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In quinta, ad un certo punto dell’anno, trattando il tema del male, porto in classe un libro fotografico sui gulag. Racconto che, quando l’ho acquistato, una quindicina di anni fa, forse anche più, ero reduce da una lunga ricerca, tanta era stata la difficoltà a trovare una raccolta fotografica su Glavnoye Upravleniye lagerey (Direzione Principale dei Campi). Un altro aspetto su cui ci soffermiamo è la quasi totale assenza di immagini crude, violente: l’effetto “cazzotto nello stomaco” da libro sui lager non si ha. A quel punto approfondiamo le ragioni e inizia la discussione. Mi capita anche di riflettere con le classi sull’impatto che ha su di noi l’esposizione a immagini forti? In questi anni ho suggerito a chi segue sui social giornalisti, fotoreporter, inviati in paesi di guerra, di creare un doppio profilo: uno personale e uno su cui andare quando ci si vuole informare, in modo da evitare di passare in pochi istanti dalle immagini di una serata con gli amici alle foto di un massacro in Ucraina o a Gaza. Stamattina mi sono imbattuto in un interessante articolo della psicologa Rosella De Leonibus su Rocca.
“Durante la persecuzione degli ebrei da parte del nazismo, le immagini più crude dell’orrore sono arrivate agli occhi del mondo solo al momento della liberazione dei campi di concentramento. Oggi, nel contesto delle guerre attuali, come nel genocidio di Gaza, la narrazione visiva è profondamente cambiata: sono le stesse vittime a diffondere video e notizie in tempo reale, portando la realtà della sofferenza direttamente nelle case di miliardi di persone. Eppure, malgrado la mole infinita di immagini e testimonianze, persiste uno zoccolo duro di indifferenza. Apparentemente sembra inspiegabile questa reazione, però trova spiegazioni profonde nel campo della psicologia. La mente, esposta in modo continuo e intensivo a immagini traumatiche, finisce per mettersi in una sorta di “modalità protettiva”, riducendo la sensibilità emotiva attraverso un processo noto come compassion fatigue. È un meccanismo di autodifesa, che protegge il nostro equilibrio psicologico, ma anestetizza l’empatia e spegne l’urgenza morale insieme alla spinta a reagire. La compassion fatigue (Joinson, 1992; Figley, 1995), o fatica da compassione, è una condizione psicologica tipica di chi, come operatori sanitari, psicoterapeuti, assistenti sociali o altri professionisti dell’aiuto, si espone in modo continuativo e prolungato alla sofferenza altrui. Questo stato si manifesta come un esaurimento fisico, emotivo e mentale causato dalla tensione empatica legata all’assistenza a persone in grave difficoltà o in condizioni traumatiche, si riduce la capacità di provare compassione e arrivano sintomi emotivi come ansia, depressione, rabbia, senso di colpa e apatia. Ma tutto ciò non accade solo a chi direttamente opera in ambiti di tragedia: anche chi assiste ripetutamente o è esposto a immagini e racconti traumatici ne è colpito. A livello cognitivo ci sarà confusione, perdita di concentrazione e senso di vuoto, mentre a livello fisico ci sarà affaticamento, dolori, tachicardia o problemi gastrointestinali. A livello sociale vedremo tendenza a ritirarsi, intolleranza o indifferenza. Così, mentre il mondo assiste in tempo reale a scene di devastazione, diventa muto davanti a una sofferenza troppo grande per essere elaborata e si distacca emotivamente davanti a ciò che dovrebbe invece scuotere le coscienze. I bambini di Gaza, uccisi brutalmente in quantità indescrivibili, amputati, affamati, assetati, orfani di tutto, sono il confine ultimo della nostra umanità. La sfida è urgente: come realizzare modalità nuove e consapevoli per riconnetterci con l’umanità reale che soffre dietro ogni immagine, per superare l’indifferenza e trasformare le testimonianze di dolore in impegno e solidarietà reali?
IL SILENZIO DELLE NOSTRE MENTI DAVANTI ALLA VIOLENZA Ogni giorno i nostri occhi si posano su immagini che raccontano l’orrore: guerre, aggressioni, crudeltà senza fine. All’inizio lo sguardo sostiene un peso insopportabile, un nodo alla gola che ci spinge a reagire, a indignarci. Ma col tempo quella stessa esposizione ripetuta diventa un rumore di fondo, un’eco lontana che la mente impara a ignorare. È così che nasce la desensibilizzazione: un lento spegnersi delle emozioni, un’assuefazione che riduce il dolore, ma anche la nostra umanità. Il cervello sottrae emozione per sopravvivere. In condizioni di stress entra in gioco l’amigdala, la parte più antica e istintiva del nostro cervello, che regola la paura e la risposta allo stress. Quando siamo di fronte a immagini violente, l’amigdala si attiva, generando una scarica emotiva intensa. Ma se questa attivazione diventa continua, il cervello sviluppa una sorta di difesa: la risposta emotiva si attenua, come per proteggersi da un sovraccarico di dolore inutile e paralizzante (Wikipedia, 2024). L’iperstimolazione può compromettere le aree prefrontali, responsabili del controllo razionale e della regolazione dell’empatia, mentre si perde la capacità di sentire il dolore dell’altro e la compassione svanisce (Chinello, 2025). Le conseguenze umane e sociali di una mente assuefatta sono devastanti. Se da un lato questo meccanismo ci protegge, dall’altro ci allontana dal sentire autentico e dalla solidarietà. La violenza, nell’esperienza diretta o mediatica, perde la sua carica di urgenza emotiva, e il nostro sguardo diventa più freddo e distaccato. L’abitudine al dolore altrui può trasformarsi in indifferenza, abbassando quella soglia che ci fa agire per la giustizia e la cura.
ZIMBARDO: LA VIOLENZA DELLA SITUAZIONE Uno degli studi più emblematici per comprendere come la mente possa adattarsi a scenari di violenza e sopraffazione è l’esperimento della prigione di Stanford, condotto da Philip Zimbardo nel 1971. Qui emerge con chiarezza quanto il contesto sociale e i ruoli imposti possano guidare comportamenti crudeli, persino in individui ordinari e psicologicamente sani. I partecipanti, divisi in “guardie” e “prigionieri”, subirono una rapida trasformazione: le guardie, investite di potere, iniziarono a esercitare forme di violenza psicologica e fisica, mentre i prigionieri caddero in uno stato di passività e sottomissione. Entra in campo un processo di deindividuazione: l’identità personale si dissolve all’interno del gruppo, il senso di responsabilità individuale diminuisce e si abbassano le difese morali (Zimbardo, 2007). In questo contesto, la deumanizzazione delle vittime e la loro colpevolizzazione giustificano l’abuso, attenuando il senso di colpa di chi esercita il potere. Dall’altra parte, il senso di impotenza vissuto dalle vittime genera difese psicologiche come la dissociazione e l’assuefazione, la desensibilizzazione necessaria a sopportare il dolore (Campanale, 2023).
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LA MENTE SI PROTEGGE DAL DOLORE Il senso di impotenza nasce quando ci troviamo di fronte a situazioni che ci appaiono incontrollabili, dove ogni tentativo di cambiare o influenzare gli eventi sembra inutile e vano. Se abbiamo accumulato esperienze di insuccesso o di sopraffazione, avremo interiorizzato un’idea profonda di incapacità personale, l’“impotenza appresa” (Seligman, 1975). Arriva un pesante senso di rassegnazione, una sorta di rinuncia passiva che protegge la mente dall’angoscia di sentirsi totalmente esposti e vulnerabili. Sul piano comportamentale, ci sarà evitamento, inibizione dell’azione e abbassamento della motivazione. Per sopravvivere al dolore, la psiche mette in atto una serie di meccanismi di difesa che, in modo automatico e inconscio, contengono l’angoscia e preservano l’equilibrio interno: la negazione, cioè il rifiuto di riconoscere la realtà dolorosa, consente di distanziarsi temporaneamente da ciò che sembra insopportabile; la rimozione, con l’occultamento di ricordi o emozioni traumatiche nella parte inconscia della mente; la proiezione, per cui si attribuiscono ad altri sentimenti o impulsi propri difficili da accettare (Agostini, 2019). In origine sono forme di adattamento sane, ci aiutano a sopravvivere in condizioni estreme, ma diventano disfunzionali quando si radicano profondamente, perché impediscono che il trauma venga elaborato e quindi bloccano la riconnessione emotiva con sé e con gli altri. Il dolore nascosto deve trovare espressione per poter farci riscoprire la nostra umanità ferita, e trasformarsi in strumento di resilienza e crescita. È essenziale una consapevolezza collettiva rispetto a questi meccanismi, per non ridurre la violenza a un fatto ordinario e lontano.
PER NON VOLTARCI DALL’ALTRA PARTE È urgente promuovere a livello sociale e di comunità una maggiore sensibilità verso le tragedie del mondo e superare la desensibilizzazione, è necessario mettere in campo strategie integrate che coinvolgano educazione, cultura, media. Educazione fin dalla prima infanzia: introdurre programmi scolastici che insegnino empatia, rispetto, consapevolezza del dolore altrui e cultura della non violenza, in modo da preparare le nuove generazioni a gestire con responsabilità il confronto con la violenza e l’ingiustizia. Coinvolgimento responsabile dei media e sensibilizzazione pubblica: i media devono adottare un approccio etico nella rappresentazione delle violenze, evitando spettacolarizzazioni e sensazionalismi, e integrare i contenuti con dati scientifici e analisi sociologiche, perché la narrazione sia anche strumento di conoscenza e prevenzione. I media stessi possono modellare comportamenti positivi con campagne di storytelling, mostrare esempi di solidarietà, interventi efficaci e trasformazioni positive per stimolare empatia e azioni concrete, fare focus sulle persone e non solo sui fatti, raccontare storie umane, coinvolgenti e autentiche di vittime, sopravvissuti e attivisti, mettendo in luce le emozioni, i vissuti e i cambiamenti personali, anziché limitarsi a dettagli cruenti o fredde statistiche. Insieme al racconto della tragedia, è necessaria una chiamata all’azione chiara e concreta: ogni storia o testo o video dovrebbe invitare a iniziative che coinvolgano il pubblico nel creare contenuti positivi e condividere messaggi di solidarietà, supportare la costruzione di una comunità attiva e consapevole, e invitare a compiere un gesto concreto – firmare una petizione, partecipare a un evento, sostenere un’associazione – trasformando l’empatia in impegno attivo. Non più volti spenti e braccia conserte, ma cuori sensibili e menti lucide, esseri umani pronti a impegnarsi per fermare l’orrore.”
Torno sul tema delle polarizzazioni o della logica binaria a cui ci stiamo purtroppo abituando, con un articolo comparso su Avvenire due giorni fa. La firma è quella di Chiara Giaccardi, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Sociologia e Antropologia dei media e dirige la rivista «Comunicazioni Sociali». Lo ripubblico perché ho trovato molte affinità col mio modo di vedere e anche di insegnare (quella citazione di Blake parla a tante/i ex allieve/i…).
“Il tema scelto da papa Leone XIV per la 60esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali – “Custodire voci e volti umani” – tocca il cuore di una questione che definisce il nostro tempo: come mantenere l’umanità al centro quando la tecnologia pervade ogni aspetto della nostra esistenza, e il confine tra macchine ed esseri umani sembra assottigliarsi sempre più. Per Platone, e altri dopo di lui, la tecnica è un “farmaco”: da una parte ci cura e potenzia le nostre capacità, ma dall’altra ci intossica. E queste due dimensioni, con buona pace di apocalittici e integrati, sono inevitabili e inseparabili. Quello che possiamo tentare è una “farmacologia positiva”, che limiti gli effetti tossici e valorizzi quelli curativi. L’intelligenza artificiale offre certo possibilità straordinarie – dalla diagnosi medica precoce alla risoluzione di problemi complessi, dall’efficienza comunicativa all’accessibilità dell’informazione. Tuttavia, il Papa ci avverte che la stessa tecnologia può generare «contenuti accattivanti ma fuorvianti, manipolatori e dannosi», replicare pregiudizi e amplificare disinformazione. Il linguaggio digitale traduce tutto nella logica binaria dello 0/1. Questa semplificazione sta contagiando sempre più il nostro pensiero e i nostri rapporti umani: on/off, bianco/nero, pro/contro, amico/nemico. Stiamo perdendo la capacità di abitare le sfumature, di tollerare l’ambiguità, di convivere con la complessità. Il digitale favorisce la polarizzazione anche perché gli algoritmi amplificano i contenuti che generano ingaggio, e nulla genera più ingaggio della rabbia e dell’indignazione. Si crea così un circolo vizioso dove la moderazione viene punita e l’estremismo premiato. Questo meccanismo può portare a forme di identità e di politica basate sulla identificazione del nemico da annientare: una vera e propria “odiocrazia”. Come proteggersi da tutto ciò? Innanzitutto, rinunciando alla comodità di delegare il pensiero alla macchina: come infatti l’industrializzazione ha privato le persone del loro “saper fare”, così oggi il digitale rischia di compromettere il nostro “saper pensare”. Lo scriveva già Bernanos a metà del secolo scorso: «Il pericolo non si trova nella moltiplicazione delle macchine, ma nel numero sempre crescente di uomini abituati, fin dall’infanzia, a non desiderare altro che ciò che le macchine possono dare». Dal digitale, comunque, non si può più uscire: è diventato l’aria che respiriamo, l’ecosistema in cui viviamo. Non possiamo tornare a un’era pre-digitale, né sarebbe auspicabile farlo. La questione diventa: dove appoggiamo la nostra critica? Su cosa fondiamo la nostra resistenza alla colonizzazione totale del digitale?
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Il Papa suggerisce una strada: mantenere «l’umanità come agente guida». La critica deve radicarsi in ciò che il digitale non può catturare, che non è “datificabile” né automatizzabile: l’esperienza vissuta, l’interiorità, la capacità di contemplazione, il silenzio fecondo, l’intuizione che precede la razionalizzazione. Non tutto può essere tradotto in algoritmi. L’amore, la sofferenza autentica, la creatività genuina, l’esperienza del sacro, la bellezza che commuove, la giustizia che indigna mantengono una dimensione di mistero e imprevedibilità che sfugge al codice binario e alla manipolazione algoritmica. La persona umana porta in sé una dimensione di infinito che nessun sistema finito può contenere completamente. E la bussola per non smarrire la strada non sono principi astratti, ma il volto concreto dell’altro. Potremmo rileggere la celebre formulazione kantiana “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” come “il cielo stellato sopra di me e il volto dell’altro davanti a me”. Entrambi rappresentano l’irriducibile singolarità: ogni stella unica nel firmamento, ogni volto unico nell’umanità. L’infinito e il finito che si abbracciano e formano una unità indissolubile e irriducibile. Il volto dell’altro, come insegnava Emmanuel Lévinas, è epifania dell’infinito nel finito, appello etico che precede ogni computazione. È nel riconoscimento di questa singolarità che possiamo fondare la resistenza alla riduzione dell’umano a profilo digitale. Ma la cultura individualista di cui siamo imbevuti ci porta a vedere nell’altro una minaccia, o al massimo uno strumento per la propria realizzazione. E il digitale, coniugandosi con l’individualismo contemporaneo, ci trasforma in profili isolati, ingranaggi di una megamacchina che ci connette tecnicamente ma ci separa umanamente. Profili statistici piuttosto che persone con un nome e una storia. La proposta di papa Leone di introdurre nei sistemi educativi l’alfabetizzazione mediatica e sull’intelligenza artificiale è fondamentale, ma non basta. Serve un’educazione più profonda: quella a riconoscere che, come scriveva papa Francesco e come le scienze ci dicono da tempo, «tutto è connesso». E che, quindi, l’individualismo radicale è un’astrazione, una ideologia che ci disumanizza e ci rende oltretutto più vulnerabili alla potenza del digitale. Serve un’educazione alla contemplazione, al silenzio, alla lentezza, alla capacità di sostare con le domande senza precipitarsi verso risposte algoritmiche immediate quanto riduttive. Serve uno spirito “poetico”, dato che la poesia è la lingua delle connessioni dell’uno e del molteplice, che ci fa vedere «il mondo in un granello di sabbia e l’eternità in un’ora», per parafrasare Blake. Lo spirito non è qualcosa di astratto ma una forza di trasformazione, che pervade tutte le dimensioni non quantificabili, come l’arte. E come scriveva Rilke: «Essere artisti vuol dire non calcolare e contare». La sfida è mantenere viva questa dimensione umana nell’ecosistema digitale, non come nostalgia del passato ma come profezia del futuro. Un futuro dove le macchine saranno davvero «strumenti al servizio e al collegamento della vita umana», e non padroni che decidono per noi cosa pensare, desiderare, temere o amare.”
