente risultato è dovuto soprattutto ai sostenuti tassi di crescita economica nei Paesi emergenti, come India e Cina, oltre che agli investimenti nell’educazione e nella sanità.
Solo pochi giorni fa, l’Onu ha varato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. La fine della povertà estrema, entro 15 anni, è il primo dei 17 obiettivi e in qualche modo abbraccia gli altri, dalla giustizia sociale alla sfida «Zero fame». Per la prima volta sono chiamati ad agire tutti i 193 Paesi membri, sia quelli ricchi sia quelli poveri e a medio reddito. E, come ottavo obiettivo, figura pure la crescita economica «inclusiva, sostenuta e sostenibile» nonché «un lavoro dignitoso per tutti».
Non sarà una sfida facile, ammette Jim Yong Kim, «in un periodo di crescita globale rallentata, mercati finanziari instabili, guerre, alti tassi di disoccupazione giovanile e cambiamenti climatici». Soprattutto, in alcune aree del mondo. Nel 1990, oltre la metà dei poveri viveva in Asia orientale e circa il 15% nell’Africa subsahariana. Oggi la situazione è ribaltata. Milioni di asiatici godono di un migliore tenore di vita, grazie al dirompente sviluppo della Cina e dei suoi vicini, mentre l’Africa è ancora prigioniera di guerre, corruzione e sottosviluppo. E nessun dato recente è disponibile per Medio Oriente e Nord Africa dove i conflitti e il boom demografico creano ostacoli insormontabili nella lotta alla povertà, come sostiene il Global Monitoring Report che la Banca mondiale lancerà dopodomani.
Non sono gli unici motivi di cautela. «C’è turbolenza davanti a noi. Le previsioni economiche per il prossimo futuro sono meno brillanti del previsto», avverte l’indiano Kaushik Basu. La lotta a povertà, fame, malattie passa da una crescita economica pari almeno al 7% del Pil nei Paesi meno sviluppati, sostiene l’Onu. Un obiettivo troppo ambizioso di questi tempi?”

La malattia di Lucien

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Mentre leggo appunto a inizio libro il numero delle pagine in cui ho trovato un passo per me rilevante. Poi, con calma, a distanza di tempo, ricopio quelle citazioni su dei quadernetti. Oggi mi sono imbattuto in un passo de “L’eleganza del riccio” che parla di malattia e morte. Sono esperienze sempre fortemente soggettive e il modo in cui le viviamo è condizionato da tantissimi aspetti, dal periodo in cui le si vive, alla frequenza con cui le attraversiamo e così via. Mi sono ritrovato molto soprattutto con le sensazioni descritte nella prima parte.
Nel Natale del 1989 Lucien era molto malato. Non sapevamo ancora quando sarebbe arrivata la morte, ma eravamo legati dalla certezza della sua imminenza, legati dentro noi stessi e legati l’un l’altro da questo vincolo invisibile. Quando la malattia entra in una casa non si impossessa soltanto di un corpo, ma tesse tra i cuori un’ oscura rete che seppellisce la speranza. Come una ragnatela che avvolgeva i nostri progetti e il nostro respiro, giorno dopo giorno la malattia inghiottiva la nostra vita. Quando rincasavo, avevo la sensazione di entrare in un sepolcro e avevo sempre freddo, un freddo che niente riusciva a mitigare, al punto che negli ultimi tempi, quando dormivo al fianco di Lucien, mi sembrava che il suo corpo assorbisse tutto il calore che il mio era riuscito a trafugare altrove.
La malattia, diagnosticata nella primavera del 1988, lo consumò per diciassette mesi e se lo portò via la vigilia di Natale. L’anziana madame Meurisse organizzò una colletta tra gli abitanti del palazzo e in guardiola fu deposta una bella corona di fiori, cinta da un nastro senza nessuna dedica. Alle esequie venne solo lei. (…)
Nessuno considerò la malattia di Lucien una cosa degna di interesse. Magari i ricchi pensano che la gente modesta, forse perché ha una vita rarefatta, priva dell’ossigeno del denaro e del savoir-faire, vive le emozioni umane con scarsa intensità e maggiore indifferenza. Essendo portinai, era acquisito che per noi la morte fosse un evento scontato, nell’ordine delle cose, mentre per i possidenti essa avrebbe rivestito gli abiti dell’ingiustizia e del dramma. Un portinaio che si spegne è un piccolo vuoto nello scorrere della vita quotidiana, una certezza biologica a cui non è associata nessuna tragedia. Per i proprietari che lo incrociavano ogni giorno per le scale o sulla soglia della guardiola, Lucien era una non-esistenza che tornava al nulla da cui non era mai uscito, un animale che, vivendo una vita a metà senza fasti né artifici, al momento della morte doveva senz’altro provare solo un senso di ribellione a metà. Da queste parti, a nessuno poteva mai venire in mente che, come ogni altro, anche noi potessimo passare le pene dell’inferno, e che con il cuore stretto dalla rabbia man mano che il dolore ci devastava l’esistenza, fossimo sopraffatti dalla cancrena interiore, nel tumulto della paura e dell’orrore che la morte infonde in ognuno.”
(Mauriel Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni e/o, Roma 2009, pagg. 65-66)

