La malattia di Lucien

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Mentre leggo appunto a inizio libro il numero delle pagine in cui ho trovato un passo per me rilevante. Poi, con calma, a distanza di tempo, ricopio quelle citazioni su dei quadernetti. Oggi mi sono imbattuto in un passo de “L’eleganza del riccio” che parla di malattia e morte. Sono esperienze sempre fortemente soggettive e il modo in cui le viviamo è condizionato da tantissimi aspetti, dal periodo in cui le si vive, alla frequenza con cui le attraversiamo e così via. Mi sono ritrovato molto soprattutto con le sensazioni descritte nella prima parte.
Nel Natale del 1989 Lucien era molto malato. Non sapevamo ancora quando sarebbe arrivata la morte, ma eravamo legati dalla certezza della sua imminenza, legati dentro noi stessi e legati l’un l’altro da questo vincolo invisibile. Quando la malattia entra in una casa non si impossessa soltanto di un corpo, ma tesse tra i cuori un’ oscura rete che seppellisce la speranza. Come una ragnatela che avvolgeva i nostri progetti e il nostro respiro, giorno dopo giorno la malattia inghiottiva la nostra vita. Quando rincasavo, avevo la sensazione di entrare in un sepolcro e avevo sempre freddo, un freddo che niente riusciva a mitigare, al punto che negli ultimi tempi, quando dormivo al fianco di Lucien, mi sembrava che il suo corpo assorbisse tutto il calore che il mio era riuscito a trafugare altrove.
La malattia, diagnosticata nella primavera del 1988, lo consumò per diciassette mesi e se lo portò via la vigilia di Natale. L’anziana madame Meurisse organizzò una colletta tra gli abitanti del palazzo e in guardiola fu deposta una bella corona di fiori, cinta da un nastro senza nessuna dedica. Alle esequie venne solo lei. (…)
Nessuno considerò la malattia di Lucien una cosa degna di interesse. Magari i ricchi pensano che la gente modesta, forse perché ha una vita rarefatta, priva dell’ossigeno del denaro e del savoir-faire, vive le emozioni umane con scarsa intensità e maggiore indifferenza. Essendo portinai, era acquisito che per noi la morte fosse un evento scontato, nell’ordine delle cose, mentre per i possidenti essa avrebbe rivestito gli abiti dell’ingiustizia e del dramma. Un portinaio che si spegne è un piccolo vuoto nello scorrere della vita quotidiana, una certezza biologica a cui non è associata nessuna tragedia. Per i proprietari che lo incrociavano ogni giorno per le scale o sulla soglia della guardiola, Lucien era una non-esistenza che tornava al nulla da cui non era mai uscito, un animale che, vivendo una vita a metà senza fasti né artifici, al momento della morte doveva senz’altro provare solo un senso di ribellione a metà. Da queste parti, a nessuno poteva mai venire in mente che, come ogni altro, anche noi potessimo passare le pene dell’inferno, e che con il cuore stretto dalla rabbia man mano che il dolore ci devastava l’esistenza, fossimo sopraffatti dalla cancrena interiore, nel tumulto della paura e dell’orrore che la morte infonde in ognuno.”
(Mauriel Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni e/o, Roma 2009, pagg. 65-66)

Gemme n° 228

La mia gemma è la canzone per me più cara di Michael Jackson. Mi è rimasta impressa per il significato del testo, poi ho visto visto questo video che non è un semplice videoclip, ma la perfetta spiegazione del brano”. Così M. (classe seconda) ha presentato “Heal the world” alla classe.
Sottolineo l’argomento con un articolo fotografico apparso su L’Huffington Post lo scorso 20 marzo: “Uno degli aspetti più devastanti della guerra è l’effetto che ha sulle vite dei bambini. Senza avere nessuna responsabilità per i conflitti, i bambini subiscono l’impatto del trauma e della violenza a livelli incalcolabili. Anche oggi, a dispetto di convenzioni e leggi internazionali che dovrebbero proteggerli, troppi bambini stanno soffrendo a causa dei conflitti. Secondo le Nazioni Unite, attualmente sono quasi 14 milioni i bambini costretti a vivere in condizioni avverse a causa della guerra in Siria e in Iraq. Il conflitto minaccia non solo la salute e la felicità dei più piccoli, ma anche la loro possibilità di sperimentare l’infanzia. Le foto qui sotto mostrano una particolare forma di resistenza: il desiderio di giocare che unisce i bambini anche in tempo di guerra, attraverso lo spazio e la storia.”