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Ho tenuto per ultimo l’articolo più corposo e meno recente. Non è una lettura leggera, ma la ritengo interessante e adatta a concludere questo trittico sulle polarizzazioni. Si tratta di un testo di Diego Fares e Austen Ivereigh, pubblicato sul Quaderno 4047 de La Civiltà Cattolica il 2 febbraio 2019. E’ importante sapere la data perché vi sono alcune cose che vanno contestualizzate. “Comunicare in una società polarizzata, essere promotori di unione, di incontro, di riconciliazione, di corrispondenza nella diversità: qual è l’atteggiamento, la forma mentis necessaria per essere buoni comunicatori in un contesto in cui la polarizzazione vuole imporre la propria legge a ogni discorso pubblico o privato? La polarizzazione è un fenomeno antico quanto l’uomo, ma che oggi tende a incrementarsi esponenzialmente di fronte a cambiamenti e incertezze su vasta scala. Negli Usa, Paese in cui attualmente quasi la metà degli elettori, sia democratici sia repubblicani, vedono i propri avversari politici come una minaccia al benessere della nazione, la crescente polarizzazione ha dato origine a studi e progetti finalizzati a superarla (Cfr i risultati dell’inchiesta del Pew Research Center, «Partisanship and Political Animosity in 2016», 22 giugno 2016). In questo ambito spicca lo psicologo sociale Jonathan Haidt [noto ultimamente per il best seller “La generazione ansiosa” ndr], che in The Righteous Mind ha sottolineato l’importanza delle «intuizioni morali» e il fatto che le persone cerchino argomenti per difenderle (Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, Torino, Codice, 2013). Per oltrepassare il fossato che li separa, liberali e conservatori hanno bisogno di apprendere quali sono le intuizioni morali che rispettivamente li motivano. L’organizzazione civica Better Angels cerca di «depolarizzare l’America», attuando progetti pratici nei quali riunisce sostenitori dei democratici e dei repubblicani. Il fondatore, David Blankenhorn, che descrive se stesso come una persona ferita dalle culture wars americane, ha individuato sette «atteggiamenti» per «depolarizzare» il conflitto, deducendoli dalle sette virtù classiche del cristianesimo. Le tre virtù più elevate, secondo Blankenhorn, sono: 1) «criticare da dentro», vale a dire criticare l’altro a partire da un valore che si ha in comune (riconoscendo che le intuizioni morali di solito sono universali); 2) «guardare ai beni in gioco», cioè riconoscere che, mentre alcuni conflitti riguardano il bene in contrasto con il male, la maggior parte di essi avvengono tra beni, e l’incombenza pertanto non consiste tanto nel separare il bene dal male, quanto nel riconoscere e soppesare beni in competizione tra loro; 3) «contare più di due», cioè superare la tendenza a dividere per binomi antagonistici, che conducono a pseudo-contrasti. (Gli altri quattro atteggiamenti riguardano l’importanza di dubitare, di precisare, di sfumare e di mantenere la conversazione. Cfr «The Seven Habits of Highly Depolarizing People», in ; D. Blankenhorn, «Why polarization matters»). Anche nella Chiesa cattolica americana possiamo riscontrare tentativi di superare le acute divisioni intraecclesiali tra praticanti «progressisti» e «conservatori». Nel giugno del 2018, per esempio, la Georgetown University ha patrocinato un incontro di 80 autorevoli esponenti cattolici con lo scopo di superare la polarizzazione sulla base della dottrina sociale della Chiesa e dell’insegnamento di papa Francesco. Uno dei relatori, il cardinale e arcivescovo di Chicago Blase Joseph Cupich, ha fatto notare la distinzione tra «parteggiare» e «polarizzarsi». Il primo atteggiamento comporta divisione o disaccordo, e tuttavia consente di lavorare assieme per raggiungere finalità condivise; invece, nel secondo caso, l’isolamento e la sfiducia degli uni verso gli altri rende impossibile la cooperazione. Cupich ha fatto riferimento a san Giovanni Paolo II e alla sua equiparazione della polarizzazione a un peccato, perché suscita ostacoli che paiono insuperabili rispetto all’attuazione del piano di Dio per l’umanità.
La posizione di papa Francesco nei confronti della polarizzazione Papa Francesco ha osservato che «ci capita di attraversare un tempo in cui risorgono epidemicamente, nelle nostre società, la polarizzazione e l’esclusione come unico modo possibile per risolvere i conflitti» (Omelia nel Concistoro, 19 novembre 2016). Nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali ha affermato: «Nei social web troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione nei confronti dell’altro, dell’estraneo al gruppo: ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri)» («Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). Dalle «community» alle comunità. Messaggio per la 53a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2019). Il Papa ha riflettuto sull’essere membra gli uni degli altri come la motivazione più profonda del dovere di custodire la verità, la quale infatti si rivela nella comunione. E ha descritto la Chiesa come «una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui like, ma sulla verità, sull’amen, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri». Uno dei discorsi più importanti pronunciati da papa Francesco al riguardo è stato quello al Congresso degli Stati Uniti: «Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi». Il Papa proseguiva esponendo un possibile paradosso: «Nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate» (Discorso all’ Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America, 24 settembre 2015. In un’altra occasione il Papa ha anche detto: «Il virus della polarizzazione e dell’inimicizia permea i nostri modi di pensare, di sentire e di agire. Non siamo immuni da questo e dobbiamo stare attenti perché tale atteggiamento non occupi il nostro cuore, perché andrebbe contro la ricchezza e l’universalità della Chiesa» (Francesco, Omelia nel Concistoro, cit.). Sotto il profilo cristiano, questo rifiuto, questa resistenza è un «criterio di sanità e ortodossia cristiana [che] non sta tanto nel modo di agire quanto nel modo di resistere». Una resistenza personale, che riconosce che la polarizzazione nasce anzitutto nel cuore umano, per essere successivamente alimentata dai media e dalla politica. Nel Messaggio per la 50a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali il Papa ha precisato che il cattivo uso dei mezzi di comunicazione può «condurre a un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone e i gruppi» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo. Messaggio per la 50a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2016). Allo stesso modo, una politica è malsana se prospera in funzione dei conflitti, accentuandoli per accrescere il potere o l’influenza del politico «intermediario», diversamente da una politica sana, che si sforza di conciliare le persone per il bene comune e nella quale il politico «mediatore» sacrifica se stesso a favore del popolo (J. M. Bergoglio, trascrizione della lezione inaugurale del Corso di formazione e riflessione politica, Cefas, 1 giugno 2004). Già nel 1974, quando era stato da poco nominato provinciale dei gesuiti, Bergoglio metteva in risalto che negli Esercizi Spirituali il peccato è «fondamento disgregatore della nostra appartenenza al Signore e alla nostra santa madre, la Chiesa» (Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Milano, Rizzoli, 2014, 139). Il peccato disintegra anche la nostra appartenenza all’umanità. Inoltre affermava che «l’unico nemico reale è il nemico del piano di Dio», perché, come dice Paolo, «tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E concludeva: «È questa l’ermeneutica per discernere ciò che è principale da ciò che è accessorio, ciò che è autentico da ciò che è falso», le «contraddizioni del momento» dal tempo di Dio, che è «più grande delle nostre contraddizioni».
Una «forma mentis» depolarizzatrice Analizzeremo ora quattro atteggiamenti di papa Francesco che possono aiutarci a configurare la forma mentis necessaria per discernere come comunicare bene in una società polarizzata. Si tratta di due «no» e di due «sì». Innanzitutto, non discutere con chi cerca di polarizzare, e non lasciarsi confondere da false contraddizioni. Poi, dire di sì, più con le opere che a parole, alla misericordia come paradigma ultimo, e dirlo in quel dialetto materno che raggiunge il cuore di ogni persona nella sua specifica cultura. Consideriamo innanzitutto alcune situazioni in cui il Papa, con poche parole (a volte gli sono bastati un gesto, una pausa o un silenzio significativo), ha comunicato bene in un contesto di polarizzazione. Nell’incontro che si è tenuto all’Augustinianum sul dialogo intergenerazionale, in occasione della presentazione del libro La saggezza del tempo (Francesco, La saggezza del tempo. In dialogo con papa Francesco sulle grandi questioni della vita, Milano, Rizzoli, 2018), papa Francesco ha dialogato con una coppia di nonni che gli esprimevano la necessità di essere aiutati per riuscire a parlare bene con i loro figli. Gli dicevano: «Nonostante i nostri sforzi, come genitori, di trasmettere la fede, i figli qualche volta sono molto critici, ci contestano, sembrano respingere la loro educazione cattolica. Che cosa dobbiamo dire loro?». Il Papa ha fatto una brevissima pausa, e poi ha risposto con fermezza: «C’è una cosa che ho detto una volta, perché mi è venuta spontanea, sulla trasmissione della fede: la fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa» (Dialogo intergenerazionale, Incontro con i giovani e anziani all’Augustinianum, Roma, 23 ottobre 2018). Poi ha aggiunto: «Mai discutere, mai, perché questo è un tranello: i figli vogliono portare i genitori alla discussione. No. Meglio dire: “Non so rispondere a questo, cerca da un’altra parte, ma cerca, cerca…”. Sempre evitare la discussione diretta, perché questo allontana. E sempre la testimonianza “in dialetto”, cioè con quelle carezze che loro capiscono». La forza di quel breve dialogo tra il Papa e la coppia di genitori-nonni contiene un nucleo comunicativo che disarma chi, intenzionalmente o involontariamente, polarizza. Si tratta di adottare questi due atteggiamenti: dare testimonianza in dialetto e non discutere. Non discutere presuppone che si faccia un discernimento: dire «no» a una falsa polarizzazione e dire «sì» a un paradigma che la supera, quello della misericordia. Questi atteggiamenti affiorano in altri due episodi del pontificato di Francesco. Il primo durante il volo di ritorno dal viaggio apostolico in Irlanda. Una giornalista gli fece una domanda a proposito delle accuse di copertura lanciate quella mattina dall’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò (Conferenza stampa durante il volo di ritorno dall’Irlanda, 26 agosto 2018). La domanda sollecitava il Papa a dichiarare se quelle accuse (sulla vicenda di abusi sessuali in cui era coinvolto l’ex cardinale McCarrick) fossero effettivamente vere. Anziché rispondere secondo i termini tratteggiati da Viganò, Francesco replicò che per il momento non avrebbe detto nemmeno una parola: invitava piuttosto i giornalisti a indagare in prima persona sulla verità delle accuse. Il suo silenzio è stata interpretato in vario modo, più o meno favorevolmente; ma l’importante è stato il fatto che il Papa abbia scelto di mantenere il silenzio. Su questo torneremo più avanti. L’altro episodio ha avuto luogo nel volo di ritorno dal viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh (Saluto ai giornalisti durante il volo di ritorno dal Bangladesh, 2 dicembre 2017). Durante la visita si era creata una polarizzazione rispetto all’eventualità di pronunciare il termine rohingya, un’etnia che le autorità militari del Myanmar non riconoscono. Il Papa aveva evitato di usare quel termine in Myanmar ma, una volta giunto in Bangladesh, ha avuto un commovente incontro con 16 rifugiati di quella etnia, nel quale ha detto che «la presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya» (A. Tornielli, «Il Papa: “La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”», in Vatican Insider, 1 dicembre 2017). Nella conferenza stampa a bordo dell’aereo, il Papa ha spiegato che usare quel termine nei suoi discorsi ufficiali sarebbe equivalso a sbattere la porta in faccia all’interlocutore, e «simili atti di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta, e il messaggio non arriva». Piuttosto, nei suoi discorsi in Myanmar aveva parlato dell’importanza di includere tutti, dei diritti e della cittadinanza, e questo successivamente, nei suoi incontri privati, gli aveva consentito di «andare oltre». Poi, nell’incontro interreligioso di Dacca, quel termine gli era sfuggito spontaneamente quando aveva salutato i rifugiati. Riferisce il Papa: «Io cominciai a sentire qualcosa dentro: “Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola”, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono. […] Io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano pure». Francesco ha completato così la sua riflessione: «E, visto tutto il trascorso, tutto il cammino, io ho sentito che il messaggio era arrivato». Egli aveva un messaggio da comunicare, un messaggio incentrato sulla misericordia e sull’inclusione e, per comunicarlo, era stato capace di superare le polarizzazioni.
Non discutere con chi accusa La testimonianza e il consiglio di Francesco sono di non discutere in un contesto polarizzato, sia che si tratti di un contesto familiare, con la raccomandazione rivolta ai genitori quando i figli cercano di trascinarli in una discussione, sia che si tratti di discussioni pubbliche, in cui si lanciano accuse cariche di aggressività mediatica, come quelle del caso Viganò. Il contesto familiare nel quale il Papa ha messo in luce il criterio di «non discutere» ci mostra come il «virus della polarizzazione» si annidi perfino tra coloro che si amano. Questo stesso fatto aiuta a comprendere il tranello in cui solitamente cadiamo quando ci lasciamo trasportare dallo spirito di discussione. Con coloro che ci amano, il non discutere si congiunge con il parlare loro «in dialetto», sapendo che essi comprenderanno questo linguaggio d’amore. Con coloro che non ci amano e ci attaccano, il non discutere si accompagna, invece, al fare silenzio e, come si comportava il Signore quando non rispondeva alle provocazioni degli scribi e dei farisei, a lasciarli «cuocere nel loro brodo». Afferma il Papa: «Con le persone che non hanno buona volontà, con le persone che cercano soltanto lo scandalo, che cercano soltanto la divisione, che cercano soltanto la distruzione, anche nelle famiglie: silenzio. E preghiera» (Francesco, Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018). Il silenzio evita che si rimanga impigliati nella spirale di accuse e condanne, dietro le quali c’è sempre lo spirito cattivo del «grande Accusatore» (fra il 3 e il 20 settembre 2018, dopo il silenzio mediatico che si era imposto riguardo alle accuse di Viganò, il Papa ha pronunciato otto omelie contro «il grande Accusatore», del quale ha descritto ampiamente l’atteggiamento nel contesto adeguato, quello della predicazione della parola di Dio). Di fronte all’accanimento aggressivo è possibile soltanto un atteggiamento: quello di Gesù. «Il pastore, nei momenti difficili, nei momenti in cui si scatena il diavolo, dove il pastore è accusato, ma accusato dal grande Accusatore tramite tanta gente, tanti potenti, soffre, offre la vita e prega» (Omelia in Santa Marta, 18 settembre 2018). È un silenzio che svela l’unica contraddizione reale: quella che si instaura tra il padre della menzogna e Cristo crocifisso (Satana «vide Gesù così disfatto, stracciato e, come il pesce affamato che va all’esca attaccata all’amo, lui è andato lì e ingoiò Gesù […], ma in quel momento ingoiò pure la divinità, perché era l’esca attaccata all’amo col pesce» (ivi, 14 settembre 2018). «In momenti di oscurità e grande tribolazione, quando i “grovigli” e i “nodi” non si possono sciogliere, e neppure le cose chiarirsi, allora bisogna tacere: la mansuetudine del silenzio ci mostrerà ancora più deboli, e allora sarà lo stesso demonio che, facendosi baldanzoso, si manifesterà in piena luce, mostrerà le sue reali intenzioni, non più camuffato da angelo della luce, ma in modo palese» (Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 85-108). Contro il grande Accusatore il criterio è quello del Signore, che non parla di sé, ma lo vince con la parola di Dio (Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018). Questo atteggiamento di «non discutere» non ha nulla a che vedere con la pace quietista e con il falso irenismo che, secondo la logica della polarizzazione, implicherebbero parzialità («chi tace acconsente») o fuga dal conflitto. Niente è più lontano dal pensiero del Papa e dal suo atteggiamento. Non soltanto egli accoglie il conflitto e la tensione come opportunità creative, ma discerne l’azione dello spirito cattivo nel suo tentativo di camuffare la vera contraddizione e di proporre la pace come se fosse un affare e non un lungo cammino. In una meditazione proposta agli studenti del Colegio Máximo, in occasione della fine dell’anno 1980 (J. M. Bergoglio, Natale, Milano, Corriere della Sera, 2014, 107 ss), Bergoglio faceva notare che le tentazioni contro l’unità possono essere molte, ma la principale «si fonda nel rifiuto del modello bellico della vita spirituale; e si può respingerlo o perché si vagheggia un irenismo, o perché ci si affretta dietro al prurito di un raccolto prematuro, accentuando le contraddizioni». E affermava: «L’irenismo delinea una specie d’illusoria “pace a qualsiasi costo”, in ossequio alla quale si negozia ciò che non è negoziabile e si perde la capacità di condannare. […] L’altra tentazione è una caricatura del senso bellico della vita». Allo stesso modo egli in seguito dirà nell’Evangelii gaudium (EG): «Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (EG 227). Di fronte a un mondo polarizzato, quella di astrarsi o di disinteressarsi non è un’opzione, ma piuttosto una tentazione. Essa è comprensibile, forse, in un contesto mimetico in cui il rischio di restare contaminati è molto grande, e tuttavia il suggerimento di Francesco è di entrare, ma con discernimento. Egli invita ad assumere un atteggiamento chiaramente missionario: l’accusa di se stessi, che ci porta a dialogare con la Misericordia di Dio, invece di entrare nella dinamica del sentirci vittime e di accusare gli altri («Accusare se stesso è il sentimento della mia miseria, di sentirsi miserabili, misero, davanti al Signore. Il sentimento della vergogna. E infatti accusare se stesso non si può fare a parole, bisogna sentirlo nel cuore», Omelia in Santa Marta, 6 settembre 2018), va di pari passo con l’uscita missionaria ad annunciare il Vangelo. Anziché restarsene chiusa nella discussione e operare «contromosse», la Chiesa fa un passo «verso coloro che hanno più bisogno di lei», verso quelli che ancora non hanno ascoltato il Vangelo. La Chiesa, quando venne perseguitata, diventò missionaria.
Non vedere contraddizioni dove ci sono solo contrasti Invece di discutere, bisogna discernere. Infatti, quando è in atto una polarizzazione, non si tratta soltanto di uno scontro di idee, ma anche di spiriti (Cfr J. M. Bergoglio, «La dottrina della tribolazione», in Civ. Catt. 2018 II 214). Lo spirito cattivo, soprattutto in un contesto di tribolazione, cerca di trasformare i dissensi in conflitti. Come dice Gustave Thibon, «uno dei segni fondamentali della mediocrità di spirito è vedere contraddizioni dove ci sono soltanto contrasti». I quattro princìpi di papa Francesco, in particolare due di essi, sono i criteri per tale discernimento. La lucidità che è richiesta per discernere che «l’unità prevale sul conflitto»[39] è una lucidità paziente, che «accetta di sopportare il conflitto» per riuscire a risolverlo, senza rimanerne imprigionati. È richiesta lucidità anche per discernere che «la realtà è più importante dell’idea». È più importante, perché la realtà non è mai contraddittoria. Per Guardini, la contraddizione è qualcosa che si dà soltanto nel pensiero e nel linguaggio, non nella realtà. La realtà – quella che egli chiama il «concreto vivente» – è sempre complessa; tutti i poli vi trovano posto; ogni essere vivente è una trama di relazioni che sono tra loro in contrasto, ma non in contraddizione. Guardini descrive le tensioni tra sopra-dentro, interno-esterno, forma-pienezza, struttura-forza vitale. Una realtà non contraddice quella precedente, ma la assume, la trasforma o se la lascia dietro. Per questo, come scriveva il Papa al popolo cileno, «discernere presuppone imparare ad ascoltare ciò che lo Spirito vuole dirci. E potremo farlo soltanto se siamo capaci di ascoltare la realtà di ciò che accade» (Francesco, Lettera al Popolo di Dio pellegrino in Cile). Nel suo scritto «Alcune riflessioni sull’unione degli animi», pubblicato nel 1990, Bergoglio chiarisce la differenza tra contraddizione e contrapposizione o contrasto: la contraddizione è sempre escludente, non concede spazio alle alternative, è disgiuntiva. La contrapposizione, invece, indicherebbe piuttosto le cose che, apparentemente e/o realmente contrarie, possono accordarsi (J. M. Bergoglio, Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 152). Le diversità di idee, di affetti, di immaginazioni e di mozioni che affiorano quando si prega e si discerne possono raggiungere «una nuova unità interiore, continua ma distinta da quella che c’era prima che avesse inizio il processo di discernimento» (il processo avviene nel dialogo interiore, contraddistinto dalla pace. Bergoglio afferma che, «se esaminiamo con attenzione la nostra esperienza interiore, possiamo notare che le tensioni si risolvono su un piano superiore, mantenendo – nella nuova armonia raggiunta – la potenzialità delle diverse particolarità»). La nuova armonia si può sempre «disarmonizzare», e ciò richiede che noi siamo costantemente aperti a nuove sintesi. «Tutto questo processo configura ciò che potremmo definire etimologicamente un “conflitto” («Sant’Ignazio non teme il conflitto. Anzi, si insospettisce quando, negli Esercizi spirituali, luogo privilegiato di discernimento e di lotta di spiriti, non lo riscontra») […]. Questo conflitto interiore, che preferisco chiamare “contrapposizione” piuttosto che “contraddizione”, è il riferimento interiore che abbiamo di unità nella diversità per capire cos’è, nel corpo della Compagnia, l’unità nella diversità» e, per analogia, ciò che è unità nella diversità nella Chiesa e nella società. Per questo il Papa ha potuto riporre fiducia nel processo sinodale, a volte turbolento e conflittuale, che ha dato luogo alla nuova prassi pastorale dell’Amoris laetitia. Attraverso la riflessione, lo scambio di punti di vista, la preghiera e il discernimento «lo spirito buono ha prevalso», nonostante le tentazioni lungo il percorso.