Non tutti in crisi…

oxfamPubblico un estratto del Rapporto “Grandi disuguaglianze crescono” elaborato da Oxfam, una rete di 17 organizzazioni di paesi diversi volta a ottenere un maggior impatto nella lotta globale contro la povertà e l’ingiustizia.
Secondo il Rapporto Grandi disuguaglianze crescono di Oxfam, la ricchezza detenuta dall’1% della popolazione mondiale supererà nel 2016 quella del restante 99%. Il fatto che questa disuguaglianza sia in continua e costante crescita rende necessarie misure dirette a invertire la tendenza. Alla vigilia del World Economic Forum di Davos, il Rapporto denuncia il fatto che l’esplosione della disuguaglianza frena la lotta alla povertà in un mondo dove oltre un miliardo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, e 1 su 9 non ha nemmeno abbastanza da mangiare. Winnie Byanyima, direttrice esecutiva di Oxfam International, userà quest’anno tutta l’influenza che deriva dal suo ruolo di co-chair al Forum per chiedere un’azione urgente volta ad arginare la marea crescente della disuguaglianza, partendo da una proposta di contrasto reale all’elusione fiscale delle multinazionali e da una spinta verso l’adozione di un trattato globale di lotta ai cambiamenti climatici.
Grandi disuguaglianze crescono è il documento di analisi pubblicato oggi da Oxfam, da cui emerge che l’1% della popolazione ha visto la propria quota di ricchezza mondiale crescere dal 44% del 2009 al 48% del 2014 e che a questo ritmo si supererà il 50% nel 2016. Gli esponenti di questa elite avevano una media di 2,7 milioni di dollari pro capite nel 2014. Del rimanente 52% della ricchezza globale, quasi tutto era posseduto da un altro quinto della popolazione mondiale più agiata, mentre il residuale 5,5% rimaneva disponibile per l’80% del resto del mondo: vale a dire 3,851 dollari a testa, 700 volte meno della media detenuta dal ricchissimo 1%.
Vogliamo davvero vivere in un mondo dove l’1% possiede più di tutti noi messi insieme? – ha detto Winnie Byanyima – La portata della disuguaglianza è semplicemente sconcertante e nonostante le molte questioni che affollano l’agenda globale, il divario tra i ricchissimi e il resto della popolazione mondiale rimane un totem, con ritmi di crescita preoccupanti.”
Negli ultimi 12 mesi, i leader mondiali – dal Presidente Obama a Christine Lagarde – hanno più volte ribadito quanto necessario e importante sia affrontare il tema della grande disuguaglianza. Ma ancora poco è stato fatto in termini concreti ed è arrivato il momento per i nostri leader di prendersi carico degli interessi della stragrande maggioranza per intraprendere un cammino verso un mondo più giusto per tutti.”
Se il quadro rimane quello attuale anche le elite ne pagheranno le conseguenze – afferma Roberto Barbieri, Direttore Generale di Oxfam Italia – perché non affrontare il problema della disuguaglianza riporterà la lotta alla povertà indietro di decenni. I più poveri sono poi colpiti 2 volte: perché hanno accesso a una fetta più piccola della torta e perché in assoluto ci sarà sempre meno torta da spartirsi, visto che la disuguaglianza estrema impedisce la crescita.”
