“Per la gemma di quest’anno ho scelto un libro intitolato Siddharta, di Herman Hesse, che ho letto quest’estate. In generale, Hesse ama scrivere di grandi personaggi che nel corso della storia si imparano a conoscere e trovano se stessi, spesso senza farlo apposta. In particolare ho deciso di leggere uno dei passi più significativi, che secondo me riassume perfettamente tutto ciò che lo scrittore vuole comunicare tramite il suo breve romanzo. Siddharta si rivolge all’amico Govinda, parlando della ricerca e di come cercare non significhi sempre trovare. Disse Siddharta: “Che cosa dovrei mai dirti, io, o venerabile? Forse questo, che tu cerchi troppo? Che tu non pervieni a trovare per il troppo cercare?” “Come dunque?” Chiese Govinda. “Quando qualcuno cerca,” rispose Siddharta, “allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori da quella che cerca, e che egli non riesca a trovare nulla, non possa assorbire nulla in sé, perché pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: esser libero, restare aperto, non avere scopo. Tu, venerabile, sei forse di fatto uno che cerca, poiché, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi.” Siamo talmente impegnati nella nostra estenuante ricerca che spesso, alla fine, rimaniamo a mani vuote, non perché non abbiamo trovato l’oggetto della ricerca, ma proprio perché non siamo stati abbastanza liberi e abbastanza aperti da lasciare che altre cose che ci sembravano meno importanti venissero a noi. Abbiamo gli occhi talmente puntati su una cosa sola, sullo scopo, sull’obiettivo, che il nostro sguardo non cade sul resto. Il “resto” non ci interessa, è sempre lì davanti agli occhi, pare scontato. Il punto è che spesso il “resto” ci sembra avere meno valore, crediamo che non ci possa dare quanto lo farebbe lo scopo della ricerca. Però nel “resto”, si può celare l’occasione della vita, un’esperienza indimenticabile, una persona che ci sappia voler del bene: il “resto”, a cui non diamo peso o valore, potrebbe essere anche l’obiettivo stesso. Riconosco il fatto che il mio pensiero possa essere un concetto difficile da capire, ma a volte sono spaventata dal fatto di essere capace solamente di cercare e non di trovare” (E. classe terza).
So che siamo nel periodo dell’Avvento, è appena iniziato. Molti cristiani, ieri, hanno acceso la prima delle quattro candele della loro corona. Eppure mi soffermo su una riflessione di più di vent’anni fa di Mario Luzi (1914-2005), scritta in occasione della Via Crucis di quell’anno per l’XI stazione, quella di Gesù inchiodato alla croce. L’ho trovata su La rivista de Il Mulino. Sono parole messe in bocca a Gesù stesso. Scrive Luzi:
“Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile. Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti. È solo una stazione per il figlio Tuo la terra, ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare. Il cuore umano è pieno di contraddizioni ma neppure un istante mi sono allontanato da te. Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato. La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? E terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito? La nostalgia di Te è stata continua e forte, tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. Padre, non giudicarlo questo mio parlarti umano quasi delirante, accoglilo come un desiderio d’amore, non guardare alla sua insensatezza. Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa. Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego”.
Resto convinto che i testi delle religioni siano in grado di essere occasione di riflessione per tutti, credenti e non credenti: non farei il lavoro che faccio se non ne fossi convinto. Certo saranno riflessioni dalle molteplici sfaccettature, frutto della diversità umana. Prendo questo dubbio di Gesù e lo porto nel tempo che stiamo vivendo: eccesso o difetto di umanità? “Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?”. Qual è, mi chiedo, lo sguardo che sto gettando sul mondo? Qual è l’atteggiamento che ho? Su quale fronte mi schiero? L’interrogativo del Gesù di Luzi è retorico, perché la risposta alle domande è contenuta nella prima parte: “È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile. […] ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare […] Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato”. Si tratta di un Gesù che ha fatto un’immersione completa nell’umanità, anche quella più lontana, anche quella più inaspettata, anche quella inascoltata o dimenticata, quella per la quale è così difficile provare empatia, creare uno spazio d’ascolto dentro di me. Eppure, nonostante tutto questo, conserva un dubbio, quello di essere stato autoreferenziale, quello di aver assecondato una propria volontà, una propria preferenza, un proprio desiderio: “Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa”. Come faccio a comprendere, a discernere tra il gesto egoista e il gesto puramente altruistico? Lo so che nel gesto di generosità è contenuta l’autogratificazione e so che è normale. Ma quale può essere la bussola per non perdermi e non confondere la “Tua volontà”. Troppe volte, in nome di una supposta volontà superiore, si sono compiuti danni inenarrabili! Provo ancora a cercare tra le parole di Luzi una risposta e mi colpiscono queste: “La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario”. Ieri sera a cena con noi c’era una coppia di cari amici: Mariasole passava da un braccio all’altro, li guardava negli occhi, sorrideva, sprizzava gioia da ogni particella del suo corpo. Diceva con tutta se stessa e con le parole: “che bello stare insieme”. Ecco l’umano a cui dovrei cercare di somigliare ogni giorno, ecco l’umano da cercare in questo Avvento affinché il divino possa continuare a trovare albergo nella grotta di ogni cuore…Un brano di Nick Cave rifatto dalla tredicenne Nell Smith insieme ai The Flaming Lips per meditarci su (tutto Where the Viaduct Looms è un cover album pazzesco secondo me!).
Su Settimana News ho recuperato un articolo di Giannino Piana (pubblicato sulla rivista Il gallo) sulla figura di Adriana Zarri, che nel mese di aprile avrebbe compiuto 100 anni.
“Il mondo interiore di Adriana Zarri, una vera mistica del nostro tempo, non è facile da decifrare. Sebbene siano molti i testi di spiritualità che ci ha lasciato – alcuni dei quali di rara intensità (Èpiù facile che un cammello… Gribaudi, Torino 1975; Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera, Cittadella, Assisi 1978; Erba della mia erba. Resoconto di vita, Cittadella, Assisi 1981; Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, Torino 2011; Quasi una preghiera, Einaudi, Torino 2012) – la sua figura di donna votata alla vita monastica risulta a chi l’ha conosciuta da vicino (e per un lunghissimo periodo della sua esistenza) caratterizzata da mille sorprendenti sfaccettature che non si lasciano imbrigliare dentro una scrittura, sia pure carica sempre di un’impronta fortemente personale, come la sua. La ricchezza della personalità e la estrema varietà degli interessi coltivati confluivano in lei attorno a un asse fondamentale, che dava unità alla sua esistenza: la ricerca insonne di Dio in un rapporto stretto con la terra in tutte le sue componenti, dagli uomini agli animali al mondo vegetale, aderendo alle radici contadine, che hanno segnato profondamente la sua identità umana e religiosa (Cf. Con quella luna negli occhi, Einaudi, Torino 2014). È sufficiente ricordare la passione di Adriana per i gatti e, finché le è stato concesso dalla salute, l’allevamento degli animali da cortile e la coltivazione dell’orto.