Un bambino gioca su un carro armato nel quartiere Grbavica di Sarajevo, 22 aprile 1996
Un bambino gioca su un carro armato nel quartiere Grbavica di Sarajevo, 22 aprile 1996
Berlino, 1945. Un gruppo di ragazzini gioca in un sito bombardato, a cavallo di un carro armato distrutto
Berlino, 1945. Un gruppo di ragazzini gioca in un sito bombardato, a cavallo di un carro armato distrutto
Bambini palestinesi giocano tra i detriti di una casa distrutta durante i bombardamenti israeliani. Siamo a Gaza, nel quartiere Shujaiyya, 6 gennaio 2015
Bambini palestinesi giocano tra i detriti di una casa distrutta durante i bombardamenti israeliani. Siamo a Gaza, nel quartiere Shujaiyya, 6 gennaio 2015
Un gruppo di ragazzine di Londra gioca indossando maschere antigas in un parco vicino a delle case temporanee nella costa sud dell'Inghilterra (1940)
Un gruppo di ragazzine di Londra gioca indossando maschere antigas in un parco vicino a delle case temporanee nella costa sud dell’Inghilterra (1940)
Un gruppo di bambini siriani gioca con un'auto distrutta nel centro di Kobane, in Siria. Foto scattata il 18 febbraio 2015
Un gruppo di bambini siriani gioca con un’auto distrutta nel centro di Kobane, in Siria. Foto scattata il 18 febbraio 2015
Monaco. Delle bambine giocano con le bambole su una schiera di missili depositati sotto la loro casa
Monaco. Delle bambine giocano con le bambole su una schiera di missili depositati sotto la loro casa
Ciò che resta di un parco giochi nella città di Aleppo, in Siria (8 gennaio 2015)
Ciò che resta di un parco giochi nella città di Aleppo, in Siria (8 gennaio 2015)
Bambini dell'asilo in un parco giochi con le maschere antigas, 1940
Bambini dell’asilo in un parco giochi con le maschere antigas, 1940
Bambini siriani giocano nel cortile di un palazzo distrutto nel centro di Kobane, 18 febbraio 2015
Bambini siriani giocano nel cortile di un palazzo distrutto nel centro di Kobane, 18 febbraio 2015
1940 circa. In una Londra distrutta dalle bombe, anche un lampione può diventare una giostra
1940 circa. In una Londra distrutta dalle bombe, anche un lampione può diventare una giostra
Gaza, quartiere Shejaiya. Ragazzine palestinesi giocano nella loro scuola distrutta durante i 50 giorni di conflitto tra Israele e Hamas, il 5 novembre 2014
Gaza, quartiere Shejaiya. Ragazzine palestinesi giocano nella loro scuola distrutta durante i 50 giorni di conflitto tra Israele e Hamas, il 5 novembre 2014
Tre bambini giocano in un terreno abbandonato e danneggiato dalle bombe a Stepney, nell'East End di Londra. Era il 9 marzo 1946
Tre bambini giocano in un terreno abbandonato e danneggiato dalle bombe a Stepney, nell’East End di Londra. Era il 9 marzo 1946
Un gruppo di bambini palestinesi gioca per le strade di Gaza, nel quartiere di Beit Hanun, durante la festività musulmana Eid al-Adha. 4 ottobre 2014
Un gruppo di bambini palestinesi gioca per le strade di Gaza, nel quartiere di Beit Hanun, durante la festività musulmana Eid al-Adha. 4 ottobre 2014
Il salto della fune con i soldati in Inghilterra, 1944
Il salto della fune con i soldati in Inghilterra, 1944
Giochi tra le macerie di Gaza City, 27 gennaio 2015
Giochi tra le macerie di Gaza City, 27 gennaio 2015
A lezione di primo soccorso con le bambole. Londra, 6 ottobre 1940
A lezione di primo soccorso con le bambole. Londra, 6 ottobre 1940
Bambini afgani giocano a pallone vicino a un cimitero sulle colline di Kabul, 12 aprile 2014
Bambini afgani giocano a pallone vicino a un cimitero sulle colline di Kabul, 12 aprile 2014

Gemme n° 223

Mi è piaciuta questa canzone e la sua relazione con le immagini. Mi fa ricordare molte cose sia brutte che belle”. Questa la gemma di M. (classe terza).
Il brano è dei Cranberries: “Ricordi le cose che dicevamo di solito, mi sento così nervosa quando penso a ieri. Come ho potuto permettere che mi accadessero delle cose così brutte, come ho permesso che mi accadessero? Come morire nel sole… Mi terrai ancora, mi sento fragile, mi terrai ancora, non ci fermeremo mai. Volevo essere così perfetta capisci, volevo essere così perfetta…”. Nell’amicizia la consolazione per le sofferenze e le delusioni personali; grazie alla relazione con l’altro ritrovare se stessi.