Lo scorso anno, Oxfam ha dominato la scena a Davos, rivelando che gli 85 paperon de’ paperoni del mondo detenevano la ricchezza del 50% della popolazione più povera (3,5 miliardi di persone). Quest’anno il numero è sceso a 80, una diminuzione impressionante dai 388 del 2010. La ricchezza di questi 80 è raddoppiata in termini di liquidità tra il 2009-2014. Oxfam chiede ai governi di adottare un piano di sette punti per affrontare la disuguaglianza:
1. contrasto all’elusione fiscale di multinazionali e individui miliardari;
2. investimento in servizi pubblici gratuiti, come salute e istruzione;
3. distribuzione equa del peso fiscale, spostando la tassazione da lavoro e consumi verso capitali e ricchezza;
4. introduzione di salari minimi e graduale adozione di salari dignitosi per tutti i lavoratori;
5. introduzione di una legislazione ispirata alla parità di retribuzione, e politiche economiche che prevedano una giusta quota per le donne;
6. reti di protezione sociale per i più poveri, incluso un reddito minimo garantito;
7. un obiettivo globale di lotta alla disuguaglianza.
Il documento di analisi di oggi, che arriva dopo il rapporto di ottobre Partire a pari merito: eliminare la disuguaglianza estrema per eliminare la povertà estrema, fa luce sul fatto che le grandi ricchezze siano passate alle generazioni successive e che le elite mobilitino ingenti risorse per piegare regole e leggi a loro favore. Più di un terzo dei 1.645 miliardari della classifica Forbes ha ereditato parte o tutta la ricchezza che detiene. Il 20% dei miliardari ha interessi nei settori finanziario e assicurativo, un gruppo che ha visto la propria liquidità crescere dell’11% nei 12 mesi precedenti a marzo 2014. Questi settori hanno speso 550 milioni di dollari per fare lobby sui decisori politici a Washington e Bruxelles nel 2013. Nel 2012 negli Stati Uniti solo durante il ciclo elettorale, il settore finanziario ha speso 571 milioni di dollari in contributi per le campagne.
I miliardari che hanno interessi nei settori farmaceutico e sanitario hanno visto il loro patrimonio netto collettivo crescere del 47% in un solo anno. Questi settori, durante il 2013, hanno speso oltre 500 milioni di dollari in lobby a Washington e Bruxelles.
La preoccupazione di Oxfam è che il potere di lobby di questi settori possa essere un ostacolo alla riforma del sistema fiscale globale e all’adozione di regole sulla proprietà intellettuale che non precludano l’accesso dei più poveri a medicine salva-vita. Come più volte ribadito da più parti, Fondo Monetario Internazionale in primis, la disuguaglianza estrema non è soltanto una pessima notizia per gli ultimi del mondo ma anche un danno enorme per la crescita economica.”
Per chi desidera un approfondimento maggiore:
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Sui beni