Ad avvalorare questa visione vi è poi il suo essere donna: l’appartenenza di genere si riflette decisamente anche sulla sua spiritualità, che ha i connotati di una spiritualità al femminile. Anche a questo proposito emerge tuttavia l’originalità di Adriana: la sua adesione alle lotte femministe è stata infatti sempre contrassegnata da un vero (e profondo) coinvolgimento e insieme dalla rivendicazione di una grande libertà e indipendenza di giudizio. La spiritualità di Adriana coinvolge dunque – come si è accennato – la realtà in tutte le sue dimensioni. Il profumo dei campi nelle diverse stagioni, il colore variegato dei fiori, il fruscio delle fronde e il verso degli animali e, soprattutto, le vicende degli uomini, quelle dei poveri in particolare, segnano l’incontro con un Dio che è dentro la storia: il Dio che si è definitivamente manifestato nella persona di Gesù di Nazaret. Ma l’aspetto che contraddistingue, in modo speciale, il suo approccio, e che la avvicina alla spiritualità francescana, è l’accento posto sull’importanza che ha avuto, nel «farsi carne» (sarx) del Figlio di Dio, la dimensione «spaziale», e non solo «temporale»; il «divenire natura», e non solo storia. Il creato, in tutta la ricchezza delle sue espressioni, assume il carattere di habitat (spazio opportuno) che, rapportandosi al kairòs (tempo opportuno), conferisce alla dimensione contemplativa un orizzonte cosmico. L’esperienza di Dio nel mondo fa della vita quotidiana, nella molteplicità delle sue espressioni, non solo la sorgente, ma anche la modalità secondo la quale vivere la relazione con il divino. Vi è dunque una profonda continuità tra vita spirituale e vita quotidiana, perché il Dio della rivelazione è – come ci ricorda la lettera ai Filippesi da Adriana spesso citata – colui che in Gesù Cristo «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» e «facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 7-8). Dio e mondo sono dunque per Adriana in un rapporto di circolarità: da un lato, la immagine del Dio cristiano non può prescindere dalla sua relazione con il mondo di cui è entrato a far parte; dall’altro, il mondo è da questa relazione riscattato; diviene anticipazione del Regno. Questa visione della realtà, che sollecita l’impegno nel presente e l’attesa del futuro, ha per Adriana una perfetta esplicitazione nella preghiera del Padre nostro, dove alla richiesta del pane quotidiano («Dacci oggi il nostro pane quotidiano») corrisponde l’invocazione del compiersi del Regno («Venga il tuo Regno») e dell’adempimento della volontà del Padre («Sia fatta la tua volontà») (Mt 6, 9-13).
La dinamica relazionale, che è l’asse portante della spiritualità di Adriana, ha poi nel mistero trinitario le sue radici. Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, che Gesù di Nazaret ha reso trasparente nella sua persona e attraverso la sua azione, è il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo: un Dio nel quale la relazione coincide con la stessa natura: le persone che costituiscono il mistero divino sono in quanto si rapportano tra loro. La definizione che di Dio fornisce la prima lettera di Giovanni: «Dio è carità» (1Gv 4,8) ha qui la sua più profonda motivazione. Trinità e carità sono strettamente correlate e interdipendenti. Solo di un Dio che vive in comunione di persone è infatti possibile dire che è Amore (e non semplicemente che ha l’amore), perché l’amore implica la relazione tra persone, che si costituiscono nel reciproco donarsi. In un libro di preghiere (o di quasi preghiere) che reca significativamente il titolo Tu (Tu. Quasi preghiere, Gribaudi, Torino 1973), Adriana si rivolge a Dio come a Qualcuno cui è possibile dare del tu, giungendo a livelli di intimità che ricordano le grandi esperienze mistiche – da maestro Eckhart a Giovanni della Croce e a Teresa d’Avila – alle quali spesso Adriana fa riferimento nei suoi scritti. L’incontro profondo, ma sempre inevitabilmente limitato, con il tu divino – la conoscenza di Dio è quaggiù parziale («per speculum et in aenigmate») – è la molla che spinge Adriana ad accostarsi alla morte, che ella considera una componente essenziale della vita – il contatto con la natura cui è stata abituata fin dall’infanzia facilitava la consapevolezza di questa continuità – come al passaggio da questa vita alla vita nuova, nella quale diviene finalmente possibile entrare in una relazione «faccia a faccia» con il Signore, che consente di conoscerlo come egli è («sicuti est»).
La spiritualità di Adriana non si esaurisce tuttavia nella sola adesione ai presupposti fondativi ricordati; si rende concreta in una serie di attitudini esistenziali, due delle quali meritano di essere particolarmente ricordate. La prima è l’ascolto. Le religioni del Libro sono religioni dell’ascolto: «Ascolta Israele» è l’invito che, fin dall’inizio, Dio rivolge al suo popolo. Ma l’ascolto – Adriana lo mette bene in evidenza – non si esaurisce (e non può esaurirsi) in un semplice sentire; esige un ridimensionamento dell’io per fare spazio all’accoglienza dell’altro e alla comprensione del suo messaggio. Esige la creazione di un clima di silenzio e la disponibilità a fare propria la povertà evangelica, che è insieme sobrietà nei confronti delle cose e apertura fiduciale alla grazia divina. La scoperta del mondo degli altri e dell’Altro è legata all’abbandono di ogni forma di autoreferenzialità, quale frutto di una profonda trasformazione interiore, una vera metanoia. Una seconda attitudine, particolarmente cara ad Adriana, è la ricettività, che considera un habitus esistenziale in stretta sintonia con il vissuto femminile. Destinata a essere custode della vita, la donna ha sviluppato una maggiore sensibilità nei confronti di tale attitudine, la quale, lungi dall’identificarsi con la passività, è l’espressione (forse) più alta di attività, in quanto esige, per potersi esplicare, un processo di interiorizzazione, che consenta di riconoscere l’altro nella sua alterità, senza proiezioni mistificatorie. D’altra parte, la ricettività non è soltanto una virtù umana, per quanto grande; è anche – a questo va soprattutto ricondotta l’importanza che Adriana le attribuisce – la condizione fondamentale per vivere la relazione con il Dio cristiano, il quale viene costantemente incontro all’uomo, andando alla sua ricerca anche quando si è colpevolmente allontanato da Lui. La fede non comporta dunque un andare verso Dio, ma un disporsi a riceverlo, creando le condizioni per accoglierlo, lasciandosi fare e amare da Lui.
L’esperienza spirituale fin qui evocata ha per Adriana il suo momento più alto nella preghiera, o meglio nel pregare, il quale, lungi dal ridursi a fare o a dire preghiere, è un vero e proprio modo di essere-al-mondo. Il Dio della rivelazione biblica è il Dio dell’alleanza, che entra in comunione vitale con l’uomo, ma che, al tempo stesso, gli impone di non raffigurarlo né nominarlo, rivendicando in questo modo la sua assoluta Alterità. La preghiera è dunque ascolto, incontro e relazione, ma è anche rispetto di una distanza che non può mai essere del tutto colmata. È un vivere alla presenza di Dio, fare esperienza dell’essere abitati da Lui, ma è anche riconoscimento dell’assenza; è rifiuto di catturarlo per servirsene, evitando di assumersi fino in fondo la propria responsabilità nel mondo. La preghiera è una cosa seria che non deve essere separata dal contesto in cui si sviluppa l’esistenza e che implica la confidenza, ma che non può essere viziata da sdolcinature impudiche: il tema del pudore ricorre con frequenza nei testi spirituali di Adriana come un’istanza che deve connotare ogni espressione religiosa. L’incontro con Dio rinvia all’impegno nel mondo; l’atto cultuale non ha alcun significato se non si traduce in culto spirituale, nella capacità di coniugare incontro con Dio e fedeltà all’uomo e alla terra, immettendo nel dialogo religioso le inquietudini e le speranze umane. La preghiera di Adriana ha questo timbro; da essa scaturisce la militanza che ha contrassegnato l’intera sua esistenza, con la partecipazione diretta alle battaglie contro le diseguaglianze sociali e per la promozione dei diritti civili. L’eremo non è stato per lei un luogo separato dal mondo, ma un angolo appartato dal quale guardare con lucidità e partecipazione le vicende umane e mondane. La solitudine del monaco – Adriana preferiva definirsi così, al maschile, per l’accezione equivoca acquisita dal termine femminile – non è isolamento; è un processo di riappropriazione del mondo interiore, che restituisce all’uomo la libertà, rendendolo capace di esercitare il discernimento profetico nei confronti della realtà. Una spiritualità, quella di Adriana, la cui grande linearità e coerenza ha suscitato talora forti contestazioni da parte di ambienti ecclesiastici tradizionalisti; ma che ha, nel contempo, favorito la nascita di profonde amicizie religiose e laiche – come non ricordare dom Benedetto Calati e Rossana Rossanda? – che hanno concorso ad arricchire la sua esperienza religiosa e civile (e di cui hanno fruito quanti hanno frequentato i suoi incontri). Una spiritualità, soprattutto, nella quale la tensione alla trascendenza, lungi dal vanificare la dedizione nei confronti dell’uomo e della terra, ha fornito piuttosto lo stimolo all’esercizio di una limpida e feconda testimonianza in favore della città degli uomini.”