Il «sì» al paradigma della Misericordia Il discernimento che ci rafforza nel dire «no» alla discussione che polarizza ha il suo principio e fondamento in un «sì» più profondo e radicale: il «sì» della Misericordia divina a tutto il creato. La Misericordia incondizionata di Dio, che per noi è divenuta concreta in Gesù, è l’unica realtà capace di risanare e armonizzare ogni falsa contraddizione con la forza dell’amore di Dio che, «per sua natura, è comunicazione» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). La Misericordia «è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (GE 105), come afferma efficacemente il Pontefice. È il paradigma ultimo, il più alto, e la nostra missione è annunciarlo con le opere e con le parole. Ne troviamo il modello nella parabola del Buon Samaritano insegnataci da Gesù. Questa non contiene soltanto una rivelazione soprannaturale, ma anche una rivelazione di ciò che è più teneramente umano. Alla pratica delle opere di misericordia cosiddette «corporali», in quanto riguardano la carne del prossimo, è complementare quella delle opere di misericordia «spirituali», che consistono nella buona comunicazione: insegnare a chi non sa, dare un buon consiglio a chi ne ha bisogno, correggere colui che sbaglia, perdonare le offese, consolare chi è afflitto, sopportare pazientemente i difetti degli altri e pregare per tutti. Praticare queste opere di misericordia significa lanciare un messaggio chiaro, che tocca il cuore di chi ne viene a conoscenza. Il Papa fa notare: «Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio per tutti. […] La mite misericordia [di Cristo] è la misura della nostra maniera di annunciare la verità e di condannare l’ingiustizia. È nostro precipuo compito affermare la verità con amore (cfr Ef 4,15). Solo parole pronunciate con amore e accompagnate da mitezza e misericordia toccano i cuori di noi peccatori» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). Francesco vuole che «lo stile della nostra comunicazione sia tale da superare la logica che separa nettamente i peccatori dai giusti» e che al tempo stesso generi «prossimità […] in un mondo diviso, frammentato, polarizzato». Il criterio di discernimento della buona comunicazione è lo stesso di quello della vita di ogni cristiano, e della vita della Chiesa in generale: è quello di verificare se la misericordia cresce. «Il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia» (GE 105).
Dare testimonianza «in dialetto» Si tratta, dunque, di dire e di fare le cose «nello stile di Gesù», con un spirito buono, come diceva san Pietro Favre. L’espressione che usa Francesco è «dare testimonianza in dialetto». Il contenuto di tale testimonianza è ciò che il Papa chiama «dottrina»: verità sentite, non meramente conosciute. La dottrina forgia l’unità vera, perché «le cose di Dio sommano sempre. Non sottraggono. Radunano» (J. M. Bergoglio, Natale). Ma per la stessa ragione essa genera opposizione e resistenza: «È soltanto quando la Chiesa afferma la dottrina che affiora il vero scisma». Il pensiero e la testimonianza di Francesco offrono, pertanto, un percorso di depolarizzazione che si potrebbe applicare a molti contesti in cui ci sono «partiti» contrapposti: per esempio, tra liberali e conservatori nella Chiesa o, in Inghilterra, tra i sostenitori di Remain e Leave, divisi sulla Brexit. È un cammino che accoglie la tensione e il disaccordo come opportunità per creare qualcosa di superiore in base a una diversità conciliata e al paradigma della misericordia, evitando le trappole mortifere della sterile polarizzazione. È una maniera di dialogare non a partire dai disaccordi, ma ascoltando gli uni i sogni degli altri. Trovare il modo di dare testimonianza dell’amore e della misericordia nel «dialetto materno» è il nucleo di un comportamento che vale sia nell’ambito ristretto del dialogo familiare sia in quello ampio delle discussioni pubbliche. In sostanza, per comunicare bene, il punto decisivo è trovare il filo di quel linguaggio che è alla base della vita, là dove dietro le parole si nasconde la fonte della tenerezza che ha reso possibile la vita in comune di ogni famiglia, di ogni comunità e di ogni popolo. Questa è la sfida: trovare e non perdere il filo di tale linguaggio materno che unisce ogni realtà, per fronteggiare il linguaggio astratto delle ideologie che separano. «Fratelli, le idee si discutono, le situazioni si discernono. Siamo riuniti per discernere, non per discutere» (Francesco, Lettera ai vescovi cileni, 15 maggio 2018).”
Pubblico, per chi se le fosse perse o semplicemente volesse tornarci sopra, domande e risposte della veglia di sabato 2 agosto a Tor Vergata durante il Giubileo dei Giovani. La fonte è il sito del Vaticano (ho tenuto solo la parte in lingua italiana). Forte è stata la tentazione di mettere in evidenza dei passaggi che mi hanno particolarmente toccato, ho preferito non “grassettare” nulla. Buona lettura. In fondo il video integrale della veglia.
“Domanda 1 – Amicizia
Santo Padre, sono Dulce María, ho 23 anni e vengo dal Messico. Mi rivolgo a Lei facendomi portavoce di una realtà che viviamo noi giovani in tante parti del mondo. Siamo figli del nostro tempo. Viviamo una cultura che ci appartiene e senza che ce ne accorgiamo ci plasma; è segnata dalla tecnologia soprattutto nel campo dei social network. Ci illudiamo spesso di avere tanti amici e di creare legami di vicinanza mentre sempre più spesso facciamo esperienza di tante forme di solitudine. Siamo vicini e connessi con tante persone eppure, non sono legami veri e duraturi, ma effimeri e spesso illusori. Santo Padre, ecco la mia domanda: come possiamo trovare un’amicizia sincera e un amore genuino che aprono alla vera speranza? Come la fede può aiutarci a costruire il nostro futuro?
Carissimi giovani, le relazioni umane, le nostre relazioni con altre persone sono indispensabili per ciascuno di noi, a cominciare dal fatto che tutti gli uomini e le donne del mondo nascono figli di qualcuno. La nostra vita inizia grazie a un legame ed è attraverso legami che noi cresciamo. In questo processo, la cultura svolge un ruolo fondamentale: è il codice col quale interpretiamo noi stessi e il mondo. Come un vocabolario, ogni cultura contiene sia parole nobili sia parole volgari, sia valori sia errori, che bisogna imparare a riconoscere. Cercando con passione la verità, noi non solo riceviamo una cultura, ma la trasformiamo attraverso scelte di vita. La verità, infatti, è un legame che unisce le parole alle cose, i nomi ai volti. La menzogna, invece, stacca questi aspetti, generando confusione ed equivoco. Ora, tra le molte connessioni culturali che caratterizzano la nostra vita, internet e i media sono diventati «una straordinaria opportunità di dialogo, incontro e scambio tra le persone, oltre che di accesso all’informazione e alla conoscenza» (Papa Francesco, Christus vivit, 87). Questi strumenti risultano però ambigui quando sono dominati da logiche commerciali e da interessi che spezzano le nostre relazioni in mille intermittenze. A proposito, Papa Francesco ricordava che talvolta i «meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo» (Christus vivit, 105). Allora le nostre relazioni diventano confuse, sospese o instabili. Inoltre, come sapete, oggi ci sono algoritmi che ci dicono quello che dobbiamo vedere, quello che dobbiamo pensare, e quali dovrebbero essere i nostri amici. E allora le nostre relazioni diventano confuse, a volte ansiose. È che quando lo strumento domina sull’uomo, l’uomo diventa uno strumento: sì, strumento di mercato, merce a sua volta. Solo relazioni sincere e legami stabili fanno crescere storie di vita buona. Carissimi, ogni persona desidera naturalmente questa vita buona, come i polmoni tendono all’aria, ma quanto è difficile trovarla! Quanto è difficile trovare un’amicizia autentica! Secoli fa, Sant’Agostino ha colto il profondo desiderio del nostro cuore – è il desiderio di ogni cuore umano – anche senza conoscere lo sviluppo tecnologico di oggi. Anche lui è passato attraverso una giovinezza burrascosa: non si è però accontentato, non ha messo a tacere il grido del suo cuore. Agostino cercava la verità, la verità che non illude, la bellezza che non passa. E come l’ha trovata? Come ha trovato un’amicizia sincera, un amore capace di dare speranza? Incontrando chi già lo stava cercando, incontrando Gesù Cristo. Come ha costruito il suo futuro? Seguendo Lui, suo amico da sempre. Ecco le sue parole: «Nessuna amicizia è fedele se non in Cristo. È in Lui solo che essa può essere felice ed eterna» (Contro le due lettere dei pelagiani, I, I, 1); e la vera amicizia è sempre in Gesù Cristo con fiducia, amore e rispetto. «Ama veramente il suo amico colui che nel suo amico ama Dio» (Discorso 336), ci dice Sant’Agostino. L’amicizia con Cristo, che sta alla base delle fede, non è solo un aiuto tra tanti altri per costruire il futuro: è la nostra stella polare. Come scriveva il beato Pier Giorgio Frassati, «vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta per la Verità non è vivere, ma vivacchiare» (Lettere, 27 febbraio 1925). Quando le nostre amicizie riflettono questo intenso legame con Gesù, diventano certamente sincere, generose e vere. Cari giovani, vogliatevi bene tra di voi! Volersi bene in Cristo. Saper vedere Gesù negli altri. L’amicizia può veramente cambiare il mondo. L’amicizia è una strada verso la pace.
Domanda 2 – Coraggio per scegliere
Santo Padre, mi chiamo Gaia, ho 19 anni e sono italiana. Questa sera tutti noi giovani qui presenti vorremmo parlarLe dei nostri sogni, speranze e dubbi. I nostri anni sono segnati dalle decisioni importanti che siamo chiamati a prendere per orientare la nostra vita futura. Tuttavia, per il clima di incertezza che ci circonda siamo tentati di rimandare e la paura per un futuro sconosciuto ci paralizza. Sappiamo che scegliere equivale a rinunciare a qualcosa e questo ci blocca, nonostante tutto percepiamo che la speranza indica obiettivi raggiungibili anche se segnati dalla precarietà del momento presente. Santo Padre, le chiediamo: dove troviamo il coraggio per scegliere? Come possiamo essere coraggiosi e vivere l’avventura della libertà viva, compiendo scelte radicali e cariche di significato?
Grazie per questa domanda. La pregunta es ¿cómo encontrar la valentía para escoger? Where can we find the courage to choose and to make wise decisions? La scelta è un atto umano fondamentale. Osservandolo con attenzione, capiamo che non si tratta solo di scegliere qualcosa, ma di scegliere qualcuno. Quando scegliamo, in senso forte, decidiamo chi vogliamo diventare. La scelta per eccellenza, infatti, è la decisione per la nostra vita: quale uomo vuoi essere? Quale donna vuoi essere? Carissimi giovani, a scegliere si impara attraverso le prove della vita, e prima di tutto ricordando che noi siamo stati scelti. Tale memoria va esplorata ed educata. Abbiamo ricevuto la vita gratis, senza sceglierla! All’origine di noi stessi non c’è stata una nostra decisione, ma un amore che ci ha voluti. Nel corso dell’esistenza, si dimostra davvero amico chi ci aiuta a riconoscere e rinnovare questa grazia nelle scelte che siamo chiamati a prendere. Cari giovani, avete detto bene: “scegliere significa anche rinunciare ad altro, e questo a volte ci blocca”. Per essere liberi, occorre partire dal fondamento stabile, dalla roccia che sostiene i nostri passi. Questa roccia è un amore che ci precede, ci sorprende e ci supera infinitamente: è l’amore di Dio. Perciò davanti a Lui la scelta diventa un giudizio che non toglie alcun bene, ma porta sempre al meglio. Il coraggio per scegliere viene dall’amore, che Dio ci manifesta in Cristo. È Lui che ci ha amato con tutto sé stesso, salvando il mondo e mostrandoci così che il dono della vita è la via per realizzare la nostra persona. Per questo, l’incontro con Gesù corrisponde alle attese più profonde del nostro cuore, perché Gesù è l’Amore di Dio fatto uomo. A riguardo, venticinque anni fa, proprio qui dove ci troviamo, San Giovanni Paolo II disse: «è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare» (Veglia di preghiera nella XV Giornata mondiale della Gioventù, 19 agosto 2000). La paura lascia allora spazio alla speranza, perché siamo certi che Dio porta a compimento ciò che inizia. Riconosciamo la sua fedeltà nelle parole di chi ama davvero, perché è stato davvero amato. “Tu sei la mia vita, Signore”: è ciò che un sacerdote e una consacrata pronunciano pieni di gioia e di libertà. “Tu sei la mia vita, Signore”. “Accolgo te come mia sposa e come mio sposo”: è la frase che trasforma l’amore dell’uomo e della donna in segno efficace dell’amore di Dio nel matrimonio. Ecco scelte radicali, scelte piene di significato: il matrimonio, l’ordine sacro, e la consacrazione religiosa esprimono il dono di sé, libero e liberante, che ci rende davvero felici. E lì troviamo la felicità: quando impariamo a donare noi stessi, a donare la vita per gli altri. Queste scelte danno senso alla nostra vita, trasformandola a immagine dell’Amore perfetto, che l’ha creata e redenta da ogni male, anche dalla morte. Dico questo stasera pensando a due ragazze, María, ventenne, spagnola, e Pascale, diciottenne, egiziana. Entrambe hanno scelto di venire a Roma per il Giubileo dei Giovani, e la morte le ha colte in questi giorni. Preghiamo insieme per loro; preghiamo anche per i loro familiari, i loro amici e le loro comunità. Gesù Risorto le accolga nella pace e nella gioia del suo Regno. E ancora vorrei chiedere le vostre preghiere per un altro amico, un ragazzo spagnolo, Ignacio Gonzalvez, che è stato ricoverato all’ospedale “Bambino Gesù”: preghiamo per lui, per la sua salute. Trovate il coraggio di fare le scelte difficili e dire a Gesù: Tu sei la mia vita, Signore”. “Lord, You are my life”. Grazie.
Domanda 3 – Richiamo del bene e valore del silenzio
Santo Padre, mi chiamo Will. Ho 20 anni e vengo dagli stati Uniti. Vorrei farLe una domanda a nome di tanti giovani intorno a noi che desiderano, nei loro cuori, qualcosa di più profondo. Siamo attratti dalla vita interiore anche se a prima vista veniamo giudicati come una generazione superficiale e spensierata. Sentiamo nel profondo di noi stessi il richiamo al bello e al bene come fonte di verità. Il valore del silenzio come in questa Veglia ci affascina, anche se incute in alcuni momenti paura per il senso di vuoto. Santo Padre, le chiedo: come possiamo incontrare veramente il Signore Risorto nella nostra vita ed essere sicuri della sua presenza anche in mezzo alle difficoltà e incertezze?
Proprio all’inizio del Documento con il quale ha indetto il Giubileo, Papa Francesco scrisse che «nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene» (Spes non confundit, 1). Dire “cuore”, nel linguaggio biblico, significa dire “coscienza”: poiché ogni persona desidera il bene nel suo cuore, da tale sorgente scaturisce la speranza di accoglierlo. Ma che cos’è il “bene”? Per rispondere a questa domanda, occorre un testimone: qualcuno che ci faccia del bene. Più ancora, occorre qualcuno che sia il nostro bene, ascoltando con amore il desiderio che freme nella nostra coscienza. Senza questi testimoni non saremmo nati, né saremmo cresciuti nel bene: come veri amici, essi sostengono il comune desiderio di bene, aiutandoci a realizzarlo nelle scelte di ogni giorno. Carissimi giovani, l’amico che sempre accompagna la nostra coscienza è Gesù. Volete incontrare veramente il Signore Risorto? Ascoltate la sua parola, che è Vangelo di salvezza! Cercate la giustizia, rinnovando il modo di vivere, per costruire un mondo più umano! Servite il povero, testimoniando il bene che vorremmo sempre ricevere dal prossimo! Rimanete uniti con Gesù nell’Eucaristia. Adorate l’Eucarestia, fonte della vita eterna! Studiate, lavorate, amate secondo lo stile di Gesù, il Maestro buono che cammina sempre al nostro fianco. Ad ogni passo, mentre cerchiamo il bene, chiediamogli: resta con noi, Signore (cfr Lc 24,29)! Resta con noi Signore! Resta con noi, perché senza di Te non possiamo fare quel bene che desideriamo. Tu vuoi il nostro bene; Tu, Signore, sei il nostro bene. Chi ti incontra, desidera che anche altri ii incontrino, perché la tua parola è luce più chiara di ogni stella, che illumina anche la notte più nera. Come amava ripetere Papa Benedetto XVI, chi crede, non è mai solo. Perciò incontriamo veramente Cristo nella Chiesa, cioè nella comunione di coloro che il Signore stesso riunisce attorno a sé per farsi incontro, lungo la storia, ad ogni uomo che sinceramente lo cerca. Quanto ha bisogno il mondo di missionari del Vangelo che siano testimoni di giustizia e di pace! Quanto ha bisogno il futuro di uomini e donne che siano testimoni di speranza! Ecco, carissimi giovani, il compito che il Signore Risorto ci consegna. Sant’Agostino ha scritto: «L’uomo, una particella del tuo creato, o Dio, vuole lodarti. Sei Tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti e ti invochi credendoti» (Confessioni, I). Accostando questa invocazione alle vostre domande, vi affido una preghiera: “Grazie, Gesù, per averci raggiunto: il mio desiderio è quello di rimanere tra i Tuoi amici, perché, abbracciando Te, possa diventare compagno di cammino per chiunque mi incontrerà. Fa’, o Signore, che chi mi incontra, possa incontrare Te, pur attraverso i miei limiti, pur attraverso le mie fragilità”. Attraverso queste parole, il nostro dialogo continuerà ogni volta che guarderemo al Crocifisso: in Lui si incontreranno i nostri cuori. Ogni volta che adoriamo Cristo nell’Eucaristia, i nostri cuori si uniscono in Lui. Perseverate dunque nella fede con gioia e coraggio. E così possiamo dire: grazie Gesù per averci amati; grazie Gesù per averci chiamati. Resta con noi, Signore! Resta con noi!”.