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Su IlSole24ore di domenica 18 maggio, è apparso questo articolo di Remo Bodei. Forse quest’anno è tardi per una lettura in classe, lo terrò buono per il prossimo… Grazie alla collega Carla che me l’ha inviato.
In che misura è realisticamente possibile condividere dei beni che – da un punto di vista etico – dovrebbero appartenere a tutti? Di fatto una sorta di lotteria naturale ha distribuito i doni della terra (fertilità, acqua potabile, ricchezze minerarie) in maniera casuale rispetto agli abitanti di determinate zone. Ci sono quelli più fortunati che li posseggono e se ne sono appropriati e quelli meno fortunati che ne sono provvisti in scarsa misura o ne sono addirittura privi: gli abitanti di zone inospitali o desertiche, coloro che non hanno risorse nel loro sottosuolo o ne sono stati espropriati. Popoli e individui hanno da sempre combattuto per la loro sopravvivenza e per il relativo controllo delle risorse e le frontiere sono state per lo più disegnate dalle guerre.
Anche oggi, in una fase storica in cui il consumo di energia derivante dal petrolio o dall’uranio è enorme, l’economia e la politica sono dominate dal bisogno di assicurarsi, spesso con la forza o con l’astuzia, non solo questi beni, ma anche altri, sempre più indispensabili all’alta tecnologia. Un esempio è il coltan, un minerale metallico termo-resistente, (una combinazione tra colombite e tantalite), che si presenta come una sabbia nera da cui si estrae il tantalio, utilizzato per microconduttori, superleghe, computer o cellulari. Tale elemento radioattivo, l’ottanta per cento del quale si trova in Congo, dove viene raccolto a mani nude da uno stuolo di improvvisati scavatori, ha scatenato sanguinose guerre civili e internazionali, che coinvolgono l’Uganda e, nascostamente, le grandi potenze non africane.
Ponendo la domanda più radicale ma inaggirabile: Con quale diritto un individuo o un popolo abita la terra e sfrutta i suoi doni in maniera esclusiva? L’essere stati più favoriti dalla natura autorizza la disponibilità indiscussa di alcune risorse indispensabili oppure i loro benefici possono anche essere, almeno in parte, pacificamente ridistribuiti? Ma chi decide e in base a quali criteri? Non si tratta di una questione astrusa o ingenua, da spostare in un remoto futuro. Prendiamo il caso dell’acqua: come si risolverà la disputa in atto tra l’Etiopia e l’Egitto? Se gli etiopi finiranno di costruire la loro diga per imbrigliare il corso del Nilo Azzurro (sulla base di un progetto del valore di cinque miliardi di dollari e una energia erogata equivalente a quella di cinque centrali nucleari), la riduzione del limo derivante dalle esondazioni del fiume, in grado da millenni di assicurare all’Egitto una fiorente agricoltura in zone altrimenti desertiche, metterà in pericolo l’esistenza di novanta milioni di Egiziani.
La pace è minacciata proprio dalle prevedibili lotte che si scateneranno e già sono in corso per il controllo di risorse materiali che non possono essere condivise su questa Terra, dove, come dice Dante, «è mestier di consorte divieto» (Purgatorio, XIV, v. 87). Grazie a negoziazioni e ad arbitrati internazionali si potranno trovare , in questo o in altri casi, degli accordi soddisfacenti?
Entro certi limiti – ancora ristretti – si possono già mettere dei confini, giuridici e politici, all’appropriazione privata o nazionale di certi beni condivisibili, quelli il cui consumo da parte di qualcuno non escluda necessariamente gli altri o quelli che dovrebbero essere gratuiti per tutti (come i pesci in acque internazionali). Non di tutto ci si può appropriare in esclusiva, non tutto deve essere sottoposto a pure leggi di mercato. Le Nazioni Unite e alcuni parlamenti nazionali hanno attribuito la qualifica di common goods all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari (risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010), al fondo marino e all’Antartide e la stanno estendendo alla Luna e al genoma umano. Per questi l’applicazione concreta di tale qualifica si tratta, per ora, di una prospettiva di lunga durata o di una utopia.
Riprendendo in esame il problema più urgente, quello dell’acqua, è facile profezia ipotizzare che l'”oro azzurro” sarà alla base di grandi contese, non solo a causa del previsto aumento della popolazione mondiale, specie nei paesi più poveri, ma anche per effetto del riscaldamento globale e della conseguente desertificazione di molte aree. Già ora, quasi un miliardo di uomini non dispone a sufficienza di acque potabili per soddisfare la sete, preparare il cibo e allevare il bestiame e neppure di acque non potabili per i servizi igienici (la mancanza d’acqua è, in generale, la seconda causa di morte su scala planetaria).
Anche ciò che appare meno urgente e che resta sullo sfondo del dibattito pubblico non deve però essere perso di vista, come la salvaguardia del genoma, perché essa mira alla tutela non solo della collettività dei viventi, ma dell’insieme della specie umana, presente e futura. Lo stesso vale per la possibile o paventata spartizione tra gli Stati dell’Antartide e della Luna (sebbene in questo caso sembri proprio di parlare di fantascienza), da trasformare in luoghi di sfruttamento esclusivo di determinate risorse – petrolio, minerali, terre rare, prodotti della pesca, compreso il krill (i piccoli crostacei che formano lo zooplancton) – o per conquistare posizioni militarmente strategiche.
L’emergenza è ormai diventata la norma e la percezione dell’insicurezza è giunta a un punto tale che studiosi seri sostengono che, da quando l’umanità è divenuta capace di auto-sopprimersi o con le armi di distruzione di massa o alterando le condizioni necessarie alla sua sopravvivenza – clima, riproducibilità delle risorse, inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo – bisogna lucidamente prepararsi ad affrontare i disastri già avvenuti grazie a una teoria definita “catastrofismo illuminato”.