Giorgio Vasari, Vegliardi dell’Apocalisse, 1572-74, Santa Maria del Fiore, Firenze
All’inizio di questo tempo di Quaresima ero fuori casa e lontano dal computer. Per cui recupero oggi, attraverso i consigli di lettura di Gianfranco Ravasi pubblicati ieri su Il Sole 24 Ore e che ho reperito sul sito del Cortile dei Gentili.
“In una società così secolarizzata la Quaresima è una parola ignorata e forse ignota, se non nello stereotipo «faccia da quaresima». Nella storia della cultura occidentale è stato, però, un tempo ricco di simbolismi e di pratiche spirituali: si pensi solo al digiuno, un segno carico di significati anche caritativi, tipico pure di altre fedi (ad esempio, il Kippur ebraico e il Ramadan musulmano), da non equivocare con la dieta che ne è solo una scimmiottatura “laica”. Ma il cuore di questo arco temporale di quaranta giorni che è iniziato mercoledì scorso col rito delle Ceneri – vero e proprio schiaffo alla superficialità vana e vacua contemporanea – è la tensione verso la Pasqua. Abbiamo, così, voluto infilare una collana di testi – tra i tanti apparsi in questo periodo – che si proiettano idealmente verso una meta “pasquale”. È la meta suprema della storia, configurata nella risurrezione di Cristo, che è l’irruzione dell’eterno nel tempo, del divino nel creaturale, dell’infinito nel relativo. In questa prospettiva l’opera più alta, vero e proprio vessillo non solo religioso ma anche artistico, è l’Apocalisse. Nella sterminata letteratura che l’ha commentata, ricreata, attualizzata e persino deformata facciamo emergere un testo lasciato in eredità da uno dei maggiori studiosi di quest’opera, il gesuita italo-argentino Ugo Vanni, scomparso a Roma a 89 anni lo scorso 27 settembre. Un discepolo, Luca Pedroli, ha edito la lettura integrale condotta dal suo maestro su quelle pagine sacre, adatte certo a palati forti, ma aliene dall’eccitazione oracolare o dalla vena catastrofica alla Apocalypse now in cui sono state compresse. L’opera, sottoposta a varie ermeneutiche millenaristiche, apocalittiche, esoteriche, storiche, allegoriche e così via, è collocata da Vanni in un grembo ecclesiale liturgico nel quale s’intrecciano e interagiscono, attraverso l’efficacia del rito, storia ed escatologia, presenza e attesa, il realismo amaro della persecuzione e la scenografica luminosa della nuova Gerusalemme futura. L’imponente commento di Vanni, preceduto da un volume a parte con un’introduzione generale e col testo tradotto e accompagnato dal greco a fronte, è una straordinaria guida per varcare l’orizzonte letterario e teologico di quest’opera dalla quale non si può uscire indenni. Accanto a questo monumento esegetico collochiamo il mini-libretto di Harry O. Maier dell’università di Vancouver che punta, invece, a disegnare uno schizzo sull’attualità dell’Apocalisse, codice interpretativo del “tempo presente” e del “senso della fine” (o piuttosto del fine) della storia. Lo studioso canadese s’interroga: «L’Apocalisse può darci qualcosa in cui sperare che non sia solamente una morte inevitabile raggiunta dopo tante delusioni e sofferenze?». E la sua è una vivace risposta positiva, piena di ammiccamenti a varie vicende odierne. Ma lo sguardo su quell’“oltre” può essere ben più acuto e capace di perforare la trama globale della storia alla ricerca di un filo dinamico segreto in tensione verso un Oltre trascendente. È ciò che ha fatto una teologa tedesca dell’Eberhard-Karls-Universität di Tubinga, Johanna Rahner, classe 1962, che porta il cognome di uno dei maggiori teologi del secolo scorso, Karl Rahner. La sua s’intitola esplicitamente Introduzione all’escatologia cristiana: eppure non esita a varcare le frontiere minate dei territori misteriosi fatti balenare da questa disciplina teologica. Intendiamo alludere a quelle domande che spesso si archiviano perché generano vertigini o rigetti: che cos’è la risurrezione del corpo e dell’anima? Che valore ha la scenografia del giudizio finale? Che senso ha per l’uomo contemporaneo smaliziato far balenare immagini paradisiache o infernali? L’idea di una stasi purgatoriale oltre la morte è una mitologia arcaica o può essere ricondotta a una prospettiva concettuale coerente? La reincarnazione è compatibile con un’escatologia cristiana? E più brutalmente: esiste una legittima ermeneutica dell’immaginario cristiano sull’oltrevita così da riconoscerne o negarne l’esistenza? Queste e tante altre questioni affiorano in pagine terse e vivaci che non esitano a citare, accanto ai teologi e filosofi paludati, anche la Arendt e Benjamin, Brecht e Camus, Darwin e Foucault, Klee e Keplero-Copernico-Newton-Galilei e così via. Rimane, comunque, una certezza: quegli orizzonti estremi, sempre rimossi, ritornano a galla e ci assillano, credenti e no, perché «dove si perde la capacità di sperare nel futuro, anche quello oltre la morte, alla fine si perde ciò che è propriamente umano». Anche in questo caso, a lato dell’architettura ideale sontuosa della Rahner, poniamo un mini-testo, scritto da un teologo raffinato come Rosino Gibellini che in poche pagine riesce a raccogliere il succo di un’insonne ricerca di molti, rubricandolo sotto il titolo modesto ma accattivante di Meditazione sulle realtà ultime. In realtà si tratta di una sintesi della ricerca sul tema dell’escatologia nella riflessione teologica del secolo scorso, che è simile a un delta molto ramificato di questioni e che ha coinvolto i maggiori pensatori. Essi si sono confrontati sulla dialettica tra morte e vita in Dio, sull’immortalità dell’anima e la risurrezione dei morti (categorie apparentemente alternative), sulla preghiera per i defunti, una prassi tradizionale nella cristianità e così via.