“La mia gemma è la NATURA. Per me, la natura è un rifugio. È il luogo dove posso staccare da tutto, lasciando alle spalle i pensieri e le preoccupazioni della vita quotidiana. È come entrare in un mondo diverso, lontano dal rumore e dalla frenesia. In particolare: la domenica. È il giorno della settimana che porta di solito un po’ di malinconia. In quei giorni, quando ci sono delle belle giornate di sole, la natura mi dona una pace inspiegabile. Camminare tra gli alberi, ascoltare il vento tra le foglie e respirare un’aria pulita mi fa staccare, non mi fa pensare a nulla e mi fa sentire veramente tranquilla. La bellezza naturale mi ricorda che il mondo è molto più grande dei miei problemi e che, proprio come le stagioni cambiano, anche i momenti difficili passano. Per questo motivo, considero la natura una vera gemma, che mi regala serenità, soprattutto nei giorni in cui magari ne ho più bisogno” (E. classe quarta).
Il Corriere della Sera ha realizzato un’intervista a suor Beatrice e a suor Enrica, clarisse di clausura.
“«Vorrei sfatare l’idea che noi siamo fuori dal mondo. Non siamo angeli, non siamo speciali, invisibili o meno umane, non siamo migliori o diverse, viviamo “qui dentro” felicità, tristezze, gioie, dolori fatiche, fragilità e tutto ciò che vivono gli uomini e le donne nel mondo. Siamo nell’assoluta normalità, anche perché essere altro significherebbe il contrario di ciò che ci hanno insegnato Chiara e Francesco. E, soprattutto, contrario alla logica della fede nostra cristiana». Sorridono molto mentre parlano, anzi spesso ridono proprio di gusto: per le domande formulate con lunghi e cauti giri di parole (che loro interrompono per sintetizzare in modo diretto e crudo) sia per le battute che loro stesse si concedono raccontandosi. Nella sala arredata in modo essenziale, si coglie l’eco di un silenzio padrone di casa, ma la conversazione lievita come in un qualsiasi salotto. Sono suore, Clarisse di clausura. Chiara e Francesco sono i loro riferimenti costanti, la guida della loro scelta di vivere la fede cristiana in modo totalizzante, li nominano più volte come se li incontrassero spesso nel corso delle loro giornate silenziose e indaffarate. Però non siamo in un eremo lontano da tutto, ma nel mezzo di un popoloso quartiere della periferia Nord di Milano. Zona Gorla, nella piazza dedicata ai Piccoli Martiri del bombardamento alleato del 1944. Pochi mesi prima di quel tragico 20 ottobre il primo gruppo di «Sorelle povere», come si chiamano davvero le Clarisse, si insediò qui. Hanno accettato di lasciarsi intervistare, ma volevano «esprimere l’idea di fraternità, di comunità, non di individualità» e così a parlare sono in due: suor Beatrice, 51 anni, originaria di Lecco e suor Enrica Serena, nata a Melegnano 52 anni fa. Al citofono rispondono dicendo «pace e bene», al portone salutano stringendo la mano e per parlare hanno disposto tre sedie attorno a un tavolo, non sono dietro alla grata che sta su un lato del salone: ma da una dozzina d’anni non la usano più (come era in passato, anche per incontrare i parenti), proprio per non segnare una loro distanza dal mondo. «Ma questa è la nostra scelta – sottolineano – ogni monastero, ogni comunità fa le sue». Rispondono alternativamente alle domande, si sovrappongono, una integra la risposta dell’altra, ma chiedono che le loro voci siano riportate come una sola. Quante suore vivono qui? «La nostra fraternità è composta, al momento, da 17 sorelle, di età che varia dai 29 ai 102 anni». Centodue? «Sì, suor Maria Consolata, che fece parte del primo gruppo di sorelle che arrivò qui nel 1944. Soffre gli acciacchi dell’età, ma è lucidissima. Non sa usare il computer ma detta le sue e-mail». Quali sono le vostre regole? «Siamo qui per vivere il Vangelo, come San Francesco. La nostra fraternità si ispira a Santa Chiara, la prima donna nella storia della Chiesa che abbia composto una Regola scritta per le donne, approvata dal Papa. Gli elementi costitutivi della nostra forma di vita sono la fraternità, la povertà e la centralità della relazione con Dio, nella preghiera, e la stabilità che, soprattutto nel passato, era espressa attraverso forme di separazione materiale. Come vede alle mie spalle c’è una grata, fino a circa dodici anni fa ricevevamo le nostre visite, anche quelle dei parenti, rimanendo là dietro, poi abbiamo deciso che non fosse necessaria. E queste sono regole che variano in ogni comunità, molto dipende anche dal contesto sociale, dalle domande che arrivano dall’esterno, ma noi decidiamo comunque tutto insieme». Cioè, si va ai voti e prevale una maggioranza? «Diciamo che ci confrontiamo, discutiamo anche, ciascuna esprime il suo parere, a volte sono processi molto lunghi». Litigate? «Ma guardi che siamo umane! Vivere insieme è molto bello, anche se è difficile condividere tutto 24 ore su 24. Ciascuna di noi ha risposto a una sua chiamata, non ci siamo scelte, magari fuori di qui non ci sceglieremmo. Quindi sì, ci sono anche i conflitti, ma abbiamo il Vangelo come riferimento e guida e allora pratichiamo l’ascolto, il dialogo, il perdono, la comprensione dell’altro, la ricerca di un’armonia al di là delle difficoltà. Per noi la fraternità è anche testimonianza di questo. E la presenza del nostro piccolo monastero in un quartiere di una città vuole essere anche questo: una testimonianza. Io, per esempio, sono stata inizialmente in un altro monastero in un posto bellissimo, ma un po’ separato: quando ho conosciuto questa comunità, immersa nel quartiere, circondata da case, segno evidente che la nostra presenza è accanto alla gente, in mezzo alla vita di tutti, ecco, ho intuito che qui io ero chiamata. Ed eccomi qui, da 29 anni, in un luogo nato per testimoniare la pace proprio dove ha colpito la guerra». Com’è la giornata-tipo qui dentro? «Sveglia alle 5.15 e preghiera personale e liturgica, alle 6.30 le Lodi tutte insieme e alle 7 la messa. Poi la colazione, in silenzio, tutti i pasti li consumiamo nel silenzio. Alle 8.30 l’Ufficio delle letture, cioè preghiera fino alle 9.15 circa. Poi inizia il tempo del lavoro, un caposaldo degli insegnamenti di Chiara: ciascuna ha il suo compito, gestione della casa, pulizie, cucina portineria, cura delle anziane – facciamo tutto noi, qui non ci sono collaboratori esterni – e poi lavori di confezionamento di prodotti artigianali, come la decorazione di ceri e candele, creazione di calendari, correzione di bozze di testi religiosi, creazioni in cuoio… Alle 12.15 c’è l’Ora sesta della liturgia e poi il pranzo, con una sorella che, a turno, legge per le altre articoli che lei stessa ha selezionato». Ecco, appunto, come vi informate? Cosa arriva dal mondo esterno? «Televisione, radio, Internet, giornali e riviste cattoliche. Siamo informate, non siamo tagliate fuori dal mondo, magari abbiamo imparato a selezionare, con un esercizio disciplinato dell’uso del nostro tempo: meno quantità ma più qualità, non ci lasciamo sommergere dalle notizie ma le seguiamo, facciamo in modo che non ci scivolino addosso, ne discutiamo anche fra noi. Per esempio, abbiamo approfondito il tema della transizione ecologica e delle conseguenze sull’economia, a partire dalla protesta dei trattori, oppure proprio oggi è stato davvero interessante ascoltare l’intervista a un dottore di Medici senza frontiere». E durante il pranzo una legge e le altre stanno in silenzio? «Sì, è un momento di riflessione, risponde al bisogno di fermarsi e lasciar sedimentare. Fuori di qui è più difficile gestire i tempi e le situazioni». Torniamo all’agenda quotidiana: dopo il pranzo? «Riordiniamo, e a quel punto chiacchieriamo tra noi, per poi tornare al silenzio alle 14, quando la campana annuncia il tempo personale per ciascuna di noi, dedicato al riposo, alla preghiera personale dell’Ora Nona, allo studio. Alle 16.30 riprendiamo i lavori in casa, a volte facciamo formazione o riceviamo visite dall’esterno, alle 18 recitiamo i Vespri e poi dopo un altro momento di preghiera personale, alle 19 ceniamo. E dopo per circa un’oretta viviamo la nostra “ricreazione”, parliamo, qui attorno al tavolo, ascoltiamo anche della musica, scelta a turno da una per le altre». Di cosa parlate? «Di tutto, magari ci raccontiamo la giornata, per esempio stasera probabilmente racconteremo alle altre di quest’intervista (ridono). Diciamo, non temi che richiedano discernimento. Poi, verso le 21.15 c’è l’ultima preghiera, la Compieta, e dopo ciascuna va nella sua cella». Cella, non stanza? «Ma sì, noi la chiamiamo così, comunque è una stanzetta con un letto, un tavolino, un armadio e un lavandino con acqua fredda». Ricevete molte visite dall’esterno? «Sì, arrivano qui gruppi, per esempio giornate di ritiro, e di solito lasciano un’offerta che ci aiuta per il mantenimento del monastero. Sono soprattutto occasioni di condivisione, noi offriamo ciò che abbiamo: la nostra testimonianza, questo spazio per fermarsi, l’accompagnamento a chi sente il bisogno di nutrire la propria relazione con Dio e anche – tanto – a chi chiede ascolto. Sa che riceviamo tante richieste di ascolto personale? Anche da parte di persone non credenti. In una città come questa c’è un bisogno enorme di ascolto, di fermarsi, di un’oasi di silenzio, anche perché dalle domande vere spesso si scappa. Ecco, noi questo possiamo offrirlo, non abbiamo le risposte ma possiamo affiancarci al cammino di vita delle persone». A proposito di non credenti. Ma a chi, come voi, ha scelto di dedicare l’intera vita alla fede, non viene mai il pensiero… «… che Dio non esista? Ma figuriamoci se no! (ridono). Come diceva il cardinale Carlo Maria Martini, in ogni cristiano convivono un credente e un non credente. E noi non abbiamo alcuna prova scientifica dell’esistenza di Dio. Ma ciascuna di noi ha sentito questa chiamata della fede e ha scelto di viverla pienamente. Però, a prescindere da questo, sfatiamo il luogo comune: noi non siamo fuori dal mondo, non siamo speciali o diverse, non siamo migliori perché siamo qui dentro: felicità, tristezze, gioie, dolori fatiche, fragilità e tutto ciò che succede agli esseri umani. E come tutti attraversiamo dubbi, fatiche, anche nel credere. Siamo nell’assoluta normalità, anche perché essere altro significherebbe il contrario di ciò che ci hanno insegnato Chiara e Francesco. La differenza, semmai, è la ricerca su come abitare le cose che vivono tutti, per esempio come evitare che un conflitto sfoci in violenza, su come vivere la tristezza e la fragilità». Allora affrontiamo un’altra domanda ricorrente quando si parla delle suore di clausura: una volta compiuta la grande scelta di dedicare la propria vita alla fede, perché proprio in un monastero e non in qualche missione sociale là dove c’è bisogno di aiuto e conforto? «Quando mi sono innamorata del Signore studiavo per gli ultimi esami di medicina e ho vissuto due anni di lotta interiore attorno a questa domanda: “Con tutto quello che c’è da fare, tu vuoi andare a rinchiuderti in preghiera in un monastero?”. Poi ho elaborato la convinzione che vedo con nitidezza ancora oggi: questa mia, nostra testimonianza risponde a un bisogno non meno importante degli esseri umani, quanto il pane e la salute. La mia missione è qui, con la pratica quotidiana di un gesto minimo, per dire a tutti che la vita non si esaurisce in “cose”, la vita custodisce un vuoto, uno spazio di ristoro, l’inutile, il gratuito. E questo è molto più vero in una città come Milano, dove è richiesto a tutti di essere performanti e facilmente si perdono pezzi di umanità». Le vocazioni sono in calo costante da anni. Come immaginate il futuro di questo monastero? «Eravamo quasi trenta, quando siamo arrivate e adesso siamo in 17, con una sola novizia. Sappiamo che la realtà è questa, ma siamo anche convinte che possa essere un’opportunità, perché, come dice un salmo, “l’uomo nella prosperità non comprende”, e in fondo – per noi che crediamo nella bellezza del sine proprio, cioè del vivere senza appropriarci di nulla, cioè di nessuna proprietà personale – non ci appartiene neanche questa forma di vita. Quindi seguirà l’evoluzione che sarà necessaria, i numeri non esprimono il valore, la qualità non ha un criterio unico, figuriamoci quella di una vita di fede. L’importante è che viva il Vangelo».”
“Questo video risale a poche settimane fa, al giorno del matrimonio di due miei cari amici; nel video il padre di una mia amica e io balliamo un twist davanti la console del dj. Dalla mia espressione penso si possa capire quanto io fossi felice e spensierata, e quanto mi stessi divertendo assieme ai miei amici (o meglio: alla mia famiglia). Peccato che le cose non stessero proprio così. Il giorno prima, infatti, dopo l’ennesima litigata, il mio ex-fidanzato e io ci siamo ritrovati a prendere la decisione di interrompere la nostra relazione. Non che non me l’aspettassi eh… in fin dei conti, tirava aria di rottura già da tempo. Nonostante ciò, ho pianto fino a vomitare, ho vissuto un momento di completa paralisi fisica a causa del dolore, e ho dovuto prendere dei calmanti per tornare almeno per un po’ in me. Reazione eccessiva? Forse, ma non lo si capisce se non si è dentro la situazione. Sta di fatto che qui arrivo al nocciolo della questione: il giorno seguente, alle nozze, ho dovuto sorridere, scherzare, ballare, come se non fosse successo nulla. L’abilità di “combattere i propri demoni da soli e in silenzio” è, però, una lama a doppio taglio, e provoca una ferita profonda. Se, da un lato, ritengo giusto saper mettere da parte le proprie preoccupazioni, perché la gente, quando ti invita al proprio matrimonio, ti vuole vedere contenta per loro, a prescindere da come stai o da quello che stai attraversando, dall’altra parte è, però, un equilibrio difficile da mantenere, perché può tramutarsi velocemente in un “tenersi tutto dentro”, come è successo a me qualche mese fa, e condurre all’apatia verso tutto e tutti. Uscire dall’apatia o dalla “valanga di sentimenti” sono state probabilmente le migliori decisioni che potessi prendere e le peggiori sfide che potessi affrontare.” (T. classe quarta)
“Ho portato un pupazzetto per me molto importante perché è di quand’ero piccolissima, all’asilo e parte delle elementari. Ogni volta che dovevo fare un viaggio o qualcosa di importante i miei me lo portavano e serviva anche ad avere fortuna. Quando lo vedo penso a qualcosa di felice”.
Questa la gemma di C. (classe prima). Scrive Ted Menton: “Un vecchio orsacchiotto porta con sé una vita di conoscenza ed esperienza, la saggezza del silenzio e l’immobilità nei momenti di grande agitazione. Avere pazienza e saper soffrire – cose che si apprendono quando si appartiene ad un bambino che sta diventando maggiorenne e che sta affrontando lo smarrimento di questo periodo – è ciò che esso sa fare meglio: il vecchio orsacchiotto ha visto la vita attraverso il cuore e gli occhi di un bambino cresciuto fino all’età adulta e forse ha persino accompagnato quell’adulto fino alla fine del percorso.”
“E’ una foto scattata ieri mentre andavo a fare una passeggiata. Non sapevo cosa portare e tornata a casa ho scritto alcuni pensieri fatti durante la passeggiata: ho pensato di condividerli oggi. Giornata splendida dopo una settimana volata tra pioggia, allenamenti e verifiche, perché non andare a fare una passeggiata nel bosco per schiarirmi le idee? Non è un periodo facile, non riesco a trovare la motivazione giusta per fare nulla, non trovo uno scopo, il mio scopo, ma magari sono stati solamente giorni faticosi, sono solo stanca. Esco, cuffiette nelle orecchie, alzo il volume fino a che il rumore dei miei passi non scompare, chiudo la porta di casa e parto. È stata una camminata di circa 50 minuti in cui ho ascoltato musica ininterrottamente, ma non saprei nominare nemmeno un titolo tra le canzoni ascoltate perché i pensieri erano più assordanti. Mi sono ritrovata sola, sperduta per il bosco del mio piccolo paesino a fare i conti con me stessa ed è stata la cosa più difficile del mondo. Inconsciamente la mia mente ha iniziato a vagare, a scavare sempre più a fondo nei ricordi, ripensando a quanto successo negli ultimi sei mesi, poi in terza, seconda, prima superiore, fino ad arrivare alla terza media. Qui le riflessioni si sono protratte per più tempo, accompagnate da lacrime e singhiozzi che non riuscivo a sentire a causa del volume troppo alto, come se non riuscisssi ad accettare il mio dolore, come se non avessi il diritto di piangere. Ad un tratto parte una pubblicità di Spotify che mi strappa un sorriso, ritorno con la testa alla mia passeggiata e mi sento stupida a camminare per i campi sola e piangendo. Riparte la musica. Ormai penso di essermi sfogata e di poter godermi finalmente la passeggiata, ma ad un tratto, senza volerlo eccoli lì di nuovo, questa volta però sono i ricordi dell’estate tra la prima e la seconda elementare…quella maledetta estate. Piango. Cerco di distrarmi, ma l’unica cosa a cui riesco ad aggrapparmi sono i miei amici, più o meno recenti, e tutto d’un tratto mi sento incredibilmente sola, sento un vuoto dentro che ho paura di non riuscire a colmare, ho paura di non farcela, di deludere tutti. Non riesco più ad ascoltarmi e comincio a correre. Mi sfogo. Ricomincio a camminare. Arrivata a casa mi accorgo di aver passato l’ultimo tratto di strada senza aver ascoltato né le parole della canzone, né i miei pensieri, come se per un momento tutto il mondo si fosse messo in pausa. Quanto fa paura restare soli con se stessi”.