Quant’è grande la mia fetta?

2Un interessante articolo di Rainews24 a firma Roberta Rizzo sulla distribuzione della ricchezza.
“La forbice tra ricchi e poveri nel mondo si allarga sempre di più. Pochi forse sanno, però, che gli 85 uomini più ricchi del pianeta detengono una ricchezza pari a quella di metà della popolazione mondiale. A dirlo è il rapporto di ricerca Working for The Few, diffuso dall’ong Oxfam alla vigilia del World Economic Forum di Davos. Lo studio intreccia la lista dei milionari stilata da Forbes nel 2013 con un rapporto Credit Swisse (la banca sivzzera), il Global Wealth Report 2013, che analizza i trend della ricchezza globale.
L’estrema disuguaglianza tra ricchi e poveri implica anche un progressivo indebolimento dei processi democratici a opera dei ceti più abbienti, che piegano la politica ai loro interessi a spese della stragrande maggioranza. In pratica, secondo Oxfam, le élite economiche mondiali agiscono sulle classi dirigenti politiche per truccare le regole del gioco economico, erodendo il funzionamento delle istituzioni democratiche e generando un mondo in cui 85 super ricchi possiedono l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione mondiale.
Una situazione che non riguarda solo i Paesi in via di sviluppo ma anche quelli dell’Occidente e che vede in primo piano il nostro Paese. Uno studio condotto della Paris School of Echonimcs evidenzia come in Italia le diseguaglianze tra la fascia ricca e quella più povera della popolazione dal 1976 al 1985 fosse in diminuzione per poi invertire la rotta e aumentare in maniera costante dal 1986 fino al 2009.
L’opinione pubblica ha sempre più consapevolezza della concentrazione di potere e privilegi nelle mani di pochissimi. Dai sondaggi che Oxfam ha condotto in India, Sud Africa, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti, la maggior parte degli intervistati è convinta che le leggi siano scritte e concepite per favorire i più ricchi.
Nel continente africano le grandi multinazionali – in particolare quelle dell’industria mineraria/estrattiva – sfruttano la propria influenza per evitare l’imposizione fiscale e le royalties, riducendo in tal modo la disponibilità di risorse che i governi potrebbero utilizzare per combattere la povertà; in India il numero di miliardari è aumentato di dieci volte negli ultimi dieci anni a seguito di politiche fiscali altamente regressive, mentre il paese è tra gli ultimi del mondo se si analizza l’accesso globale a un’alimentazione sana e nutriente.
Negli Stati Uniti, il reddito dell’1% della popolazione è aumentato ed è ai livelli più alti dalla vigilia della Grande Depressione. Recenti studi statistici hanno dimostrato che, proprio negli USA, gli interessi della classe benestante sono eccessivamente rappresentati dal governo rispetto a quelli della classe media: in altre parole, le esigenze dei più poveri non hanno impatto sui voti degli eletti. Come non ricordare la denuncia pubblica fatta dal multimiliardario Warren Buffet nel 2012 durante la discussione della riforma fiscale disse “Non è possibile che la mia segretaria in proporzione paghi più tasse di me”.
“Un sistema che si perpetua, perché gli individui più ricchi hanno accesso a migliori opportunità educative, sanitarie e lavorative, regole fiscali più vantaggiose e possono influenzare le decisioni politiche in modo che questi vantaggi siano trasmessi ai loro figli” afferma Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International.