Certo è che affacciarsi sull’eterno e sull’infinito con la nostra attrezzatura gnoseologica ancorata a linguaggi e strutture spazio-temporali è un’impresa ardua. È ciò che anche l’ebraismo ha sperimentato attraverso vari sguardi. Uno di questi è la celebrazione del sabato, Un momento di eternità, come recita il titolo di un saggio di Benjamin Gross, della nota Università israeliana di Bar-Ilan, scomparso nel 2015. La filigrana di rimandi biblici e giudaici, molto attraente, regge una riflessione che scopre del sabato non solo la sua dimensione storica, familiare, sociale, liturgica, etica ma proprio il suo essere segno di pienezza. Non spazio temporale vuoto, ma spina nel fianco delle divagazioni e distrazioni della nostra cultura, così che l’occhio dell’anima si protenda verso il futuro escatologico. È «un assaggio di eternità», come lo definiva Abraham J. Heschel nel suo famoso Il Sabato (ultima edizione presso Garzanti nel 1999), tentativo felice di mostrarne «il significato per l’uomo moderno». Concludiamo, allora, questa nostra carrellata libraria stando sulla porta della Quaresima, tempo “pasquale” germinale, con una testimonianza del fisico Giuliano Toraldo di Francia rilasciata anni fa durante un congresso su Teilhard de Chardin: «Sono un agnostico, ma leggendo le opere di questo gesuita scienziato capisco il suo tentativo di trovare un senso all’avventura del mondo e alla nostra vita. Se Dio è il nome di questo senso, anch’io posso pregare: In te, Domine, speravi».
Ho riflettuto spesso, nelle ultime settimane su queste parole di Alda Merini. Su di lei si legge tanto e si legge tutto: irraggiungibile, sopravvalutata, eterea, sconcia, incomprensibile, mistica… Non sono un critico letterario, so solo che quando leggo le sue parole sente vibrare qualcosa dentro di me, avverto qualcosa di ancestrale che vibra, e piango e rido e mi emoziono. Sento affinità e vicinanza e il cuore, anche nel dolore, si riscalda e si rinfranca.
“Dicono che le sorgenti d’amore siano le lacrime, ma il pianto non è che un umile lavacro dei tuoi pensieri. La persona che piange ha toccato i vertici dell’umanità e spesso il nero della menzogna, ma anche la tenebra è un sudario da cui si può riemergere, perché un seme di luce ce l’ha anche la tenebra. E forse Dio vuole anche la tenebra per saggiare la resistenza del cuore dell’uomo. Oh sì, Dio, l’uomo quando muore risorge in te e diventa una lunga gravidanza d’amore. Tu sei un Dio materno e plurimo, un Dio che si disconosce e si converte, un Dio buono come l’odio e la gelosia, un Dio umano che si è fatto croce, che si è fatto silenzio, un Dio che si converte in estasi ma che conosce il mistero della collera, e che per riunificare i suoi figli li deve riunire in un solo abbraccio che è l’assenza della sua parola. E quando Dio tu non mi parli in me non scende musica né affetto umano, ma odio e vendetta, e vorrei distruggere i disegni del tuo grande, inesauribile amore.”
Lunedì 29 gennaio si è inaugurato a Berlino il primo padiglione della House of One, che vuole raccogliere i fedeli dei grandi monoteismi, laici, atei, agnostici e studiosi. Una casa per tre religioni, intervista a Andreas Nachama, Gregor Hohberg e Kadir Sanci a cura di Marco Ventura. Da La Lettura di domenica 28 gennaio 2018, reperibili qui o qui.
“Tre religioni, una casa. È lo slogan della House of One, la Casa dell’Uno, il cui primo padiglione viene inaugurato a Berlino domani, lunedì 29 gennaio. Il progetto prevede una sinagoga, una moschea e una chiesa riunite nel medesimo complesso architettonico. Secondo l’idea dello studio d’architettura berlinese Kuehn Malvezzi, i tre spazi per la preghiera e la celebrazione dei riti saranno uniti da una hall in cui si svolgeranno attività comuni. L’impresa fu annunciata nel 2011. Nel 2012 si svolse il concorso per l’assegnazione del progetto. L’inizio dei lavori è previsto nel 2019. La House of One sorgerà a Petriplatz, luogo simbolo della città medievale. Negli ultimi anni Berlino è diventata un laboratorio sulla religione. Il festival Faiths in Tune riscuote un successo crescente. La sperimentazione sull’insegnamento non confessionale della religione e dell’etica nelle scuole prosegue dopo la vittoria dei proponenti nel referendum del 2009. La città ospita la moschea progressista Ibn Rushd-Goethe dove grazie alla guida di una donna — sotto scorta per le minacce ricevute — si pratica l’eguaglianza di genere e si insegna la tolleranza verso i non musulmani. Il progetto della House of One, tuttavia, è diverso. È più grande. Appartiene a Berlino, certo, ma la trascende per abbracciare un mondo affamato di dialogo. Di qui la scelta dell’inglese, House of One, un’espressione che gli stessi ideatori non traducono in tedesco. L’avventura è non meno grande dal punto di vista teologico. Si tratta di un progetto ardito, eppure opera di individui e comunità radicati nelle tre tradizioni monoteiste. È un tentativo di alfabetizzazione al religioso e di unità in nome dei principi consacrati nella Carta della House of One: non violenza, solidarietà, rispetto, eguaglianza, pari diritti. Una casa, tre religioni. E tre leader. I responsabili del progetto: il rabbino Andreas Nachama, 67 anni; padre Gregor Hohberg, 50 anni; l’imam Kadir Sanci, 40 anni. Rispondono insieme alle domande de «la Lettura» via Skype da Berlino. La conversazione si svolge in inglese. Intervista a Andreas Nachama, Gregor Hohberg e Kadir Sanci Cominciamo da voi. Dalle vostre storie. PADRE HOHBERG — Sono un berlinese, nato e cresciuto nella Germania dell’Est in una famiglia protestante. Anche mio padre era un ministro della Chiesa. In quanto cristiano durante il comunismo ero all’opposizione. Grazie alla fede e all’appartenenza a una Chiesa mi sentivo parte della forza più progressista della società. Le Chiese erano lo spazio per la democrazia e la libertà. Poi nel 1989 venne il tempo del cambiamento. Un tempo straordinario per me. Le parole della Bibbia, le candele, le preghiere avevano il potere di cambiare il sistema politico… Candele e preghiere? PADRE HOHBERG — Sì. Avevano il potere di cambiare. Facevano venire giù il muro. Senza un solo sparo. Solo con la preghiera e la parola di Dio. Fu un’esperienza decisiva per me. Viene da lì la mia speranza che anche questo progetto abbia il potere di cambiare il sistema di portare libertà e pace tra gruppi diversi. E lei, Rabbi Nachama? Anche lei è berlinese? RABBI NACHAMA — Sono cresciuto a Berlino, ma all’Ovest. Entrambi i miei genitori erano sopravvissuti all’Olocausto. Mio padre era stato in vari Lager. Mia madre si era salvata grazie a una famiglia cristiana che l’aveva tenuta nascosta. Durante la mia infanzia, il dialogo tra ebrei e cristiani non era una cosa da sinagoga o da chi sa. Aveva luogo in casa mia, ogni volta che veniva a trovarci questa famiglia fortemente cristiana, che aveva nascosto e salvato mia madre. Poi ho studiato religione nella Libera Università di Berlino, ho seguito i corsi che venivano offerti in teologia protestante. Ho studiato cristianesimo e anche l’islam. Il dialogo interreligioso così è diventato sempre più parte della mia vita. Lei è un altro testimone della fine del Muro. RABBI NACHAMA — Ho visto nella Germania