Gemme n° 196

https://www.youtube.com/watch?v=FlsBObg-1BQ

Ho portato questa canzone di Adele per parlare del periodo in cui ero in un’altra scuola, quando la ascoltavo sempre. Ho portato anche una foto e una lettera che mi è stata scritta. E’ molto importante e la leggo sempre”. Non è costata poca fatica a C. (classe terza) leggere quella lettera; non la riporto, ma posso dire che parlava di vicinanza, di fiducia in se stessi, di permettere agli altri di scoprire il tesoro che ciascuno di noi è, anche se a volte nascosto sotto uno strato di sofferenze.
Un breve racconto di Bruno Ferrero:
«“Disse un’ostrica a una vicina: “Ho veramente un gran dolore dentro di me. E’ qualcosa di pesante e di tondo, e sono stremata”.
Rispose l’altra con borioso compiacimento: “Sia lode ai cieli e al mare, io non ho dolori in me. Sto bene e sono sana sia dentro che fuori”.
Passava in quel momento un granchio e udì le due ostriche, e disse a quella che stava bene ed era sana sia dentro che fuori: “Si, tu stai bene e sei sana; ma il dolore che la tua vicina porta dentro di sé è una perla di straordinaria bellezza”.”
E’ la grazia più grande, quella dell’ostrica. Quando le entra dentro un granello di sabbia, una pietruzza che la ferisce, non si mette a piangere, non strepita, non si dispera. Giorno dopo giorno trasforma il suo dolore in una perla: il capolavoro della natura.» (da Quaranta storie nel deserto).

Gemme n° 164

Ho sentito questo brano in una di quelle giornate particolari in cui va tutto male; incuriosita dal testo, l’ho ascoltata con attenzione ed è diventata la mia canzone anti-tristezza”. Questa la breve presentazione di L. (classe quinta).
Mi hanno colpito una frase ripetuta molto spesso “Turn the pain into power” e una delle parti finali: “Lei ha un leone dentro il suo cuore, un fuoco nell’anima. Lui ha una bestia nella sua pancia che è così difficile da controllare. Perché hanno preso troppi colpi, prendendo colpo su colpo. Ora illuminali come se stessero per esplodere”. Io non so se associare gli irlandesi The Script a un pensiero di Etty Hillesum sia azzardato, ma tant’è. Etty scrive queste parole pensando all’amica Ilse Blumenthal, i cui figli sono stati uccisi nei campi di concentramento nel 1942 (poco più di un anno dopo, la Hillesum stessa morirà ad Auschwitz): “Devi saper sopportare il tuo dolore; anche se il dolore ti schiaccia, sarai capace di rialzarti ancora, perché l’essere umano è così forte, e il tuo dolore deve diventare per così dire parte integrante di te, parte del tuo corpo e della tua anima; non c’è bisogno che tu scappi da lui, portalo in te, ma da adulta. Non trasformare i tuoi sentimenti in odio, non cercare vendetta a spese di tutte le madri tedesche, perché anche loro soffrono per i loro figli trucidati ed uccisi. Fornisci al dolore dentro di te lo spazio e il rifugio che merita, perché se ognuno accetta quello che la vita gli impone con onestà, lealtà e maturità, forse il dolore che riempie il mondo si placherà. Ma se non prepari un rifugio accogliente per il tuo dolore, e invece riservi più spazio dentro di te all’odio e ai pensieri di vendetta – dai quali sorgeranno nuovi dolori per altri – allora il dolore non cesserà nel mondo, ma sarà moltiplicato. E se avrai dato al dolore lo spazio che le sue nobili origini richiedono, allora potrai veramente dire: la vita è bella e così ricca! Tanto bella e ricca che potrebbe farti credere in Dio” (da “Uno sguardo nuovo”, Iacopini e Moser). Turn the pain into power.