E’ difficile commentare la gemma di R. (classe quarta) tanto è ricca di suggestioni, emozioni, riflessioni. Ha premesso di non sapere cosa portare: ci ha portato in classe se stessa, la sua interiorità senza sovrastrutture o artificiali costrutti, un suo momento di fragilità e al contempo di forza. Non poteva farci regalo più grande. E mi ha anche ricordato di ricominciare a fare una cosa che da un po’ non faccio: deserto. Per me ‘fare deserto’ ha sempre significato prendere del tempo per me, isolarmi, appartarmi, mettere a tacere le voci delle cose da fare, degli impegni, delle incombenze e, in questo silenzio, ascoltarmi. Un proverbio tuareg dice Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci. E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima. Può far paura restare soli con se stessi, ma penso sia la via da percorrere e che a forza di essere percorsa porti alla nostra anima. E’ tornando da lì che poi il deserto si fa sentiero, si fa viottolo erboso e si fa giardino; è tornando da quel deserto che il “vuoto dentro” si fa pienezza e la “paura di non farcela” si fa sfida e voglia di farcela.
Su Settimana News ho recuperato un articolo di Giannino Piana (pubblicato sulla rivista Il gallo) sulla figura di Adriana Zarri, che nel mese di aprile avrebbe compiuto 100 anni.
“Il mondo interiore di Adriana Zarri, una vera mistica del nostro tempo, non è facile da decifrare. Sebbene siano molti i testi di spiritualità che ci ha lasciato – alcuni dei quali di rara intensità (Èpiù facile che un cammello… Gribaudi, Torino 1975; Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera, Cittadella, Assisi 1978; Erba della mia erba. Resoconto di vita, Cittadella, Assisi 1981; Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino 2011; Quasi una preghiera, Einaudi, Torino 2012) – la sua figura di donna votata alla vita monastica risulta a chi l’ha conosciuta da vicino (e per un lunghissimo periodo della sua esistenza) caratterizzata da mille sorprendenti sfaccettature che non si lasciano imbrigliare dentro una scrittura, sia pure carica sempre di un’impronta fortemente personale, come la sua. La ricchezza della personalità e la estrema varietà degli interessi coltivati confluivano in lei attorno a un asse fondamentale, che dava unità alla sua esistenza: la ricerca insonne di Dio in un rapporto stretto con la terra in tutte le sue componenti, dagli uomini agli animali al mondo vegetale, aderendo alle radici contadine, che hanno segnato profondamente la sua identità umana e religiosa (Cf. Con quella luna negli occhi, Einaudi, Torino 2014). È sufficiente ricordare la passione di Adriana per i gatti e, finché le è stato concesso dalla salute, l’allevamento degli animali da cortile e la coltivazione dell’orto.
Ad avvalorare questa visione vi è poi il suo essere donna: l’appartenenza di genere si riflette decisamente anche sulla sua spiritualità, che ha i connotati di una spiritualità al femminile. Anche a questo proposito emerge tuttavia l’originalità di Adriana: la sua adesione alle lotte femministe è stata infatti sempre contrassegnata da un vero (e profondo) coinvolgimento e insieme dalla rivendicazione di una grande libertà e indipendenza di giudizio. La spiritualità di Adriana coinvolge dunque – come si è accennato – la realtà in tutte le sue dimensioni. Il profumo dei campi nelle diverse stagioni, il colore variegato dei fiori, il fruscio delle fronde e il verso degli animali e, soprattutto, le vicende degli uomini, quelle dei poveri in particolare, segnano l’incontro con un Dio che è dentro la storia: il Dio che si è definitivamente manifestato nella persona di Gesù di Nazaret. Ma l’aspetto che contraddistingue, in modo speciale, il suo approccio, e che la avvicina alla spiritualità francescana, è l’accento posto sull’importanza che ha avuto, nel «farsi carne» (sarx) del Figlio di Dio, la dimensione «spaziale», e non solo «temporale»; il «divenire natura», e non solo storia. Il creato, in tutta la ricchezza delle sue espressioni, assume il carattere di habitat (spazio opportuno) che, rapportandosi al kairòs (tempo opportuno), conferisce alla dimensione contemplativa un orizzonte cosmico. L’esperienza di Dio nel mondo fa della vita quotidiana, nella molteplicità delle sue espressioni, non solo la sorgente, ma anche la modalità secondo la quale vivere la relazione con il divino. Vi è dunque una profonda continuità tra vita spirituale e vita quotidiana, perché il Dio della rivelazione è – come ci ricorda la lettera ai Filippesi da Adriana spesso citata – colui che in Gesù Cristo «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» e «facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8). Dio e mondo sono dunque per Adriana in un rapporto di circolarità: da un lato, la immagine del Dio cristiano non può prescindere dalla sua relazione con il mondo di cui è entrato a far parte; dall’altro, il mondo è da questa relazione riscattato; diviene anticipazione del Regno. Questa visione della realtà, che sollecita l’impegno nel presente e l’attesa del futuro, ha per Adriana una perfetta esplicitazione nella preghiera del Padre nostro, dove alla richiesta del pane quotidiano («Dacci oggi il nostro pane quotidiano») corrisponde l’invocazione del compiersi del Regno («Venga il tuo Regno») e dell’adempimento della volontà del Padre («Sia fatta la tua volontà») (Mt 6, 9-13).
La dinamica relazionale, che è l’asse portante della spiritualità di Adriana, ha poi nel mistero trinitario le sue radici. Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, che Gesù di Nazaret ha reso trasparente nella sua persona e attraverso la sua azione, è il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo: un Dio nel quale la relazione coincide con la stessa natura: le persone che costituiscono il mistero divino sono in quanto si rapportano tra loro. La definizione che di Dio fornisce la prima lettera di Giovanni: «Dio è carità» (1Gv 4,8) ha qui la sua più profonda motivazione. Trinità e carità sono strettamente correlate e interdipendenti. Solo di un Dio che vive in comunione di persone è infatti possibile dire che è Amore (e non semplicemente che ha l’amore), perché l’amore implica la relazione tra persone, che si costituiscono nel reciproco donarsi. In un libro di preghiere (o di quasi preghiere) che reca significativamente il titolo Tu (Tu. Quasi preghiere, Gribaudi, Torino 1973), Adriana si rivolge a Dio come a Qualcuno cui è possibile dare del tu, giungendo a livelli di intimità che ricordano le grandi esperienze mistiche – da maestro Eckhart a Giovanni della Croce e a Teresa d’Avila – alle quali spesso Adriana fa riferimento nei suoi scritti. L’incontro profondo, ma sempre inevitabilmente limitato, con il tu divino – la conoscenza di Dio è quaggiù parziale («per speculum et in aenigmate») – è la molla che spinge Adriana ad accostarsi alla morte, che ella considera una componente essenziale della vita – il contatto con la natura cui è stata abituata fin dall’infanzia facilitava la consapevolezza di questa continuità – come al passaggio da questa vita alla vita nuova, nella quale diviene finalmente possibile entrare in una relazione «faccia a faccia» con il Signore, che consente di conoscerlo come egli è («sicuti est»).
La spiritualità di Adriana non si esaurisce tuttavia nella sola adesione ai presupposti fondativi ricordati; si rende concreta in una serie di attitudini esistenziali, due delle quali meritano di essere particolarmente ricordate. La prima è l’ascolto. Le religioni del Libro sono religioni dell’ascolto: «Ascolta Israele» è l’invito che, fin dall’inizio, Dio rivolge al suo popolo. Ma l’ascolto – Adriana lo mette bene in evidenza – non si esaurisce (e non può esaurirsi) in un semplice sentire; esige un ridimensionamento dell’io per fare spazio all’accoglienza dell’altro e alla comprensione del suo messaggio. Esige la creazione di un clima di silenzio e la disponibilità a fare propria la povertà evangelica, che è insieme sobrietà nei confronti delle cose e apertura fiduciale alla grazia divina. La scoperta del mondo degli altri e dell’Altro è legata all’abbandono di ogni forma di autoreferenzialità, quale frutto di una profonda trasformazione interiore, una vera metanoia. Una seconda attitudine, particolarmente cara ad Adriana, è la ricettività, che considera un habitus esistenziale in stretta sintonia con il vissuto femminile. Destinata a essere custode della vita, la donna ha sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti di tale attitudine, la quale, lungi dall’identificarsi con la passività, è l’espressione (forse) più alta di attività, in quanto esige, per potersi esplicare, un processo di interiorizzazione, che consenta di riconoscere l’altro nella sua alterità, senza proiezioni mistificatorie. D’altra parte, la ricettività non è soltanto una virtù umana, per quanto grande; è anche – a questo va soprattutto ricondotta l’importanza che Adriana le attribuisce – la condizione fondamentale per vivere la relazione con il Dio cristiano, il quale viene costantemente incontro all’uomo, andando alla sua ricerca anche quando si è colpevolmente allontanato da Lui. La fede non comporta dunque un andare verso Dio, ma un disporsi a riceverlo, creando le condizioni per accoglierlo, lasciandosi fare e amare da Lui.
L’esperienza spirituale fin qui evocata ha per Adriana il suo momento più alto nella preghiera, o meglio nel pregare, il quale, lungi dal ridursi a fare o a dire preghiere, è un vero e proprio modo di essere-al-mondo. Il Dio della rivelazione biblica è il Dio dell’alleanza, che entra in comunione vitale con l’uomo, ma che, al tempo stesso, gli impone di non raffigurarlo né nominarlo, rivendicando in questo modo la sua assoluta Alterità. La preghiera è dunque ascolto, incontro e relazione, ma è anche rispetto di una distanza che non può mai essere del tutto colmata. È un vivere alla presenza di Dio, fare esperienza dell’essere abitati da Lui, ma è anche riconoscimento dell’assenza; è rifiuto di catturarlo per servirsene, evitando di assumersi fino in fondo la propria responsabilità nel mondo. La preghiera è una cosa seria che non deve essere separata dal contesto in cui si sviluppa l’esistenza e che implica la confidenza, ma che non può essere viziata da sdolcinature impudiche: il tema del pudore ricorre con frequenza nei testi spirituali di Adriana come un’istanza che deve connotare ogni espressione religiosa. L’incontro con Dio rinvia all’impegno nel mondo; l’atto cultuale non ha alcun significato se non si traduce in culto spirituale, nella capacità di coniugare incontro con Dio e fedeltà all’uomo e alla terra, immettendo nel dialogo religioso le inquietudini e le speranze umane. La preghiera di Adriana ha questo timbro; da essa scaturisce la militanza che ha contrassegnato l’intera sua esistenza, con la partecipazione diretta alle battaglie contro le diseguaglianze sociali e per la promozione dei diritti civili. L’eremo non è stato per lei un luogo separato dal mondo, ma un angolo appartato dal quale guardare con lucidità e partecipazione le vicende umane e mondane. La solitudine del monaco – Adriana preferiva definirsi così, al maschile, per l’accezione equivoca acquisita dal termine femminile – non è isolamento; è un processo di riappropriazione del mondo interiore, che restituisce all’uomo la libertà, rendendolo capace di esercitare il discernimento profetico nei confronti della realtà. Una spiritualità, quella di Adriana, la cui grande linearità e coerenza ha suscitato talora forti contestazioni da parte di ambienti ecclesiastici tradizionalisti; ma che ha, nel contempo, favorito la nascita di profonde amicizie religiose e laiche – come non ricordare dom Benedetto Calati e Rossana Rossanda? – che hanno concorso ad arricchire la sua esperienza religiosa e civile (e di cui hanno fruito quanti hanno frequentato i suoi incontri). Una spiritualità, soprattutto, nella quale la tensione alla trascendenza, lungi dal vanificare la dedizione nei confronti dell’uomo e della terra, ha fornito piuttosto lo stimolo all’esercizio di una limpida e feconda testimonianza in favore della città degli uomini.”
Sono passati esattamente quindici anni da quando, in una sparatoria tra clan a Forcella, veniva uccisa per errore una ragazzina di 14 anni, Annalisa Durante. Il suo nome è stato dato ad una biblioteca in uno dei rioni di Napoli. Ne scrive su L’Espresso Anna Dichiarante.
“Quindici anni fa, a Forcella, certe cose erano impensabili. Un pianoforte lasciato a disposizione dei passanti, la biblioteca, il murales di Jorit con il ritratto di un san Gennaro che santo non è, perché quel volto è di un giovane operaio e non del patrono della città. La sintesi di Napoli: mistica, viscerale, popolare. Quindici anni fa, in questo rione nel centro storico del capoluogo campano, i proiettili della camorra uccidevano Annalisa Durante.
Era la sera del 27 marzo 2004, quando, in via Vicaria vecchia, Annalisa, 14 anni, si ritrovò in mezzo a una sparatoria tra i clan rivali dei Giuliano e dei Mazzarella. Era scesa sotto casa per chiacchierare con le amiche e fu colpita per errore. Anche se coprirsi la fuga sparando per strada, tra la gente, non può essere considerato un errore. Annalisa divenne “scudo” di Salvatore Giuliano, rampollo della dinastia criminale che a Forcella ha dominato a lungo: il boss, all’epoca diciannovenne, impugnò le armi per difendersi da un agguato tesogli dal gruppo di fuoco di Vincenzo Mazzarella e centrò lei. La ragazza morì in ospedale nei giorni successivi. Per l’omicidio, Giuliano è stato condannato in via definitiva a 20 anni di reclusione. Vittima e assassino si conoscevano, perché in quell’intrico di vicoli tutti si conoscono. E lì, per rabbia e per amore, la famiglia di Annalisa è rimasta. Nonostante le minacce ricevute per aver esortato gli abitanti del rione a testimoniare contro i boss, suo padre Giovanni ha iniziato a darsi da fare per rendere Forcella un posto migliore. Una sfida per resistere al dolore, per dare un senso alla propria esistenza e per realizzare il desiderio della figlia di vedere un giorno Forcella «bella come gli altri quartieri». «Questi anni sono stati una battaglia. Allora, più della metà del quartiere stava con i camorristi, ma adesso il settanta per cento sta dalla mia parte. Chi avrebbe mai pensato che grazie ad Annalisa si sarebbe riusciti a fare tanto?», dice Giovanni, indicando intorno a sé gli scaffali con i libri della biblioteca che porta il nome di sua figlia. Nell’angolo c’è uno scatolone con gli ultimi cento donati da una scuola di Brescia. Sono molte, infatti, le classi che vengono in visita. Fuori qualcuno suona il pianoforte regalato da una storica azienda napoletana: serve per i concerti e i laboratori musicali, poi viene lasciato sotto il portico e chi passa può usarlo. Vicino al piano, c’è una casetta di legno con i libri che possono essere presi liberamente. Ovunque ci sono foto con luoghi e personaggi della tradizione napoletana. Poi, una parete con l’elenco, interminabile, delle vittime innocenti della criminalità organizzata in Campania. Giovanni trova sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui parlare; i suoi occhi inseguono continuamente nuove idee. Al suo fianco c’è Pino Perna, presidente dell’associazione fondata nel 2005 in memoria di Annalisa. Pino cerca di attuare tutti i progetti del signor Durante, perché «dirgli di no è impossibile».
Questa biblioteca, aperta nel 2015 e ospitata in uno spazio comunale a pochi passi dal punto in cui la quattordicenne fu uccisa, è il loro orgoglio. Ci sono quasi seimila volumi di vario genere, catalogati e inseriti nel circuito del sistema bibliotecario nazionale. «Ogni libro ci è stato regalato. Hanno cominciato ad arrivarcene da tutta Italia dopo l’omicidio di Annalisa. E qui la ricordiamo nel giorno del quindicesimo anniversario dalla sua morte», spiega Perna. Giovanni racconta che a dargli l’idea della biblioteca fu un napoletano emigrato in Australia: «Lo incontrai per caso, mi lasciò un libro e mi spronò a intraprendere quest’impresa». In realtà, il signor Durante aveva da sempre chiaro che la rinascita di Forcella, e delle altre aree soffocate dal controllo criminale, sarebbe dovuta passare dalla cultura. È quella, dice lui, che «salva le anime». Così, dopo la morte della figlia, iniziò a pungolare le istituzioni perché dessero un segnale, cominciando da uno dei posti più brutti del rione: un ex cinema di proprietà privata, ormai abbandonato e ridotto a discarica, proprio in via Vicaria vecchia. La Regione acquistò il palazzo, lo riqualificò e lo assegnò al Comune. Piano piano, grazie al lavoro dell’associazione “Annalisa Durante” e di altre realtà locali del terzo settore, sono partite le attività culturali e ricreative per bambini e ragazzi. Poi i libri, le mille iniziative per incentivare la lettura, il giornalino scritto dai giovani del quartiere, lo studio per scoprire le origini storiche di Napoli condotto insieme a un liceo del Torinese, l’allestimento di mostre e spettacoli teatrali. Nel 2006, all’interno della scuola comunale che si trova vicino alla biblioteca e che è stata a sua volta intitolata ad Annalisa, l’associazione ha aperto una ludoteca. «Nel 2011, però, abbiamo dovuto chiuderla – dice Pino – senza finanziamenti pubblici, non potevamo più pagare gli operatori». Grazie a una raccolta solidale di fondi e ai volontari del servizio civile, nel 2016 c’è stata la riapertura. A fare da custode alla sala con i giochi, tutti regalati, è il nonno materno di Annalisa. «All’inizio, alle nostre attività non veniva nessuno – continua Pino – la gente non si fidava o temeva di inimicarsi il clan frequentandole. Abbiamo dovuto dimostrare di essere credibili, di offrire servizi alla comunità. Perciò abbiamo puntato sui bimbi. Le mamme li lasciavano qui senza entrare, imparando che su di noi potevano contare». Una fiducia guadagnata a fatica, cercando di attirare le persone, una a una, in un quartiere martoriato dal degrado sociale ed economico. «Adesso del centro di Napoli si parla per le scorribande delle “baby paranze”. Sono proprio questi giovani “malamente” che vado a cercare, sono loro che hanno bisogno di essere strappati alla camorra e alla miseria. La mia sfida è portarli qui. Il coraggio per entrare, qualcuno lo sta trovando», s’infervora Giovanni, mischiando italiano e dialetto. Poi guarda Pino per un cenno di conferma: sì, ora a Forcella il coraggio per denunciare le intimidazioni e le estorsioni dei clan qualcuno inizia ad averlo. Il prossimo passo è portare le iniziative all’esterno, in mezzo alla gente. Come con la sfilata di carnevale del Comune, con la ciclo-officina gratuita, con il book crossing. E la partecipazione cresce. Agli incontri in biblioteca, Giovanni sistema le sedie in cerchio, ma lascia sempre un punto vuoto per poter aggiungere una sedia. «Il problema è che le istituzioni, invece di aiutarci, si dimenticano di noi, ci stritolano con la burocrazia – lamenta – l’ho detto pure al premier Giuseppe Conte, quand’è venuto qui. E gli ho chiesto perché Forcella non può essere ogni giorno come l’hanno fatta trovare a lui, pulita, senza cataste di motorini sui marciapiedi, senza bancarelle abusive dappertutto». L’obiettivo è sfruttare ogni moto delle coscienze e anche il boom turistico che Napoli sta vivendo. «Ci sono problemi eterni in questo rione – dice Perna – il contrabbando di sigarette come negli anni Settanta, gli edifici puntellati dal terremoto del 1980… Servono politiche integrate e continuative di sviluppo, non spot o interventi una tantum. Serve sinergia tra le organizzazioni di volontariato del territorio, soprattutto adesso che nuove idee stanno prendendo forma. E occorre portare i turisti anche qui. Finora si sono fermati a via Duomo, la strada che conduce alla cattedrale di Napoli e che segna il limite tra il centro storico, pieno di attrazioni famose nel mondo, e questo quartiere disgraziato, su cui sono fioriti pregiudizi». Per questo, Perna collabora anche con Legambiente e Slow Food: «Abbiamo poi creato “Zona Ntl – Napoli turismo e legalità”, una mappa dei siti di interesse storico-archeologico di Forcella collegata a un’app per raggiungere ovunque i potenziali turisti. Il rione è pieno di tesori, ma alcuni sono inaccessibili e trascurati, vanno recuperati. Sulla nostra cartina, inoltre, sono indicati bar e ristoranti dove trovare le eccellenze locali. Bisogna sostenere gli sforzi di chi vuole trasformare Forcella in un polo turistico di qualità». Giovanni, intanto, pensa già ai progetti futuri. Vuole aprire una piccola sezione della biblioteca all’interno del carcere di Poggioreale. «Ci vorrebbe una stanza, magari un po’ colorata, dove i detenuti possano trovare libri selezionati per loro, letture che possano farli riflettere e indurli a cambiare», spiega. Ma il sogno del signor Durante è di incontrare papa Francesco. Pino si sta facendo in quattro per riuscire ad accontentarlo. «Sai cosa vorrei chiedergli? – dice Giovanni, stringendo il braccio dell’amico – di lanciare un appello per aiutarmi a trovare le cinque persone che hanno ricevuto gli organi di mia figlia». Quando Annalisa morì, infatti, i suoi genitori autorizzarono la donazione, ma la legge non consente di conoscere l’identità dei destinatari del trapianto. «Il mio ultimo desiderio – conclude Giovanni – è poterli abbracciare. Nient’altro. Ma mi basterebbe anche solo un biglietto anonimo, per sapere se stanno bene. Per sapere che sono vivi e che Annalisa lo è insieme a loro».