dell’Est il potere delle parole nell’azione delle Chiese da cui è nata la rivoluzione del 1989. La mia speranza è che il potere del nostro stare insieme possa contribuire non soltanto a risolvere il conflitto in Medio Oriente, ma anche ad affrontale i problemi della nostra società. Imam Sanci, il suo percorso è molto diverso. IMAM SANCI — Sono nato in Germania da una famiglia immigrata dalla Turchia, una famiglia appartenente a una minoranza. Per questo mi sono trovato spesso nella condizione di ambasciatore… Ambasciatore? IMAM SANCI — Anzitutto un ambasciatore per i miei genitori che avevano difficoltà con la lingua. Ad esempio quando c’era da andare dal dottore, o negli uffici. Poi sono diventato anche un ambasciatore dell’islam. Spesso a scuola i compagni e gli insegnanti mi facevano domande sulla mia comunità. Non sapevo le risposte, ho studiato, ho imparato. E sono diventato anche un ambasciatore della religione e della cultura dell’islam. Ho cominciato così con la religione: trovandomi a dover parlare dell’islam. Poi nel 2001 c’è stato l’11 settembre. Che cosa è cambiato dopo le Torri gemelle? IMAM SANCI — Non potevo capire come gente che si diceva musulmana potesse aver fatto una cosa tanto terribile. Allora ho sentito la responsabilità, dovevo trovare un modo di rispondere, di combattere quelle idee. Mi sono messo a studiare. L’islam, ma anche l’ebraismo e il cristianesimo… Viene dunque da lì il suo interesse per l’House of One. Più precisamente come si è trovato coinvolto? IMAM SANCI —Durante i miei studi visitai la comunità ecumenica di Darmstadt-Kranichstein, cattolici e protestanti uniti nel desiderio di «due chiese sotto lo stesso tetto». Incontrai il pastore e gli dissi: dobbiamo fare la stessa cosa per i musulmani. Mi rispose: per noi protestanti e cattolici ci sono voluti sei secoli, dovrai munirti di pazienza. Poi mi arrivò la notizia di questo progetto e decisi di trasferirmi a Berlino per contribuire. A prima vista, quello che state facendo è molto nuovo. E se ci fosse anche qualcosa di meno nuovo, o addirittura di antico in questo progetto? RABBI NACHAMA — Abbiamo imboccato una nuova strada. Questa strada però è già stata aperta nel XX secolo. Abbiamo avuto già allora la prova che le comunità religiose e i singoli credenti possono cambiare il mondo. IMAM SANCI — Cos’è antico e cos’è nuovo nel progetto? La preghiera e i riti sono tradizionali, non sono nuovi. Restiamo all’interno delle nostre tradizioni. Ma la nostra visione è nuova. Cerchiamo insieme, in libertà. Questo andare insieme è nuovo. Cerchiamo soluzioni. Nella storia ognuno ha cercato soluzioni da solo — ebrei, cristiani e musulmani — ognuno per conto proprio. Ora cerchiamo insieme. Questa è la novità. Padre Hohberg, lei è cresciuto nella Germania dell’ateismo di Stato. Nel vostro stare insieme non c’è forse il compattarsi di un fronte religioso davanti alla crescente percentuale di non credenti in Occidente? PADRE HOHBERG — La maggior parte delle persone a Berlino è non credente. Vogliamo dialogare anche con loro, con la società laica. È parte del progetto. Nella House of One avremo quattro spazi. Tre per la chiesa, la sinagoga e la moschea. Il quarto sarà per chi cerca la religione, chi la critica, atei e agnostici. Dobbiamo tenere in considerazione la maggioranza laica… RABBI NACHAMA — Pensiamo che sia importante il dialogo fra noi tre, ma anche con tutti coloro che sono interessati a entrare in contatto con noi, siano essi non credenti o credenti di altre religioni. Pensiamo che la pace nella società possa essere raggiunta solo se tutte le componenti si impegnano in una qualche forma di dialogo. Naturalmente sappiamo bene che in una città di quasi quattro milioni di abitanti non possiamo parlare con tutti, ma cerchiamo di fare il possibile! (Ride). IMAM SANCI —Dunque abbiamo tre tipi di dialogo. Il primo tipo è tra noi. È un processo lungo. Non è semplice formare un’unità. Il secondo tipo è il dialogo tra noi, tra noi nella nostra unità, e i credenti di altre religioni. Infine c’è il dialogo tra noi e i non credenti. PADRE HOHBERG — La cosa veramente importante è che qui a Berlino la reazione dei più laici al nostro progetto è molto positiva. Quanto è stata importante l’unità tra voi sul piano personale? Non sarà stato facile imparare a lavorare insieme. RABBI NACHAMA — Quando sono arrivato, due anni e mezzo fa, per sostituire il mio predecessore, non mi preoccupava affatto l’incontro con il pastore, ma avevo timore dell’imam. Ora siamo amici. Credo che quando inizi ad ascoltare e parlare… e ascoltare e parlare, allora non ci accorgiamo nemmeno più che siamo insieme. Ma siamo insieme. Formiamo un’unità. Dico sempre che siamo davvero fratelli in questo compito. IMAM SANCI — Non è una cosa facile. Il successo dipende dalle persone che sono impegnate nel progetto. Ringrazio Dio di essere seduto qui con Gregor Hohberg e Andreas Nachama. Se abbiamo successo è perché ascoltiamo, e perché siamo… Come si dice Ehrlich? RABBI NACHAMA — Onestamente. IMAM SANCI — Onestamente in dialogo. Non abbiamo altri fini. Solo avere un dialogo sincero. In un tempo di irrigidimento delle identità religiose, voi andate controcorrente. Immagino che nelle vostre comunità non manchino le riserve, le critiche, magari anche gli attacchi. RABBI NACHAMA — La mia comunità… sono il rabbino dell’unica comunità ebraica riformata di Berlino… non solo mi sostengono, ma apprezzano il progetto. Per la festa dell’Hanukkah, in dicembre, abbiamo avuto una celebrazione in sinagoga e sono state invitate le persone che lavorano alla House of One. No, le cose vanno bene. La gente ci chiede piuttosto perché non ce ne sono di più nel mondo di House of One. Qualcuno deve cominciare. Speriamo che il movimento in cui siamo impegnati diventi normale in dieci, vent’anni. Ciascuno ha le sue preghiere e le sue tradizioni. Ma è naturale trovarsi insieme, pranzare insieme. È artificiale non farlo. PADRE HOHBERG — Nella nostra comunità ci sono voci critiche. La maggior parte teme che le religioni si mescolino. Ma se ho tempo per spiegare, la gente comprende che il progetto ha a cuore anche lo studio delle rispettive religioni, e le critiche si attenuano. IMAM SANCI —Anche da noi ci sono critiche. Verso il progetto e verso di me personalmente. Tuttavia ho fatto splendide esperienze. A Berlino e in tutta la Germania molti musulmani hanno fatto donazioni per sostenerci. È un buon segno. Non siamo soli. Siamo aiutati da tante persone, religiose e non religiose. Persone che vogliono vivere in libertà. Le parole di Rabbi Nachama sono molto importanti. Siamo stati invitati nella sinagoga, e poi in chiesa. Li abbiamo a nostra volta invitati da noi per il Ramadan. Questo possiamo farlo solo se c’è gente dalla comunità che ci sostiene. Non posso farlo da solo. La vostra campagna di finanziamento sembra ben organizzata. C’è un organo di controllo indipendente. Le spese amministrative sono basse e contate di spendere per la costruzione più del 90% dei fondi che riceverete. Non avrete nulla dalla tassa di Stato di cui godono le Chiese tedesche. Però il fisco garantirà la deducibilità delle offerte. E fuori dalla Germania? Come sta andando la raccolta