Il rapporto di Oxfam evidenzia, ad esempio, come sin dalla fine del 1970 la tassazione per i più ricchi sia diminuita in 29 paesi sui 30 per i quali erano disponibili dati. Ovvero: in molti paesi, i ricchi non solo guadagnano di più, ma pagano anche meno tasse. Il tutto a spese delle classi povere e medie che ci conduce a dove siamo oggi: nel mondo 7 persone su 10 vivono in paesi dove la disuguaglianza è aumentata negli ultimi trent’anni, e dove l’1% delle famiglie possiede il 46% della ricchezza globale (110.000 miliardi dollari).
“Se non combattiamo la disuguaglianza, non solo non potremo sperare di vincere la lotta contro la povertà estrema, ma neanche di costruire società basate sul concetto di pari opportunità, in favore di un mondo dove vige la regola dell’asso pigliatutto'”, conclude Winnie Byanima. Negli ultimi anni il tema della disuguaglianza è entrato con forza nell’agenda globale: Obama lo ha identificato come una priorità del 2014, e proprio il World Economic Forum ha posto le disparità di reddito diffuse come il secondo maggiore pericolo nei prossimi 12-18 mesi, mettendo in guardia su come stia minando la stabilità sociale e ”minacciando la sicurezza su scala globale”.”

Di che scegliere

Su Avvenire Lorenzo Fazzini commenta un libro di Pascal Morand sul rapporto tra lusso e religioni. Sotto lo pubblico per intero, ma lo faccio precedere da un passo preso dal libro “Fuori dal tempio” di Pierluigi Di Piazza in cui vengono riportate le parole di pre Toni Beline.

Il 18 ottobre 1975, fra le tante persone presenti quando sono stato ordinato prete, c’era anche don Antonio Bellina, allora parroco di una zona della montagna; dotato di intelligenza viva, di rara capacità di espressione orale e scritta, uomo e prete libero e critico. Venni a sapere della sua presenza perché ricevetti da lui una lettera, datata 19 ottobre, poi diventata pubblica, nella quale rifletteva sull’essere prete, concludendo provocatoriamente: «Hai tre strade da scegliere. La prima è quella della verità. Presentandoti come sei, devi dare una mano al popolo a liberarsi da tutte le catene che lo tengono prigioniero. Devi farlo crescere nella libertà, camminando davanti a lui verso la terra promessa. Se scegli questa strada, ti troverai contro immancabilmente il vescovo, i preti, i politici, i padroni, i bigotti, forse anche i tuoi amici. Avrai solo il conforto di Cristo e quello della tua coscienza. Puoi scegliere la seconda, che è quella della gran parte dei preti: non mettersi contro nessuno, fare funzioni religiose, dottrina, avvicinare coloro che sono ritenuti “poveracci’, dare ragione a tutti e non coinvolgersi con nessuno. Lasciare che la povera gente vada per la sua strada, soffra e muoia. Poi ti chiameranno per il funerale. Se scegli di non essere né pepe né sale, non avrai contro nessuno, farai solo pena. La terza strada l’hanno scelta in molti. Fregarsene della gente e mettersi dalla parte dei potenti. Avrai soldi, amici, ti faranno monsignore, potrai mettere da parte anche qualche soldo. Avrai il potere di trovarti molto bene in questo mondo. Avrai solo qualche imbarazzo a rispondere a Colui che ti aveva inviato a fare tutto tranne queste porcherie. Come vedi, hai di che scegliere”.