La vita è pur buona

eclisse01gHo conosciuto Etty Hillesum grazie al mio insegnante di teologia fondamentale, che a suo tempo mi aveva consigliato la lettura delle Lettere e del Diario. Ieri, durante un’ora di buco stavo leggendo alcune sue parole: “Ascoltare, ascoltare ovunque, ascoltare la vera essenza delle cose. E amare e allontanarmi e morire, ma rinascere, tutto è così intriso di dolore e tuttavia così pieno di vita” (da “Uno sguardo nuovo. Il problema del male in Etty Hillesum e Simone Weil, di B. Iacopini e S. Moser). Poi, nella giornata, una studentessa ha mostrato un toccante video sui bambini nella guerra in Siria, un’altra mi ha confidato con gli occhi inebriati di gioia che diventerà zia, una classe mi ha chiesto di andare a vedere il sole nascondersi dietro alla luna, ho pensato ai dieci anni senza il mio amato nonno, ho tolto dal roseto le vecchie foglie per non soffocare le nuove, ho sentito dell’attentato alle moschee nello Yemen, ho saputo delle preoccupazioni di due madri per i figli… e sullo sfondo di tutto c’era sempre Etty. Dal campo di prigionia di Westerbork, in Olanda, nel quale è entrata volontariamente e dal quale è uscita su un vagone che l’ha portata ad Auschwitz, scriveva: “La gente si smarrisce dietro a mille piccoli dettagli che qui ti vengono quotidianamente addosso, e in questi dettagli si perde e annega. Così, non tiene più d’occhio le grandi linee, smarrisce la rotta e trova assurda la vita […]. La vita è pur buona” (Lettere, pag. 65).

Gemme n° 146

marco

All’inizio dell’estate mia cugina ha avuto un brutto incidente in cui ha perso la gamba e il suo fidanzato; eravamo come fratello e sorella. Ha lasciato un grande vuoto e tanti ricordi, emozioni ed esperienze. E’ come una gemma per me e lo porterò sempre nel cuore”.
Questa è stata la commovente gemma di G. (classe seconda). Riporto questo pensiero di Charles Péguy, mi ha consolato in alcuni momenti della mia vita: “La morte non è niente. Sono solamente andato nella stanza accanto. Io sono io, voi siete voi. Quello che eravamo gli uni per gli altri lo siamo sempre. Datemi il nome che mi avete sempre dato. Parlate con me come avete sempre fatto. Non adoperate un tono diverso. Non abbiate un’aria triste e solenne, continuate a ridere di quello che ci faceva ridere insieme. Che il mio nome sia pronunciato come lo è sempre stato, senza enfasi di alcun tipo, e senza traccia d’ombra. La vita significa quello che ha sempre significato. E’ quella che è sempre stata, il filo non è tagliato. Perché dovrei essere fuori dai vostri pensieri? Semplicemente perché sono fuori dalla vostra vita? Io vi aspetto, non sono lontano, semplicemente dall’altra parte del cammino. Vedete, tutto è bene.”

Gemme n° 141

https://www.youtube.com/watch?v=fXz3vhbrbj4

La gemma di J. (classe terza): “Grazie all’ultima edizione di «Ballando con le stelle» ho avuto la fortuna di conoscere il mio idolo, una delle persone più coraggiose, dinamiche, forti e da un carisma e un’energia innati: lei è Giusy Versace, atleta paralimpica italiana, nonché vincitrice di «Ballando». Ciò che la rende così straordinariamente unica e speciale è sicuramente il grande messaggio di vita e felicità che vuole lanciare, nonostante le sue condizioni fisiche di disabile, poiché nel 2005 ha perso entrambe le gambe in seguito ad un grave incidente in macchina. Lei è la mia gemma, perché mi fa riflettere e sentire in colpa ogni volta che il mio turbinio di pensieri contorti si dirama verso una prospettiva di vita negativa caratterizzata dagli esiti scolastici deludenti, dalla solitudine e dai dolori muscolari e talvolta un po’ dall’ipocondria, paura di cui soffro da quando ho scoperto che mia mamma era ammalata di cancro. Giusy Versace è la mia eroina, e ogni volta che la penso mi viene da associarle una particolare frase della canzone «Gioia» dei Modà, ossia «pensare di star male è non avere rispetto per chi sta peggio»: proposizione vera e realistica, poiché ogni volta che penso di star male, mi sento in colpa e mi vergogno pensando a Giusy Versace che nonostante la tragedia successa, ha sempre quella luce negli occhi che mette allegria e quell’amore per la vita che tutti dovrebbero avere.
Infine, il fatto che Giusy abbia vinto «Ballando con le stelle» contro concorrenti in condizioni fisiche migliori, se non veri e propri sportivi come Andrew Howe, sta a dimostrare che la disabilità è negli occhi di chi guarda e che con la buona volontà e la determinazione si può raggiungere qualsiasi cosa!”.