internazionale? PADRE HOHBERG — Abbiamo ricevuto donazioni da più di sessanta Paesi. IMAM SANCI — Pensi che il primo dono che abbiamo ricevuto per la House of One è arrivato dall’Italia. Da un’artista cattolica. Non mi ricordo il nome. Tre campane: una con la forma del rabbino, una con la forma dell’imam e una con la forma del pastore. Campane? IMAM SANCI — In ceramica. Con tre ritratti. Cioè il mio, di Padre Hohberg e di Rabbi Tovia Ben- Chorin, predecessore di Rabbi Nachama. Uno splendido regalo. Padre Hohberg, lei appartiene alla Chiesa evangelica luterana tedesca. Ha avuto incarichi anche presso il Berliner Dom. La immagino attivo nei rapporti con la Chiesa cattolica. Quale posizione hanno i vertici diocesani? I cattolici sono coinvolti nel progetto? PADRE HOHBERG — Ci sono molti contatti. Abbiamo avuto un incontro positivo con il nuovo arcivescovo Heiner Koch. Ci aiuterà. Ora stiamo fondando un consiglio scientifico in cui siederanno l’arcivescovo cattolico, il vescovo luterano, i rappresentanti degli uffici centrali tedeschi delle comunità ebraiche e islamiche. RABBI NACHAMA — Stiamo cercando di incorporare nel nostro consiglio scientifico le istituzioni religiose. Niente è chiuso. Siamo aperti. Via via che incontriamo persone disponibili, troviamo il modo di coinvolgerle. Quale servizio religioso avrà luogo in ognuno dei tre spazi? Ad esempio nella cappella, o chiesa cristiana? A proposito, come la chiamerete: proprio chiesa? PADRE HOHBERG — Sì, sarà una chiesa. Ecco, chiesa. Dove si celebrerà con rito luterano, presumo, visto che è questa la sua confessione. PADRE HOHBERG — La nostra idea è che avremo tre spazi sacri. Uomini e donne potranno pregare in uno dei tre. Invitiamo ciascuno a pregare nella propria tradizione. Anche i cattolici, i battisti e gli ortodossi. L’unica condizione è che dovranno sottoscrivere le regole… Le avete elencate nella Charter for a Partnership of Judaism, Christianity and Islam, su «sviluppo concettuale, costruzione e uso della House of One». PADRE HOHBERG — I punti fondamentali sono la democrazia, poi … IMAM SANCI — … l’eguaglianza… PADRE HOHBERG — … eguaglianza tra tutte le persone… IMAM SANCI — … il rispetto… . PADRE HOHBERG — … e il rispetto. Allora, se possono sottoscrivere queste regole, possono pregare in uno dei tre spazi, secondo la propria tradizione. Questo vale anche per la moschea? IMAM SANCI — Sì. Stiamo progettando questi spazi — la moschea, la sinagoga e la chiesa — in modo che possano utilizzarle persone di confessioni diverse. Attraverso questo segno indichiamo agli altri che sono benvenuti, che tutti possono venire alla House of One… PADRE HOHBERG — Sciiti, sunniti Sarà possibile anche per gli sciiti celebrare nella moschea? IMAM SANCI — Sì, sarà possibile. Lei è sunnita, giusto? IMAM SANCI — Esatto. Io vengo dalla tradizione sunnita. Ma non importa a quale confessione si appartiene. Se possono sottoscrivere la Carta della House of One, sono invitati. E possono pregare nella loro tradizione; oppure possono pregare con noi. Questa è la nostra visione. Costruiremo gli spazi perché anche gli altri possano venire. Poi, se verranno o no, questo non dipenderà più da noi. Non sarà in nostro potere. Ma dove pensate possa portare questa unione dei tre monoteismi? Mi pare che stiate ponendo le premesse per un solo grande monoteismo verso cui convergeranno le tre tradizioni. Indipendentemente dalla vostra volontà e dal progetto. So che vi sto mettendo in difficoltà. (Silenzio) PADRE HOHBERG (Rivolto agli altri) — Un unico grande monoteismo? RABBI NACHAMA — Non intendiamo realizzare con gli altri una unione delle religioni. Noi vediamo il mondo come fatto da diverse fedi. La House of One è una casa in cui ognuno può pregare nella propria tradizione. Abbiamo discussioni in cui cerchiamo di imparare circa le altre vie, ma ognuno resta nella sua. PADRE HOHBERG — Abbiamo molte discussioni su queste questioni religiose. Sono difficili. Non abbiamo risposte conclusive. La parola conclusiva spetta a Dio. Questo ci rende umili verso le altre tradizioni. C’è la volontà di Dio, non possiamo conoscerla. Dobbiamo restare disponibili ad essa. State dicendo questo? PADRE HOHBERG — Giusto. IMAM SANCI — Nell’islam fiqh è un termine molto importante. Se ti sei perso… fiqh è la legge islamica. Fiqh significa comprensione. Questo vuol dire che devi capire la parola di Dio e riflettere. Dobbiamo restare umili. Sei solo una persona che cerca di capire l’intenzione di Dio. Non basta dire: questa è la parola di Dio, e dunque questo è assoluto. No. Io sono la persona che cerca di capire la parola di Dio. Questo atteggiamento rende possibile il ritrovarci insieme. Sono sicuro di essere sulla via giusta. Ma devo lasciare la porta aperta, perché sono solo un uomo. Sono… come si dice fehlbar? PADRE HOHBERG — Che posso commettere errori. IMAM SANCI — Posso commettere errori. Posso fraintendere. Il vostro percorso è arrivato a un momento cruciale. Siete pronti per l’apertura? Cosa vi aspetterà poi? PADRE HOHBERG — Lunedì 29 gennaio apriremo un padiglione. Per un paio di anni le attività si svolgeranno lì. Cominceremo la costruzione vera e propria alla fine del 2019. Nel frattempo dovremo lavorare sui contenuti e raccogliere fondi. Ci vorrà molto denaro. In conclusione vi propongo di tornare alla dimensione personale della vostra avventura. Al rapporto che s’è instaurato tra voi. RABBI NACHAMA — Tutte le volte che abbiamo fatto celebrazioni insieme ci siamo posti la stessa domanda. Come dobbiamo fare? Abbiamo seguito la strada più semplice. Qualche volta il pastore ha condotto la celebrazione, qualche volta l’ha condotta l’imam o l’ho condotta io. L’importante è che non dobbiamo dire sì o amen a quello che ciascuno di noi dice. È importante rispettarsi. Conta stare uno accanto all’altro. È una bella sensazione. Come essere seduti insieme, ora, allo stesso tavolo. IMAM SANCI — Quando stavo facendo il mio dottorato in Scienze religiose, Rabbi Nachama si è offerto per aiutarmi con la ricerca. Dedicherò una domenica a fare ricerche che ti saranno utili, mi ha detto. Ha dedicato il suo tempo libero a me, all’imam. È stata una cosa molto importante per me. Ho risparmiato molto tempo. Mi ci sarebbe voluto un mese perché conoscevo poco la materia. E lui avrebbe potuto fare qualcosa di più utile per sé. PADRE HOHBERG — Una volta eravamo seduti insieme, come ora, e parlavamo dello humour nelle religioni. Ognuno ha raccontato una storia divertente dalla propria tradizione. È stata una bella esperienza». (Ridono. Il tempo è finito. Fanno per alzarsi). E le storie divertenti? PADRE HOHBERG — Mi spiace ma proprio non saprei come tradurle in inglese. Ridono ancora. Resto con un’ultima domanda che non voglio fare a loro tre in questo momento. Ai tre uomini. Ai tre uomini leader religiosi. Riguarda le donne: la loro assenza, il loro ruolo, il loro spazio nel progetto. Rivolgo la mia domanda a Kathrin Hasskamp, giurista, direttrice del marketing e dei rapporti con il pubblico per la House of One. Ma ha troppo da fare. L’inaugurazione di domani, lunedì 29, preme. Ci sono tante cose da organizzare e sta crescendo l’attenzione dei media. L’ultima domanda deve aspettare per avere una risposta.”