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Ecco il pezzo di Avvenire.

“Per un Gesù che loda la donna che spreca un vaso di olio profumato per fargli onore, vanno rammentati quei Padri della Chiesa durissimi sulla ricchezza ostentata: «Il tempo dei cristiani è un tempo di ferro e non d’oro» (Tertulliano); «Il superfluo del ricco è il necessario del povero» (san Girolamo). E se per l’islam i giardini dell’Eden sono – scrive il Corano – popolati di persone «con braccialetti d’oro, vestiti di abiti di seta», è pur vero che nella umma islamica vi sono correnti, come il wahabismo, dove ogni superfluo viene contestato. In Oriente il buddismo non è così ostile al lusso dell’esistenza, come si potrebbe pensare. Mentre l’induismo prevede, tra gli obiettivi degli adepti, proprio il piacere della persona. Insomma, chi l’ha detto che il credere faccia a pugni con l’essere bon viveur, o meglio con il lusso e la ricchezza? Pascal Morand, docente di economia all’Escp Europe, si è preso la briga di confrontare i principi di 8 diverse confessioni religiose con la pratica di quella che lui stesso definisce «ciò che oltrepassa l’uso» corrente delle cose, ovvero il lusso. Con una premessa del romanziere Marcel Proust, secondo cui il primo lusso dell’uomo è nientemeno che il tempo: «Se il tempo non è sinonimo di piacere, l’assenza di tempo è sicuramente fonte di dispiacere». Ma dunque come si rapportano secondo Morand i diversi credo con l’ostentazione della ricchezza? (en passant: la sua ricerca Les religions et le luxe. L’éthique de la richesse d’Orient en Occident, Editions du Regard, pp. 244, euro 22, è stata cofinanziata dalla Fondazione Pierre Bergé di Yves Saint Laurent: per cui, un tantino di precauzione nel trattarne i risultati è auspicabile…).