Ricordo un vecchio cartone animato dal titolo “Siamo fatti così”. Sostanzialmente spiegava com’è fatto il corpo umano. Mi è tornato in mente dopo aver ascoltato Arianna Zottarel, ricercatrice universitaria e autrice del libro “La mafia del Brenta. La storia di Felice Maniero e del Veneto che si credeva innocente”. Nel suo intervento del 2 febbraio scorso a Trieste ha parlato della mafia del Brenta e soprattutto della considerazione sociale intorno a tale vicenda. Trovo utili le sue parole in preparazione all’incontro di domani mattina tra gli studenti delle scuole di Udine e don Luigi Ciotti di Libera.
“Il punto da cui sono partita è stato quello di vedere la mafia del Brenta come un fenomeno che porta con sé tutta una storia di negazionismo, minimizzazione e sottovalutazione del fenomeno mafioso in Veneto. Questi processi su più fronti in realtà hanno sempre interessato il Veneto, così come altre regioni del nord-Italia, non sempre per complicità ma anche per problemi dovuti alla scarsa conoscenza del fenomeno o per le poche grandi operazioni della Magistratura che non hanno scosso il territorio veneto come hanno fatto in altre realtà. E quando pure lo hanno fatto, l’atteggiamento spontaneo è stato quello, un po’, di un’autocensura sociale e spesso anche giornalistica, di una minimizzazione da parte delle Istituzioni proprio perché c’era questo atteggiamento di voler tutelare l’immagine del territorio: un Veneto del turismo, un Veneto dell’impresa, un Veneto che sicuramente non si voleva associare alla parola mafia. Invece, nonostante risulti quasi sempre fanalino di coda in tema di criminalità organizzata, in realtà il Veneto è stato una regione a non tradizionale presenza mafiosa in cui è cresciuta e si è sviluppata una mafia autoctona. Questa storia si è anche andata velocemente dimenticando e non si è costruita molta teoria come è stato per le altre organizzazioni. La mafia del Brenta ha operato soprattutto a Padova, nelle provincie di Padova e di Venezia, dalla metà degli anni ‘70 alla metà degli anni ‘90, ed è un’organizzazione che ha dei connotati molto diversi da quelli che conosciamo delle altre organizzazioni tradizionali, proprio perché è stata influenzata dagli aspetti politici, economici, sociali, culturali e criminali di quegli anni. Parliamo pertanto di un nuovo insediamento mafioso: non è il risultato di un processo di esportazione o di colonizzazione. Le caratteristiche sono diverse, a partire dalla sua struttura organizzativa: mentre Cosa Nostra e ‘Ndrangheta hanno struttura unitaria, verticistica e gerarchizzata e la Camorra tende ad avere una struttura più ad arcipelago e polverizzata, la mafia del Brenta non ha dei modelli da tramandare, non ha un’eredità né una storia. Nasce per delinquere e ha assunto la forma organizzativa più congeniale ai suoi scopi: un network, una rete, egocentrata sulla figura di Felice Maniero, leader del gruppo. Ciò le permetteva di essere molto flessibile, molto veloce e di far entrare nella rete diverse abilità criminali che consentivano di mantenere l’autonomia, fondamentale in una realtà che vedeva presenti più cellule criminali sul territorio. Beneficiando del capitale sociale prodotto da questa rete, si è creata una grande zona grigia ed è emerso il grande potere corruttivo di questa organizzazione: medici, imprenditori, esponenti delle forze dell’ordine si sono messi a servizio dell’organizzazione permettendole di godere di ottima salute e di proseguire nei propri progetti criminali. Penso che senza questa forza corruttiva, senza questa fitta rete di corruzione, l’organizzazione sarebbe rimasta in uno stato embrionale: dei rapinatori organizzati aspiranti mafiosi, più che mafiosi in senso stretto. E’ poi sicuramente importante valutare il contesto per capire l’organizzazione. Nei 15 anni di vita si sono passate 3 pagine fondamentali:
da metà a fine anni ‘70: criminalità minore con ristretto gruppo di aderenti dediti soprattutto alla rapina e all’organizzazione del gioco d’azzardo clandestino. Va considerata più come una pagina di banditismo
1980-1984: criminalità emergente, aumento della quantità, formazione di un capitale economico molto importante proveniente da varie attività illecite
1984-1994: criminalità consolidata e solida, riconosciuta, aumentata nel suo network sia a livello quantitativo ma anche qualitativo; diversificazione delle attività (dal traffico di stupefacenti al traffico d’armi)
La storia della mafia del Brenta ci mostra anche la storia del successo della Magistratura proprio perché non è facile imputare un’organizzazione di 416 bis in una regione di non tradizionale presenza mafiosa, a maggior ragione quando si tratta poi di una mafia autoctona. Per i giudici questa era sicuramente un’organizzazione mafiosa, autoctona e autonoma nei suoi comportamenti, nella sua vocazione criminale e anche nella sua composizione. “Mafiosi dell’ultima ora” così si definiva Felice Maniero parlando di se stesso e della sua organizzazione: mafioso perché sicuramente capace di avvalersi della forza di intimidazione e di assoggettamento, di omertà, e di un capillare controllo del territorio; mafioso perché capace di instaurare rapporti di dipendenza personale, di usare la violenza come suprema regolazione dei conflitti, di stringere alcuni legami con la politica (meno in Italia e più all’estero). Eppure, spesso, quando si parla di mafia del Brenta, la si chiama “mala”; spesso si pensa che sia un’opinione pensare che questa sia mafia, invece c’è una sentenza di cassazione che determina questo. E’ molto importante porre questo accento perché per molto tempo, negando l’esistenza di una mafia, si è negato tutto un apparato che esisteva e che non si è andati a guardare, così come si sono negate anche le vittime innocenti, a partire da Cristina Pavesi, studentessa universitaria di 22 anni uccisa durante una rapina. Per molto tempo, non riconoscendo questa organizzazione come mafiosa, non si sono riconosciute neanche le vittime. E’ pertanto importante sottolineare questo aspetto per fare memoria, ma anche per altri due motivi: 1. l’organizzazione si è posta come agente di trasformazione sociale nella sua regione, cambiando le dinamiche, modificando gli assetti e aprendo una stagione di interessi importanti mafiosi verso il nord-est (si sono verificati dei vuoti e quando c’è un vuoto nel mondo del crimine viene immediatamente riempito); 2. nonostante l’organizzazione sia finita da tanti anni, esiste ancora un forte conflitto culturale che emerge proprio dalla percezione del fenomeno. Nei luoghi più significativi della mafia del Brenta emerge una stanchezza di voler sentire sempre il nome del luogo affiancato alla parola mafia (ad esempio Campolongo Maggiore); si cerca un po’ di dimenticare anche se sono state fatte moltissime attività. Nel resto d’Italia c’è una percezione completamente diversa, una narrazione costruita sul carisma di Felice Maniero, su molti luoghi comuni che hanno creato un cono d’ombra sulla vera organizzazione: non si parla di omicidi, non si parla di sequestri, non si parla di traffico di stupefacenti, ma delle grandi evasioni o delle grandi rapine. Ad esempio, l’anno scorso, ad Ercolano, in provincia di Napoli, il volto di Maniero è diventato il logo per un ostello, chiamato Hostello Felice. Fa capire quanto nel resto d’Italia non si abbia idea di quanto stiamo parlando. Ritengo pertanto fondamentale continuare a parlarne, non tanto concentrandoci sul carisma di Felice Maniero o sui lati folcloristici, ma cercando di capire quali sono state le variabili che hanno potuto far nascere e crescere così velocemente un’organizzazione tale nel Veneto che si credeva innocente. E ci può aiutare a capire come anche altre mafie autoctone si sviluppano e si sono sviluppate in Italia.”
“E’ fondamentale capire come si iniziano a raccontare le mafie e come si inizia a raccontare quello che c’è attorno. Il racconto dell’economia, il racconto del tessuto sociale ci permettono di capire quali sono gli agganci che queste organizzazioni poi hanno. In Lombardia, in Piemonte e in Emilia Romagna sono caduti molto luoghi comuni: se abbiamo l’immagine di un mafioso che arriva e infetta un tessuto sano stiamo già facendo un’operazione di disinformazione perché di tessuti sani non ce ne sono più. Non è un caso se nelle inchieste di Milano e di Bologna si usa il termine “colonizzazione”, intendendo non quella di carattere militare ma quella di carattere economico: è la capacità che le organizzazioni criminali hanno, in questo tempo di crisi, di attirare persone che normalmente non si sarebbero rivolte a un mafioso, ma sarebbero andate in banca o dal patronato o dalle forze dell’ordine. Quando cambia questo tipo di racconto, allora c’è l’inizio di un possibile contrasto anche a livello sociale; se invece continuiamo a raccontarcela come il virus che infetta un tessuto sano, non cambiamo. Credo che oggi, in questo territorio, sia questo il passaggio da fare”. In questi termini, alla fine della mattinata del 2 febbraio a Trieste, si è espresso Lorenzo Frigerio, che poi ha continuato: “L’utilizzo del termine “colonizzazione economica”, usato per la prima volta dai magistrati di Milano e poi dalla Procura Nazionale a proposito di “Crimine infinito”, ha un ulteriore evoluzione nell’inchiesta Aemilia, in cui si parla di “colonizzazione delle menti”. E’ l’idea che, soprattutto in una fase di crisi e in un ambiente contraddistinto da un certo tenore di vita, dove il concetto della fatica e della piccola impresa non basta più a tenere il passo del mercato, il denaro, proveniente da contesti che so essere illeciti, sia indispensabile perché i circuiti normali si sono chiusi. Lì sta il salto di qualità. Il Triveneto sta subendo lo stesso processo che Veneto, Lombardia, Emilia, Liguria hanno vissuto in precedenza: svegliarsi e scoprirsi non diversi dagli altri. Quelli che erano i tradizionali anticorpi sono stati persi per strada.”
E’ quindi intervenuta Fabiana Martini di Articolo 21 sul ruolo del giornalismo in questo periodo storico: “siamo in una fase abbastanza singolare, più che altro perché gli attacchi all’informazione e ai giornalisti arrivano proprio dai vertici delle Istituzioni. Pur sapendo che spesso c’è anche una responsabilità del giornalista che non fa fino in fondo il proprio lavoro e quindi contribuisce a delegittimare la professione, va detto che se si fa il cane da guardia “correttamente” il ruolo è accettato in un contesto democratico; delegittimare l’informazione significa delegittimare la democrazia. Il potere non contrastato è la fine della democrazia. Facendo autocritica dobbiamo anche ammettere che esistono colleghi che si limitano a porre il microfono davanti al potente o al rappresentante di turno senza fare le domande giuste: anche questo significa non fare fino in fondo il proprio lavoro. L’atteggiamento di ostilità e la delegittimazione a cui assistiamo quotidianamente, non solo qui (si pensi agli Stati Uniti, all’Ungheria…), ci fa dire che siamo in un momento difficile e singolare”.
Il Sostituto Distrettuale Antimafia di Trieste Antonio Miggiani ha risposto a una domanda del pubblico in merito a trasparenza e onestà: “Non penso che la popolazione del Friuli Venezia Giulia sia molto più coraggiosa o meno coraggiosa della popolazione siciliana, ma è diversa la percezione. Un siciliano si rende conto del pericolo, il friulano no. In Sicilia nessuno va a fare una denuncia ai carabinieri, mentre qua qualche denuncia c’è. Questa differenza strutturale ha fatto sì che le nostre mafie agiscono in modo diverso al nord. Come detto, sono mafie imprenditrici che si presentano con un aspetto borghese, normale. Il coraggio… sono ben pochi che ce l’hanno. Di fronte a un criminale è normale avere paura. Un altro aspetto è il finanziamento bancario: le mafie hanno rapporti continui con gli istituti bancari. Se questi ultimi perdono la loro autorevolezza, è ovvio che la mafia viene fuori; il fatto stesso che il nostro sistema bancario da sistema pubblico è diventato privato ha comportato, ad esempio, la scomparsa della figura del pubblico ufficiale all’interno del rapporto. Il Direttore di Banca che si fa dare una tangente per rilasciare un mutuo, non commette reato come se fosse anche pubblico ufficiale. Il sistema bancario è pertanto uno snodo delicatissimo all’interno del quale andrebbero pensate delle forme di reato attualmente inesistenti. Se in questo settore vengono meno la trasparenza e l’onestà, le mafie hanno facile gioco nel portare avanti i loro progetti di espansione economica e di potere”.
Sul rapporto tra magistratura e giornalismo si è infine concentrato l’intervento del Sostituto Procuratore di Venezia Lucia D’Alessandro: “voglio intervenire in merito alla colonizzazione da parte dei sodalizi tradizionali di matrice mafiosa nel nord-est. In particolare vorrei porre l’accento sul rapporto tra informazione e percezione: se non c’è una giusta informazione, corretta ed esaustiva, non possiamo pretendere che la popolazione sia attenta. E’ molto importante che si crei una interlocuzione schietta, serena, costruttiva tra le procure e l’informazione; devo ammettere che se l’informazione non viene in qualche modo soccorsa, agevolata dalle forze dell’ordine, dalle procure, nell’adeguatezza dell’informazione che si accinge a rendere, rischia di incorrere nell’errore e nel dispiacere di fornire notizie, se non false, almeno fuorvianti e scorrette. E’ auspicabile un dialogo asciutto, che consenta di veicolare informazioni non coperte da segreto istruttorio e che pertanto diano il via a una corretta percezione, da parte della popolazione, del fenomeno mafioso che si è combattuto o che si sta continuando a combattere. Il rischio, altrimenti, è quello di avere una percezione fuorviata che è peggio di nessuna percezione”.