«Nessun simbolo ma culti affacciati su una piazza» intervista all’architetto Simona Malvezzi a cura di Stefano Bucci, in “la Lettura” del 28 gennaio 2018. Coesistenze. Geografie di luoghi senza divisioni : così recitava il titolo della mostra, curata da Dionigi Albera con Manoël Pénicaud, che a Parigi, al Musée national de l’histoire de l’immigration ha raccontato, attraverso gli occhi e i progetti di artisti e architetti, come si potesse «unire senza annullare le identità». Un lungo viaggio «negli interstizi della fede», come lo avevano definito i curatori, che da Marc Chagall porta a Mimmo Paladino, dalla Sinagoga di Djerba dipinta da Maurice Bismouth nel 1920 alla barca dei migranti (con Sacra Famiglia) immaginata da Benito Badolato e Pasquale Godano nel 2013 e oggi conservata nella parrocchia di San Gerlando a Lampedusa. A concludere il percorso (accanto alle immagini dei luoghi di preghiera e di meditazione interconfessionali degli aeroporti di Vienna, di Stoccolma, di Tallinn) c’era The House of One , il progetto per una casa di preghiera e di studio aperta alle tre religioni monoteiste, pensato dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi (fondato a Berlino nel 2001 da Simona Malvezzi, Wilfried Kuehn e Johannes Kuehn). Un progetto da 45 milioni di euro per edificare un luogo di culto comune a un passo dall’isola dei musei, nella Petriplazt. Che lunedì 29 gennaio, domani, alla 12 in punto prenderà definitivamente il via con l’inaugurazione del padiglione in legno, scala 1:1, con lo stesso loggiato del progetto definitivo, che comincerà a presentare (con incontri e riflessioni) il progetto di questa House of One, in attesa dell’inizio dei lavori, previsto per il 2019 (conclusione in due anni). L’intervista «L’idea — spiega Simona Malvezzi a “la Lettura” — è stata quella di una piazza coperta attorno alla quale si innestano i tre luoghi di culto: essi sono collocati in maniera uguale uno rispetto all’altro e non uno accanto all’altro, e circondano in questo modo lo spazio centrale con la cupola, che è l’ampliamento della Petriplatz all’interno dell’edificio. Lo spazio centrale mostra il proprio ruolo di piazza anche attraverso la facciata di mattoni che in qualche modo sembra aprirsi dall’esterno verso l’interno e segna la propria funzione di soglia. Viceversa la sinagoga, la chiesa e la moschea hanno ognuna una configurazione diversa e specifica che rispecchia la propria liturgia». Nelle intenzioni degli architetti e del Trio della tolleranza (come è stato subito battezzato quello composto dal rabbino Tovia Ben-Chorin, prima che arrivasse Andreas Nachama, l’imam Kadir Sanci, il pastore Gregor Hohberg che è all’origine del progetto), la House of One dovrà mettere le tre religioni sullo stesso piano. A questo servirà lo spazio centrale comune (sovrastato da una grande cupola) dove si apriranno la moschea, la sinagoga, la chiesa. Ma per cementare ulteriormente la nuova struttura si è voluto tenere ben presente la storia: il progetto si innesterà infatti sulle fondamenta della chiesa St. Petri, una costruzione ottocentesca demolita dal governo della Germania dell’Est nel 1964. In realtà, la prima chiesa era del 1230 ed era il primo edificio documentato della città di Berlino, dunque un’area centrale e storicamente importante. «Gregor Hohberg, il pastore della comunità protestante a cui doveva essere restituita la proprietà dopo la riunificazione tedesca — precisa l’architetto Malvezzi —, anziché promuovere la costruzione di una nuova chiesa ha pensato di coinvolgere la comunità ebraica e la comunità islamica. Insieme hanno concepito un centro interreligioso delle tre religioni abramitiche. Attraverso un concorso di architettura è stato scelto il nostro progetto per questa tipologia inedita nel luogo più antico della capitale tedesca. Perché questa scelta? «Credo che sia piaciuto il concetto di dialogo su cui si basa la House of One: per aprire un dialogo e un dibattito bisogna avere conoscenza dell’altro e del suo modo di pensare. Ma noi vogliamo che questo progetto sia in qualche modo aperto alle altre realtà: oltre a diventare un luogo di culto abbiamo pensato di dare vita a un centro di educazione che si rivolge a tutti, anche e soprattutto alle persone agnostiche e laiche». La sequenza degli spazi segue il principio della molteplicità in un’unità e dell’eterogeneità in un unico edificio. I rituali sono diversi e «non mischiati», ma nonostante questo l’edificio sarà costruito «con la sfida dell’essere universale». Per gli architetti «è stato interessante soprattutto rendere dal punto di vista costruttivo questa prospettiva nello stesso tempo interculturale e universale, questa idea di costruire un monumento ibrido». Da fuori, oltre la parete di mattoni e cemento non si comprenderà esattamente la natura dell’edificio «perché volutamente non ci sono elementi che richiamino in maniera troppo risolutiva la simbologia delle tre religioni in esso rappresentate. Né campanili, né minareti, né altro». D’altra parte la richiesta specifica del bando era che si potessero intuire le tre diversità nell’universalità. Certamente c’è anche un effetto «sorpresa» per chi viene da fuori. La disposizione interna permetterà di orientare la preghiera nella moschea verso la Mecca mentre nella Sinagoga verso Gerusalemme: entrambe avranno poi spazi dedicati alle donne. Un altro elemento importante sarà quello della luce, ricavata con una serie di tagli di diverso tipo nelle pareti, una luce «che ricopre un importante ruolo simbolico in tutte le religioni». La sicurezza? «Da quando il progetto viene discusso pubblicamente, cioè dal 2012, non vi è stata nessuna aggressione verbale o fisica nei confronti degli ideatori — dice Simona Malvezzi — e non ci aspettiamo particolari problemi di sicurezza. In ogni caso ci sarà, solo, lo spazio per un eventuale controllo di sicurezza all’entrata». Con i finanziamenti raccolti fino a ora, si potrà costruire la prima parte dell’edificio. Dopo la realizzazione del padiglione, i lavori inizieranno nel 2019 e saranno completati circa due anni dopo. Il progetto sarà finanziato dalla comunità di simpatizzanti attraverso un’operazione di crowdfunding gestita sul sito. E con dieci euro qualsiasi cittadino potrà sostenere la posa di un mattone della futura House of One. Il sogno? «Che questo diventi un modello esportabile di dialogo tra le comunità in una reale dimensione di diversità, in cui identità differenti entrano in contatto l’una con l’altra, in uno spazio che le preservi nella loro differenza ma che allo stesso tempo le faccia incontrare»
Mentre guidavo, ieri pomeriggio, mi sono imbattuto in una voce calda e ferma che proveniva dall’autoradio e che pronunciava delle parole a me ben note (le considero un baluardo, una fonte continua di profonde riflessioni e meditazioni). Su Radiotre, nella trasmissione Ad alta voce, l’attrice Sandra Toffolatti stava leggendo dei brani tratti dal Diario 1941-43 di Etty Hillesum. Ne pubblico qui un estratto, e rimando a questo link coloro che volessero riascoltare la lettura.