Non nascondo che mi piaccia ascoltare storie come quella di Giusy o di Alex Zanardi o di Stephen Hawking e sicuramente fungono da stimolo e da sprone ad affrontare la vita con coraggio, energia ed entusiasmo. Eppure il mio pensiero va sempre contemporaneamente a tutte quelle persone che stanno vivendo un disagio fisico o psichico o entrambi e che non hanno all’interno della loro cartucciera un colpo speciale da sparare. Quantomeno lo “speciale” che risponde al pensiero della maggior parte delle persone e che significa “straordinario, fuori dall’ordinario, incredibile, utile, di successo”. Penso a chi fa fatica a percepirsi come essere speciale, unico, irripetibile, che sia diversamente abile o meno, ed è nella sofferenza. Ha scritto Diego Cugia: “La vita e la morte fanno di noi quello che vogliono. L’unica carta che possiamo giocare è stabilire che cosa noi vogliamo dalla vita e dalla morte e questo io l’ho già scelto da bambino: tutta la luce e tutto il buio che io potessi sopportare, e allora devi accogliere e devi reggere, accogliere e reggere, solo questo puoi fare. E la felicità e il dolore ti porteranno su e giù come gli oceani le navi. E il dolore ti insegnerà ogni volta a contenere ancora più oceano e il tuo pianto non lo tratterrà, lo restituirà fino a che sarai parte di un unico respiro e imparerai a raccordarti col fiato lungo delle maree. E’ qui che credi di morire, mentre è qui, se sei riuscito a reggere tutte le bordate senza colare a picco, che comincia la vera vita. Perché resistere alla morte non serve a nulla, a niente servono i lifting, le bugie, i colpi di testa, i viaggi del miracolo, a niente serve resistere se non impari anche ad assecondare. E come si impara questo? non lo so, accogliendo il dolore degli altri, per me è così. La mia bussola siete solo voi. Chi soffre più di me, e c’è sempre purtroppo, lui è il mio medico, gli altri. Tutto quello che ho, e non è poco, l’ho sempre ricavato per sottrazione, guardando chi aveva molto di meno. Solo questo è l’amore che torna, l’amore che dai”.

Gemme n° 95

https://www.youtube.com/watch?v=7jjY_ruRG8c

Ho scelto la canzone Weight of Living dei Bastille perché rappresenta un’amicizia importante. Il peso della vita citato nel titolo rappresenta entrambi perché non abbiamo avuto una vita facilissima: avrei potuto scegliere altre tremila amicizie, ma questa è quella più importante, anche se ci conosciamo da poco. Il mio amico mi ha aiutato e supportato in ogni cosa”. Questo è quanto è riuscita a dire D. (classe terza) commuovendosi e trasmettendo la sua emozione ai compagni di classe. Cantano i Bastille: “Tutto ciò che desideravi quando eri un bambino era essere grande, era essere grande. Adesso che lo sei, improvvisamente temi di aver perso il controllo, hai perso il controllo. Ti piace la persona che sei diventato?”. Ecco allora che mi sento di citare un pensiero di Gandhi che spesso è stato fonte d’aiuto e d’ispirazione:
Mantieni i tuoi pensieri positivi,
perché i tuoi pensieri diventano parole.
Mantieni le tue parole positive,
perché le tue parole diventano i tuoi comportamenti.
Mantieni i tuoi comportamenti positivi,
perché i tuoi comportamenti diventano le tue abitudini.
Mantieni le tue abitudini positive,
perché le tue abitudini diventano i tuoi valori.
Mantieni i tuoi valori positivi,
perché i tuoi valori diventano il tuo destino.”