Ho seguito con molta attenzione la mezz’ora con cui la giornalista Luana De Francisco ha presentato la situazione del Friuli Venezia Giulia. L’ha introdotta Lorenzo Frigerio: “E’ autrice, insieme a Ugo Dinello e Giampiero Rossi, del libro Mafie a nord-est, del 2015, Rizzoli. Nell’introduzione del libro si legge: “Sono tanti i segnali di una progressiva penetrazione mafiosa nel nord-est che non può più essere trascurata né brandita dalla politica soltanto come strumento nel gioco delle parti. Li abbiamo voluti riunire e raccontare nelle pagine che seguono, nell’intento di offrire a tutti, finalmente, gli strumenti e potersi fare un’opinione.”” Quindi ha preso la parola la giornalista:
“Sono qui in quanto giornalista e quindi voglio ribadire ancora una volta l’importanza del ruolo della nostra professione; non siamo certamente degli oracoli, ma intermediari che hanno la funzione di raccontare. Io mi occupo di cronaca giudiziaria, non sono un’esperta di mafia, ma mi ci sono inciampata. Ho necessità indispensabile di attingere alle carte, ai documenti, alle fonti certe. Accanto poi ci sono le storie da raccontare, quelle della gente, dei testimoni. Nel nostro territorio questo è molto poco presente: le informazioni circolano molto poco proprio perché la mafia non è un fenomeno roboante, non ci sono manifestazioni pirotecniche. Un collaboratore di giustizia, qui a Trieste, ha dichiarato che già 10, 15, 20 anni fa, quando la ‘ndrina Iona salì con tutti i suoi sodali, la parola d’ordine era quella di non farsi notare, di non dare nell’occhio, “la gente non deve sapere che ci siamo”. Da qui la difficoltà per noi giornalisti di raccontare queste cose. In merito alla questione che i giornali ne scrivono poco o non ne scrivono affatto, vorrei dire che non è proprio così: se quel libro c’è è anche perché parte da una raccolta di articoli pubblicati, solo che poi un quotidiano vive di notizie, per cui un giorno dai la notizia, quello successivo la riprendi perché ci sono le reazioni, ma il terzo giorno è già vecchia la notizia. La forza di un libro, invece, è che resta lì, fa meditare e può far scattare la molla del senso civico. Aggiungo anche che è vero che ogni giorno raccontiamo qualcosa, e anche se non riguarda specificatamente mafiosi, camorristi e ndranghetisti, è comunque prezioso ai fini della descrizione della cornice in cui viviamo. Tutto quello che scriviamo serve a rappresentare il territorio nel quale sono germinati elementi mafiosi: saper riconoscere lo stato di salute o lo stato di crisi di un territorio è molto importante. Ad esempio, ogni anno raccontiamo di quante sono state le segnalazioni all’Ufficio Finanziario della Banca d’Italia di operazioni sospette, il numero di fallimenti, di sequestri di droga o di armi…: tutto questo contribuisce a descrivere i numeri di un territorio che si configura come terra ideale per le colonizzazioni mafiose. Mi sono accorta tra ieri e oggi che quando si faceva riferimento a storie di 4 o 5 anni fa, c’era molto stupore, segno che queste storie non sono granché conosciute, per cui vale la pena raccontarle. Visto che si è parlato di droga, si è parlato di sud America e si è parlato della scarsa percezione che il territorio ha del problema e vista la scarsa volontà di sapere determinate cose da parte dei cittadini (perché non interessa, perché non fa notizia; spesso indigna di più una ciclabile sconnessa rispetto alla condanna per bancarotta fraudolenta di un imprenditore) ho pensato di accennare prima di tutto alla vicenda di Paolo il Friulano, così chiamato dai camorristi coi quali entrò in affari. Siamo a metà degli anni ‘90, Udine centro. Il suo vero nome era Luciano De Sario, un emigrante di ritorno, partito da bambino insieme alla famiglia palmarina per l’Argentina. In sud America aveva intessuto tutta una serie di rapporti, conoscenze e amicizie e si era sposato con Fadia, una donna venezuelana. A neanche 50 anni decide di tornare in Friuli e torna pieno di soldi; apre un’azienda a Lauzacco, paese alla periferia sud di Udine. Si occupa di import-export di grossi macchinari per il settore edile ed estrattivo, in particolare in e dalla Colombia. Era sostanzialmente diventato il punto di intermediazione tra il cartello di Cali e la camorra di Pasquale Centore (ex funzionari di banca, ex sindaco di San Nicola la Strada). Da questo momento comincia a vivere da nababbo e la gente che vive accanto a lui non si pone nessuna domanda, anzi, si apre la corsa a farsi invitare a casa sua, nell’attico di Palazzo Moretti (oggi confiscato e dato in uso ai servizi sociali del Comune di Udine). Chi ci entrò narra di tappeti in oro zecchino, pezzi di antiquariato… Le macchine erano di lusso, gli ambienti frequentati erano tra i più esclusivi. La domanda “come può un piccolo imprenditore permettersi tutto questo?” però non scattava. Succedeva che dentro quei macchinari transitavano ogni settimana 50 kg di cocaina. A stupire è il fatto che nessuno, né allora, né quando scoppiò lo scandalo, né successivamente, lo abbia mai condannato, anzi: ci si continua, tuttora, a fare vanto di averlo conosciuto, di aver avuto rapporti con “uno che ci sapeva fare”. Poi è stato processato all’interno di un’inchiesta partita dal sud Italia (va detto che anche a questo è legata la scarsa percezione del fenomeno mafioso: poche le inchieste che partivano dal territorio e rimanevano sul territorio). Viene anche da chiedersi: ma tutti questi soldi che guadagnava, dove li metteva? In banca. E’ provato che versasse somme tra 100 e 200 milioni di lire in contanti: non scattava alcun sospetto. L’inchiesta si è poi chiusa con il patteggiamento a 4 anno e 8 mesi, poi ridotti in appello per l’incensuratezza e per il comportamento processuale collaborativo. Ricordo anche un’altra inchiesta partita da degli accertamenti della Guardia di Finanza di Udine su movimenti bancari di alcuni Istituti di Credito: sono risultati sospetti dei trasferimenti di denaro piuttosto numerosi da Vibo Valentia. L’inchiesta si è trasferita poi per competenza territoriale a Cosenza e ha perso per strada gli elementi friulani che avevano dato il via alle indagini per l’impossibilità di dimostrarne il coinvolgimento; è comunque culminata nel 2015 in un processo che decapitato i Mancuso. Vi sono anche inchieste che partono dal Sud, come quella che portò a scoprire un affiliato degli Emmanuello (si stava indagando sulla latitanza di Emmanuello di Gela) insieme a degli imprenditori edili trasferitisi da Gela al pordenonese: qui si aggiudicavano appalti funzionali a lavare denaro e a generare compensi per mantenere la latitanza dorata di Emmanuello. Raccontare queste cose è tremendamente difficile se non si trova un interlocutore disponibile a raccontartele. Se il giornalista ha un barlume di notizia, comunque deve farla uscire perché suo dovere è raccontare i fatti; se non c’è collaborazione, fondata sul rapporto di fiducia reciproco tra giornalista e magistratura e sul rispetto dei ruoli, ci sarà uno svantaggio per entrambe le parti. In merito al voto di scambio, è in corso un’inchiesta della DDA di Trieste che ipotizza un accordo pre elettorale sulle elezioni amministrative di Lignano del 2012. Un amministratore uscente, di origini napoletane, avrebbe preso accordo con 400 persone del napoletano per avere il loro voto di preferenza in cambio di residenza facili; il tutto con il favore del capo dei vigili urbani di Lignano. Un’altra inchiesta ha riguardato la ricostituzione di una ‘ndrina nel monfalconese per mano di Giuseppe Iona. Ci sono gli interessi della camorra su Monfalcone e su Fincantieri con il fenomeno dei trasfertisti napoletani. Insomma, i fatti non mancano; solo che o non si possono raccontare o sono finiti in breve nel dimenticatoio.”
Paola Zampieri intervista il teologo Duilio Albarello (Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale) sulla ricerca spirituale e i giovani. “In un tempo in cui il rapporto con il sacro non è più regolato dalle credenze delle chiese, ma dall’espressività e dalla creatività degli individui, la chiesa deve saper tacere e ascoltare, incontrare e testimoniare la bellezza del credere”. Questa la fonte. Prof. Albarello, quali sono le forme inedite di ricerca spirituale, in particolare, che caratterizzano il mondo giovanile in un’epoca in cui il rapporto con il sacro non è più regolato dalle norme morali o dalle credenze delle chiese, ma dall’espressività e dalla creatività degli individui? «Nel nostro tempo quel “paganesimo di ritorno”, o meglio quel secolarismo culturale che attorno alla metà del Novecento si affacciava soltanto sulla scena, si è pienamente realizzato e per la verità ha anche cominciato a mostrare i segni del suo logoramento. Uno di questi segni più evidenti, specie a livello giovanile, è la ricomparsa del “sacro” prevalentemente nella forma del soggettivismo spirituale, ossia del cosiddetto bricolage religioso. Tale fenomeno tuttavia, assai prima di essere stigmatizzato, richiederebbe di essere attentamente decifrato. Esso infatti a mio parere è l’espressione ambivalente di quello che alcuni hanno cominciato a chiamare “l’incredibile bisogno di credere” (Julia Kristeva) che si registra nella nostra epoca». La “fede”, oggi, cos’è? «In un momento in cui l’unica certezza rimasta sembra essere quella che non vi siano più certezze, il problema maggiore diventa rintracciare le risorse disponibili per attivare una fiducia che si mostri effettivamente fondata, pur senza degenerare per forza in una sorta di “credenza fai da te”. Sotto questo profilo, la “fede” si propone oggi come la questione antropologica per eccellenza, sia sul piano individuale, sia sul piano collettivo: una fede che consenta di continuare o ricominciare a dare credito alla vita, prima ancora che a Dio. Sono sempre di più le persone che avvertono questa esigenza, specie tra le giovani generazioni, ma spesso purtroppo la loro domanda non trova accoglienza nel “recinto” ecclesiale, poiché non disponiamo di strumenti capaci di interpretarla e di accompagnarla». In questo contesto, come si pone la spiritualità cristiana? Come risponde al bisogno di senso dei giovani? «A mio avviso, il bisogno di senso si sovrappone proprio a quel bisogno di credere, di cui parlavo prima. A questo riguardo, penso che per intercettare la sensibilità e il coinvolgimento dei giovani – ma non solo – sia indispensabile coltivare la dimensione estetica della fede, o in parole più semplici la “bellezza del credere”. Intendo dire: l’incontro con Cristo che cambia la qualità della vita non può avvenire in un ambiente asettico e in un clima anestetizzante. Purtroppo la sensazione che si prova in molti casi nei percorsi formativi o nelle celebrazioni liturgiche non spinge affatto chi partecipa ad esclamare: “È bello per noi stare qui!”. Eppure una testimonianza ecclesiale, che non accenda i sensi con la luce dello Spirito e non indirizzi gli affetti a percepire il fascino di stringere alleanza con il Signore, è destinata fin dall’inizio a mancare il suo compito». Occorre spingere sulle leve emotive? «Sia chiaro, non sto incoraggiando a spingere sul pedale dell’emotivismo per attivare discutibili strategie pastorali di seduzione, che finiscono per confondere la testimonianza del Vangelo con la pubblicizzazione di un prodotto. Intendo solo evidenziare che senza sperimentare la bellezza del credere nel Dio di Gesù sarebbe del tutto impossibile riconoscere la verità della sua Parola e lasciarsi trasformare dalla bontà della sua Presenza». È l’esempio che muove e trascina. «La spiritualità cristiana nasce e si costituisce ovunque vi siano un uomo e una donna che attestano quanto sia “bello” – dunque promettente e insieme impegnativo – edificare la propria vita nella compagnia del Signore. Tra il resto, per limitarci a una esemplificazione significativa, l’obbiettivo di una cura pastorale per la ricerca vocazionale dei giovani dovrebbe essere appunto questo: suscitare in essi il desiderio di “avere una storia” con il Signore, di incrociare la propria via con quella percorsa da Gesù, riconoscendo che è davvero la via verso la vita buona». Quale contributo può portare la teologia per cambiare lo sguardo della chiesa sui giovani? «A mio avviso si tratta di mettere finalmente in piena luce la portata pratica della “svolta antropologica” maturata nel pensiero teologico del Novecento. Infatti questa “svolta” si basa sulla consapevolezza che sarebbe impossibile dire il Dio di Gesù Cristo senza coinvolgere l’essere umano, la sua esistenza concreta a livello personale e sociale. Anzi, la verità dell’Evangelo individua il terreno di prova decisivo proprio nella sua forza di autentica umanizzazione: se tale forza venisse meno o comunque non fosse più percepita, ne risulterebbe compromesso il carattere affidabile di quella stessa verità». Qual è la sfida che interpella la chiesa? «In questa prospettiva, la chiesa è sfidata a lasciar cadere le incrostazioni dottrinali e morali che spesso ancora la paralizzano, per tornare a condividere con le nuove generazioni il suo unico ‘tesoro’: l’umanità eccedente di Gesù Cristo, come forma e forza, che sono necessarie all’“incredibile bisogno di credere”, diffuso nelle nostre società dell’incertezza, per essere autenticamente degno dell’uomo». Il primo passo da fare? «Un primo passo, indispensabile, per raccogliere tale sfida da parte della comunità ecclesiale sarebbe quello di tacere, per mettersi davvero in ascolto in particolare delle esperienze concrete dei giovani, con le loro attese e le loro disillusioni, con le loro risposte e i loro dubbi. Solo passando attraverso questo silenzio umile dell’ascolto, sarà possibile per la testimonianza ecclesiale incontrare i giovani in carne ed ossa, in modo da offrire loro quel “giusto senso” dell’esistenza, che ha la sua origine in Dio e che Gesù Cristo intende donare a tutti».
Lo scrittore spagnolo Marcos Chicot immagina, in un pezzo pubblicato domenica 3 settembre su La Lettura, il ritorno di Socrate ai giorni d’oggi. Un brano divertente e ricco di spunti di riflessione.
“Nei suoi primi giorni nel XXI secolo, probabilmente Socrate si incamminerebbe a piedi scalzi verso una biblioteca, in cui si rinchiuderebbe per un po’ in modo da aggiornarsi su quanto avvenuto dopo la sua morte nel 399 a.C. Vestito con la sua abituale tunica austera, forse sorriderebbe soddisfatto nello scoprire che oggi consideriamo l’Epoca Classica (499-323 a.C.) il periodo più straordinario nella storia dell’umanità. In effetti ha dell’incredibile che in così pochi anni, quasi avessero ricevuto un’illuminazione improvvisa, i Greci abbiano creato tanti elementi che oggi sono la base della nostra civiltà. Riassumendo: 1) la medicina giunse al rango di scienza per mano di Ippocrate; 2) in architettura furono eretti alcuni capolavori universali dell’ingegneria come il Partenone; 3) apparvero il teatro e i grandi drammaturghi; 4) Mirone e Fidia reinventarono in modo definitivo il modo di fare scultura; 5) infine, in fatto di politica, i Greci sorpresero il mondo sviluppando una forma di governo fino ad allora ignota: la democrazia. Ora, in quella biblioteca Socrate si acciglierebbe nel leggere che denominiamo «presocratici» i filosofi che lo hanno preceduto, facendo di lui una pietra miliare, il confine che segna un prima e un dopo nella storia del pensiero e, pertanto, dell’umanità. Secondo Platone, l’oracolo di Delfi affermò che Socrate era il più saggio tra gli uomini. La reazione di questi anziché gonfiarsi d’orgoglio come avrebbe fatto qualsiasi mortale consistette nel rifiutare con umiltà il significato letterale di quelle parole, domandandosi come avrebbe potuto essere il più saggio se sapeva solo… di non sapere. L’ammissione della propria ignoranza, al pari della ricerca incessante della conoscenza, lo trasformarono nel paradigma del filosofo. E, come se non bastasse, la sua dialettica rigorosa lo innalzò al ruolo di padre del Razionalismo. Inoltre, aver scelto come elementi principali di riflessione il bene e il male, la virtù e la felicità, ce lo fa considerare il padre della filosofia etica. Infine, essere stato il primo a porre l’uomo al centro dell’attenzione lo rende il padre dell’Umanesimo. Sopraffatto da tanti riconoscimenti, Socrate chiuderebbe i libri e abbandonerebbe la biblioteca per interessarsi alla nostra società. Ci guarderebbe in prospettiva, accarezzandosi irrequieto la barba folta, sorpreso che molte delle conquiste della sua epoca siano scomparse per tanti anni e siano state riscoperte solo di recente, facendo somigliare il nostro mondo al suo: la democrazia, perduta per due millenni fino alla Rivoluzione francese; lo sviluppo di arti e scienze dell’antichità classica, il cui recupero dà il nome al Rinascimento; o lo stesso Umanesimo socratico, riportato alla luce da grandi maestri come Petrarca e Leonardo. «Saranno consapevoli gli abitanti del mondo di oggi che tutto potrebbe andare perduto di nuovo?», si domanderebbe. Aggiornatosi sul passato e sul presente, Socrate si porrebbe gli stessi obiettivi della sua prima vita: dialogare con i concittadini sulle nozioni di base – il bene, la virtù o la giustizia come concetti universali, al di sopra degli interessi particolari. E tornerebbe a impegnarsi nella formazione dei futuri dirigenti, sognando di risvegliare in loro l’idea di giustizia e di fare in modo che non perdano la strada proprio una volta raggiunto il potere. Il filosofo non frequenterebbe più l’agorà come una volta, ma si adatterebbe ai tempi e condurrebbe un programma tv in prima serata (e chi non metterebbe sotto contratto un personaggio così famoso?). In base alle sue linee guida, la trasmissione avrebbe un carattere divulgativo, cui si unirebbe una sezione di interviste tanto a cittadini comuni quanto a personaggi di rilievo della società. Le puntate di maggior successo sarebbero di certo i dibattiti con i politici. Tuttavia Socrate non tarderebbe a scoprire che l’uomo di governo più importante della sua epoca, l’ateniese Pericle, sarebbe un’eccezione oggi come lo era tra i politici dell’Epoca Classica. Non solo perché, nei tre decenni in cui fu alla testa dell’Assemblea della sua polis, l’impero di Atene raggiunse l’apogeo, ma anche perché – allora come oggi – la norma erano i demagoghi, intenti solo a istigare le masse per ottenere un appoggio che soddisfacesse le loro ambizioni di potere, spesso con conseguenze disastrose. «Pericle era l’unico politico che convinceva il popolo con la verità», ricorderebbe nostalgico il filosofo. «E l’unico il cui patrimonio non sia aumentato di una dracma in tutti i suoi anni di governo», aggiungerebbe rattristato, leggendo le ultime notizie sulla corruzione. Lascerebbe cadere i giornali e rifletterebbe sulla somiglianza tra la democrazia ateniese e quelle attuali. La divisione del popolo incoraggiata dai politici, i problemi economici, le famiglie rovinate… dietro tutto ciò vedrebbe l’eterno problema di questo sistema di governo: l’incapacità o il disinteresse della classe dirigente. Ricorderebbe ciò che disse il suo amico Euripide quando lasciò Atene disgustato: «La democrazia è la dittatura dei demagoghi». In ogni caso, Socrate si rallegrerebbe di essere tornato a una società democratica con libertà di espressione e facilità di accesso all’istruzione. Da questo punto di vista, molti Paesi gli sembrerebbero forse al livello della sua vecchia patria ateniese o persino superiori. Lo deluderebbe tuttavia constatare che l’informazione non implica la conoscenza. Resterebbe affascinato dai progressi nella medicina, dal dominio sulla natura, l’energia, la genetica… eppure le domande che porrebbe nel suo programma sulle diverse questioni etiche o sulle conseguenze a lungo termine metterebbero spesso in imbarazzo gli interlocutori. Potrebbe colpirlo l’intreccio fra la tecnologia e la vita quotidiana, ma se si presentasse con il suo abbigliamento sobrio nel reparto delle novità elettroniche di un qualsiasi centro commerciale, allargherebbe le braccia e proclamerebbe allegro, come faceva nel mezzo del mercato di Atene: «Quante cose di cui non ho bisogno!». Dopodiché inviterebbe nella sua trasmissione imprenditori, rettori di università e ministri dell’Istruzione, e dialogando con loro metterebbe il dito nella piaga del sistema: il fatto che gli uomini siano concepiti sempre più come unità di produzione e consumo. Sottolineerebbe preoccupato che la riflessione e il dubbio sono minacciati ogni giorno di più, tanto che ne viene rimosso l’insegnamento dai piani di studio. Come uomo di cultura, potrebbe mettere a disagio i suoi interlocutori usando le parole azzeccate di Francisco de Quevedo: «Un popolo idiota è la sicurezza del tiranno». E, con lo sguardo rivolto ai telespettatori, ci direbbe che la società non ha soltanto un bisogno disperato della filosofia, ma anche di cittadini che difendano e promuovano il pensiero critico. Nessun politico vorrebbe essere ospite della trasmissione, ma il magnetismo del conduttore ne farebbe il programma con l’audience più alta e finirebbero tutti seduti accanto a lui davanti alla telecamera. Politici in vista sarebbero dissezionati e smascherati dalla sua ironia acuta e agile e dalle sue domande in apparenza ingenue. Socrate dimostrerebbe di volta in volta che un idolo è solo una persona comune rivestita dell’ammirazione altrui. Ammirazione di cui rimuoverebbe gli strati, lasciando agli interlocutori un senso di vulnerabilità e risentimento. Le sue interviste risulterebbero esemplari, dimostrando con grande chiarezza che al potere non arriva chi ne sa fare l’uso migliore, bensì chi è più abile nel conquistarlo. E, al tempo stesso, nei suoi dialoghi televisivi proverebbe che per raggiungere il potere si richiedono capacità opposte a quelle necessarie per un suo buon esercizio: in sostanza, ambizione e mancanza di scrupoli. Ma il filosofo non si limiterebbe a parlare con i suoi interlocutori nel programma. Ci guarderebbe attraverso la telecamera («Oh, popolo greco-romano…») e ci rammenterebbe che una delle forme più insidiose di sottomissione è il silenzio, questo grande complice. Socrate non agì mai mosso da interessi propri e non lo farebbe nemmeno ora. Il suo unico obiettivo è stato e sarebbe la ricerca della conoscenza e del comportamento giusto. Per toglierlo di mezzo si indagherebbe sul suo passato a caccia di panni sporchi, ma si troverebbero soltanto un marito fedele alla giovane moglie, padre di tre figli, e un soldato che difese con grande valore la propria patria nella lunga guerra che mise a confronto Atene e Sparta. Tutto ciò vorrebbe dire che Socrate stavolta vincerebbe la sua battaglia contro i sofisti e i demagoghi? Il suo ritorno porterebbe alla sognata rigenerazione della democrazia? Temo che, come in passato, la somma di scomodità, incomprensione e risentimento che si creerebbero intorno al filosofo porterebbero alle stesse conseguenze. Anche stavolta, Socrate sarebbe assassinato.”