In sostanza il ricercatore transalpino trova più ambiguità e compromessi tra credere e lusso che non intemerate e scomuniche. Il caso cattolicesimo è quello che pone più problemi: se, come si diceva, i Padri della Chiesa (che accomunano del resto le diverse confessioni cristiane) erano molto duri su chi si lascia andare al superfluo, è proprio sant’Agostino a sancire la linea rigorista che andrà per la maggiore nella Chiesa: «Possedere il superfluo è possedere le cose altrui», scrisse il celebre teologo di Ippona. Figurarsi mostrarle e farne oggetto di esibizione! Epperò è il pensiero medievale che apre – secondo Morand – una possibilità di compresenza tra fede e lusso: la polarità interna al monachesimo cistercense e a quello di Cluny è paradigmatica: «Da un lato chiese bianche e solo funzionali, dall’altro il gusto dei vasti edifici, quello che si può chiamare “lusso per Dio”». È poi il barocco a consacrare la legittimità di un lusso divino che «rappresenta e provoca i movimenti dell’anima donando libero corso all’immagine, all’emozione e alla sensualità». Morand indaga poi altri due “territori” cristiani: il protestantesimo, con le sue varianti calviniste e anglicana, e l’ortodossia. In terra ortodossa è da segnalare che, con l’ascesa degli imperatori macedoni a Costantinopoli, «le arti sontuose divennero più che mai indispensabili all’esercizio del potere imperiale e alla gloria di Dio». E infatti sono numerosi i racconti di pellegrini russi e latini che, passando per la “seconda Roma”, riferiscono di «reliquie e icone coperte d’oro, pietre preziose e perle accumulate nei santuari». Insomma, visto che l’ortodossia «accorda meno importanza all’enunciato della morale rispetto al suo omologo occidentale» (il cattolicesimo, ndr) ecco che «l’aspirazione alla ricchezza e il desiderio del lusso ostentato sono un marchio di fabbrica della tradizione bizantina». Se si passa alle altre due religioni del Libro, Morand vede anche nell’ebraismo e nell’islam spiragli consistenti per far convivere lusso e fede. Arrivando a citare, nell’analisi dell’ebraismo, il noto economista Jacques Attali. Per il quale «nell’ebraismo è auspicabile essere ricchi, mentre per i cristiani è raccomandato di essere poveri. Per gli ebrei la ricchezza è un modo per servire meglio Dio; per i cristiani essa non può che nuocere alla salvezza». Ma anche qui le differenze non mancano: il celebre scrittore viennese ebreo Stefan Zweig sosteneva che «la ricchezza non è che un grado intermedio, un modo di raggiungere uno scopo vero. La volontà reale dell’ebreo consiste nell’elevarsi spiritualmente e raggiungere un livello culturale superiore». Morand rintraccia nell’ebraismo anche correnti più rigoriste e anti-lusso, come la cabbala. In sintesi, però, la fede abramitica «non considera il lusso che deriva dalla ricchezza un fattore di colpa. Ma è importante preservare l’ostentazione dell’eccesso».

E in Oriente? Qui si rintracciano le conclusioni più curiose del lavoro di Morand. Si scopre che l’induismo ha un rapporto ambiguo con il lusso: da un lato il maharadjah, figura contemplata nella società induista, è decisamente associato al benessere; dall’altro nella scala sociale della dea Shiva compare anche la figura dell’asceta. «L’induismo rivendica esplicitamente il piacere sensuale, dal momento che il kama, cioè il desiderio – nella sua valenza di soddisfazione carnale e voluttà –, è uno dei quattro obiettivi dell’uomo». E non si pensi che l’assenza del desiderio, che è il fondamento del pensiero buddista, contempli l’esclusione del denaro e della sua rappresentazione sociale. «È erroneo pensare un comportamento opposto e univoco del buddismo verso il lusso: bisogna distinguere tra quel che è auspicato e incoraggiato e quanto tollerato e permesso. La vita dei “laici” non obbedisce alle stesse esigenze di quella monastica». Così, il buddismo nascente che si confrontava con l’induismo «doveva costruire santuari, reliquiari monumentali e monasteri, acquisendo così un vantaggio sul brahmanismo che quest’ultimo non recuperò mai più». E anche la vita monastica dei bonzi ha subito derive lussuose non infrequenti: «Sono plausibili le lamentazioni periodiche su alcuni monasteri buddhisti infiltrati da uomini e donne interessate solo da una vita confortevole. La tendenza dei monasteri a una vita lussuosa è particolarmente ben dimostrata dall’estensione delle loro proprietà e porta a regolari domande di purificazione». Insomma, tra i discepoli di Buddha, scrive Morand, «se è preferibile evitare il lusso e la voluttà, questi comunque non devono essere banditi».

Infine una noterella sul confucianesimo. Qui si apre indirettamente il capitolo Cina, dove il pensiero di Confucio ha plasmato una società oggi diventata una tumultuosa potenza economica. Le due cose sono collegate? Secondo Max Weber il confucianesimo era un ostacolo allo sviluppo economico. Ma ora che il Dragone è la patria di 150 milioni di nuovi ricchi, tale assioma non vale più. E infatti secondo Morand «per il confucianesimo la ricchezza ha diritto di cittadinanza, è un fatto di cui è possibile beneficiare senza problema perché è qualcosa di realmente sceso dal cielo».”