Gemme n° 8

La prima gemma di oggi è quella proposta da S. (classe quarta). E’ una sequenza tratta da “La tigre e la neve”. E’ una scena che la emoziona, che le fa pensare alla bellezza, alla poesia. “E’ come dice Benigni: Per trasmettere la felicità, bisogna essere felici e per trasmettere il dolore bisogna essere felici”.

Allego semplicemente la trascrizione del monologo; penso possa essere utile soffermarcisi sopra con un po’ di calma:

Su, su, svelti, veloci, piano, con calma, non vi affrettate.
Non scrivete subito poesie d’amore che sono le più difficili, aspettate almeno un’ottantina di anni. Scrivete su un altro argomento, che ne so… sul mare, vento, un termosifone, un tram in ritardo. Non esiste una cosa più poetica di un’altra. La poesia non è fuori, è dentro.
Cos’è la poesia? Non chiedermelo più, guardati allo specchio, la poesia sei tu.
Vestitele bene le poesie. Cercate bene le parole, dovete sceglierle. A volte ci vogliono otto mesi per trovare una parola. Scegliete, perché la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere, da Adamo ed Eva. Lo sapete quanto c’ha messo Eva prima di scegliere la foglia di fico giusta? Ha sfogliato tutti i fichi del paradiso terrestre.
Innamoratevi. Se non vi innamorate è tutto morto. Vi dovete innamorare e diventa tutto vivo, si muove tutto. Dilapidate la gioia, sperperate l’allegria. Siate tristi e taciturni con l’esuberanza. Fate soffiare in faccia alla gente la felicità.
Per trasmettere la felicità, bisogna essere felici e per trasmettere il dolore bisogna essere felici.
Siate felici. Dovete patire, stare male, soffrire. Non abbiate paura a soffrire. Tutto il mondo soffre.
E se non vi riesce, non avete i mezzi, non vi preoccupate, tanto per fare poesia una sola cosa è necessaria: tutto.
E non cercate la novità. La novità è la cosa più vecchia che ci sia.
E se il verso non vi viene da questa posizione, da questa, da così, buttatevi in terra, mettetevi così.
E’ da distesi che si vede il cielo. Guarda che bellezza, perché non mi ci sono messo prima?!
Cosa guardate? I poeti non guardano, vedono.
Fatevi obbedire dalle parole.
Se la parola è “muro” e “muro” non vi dà retta, non usatela più per otto anni, così impara!
Questa è la bellezza come quei versi là che voglio che rimangano scritti lì per sempre..
Forza, cancellate tutto!”

Valorizzare le crepe

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Un’amica ha condiviso su fb questo post che riporto quasi per intero. La fonte è “Organic farm”. Grazie Rita.
“Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello. Questa tecnica è chiamata “Kintsugi”.
Oro al posto della colla. Metallo pregiato invece di una sostanza adesiva trasparente.
E la differenza è tutta qui: occultare l’integrità perduta o esaltare la storia della ricomposizione?
Chi vive in Occidente fa fatica a fare pace con le crepe.
[…] La Vita è integrità e rottura insieme, perché è ri-composizione costante ed eterna. Rendere belle e preziose le “persone” che hanno sofferto… questa tecnica si chiama “amore”.
Il dolore è parte della vita. A volte è una parte grande, e a volte no, ma in entrambi i casi, è una parte del grande puzzle, della musica profonda, del grande gioco. Il dolore fa due cose: ti insegna, ti dice che sei vivo. Poi passa e ti lascia cambiato. E ti lascia più saggio, a volte. In alcuni casi ti lascia più forte. In entrambe le circostanze, il dolore lascia il segno, e tutto ciò che di importante potrà mai accadere nella tua vita lo comporterà in un modo o nell’altro.
I giapponesi che hanno inventato il Kintsugi l’hanno capito più di sei secoli fa – e ce lo ricordano sottolineandolo in oro.”

Tra bicchiere e mare

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Un uomo si sentiva perennemente oppresso dalle difficoltà della vita e se ne lamentò con un famoso maestro di spirito. “Non ce la faccio più! Questa vita mi è insopportabile”. Il maestro prese una manciata di cenere e la lasciò cadere in un bicchiere pieno di limpida acqua da bere che aveva sul tavolo, dicendo: “Queste sono le tue sofferenze”. Tutta l’acqua del bicchiere s’intorbidì e s’insudiciò. Il maestro la buttò via. Il maestro prese un’altra manciata di cenere, identica alla precedente, la fece vedere all’uomo, poi si affacciò alla finestra e la buttò nel mare. La cenere si disperse in un attimo e il mare rimase esattamente com’era prima. “Vedi?” spiegò il maestro. “Ogni giorno devi decidere se essere un bicchiere d’acqua o il mare”. (Bruno Ferrero)

Ci sono volte in cui ho saputo essere mare, altre in cui non sono riuscito ad essere altro che bicchiere. Ammetto anche che la quantità di cenere non è indifferente e che ci possono essere bicchieri grandi e profondi e mari piccoli con l’acqua bassa… Ma esserne consapevoli mi pare già un bel passo.