Un articolo di Gian Mario Ricciardi pubblicato su Avvenire: un monastero, il silenzio, la pace, la semplicità per ritrovare l’essenziale e il senso del tempo fuori e dentro.
“Li ho visti arrivare, nel ’95, a piedi scalzi come i profughi d’oggi, tra gli arbusti della valle dell’Infernotto a Bagnolo Piemonte, vicino Saluzzo. Due monaci, padre Cesare Falletti e fratel Paolo. Soli, sorridenti, con nella bisaccia la tradizione millenaria dei Cistercensi che tornavano sotto il Monviso. Ora sono sedici e, tra i dirupi di questa strana montagna, in un monastero di pietra e legno, cercano la voce di Dio, ma, contemporaneamente, raccolgono quelle delle vittime della interminabile crisi. Ascoltano e aprono la porta a chi bussa. Tutt’intorno c’è una pace che ti entra dentro. Sveglia alle 3,55. Già nella notte da ogni cella filtra tra gli alberi il canto delle Vigilie e delle lodi. Poi il lavoro. C’è chi s’incammina lungo i sentieri per curare le more che serviranno per le marmellate. Chi costruisce icone, chi studia, chi prepara il pranzo, chi taglia la legna o l’erba. Nelle stanze degli ospiti, famiglie salite dalla Francia, uomini e donne venuti a cercare uno spazio senza parole. E ognuno vive il proprio con discrezione, in solitudine, passeggiando, fermandosi ad osservare gli alberi, le foglie, le nuvole. Il monastero Dominus Tecum sembra una grande tenda in mezzo alle auto che, poco sotto, sfrecciano con i troppi telefonini incollati all’orecchio, le mail da leggere, le connessioni sempre accese. Eppure la crisi è passata anche di qui. Non ha portato il deserto, anzi. Sono sempre di più quelli che salgono a Pra ’d Mill. Vengono in tanti a bussare perché si sentono soli, abbandonati, traditi dalla vita e dalle persone: vittime del deserto provocato dalla recessione. «C’è un gran numero di persone che vengono qui perché hanno bisogno». Padre Cesare, ora priore emerito perché ha passato la mano a padre Emanuele, ha visto camminare tra queste pietre migliaia di persone. A loro, lui e i monaci non hanno altro da dare che saggezza e preghiera. Hanno abbracciato manager che dovevano fare scelte difficili, persone messe fuori dai cancelli delle fabbriche a cinquant’anni, giovani senza speranza. La crisi li ha fatti aumentare? «Ha fatto certamente crescere il nostro dover portare il peso della gente, perché la gente soffre in questo momento, e noi la ascoltiamo». E perché vengono a cercarvi? «Credo cerchino Dio, non tanto noi. Questo è un luogo che almeno nella nostra idea c’è sempre stato, in cui tutto è organizzato per stare davanti a Dio, non potevamo tenercelo tutto per noi, solo per noi, ecco… lo offriamo anche ad altri». Ma in questo grande silenzio, soprattutto nelle giornate d’inverno, che cosa c’è? «C’è Dio, ci sono i fratelli». Insomma un pezzo di cielo strappato ai compromessi, agli insulti, alla fretta. Il terreno l’aveva regalato la famiglia dei baroni d’Isola all’abbazia di Lerins, casa madre dalla quale è nato questo incredibile esempio di monastero nato e cresciuto ai tempi del disagio dilagante. Una donazione voluta da Leletta d’Isola. A suggerire l’avventura l’allora cardinale di Torino, Anastasio Ballestrero. A mettere insieme il complesso puzzle, la mano della Provvidenza, l’entusiasmo di un piccolo drappello di uomini di preghiera che alle 10, chiamati dalla campana, raggiungono la chiesa per poi riprendere il lavoro fino alla Messa di mezzogiorno. E la cappella si riempie. Rituale antico, gioie e sofferenze moderne che vengono posate sull’altare, proprio sotto la croce e il campanile, come da tradizione monastica. Filtrano fasci di luce intensi e calmi allo stesso tempo. La semplicità, la sobrietà: «Non portate vino a tavola – c’è scritto – per rispetto al nostro stile di vita e di accoglienza». Ci sono due suore, ma passano in molti con la disperazione dentro: industriali in grosse difficoltà, giovani in cerca di lavoro e di valori, disoccupati, preti in sofferenza, famiglie raggelate dalla vita. La sfida è un presente che guarda lontano. Saper mettere insieme la fame di soprannaturale e il disagio, spesso molto forte, di chi bussa alla porta. «…se volete lasciare un’offerta… usate la busta che trovate nella mensola». Se volete. Ci sono i libri, insieme ai poveri prodotti della valle – miele, marmellate, estratti di erbe – come in tutti i monasteri. C’è e si sente una grande ricchezza che viene dalla serenità e dalla pace. «Lasciate quello che potete e volete, l’importante è che la mancanza di soldi non vi impedisca di venire a pregare. In caso pensate a chi non può lasciare nulla. Grazie». È vero, come diceva Alfonse de Lamartine, che un grazie non è nulla nel mare dei ricordi ma se resta a galla è qualcosa per sempre. Un uomo, le scarpe consumate, la camicia lisa, posa la sua offerta e poi fissa quel grazie che suggella un patto. Scende lentamente la sera. Si parla con i monaci. «Inutili in un mondo che vive di corsa? Forse, ma noi cerchiamo di dire altro e di guidare il mondo attraverso la preghiera e la carità fraterna ad avere un altro volto, non violento, non arrogante, non prepotente, non asservito al denaro, un volto umano». Una scritta sul muro: «Tutti gli ospiti che giungono qui siano accolti come Cristo poiché un giorno Nostro Signore ci dirà: Ero forestiero e mi avete ospitato». Gli smarriti della modernità e della crisi, quella che ha distrutto famiglie, svuotato anime, sconvolto vite hanno trovato rifugio qui tra un cantico e una preghiera. ‘I poveri di spirito’, come nel docufilm che Fredo Valla ha girato a Pra ’d Mill possono vedere un uomo che cammina in un immenso campo di neve in montagna, seguire il lavoro quotidiano dei monaci, respirare il ‘Laudato si’’ di papa Francesco nel quieto scorrere sotto la pioggia, i monaci che lavorano nei boschi, in cucina, nelle celle o curano le api e pregano in una chiesa scarna ed essenziale. Come nel ‘Grande silenzio’ di Phillip Groening, o in ‘Uomini di Dio’ di Xavier Beauvois, il tempo è senza tempo. Eppure, mentre il sole tramonta, ogni cosa qui sembra tutt’altro che slegata dal mondo. Quei ragazzi appena partiti con il pulmino avevano gli occhi raggianti. Ed erano venuti con tutti i loro dubbi sul futuro, il lavoro, l’amore, la famiglia. Forse anche con il rumore del silenzio si possono curare le macerie della crisi. I monaci come fratel Abramo sorridono con gli occhi. Hanno l’espressione di chi ha il cuore dolce e sente di essere tornato alla sorgente della vita. Vita dura, silenzio, tanto silenzio per ritrovare i gesti dell’anima e poi la vita. Le ore per pregare, le ore per coltivare i frutti per le marmellate, tagliare l’erba, mettere a posto la legna. Terra e cielo, anzi tra terra e cielo per ritrovare il sorriso, quello che viene da dentro, per sempre”.
“Spotlight è il nome del gruppo di giornalisti che si è occupato delle indagini riguardanti alcuni preti pedofili negli Usa, e soprattutto la loro copertura da parte dell’arcivescovo Bernard Francis Law della diocesi di Boston. Trovo la cosa oltraggiosa, un insabbiamento che è un tradimento sia nei confronti delle famiglie che credevano nella Chiesa Cattolica sia nei confronti della Chiesa stessa. Nel 2002 Bernard Law si è dimesso ed è stato mandato in Italia come arciprete della Papale Basilica Liberiana di Santa Maria Maggiore. Solo ultimamente, secondo alcune fonti, è stato allontanato. Alla fine del film compare anche il numero delle vittime e dei preti coinvolti (non solo in America). La vicenda è anche raccontata dal libro “Tradimento” edito da Piemme”. Con queste parole A. (classe seconda) ha presentato la propria gemma. Così, qualche anno fa don Antonio Gallo: “Lo scandalo dei preti pedofili, nascosto per anni dagli apparati ecclesiali, è stato a ben vedere una questione di difesa dell’istituzione temporale. Certo, la Chiesa è fatta di uomini e gli uomini sbagliano. Tuttavia, una delle più gravi vergogne in epoca moderna è stata il silenzio degli uomini di curia su un peccato che grida al cospetto di Dio! E questo per salvaguardare l’apparato istituzionale-gerarchico, per proteggere ipocritamente uomini malati, che avrebbero dovuto essere sospesi dalla loro funzione e affidati agli psicoterapeuti, piuttosto che spostati da una parrocchia all’altra, da una comunità religiosa all’altra, in incognito. C’è la crisi innegabile delle vocazioni sacerdotali, l’esercito dei preti nel mondo sta diventando una piccola truppa, ma ciò non giustifica il mantenimento di persone consacrate con gravi problemi di sanità mentale.”
Come spesso mi capita, sono solo in parte d’accordo con quello che pensa Paola Mastrocola. E pubblico queste sue parole, tratte dal sito della Laterza, subito dopo il predente post non perché vi trovo delle contraddizioni, ma per pura casualità.
“Oggi non si studia più. È da predestinati alla sconfitta. Lo studio evoca Leopardi che perde la giovinezza, si rovina la salute e rimane solo come un cane. È Pinocchio che vende i libri per andare a vedere le marionette. È la scuola, l’adolescenza coi brufoli, la fatica, la noia, il dovere. È un’ombra che oscura il mondo, è una crepa sul muro: incrina e abbuia la nostra gaudente e affollata voglia di vivere nel presente. Lo studio è sparito dalle nostre vite. E con lui è sparito il piacere per le cose che si fanno senza pensare a cosa servono. La cosa più incredibile è che non importa a nessuno. Di fatto, noi non intendiamo mai lo studio nella sua accezione più profonda; non entriamo nello specifico della sua sostanza immaginando l’atto di studiare in sé, fino alle sue naturali ed estreme conseguenze. Lo dico meglio: quando diciamo che i nostri ragazzi devono studiare, non vogliamo dire che debbano passare gran parte del loro tempo chini sui libri, pomeriggio e sera, soli e concentrati. Non vogliamo dire questo perché questo non ci piace per niente, e mai augureremmo loro una vita del genere. Eppure, quando speriamo che studino e che proseguano fino all’università, noi li indirizziamo a un siffatto stile di vita, giacché è ancora vero (non so per quanto) che per avere un’istruzione bisogna stare tanto, sui libri. E cartacei o digitali che siano, nulla cambia. Lo studio è, ancora, inevitabile. Per quanto gli insegnanti si producano in performance sempre più accattivanti; i saperi si esternalizzino; le scuole si dotino di LIM, DVD, app, wi-fi e bluetooth; per quanto limiamo asperità e livelliamo strade azzerando ogni sorta di difficoltà; per quanto puntiamo al saper fare e alle competenze e al problem solving, e non più al sapere; ebbene, c’è sempre un momento in cui lo studente deve mettersi a studiare: piazzarsi seduto, aprire un benedettissimo libro, e starci sopra parecchio, e anche parecchio concentrato e attento. Che sia una semplice verifica, un’interrogazione virtuale, un esonero all’università, un test di ammissione per la Normale di Pisa o l’assunzione presso una ditta di surgelati, a un certo punto della vita i ragazzi dovranno dimostrare di sapere qualcosa. Quindi dovranno, bene o male, poco o tanto, studiare. Non abbiamo ancora inventato sistemi alternativi, grazie ai quali evitare lo studio, questo spiacevole disagio, questo disturbo, percorso a ostacoli, noiosissimo impiccio che intralcia, deprime, sporca leggermente il meraviglioso luna park che pensiamo debba essere la vita. A un certo punto dobbiamo scendere dalla giostra dei cavallini e studiare: intollerabile! Non ci piace per niente. E infatti stiamo lavorando per trovarli, questi sistemi alternativi. Nell’ultimo decennio direi che non facciamo altro: ministri, funzionari, professori, burocrati, intellettuali di grido e scrittori si danno un gran da fare a smantellare l’idea di un’istruzione fondata sullo studio e sui libri, cioè sull’universo logico-verbale (il modo “simbolico-ricostruttivo” dell’apprendimento, come dicono gli psicologi). L’ultima trovata è dire che tutto ciò è vecchio, screditarlo come retaggio arcaico e dinosaurico di un mondo che non c’è più. Insomma, è la solita solfa del mondo che è cambiato, dunque perché noi ci attardiamo su macerie invece di proiettarci dritti dentro il futuro? Siamo gli ultimi in Europa, siamo decrepiti, meritiamo di morire eccetera eccetera. E, dulcis in fundo, i giovani hanno ben ragione a non studiare, questo sistema non fa più per loro e se non ci sbrigheremo a trovarne un altro li perderemo tutti. L’abbiamo risolta in questo modo: siccome nessuno ha più voglia di studiare, noi smantelliamo l’universo dello studio. L’idea geniale è che si tratti di adeguarci al cambiamento, assecondarlo invece di arroccarci. Personalmente, più sento dir così, più mi arrocco. Mi viene uno spasmodico amore per tutte le rocche, il più inerpicate e sole possibile. Inaccessibili e lontane, con la nuvoletta in cima. Da lassù contempleremo le magnifiche sorti e progressive. Tanto, di una cosa sola siamo molto consci: che nulla possa arrestare la marea. Quindi, tanto vale godersela dall’alto, noi arroccati. Chiusa la parentesi rocciosa, dicevo che ci piace molto che i ragazzi vadano a scuola, ma non che studino. È un controsenso, lo so. Una specie di dissociazione, un’autocontraddizione in cui ci siamo imbrogliati come in un groviglio e di cui non sembriamo per nulla consapevoli. Magie della mente umana. Un fraintendimento. Un equivoco, gigante. Una incomprensione granitica reciproca fatta a forma di montagna. Potessi disegnarla, sarebbe la catena dell’Himalaya. Forse potremmo dir così, che la parola “studio” ha oggi come per miracolo due significati. Si è divaricata. Spaccata. Si è creata un’ambiguità terminologica, che ha prodotto tra noi tutti una confusione. Un intrico di rami. Detto in breve, quando diciamo “studiare” intendiamo andare a scuola, avere un’istruzione, procurarsi un titolo, possibilmente una laurea (quel che oggi si chiama percorso formativo); non intendiamo invece quasi mai l’altro significato del verbo: l’atto in sé, stare sui libri, passare ore chiusi da qualche parte, isolati, concentrati, fermi. Studio 1 e studio 2. Per quanto possa sembrare strano i due significati oggi, nella nostra testa, non vanno insieme. Fino a pochi decenni fa erano, ovviamente, inscindibili; oggi invece possono dissociarsi, andare ognuno per conto proprio. Così che si crea il seguente paradosso: da una parte siamo tutti d’accordo che si debba studiare, dall’altra non ci piace per niente studiare. E può succedere che le famiglie tengano moltissimo allo studio 1 dei loro figli: si dedicano con grande cura alla scelta della scuola, e seguono i figli molto più di una volta. Arrivano a fare i compiti con loro, e si prodigano a offrir loro tutti i supporti possibili, libri, computer, lezioni private a iosa. E può succedere, allo stesso tempo, che queste stesse famiglie, che tengono così tanto allo studio 1 dei loro figli, non si preoccupino molto dello studio 2. Può succedere addirittura che questo studio 2 dia loro fastidio: in qualche modo peggiora la vita quotidiana di tutti, è un problema e tendono quindi a ostacolarlo, o relegarlo in qualche zona buia e ristretta della vita. Insomma, se noi genitori tenessimo davvero allo studio 2 dei nostri figli, non faremmo le vite che facciamo e non avremmo la scuola che abbiamo. E se noi insegnanti tenessimo davvero allo studio 2 dei nostri allievi, non chiuderemmo un occhio: saremmo più esigenti, fin dalle elementari; ci preoccuperemmo meno di divertirli, distrarli, ammaliarli con effetti speciali, gite, teatri, balletti in maschera. Insegneremmo loro, molto umilmente, le materie di base, dando loro gli strumenti di base per possedere le nozioni di base. E non penseremmo, così facendo, di offrire cose troppo banali e povere né ci preoccuperemmo di annoiare i bambini: avremmo ben chiaro in mente di fare la cosa migliore per loro. Perché è dalla base che si parte per costruire qualsiasi edificio. Se no, crolla.”
“Ho portato delle foto della mia attività sportiva, il nuoto sincronizzato, sia perché è ciò che meglio mi rappresenta ora, sia perché c’è sempre stato nella mia vita. Inoltre desidero mostrare un video che non penso necessiti di commento.” Questa è stata la gemma di S. (classe quinta).
Ho trovato in rete questa frase che penso si addica bene a questa gemma: “Il nuoto è sport di silenzi, immaginazione e fantasie”.