Dio contro se stesso

Ancora uno spunto di riflessione sulla tematica del male, di Dio, del perdono. Le parole sono di Luigi Pareyson:

9788806154554g.jpg“L’idea del Dio sofferente è l’unica che possa resistere all’obiezione della sofferenza inutile come dimostrazione dell’assurdità del mondo, e che, anzi, possa capovolgere l’intera problematica della sofferenza, nel senso di trarre dalla stessa incomprensibilità del dolore la possibilità ch’esso dia un senso alla vita dell’uomo. L’idea fondamentale di Dostoevskij è che se per un verso l’umanità è liberata dalla sofferenza perché la stessa sofferenza è portata in Dio, per l’altro verso il senso della sofferenza dell’umanità è la consofferenza col redentore che col suo dolore ha soppresso quello dell’umanità (lPt 2,19.21-24).

La sofferenza del Cristo è un evento tremendo e immane, che riesce a spiegare la tragedia dell’umanità solo in quanto estende la tragedia alla divinità. In questo senso la sofferenza inutile è esemplare: essa è un caso in cui il male è in Dio e quindi Dio deve soffrire. Con l’idea del Dio sofferente la sofferenza non è più limitata all’umanità, ma diventa infinita e s’insedia nel cuore stesso della realtà. Dostoevskij, nel partecipare allo scandalo di Ivan per la sofferenza inutile, riconosce che il cuore del creato è dolorante: nella sofferenza inutile il dolore acquista per lui una portata non solo umana, com’è nella sofferenza in generale, bensì anche cosmica. Ma quando egli indica nel Cristo sofferente l’unica risposta possibile alla domanda sull’inutilità della sofferenza, mostra di ritenere che il dolore acquista per lui anche un significato divino, anzi teogonico. La sofferenza del Cristo è tanto più infinita e terribile se si pensa che in lui è Dio stesso che ha voluto soffrire ed ha sofferto. Per quanto tutta intera cruenta e straziante, la sofferenza del Cristo ha conosciuto culmini particolarmente tragici e dolorosi, e indubbiamente il più drammatico è il momento in cui egli sulla croce si è sentito abbandonato da Dio.

E s’è trattato d’un reale abbandono, ciò che, come osserva Kierkegaard, può succedere non a un uomo, ma solo al Dio-uomo: Dio ha risposto col suo silenzio al grido del Cristo, il che è doppiamente crudele da parte di Dio, perché Dio non soltanto ha voluto che il Figlio soffrisse, ma lo ha abbandonato nel momento della sofferenza. Ciò significa che Dio è crudele anzitutto con sé: egli stesso vuol soffrire, e si abbandona perciò alla crocifissione; non ha risparmiato suo Figlio, cioè se stesso, e in una forma di sublime masochismo s’è messo contro di sé; v’è in lui una crudeltà radicale e originaria, che lo induce anzitutto a negare se stesso e a ergersi contro di sé. Una legge di espiazione grava sull’umanità come suo destino di sofferenza; e su questa tragica vicenda giunge come una grazia inaspettata il perdono di Dio. Ma il perdono è possibile in virtù d’una tragedia anche più immane di quella umana, ed è la tragedia immanente alla vicenda di Dio: la sofferenza del Cristo e il suo abbandono da parte di Dio nel momento estremo del suo abbassamento. Alla tragedia umana e storica dominata da una misteriosa legge di espiazione s’aggiunge una tragedia divina e teogonica: Dio contro se stesso.” (Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi, 1995, pp. 198-199)

Calma

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“Alla minima contrarietà, e a maggior ragione al minimo dispiacere, bisogna precipitarsi nel cimitero più vicino, dispensatore immediato di una calma che si cercherebbe invano altrove. Un rimedio miracoloso, per una volta.” (Emil Cioran, Confessioni e anatemi)