“11 luglio 1942, sabato mattina, le undici. Si dovrebbe parlare delle questioni più gravi e importanti di questa vita solo quando le parole ci vengono semplici e naturali come l’acqua che sgorga da una sorgente.
E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. Su tutta la superficie terrestre sí sta estendendo pian piano un unico, grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà rimanerne fuori. È una fase che dobbiamo attraversare. Qui gli ebrei si raccontano delle belle storie: dicono che in Germania li murano vivi o li sterminano coi gas velenosi. Non è granché saggio raccontarsi storie simili, e poi, se anche questo capitasse in una forma o nell’altra, è per responsabilità nostra? Da ieri sera piove con una furia quasi infernale. Ho già vuotato un cassetto della mia scrivania. Ho ritrovato quella sua fotografia che avevo perso quasi un anno fa, ma che sapevo avrei recuperato: ed eccola lì, in fondo a un cassetto disordinato. È tipico per me: io so che certe cose, grandi o piccole, si aggiustano – anche, e soprattutto, se sono cose materiali. Non mi preoccupo mai per il domani, per esempio so che tra poco dovrò andarmene di qui e non ho la più pallida idea di dove andrò a finire, e poi, anche le mie entrate sono ben scarse in questo momento – ma per me stessa non mi preoccupo mai, perché so che qualcosa succederà. Se si proiettano le proprie preoccupazioni sulle varie cose che devono accadere, si impedisce a queste cose di svilupparsi in modo organico. Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà sempre bene nella mia vita esteriore, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona. Mi meraviglio di quanto io mi stia già orientando verso la prospettiva di un campo di lavoro. Ieri sera camminavo con lui lungo il canale, avevo dei comodi sandali ai piedi e d’un tratto m’è venuto da pensare: devo portarmi anche questi sandali, così potrò alternarli alle scarpe più pesanti. Che mi prende in questo momento? Una gioia così leggera, quasi scherzosa? Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare qualcosa in più.
Probabilmente è di li che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s’inaridisce per l’amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche.
Mi chiedo che cosa farei effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l’ordine di partenza per la Germania, e se dovessi partire tra una settimana. Supponiamo che quel foglio mi arrivi domani: cosa farei? Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa, cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di anima e corpo. Mi farei tagliare i capelli molto corti e butterei via il mio rossetto. Cercherei di finire di leggere le lettere di Rilke. Mi farei fare dei pantaloni e una giacchetta con quella stoffa che ho ancora per un mantello d’inverno. Naturalmente vorrei ancora vedere i miei genitori e racconterei loro molte cose di me, cose consolanti – e ogni minuto libero vorrei scrivere a lui, all’uomo che – già lo so – mi farà morire di nostalgia. Certe volte mi sembra di morire sin da adesso, quando penso che dovrò lasciarlo e che non saprò più niente di lui.
Tra qualche giorno andrò dal dentista per farmi otturare tutti quei buchi nei denti: sarebbe proprio grottesco che mi venisse mal di denti. Mi procurerò uno zaino e porterò con me lo stretto necessario, poco, ma tutto di buona qualità. Mi porterò una Bibbia e quei libretti sottili, i Briefe an einen jungen Dichter, e in qualche angolino dello zaino riuscirò a farci stare lo Stundenbuch? Non mi porto ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me.
Anche queste due mani vengono con me, con le loro dita espressive che sono come giovani rami robusti. Spesso saranno congiunte in una preghiera e mi proteggeranno; e staranno con me fino alla fine. E così questi occhi scuri col loro sguardo buono, dolce e indagatore. E se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti dalla sofferenza e dal lavoro eccessivi, allora tutta la vita del mio spirito potrà concentrarsi negli occhi. Eccetera, eccetera. Naturalmente si tratta di un semplice stato d’animo, uno dei tanti che si provano in queste nuove circostanze. Ma è anche un pezzo di me stessa, una possibilità che ho. Una parte di me che sta prendendo sempre più il sopravvento. Del resto: un essere umano è poi solo un essere umano. Già ora abituo il mio cuore ad andare avanti, anche quando sarò separata da coloro senza cui non credo che potrei vivere. Il mio distacco esteriore aumenta di giorno in giorno per far posto a un sentimento interiore – la volontà di continuare a vivere e a sentirsi legati per quanto lontani si possa essere gli uni dagli altri. Eppure quando cammino con lui, la mano nella mano, lungo il canale – che ieri sera aveva un aspetto autunnale e tempestoso -, o quando, nella sua cameretta, mi scaldo ai suoi gesti buoni e generosi, allora provo di nuovo questa speranza e questo desiderio così umani: perché non potremmo rimanere insieme? Il resto non avrebbe più importanza, allora, io non voglio lasciarlo. Ma altre volte penso fra me: forse è più facile pregare da lontano che veder soffrire da vicino.
In questo mondo sconvolto, le comunicazioni dirette tra due persone passano ormai solo per l”anima. Esteriormente si è scaraventati lontano, e i sentieri che ci collegano rimangono sepolti sotto le macerie, cosicché in molti casi non potremo mai più ritrovarli. La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una vita in comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la speranza di ritrovarci ancora su questa terra?
Naturalmente io non so come reagirò quando mi toccherà lasciarlo per davvero. In questo momento ho ancora nelle orecchie la sua voce di stamattina al telefono, e stasera ceniamo alla stessa tavola. E domattina facciamo una passeggiata, poi pranziamo insieme da Liesl e Werner e di pomeriggio si farà musica. Per ora lui è sempre qui. E forse, nel profondo del mio cuore, io non credo neppure che dovrò lasciare né lui né altre persone. Un essere umano è poi solo un essere umano. In questa nuova situazione dovremo imparare un’altra volta a conoscere noi stessi. Molte persone mi rimproverano per la mia indifferenza e passività e dicono che mi arrendo così, senza combattere. Dicono che chiunque possa sfuggire alle loro grinfie deve provare a farlo, che questo è un dovere, che devo far qualcosa per me. Ma questo conto non torna. In questo momento, ognuno si dà da fare per salvare se stesso: ma un certo numero di persone – un numero persino molto alto – non deve partire comunque?
Il buffo è che non mi sento nelle loro grinfie, sia che io rimanga qui, sia che io venga deportata. Trovo tutti questi ragionamenti così convenzionali e primitivi e non li sopporto più, non mi sento nelle grinfie di nessuno, mi sento soltanto nelle braccia di Dio per dirla con enfasi; e sia che ora io mi trovi qui, a questa scrivania terribilmente cara e familiare, o fra un mese in una nuda camera del ghetto o fors’anche in un campo di lavoro sorvegliato dalle SS, nelle braccia di Dio credo che mi sentirò sempre. Forse mi potranno ridurre a pezzi fisicamente, ma di più non mi potranno fare. E forse cadrò in preda alla disperazione e soffrirò privazioni che non mi sono mai potuta immaginare, neppure nelle mie più vane fantasie. Ma anche questo è poca cosa, se paragonato a un’infinita vastità, e fede in Dio, e capacità di vivere interiormente. Può anche darsi che io sottovaluti tutto quanto.
Ogni giorno vivo nell’eventualità che la dura sorte toccata a molti, a troppi, tocchi anche alla mia piccola persona, da un momento all’altro. Mi rendo conto di tutto fin nei minimi dettagli, credo che nel mio «confrontarmi» interiore con le cose io stia saldamente piantata sulla terra più dura della realtà più dura. E la mia accettazione non è rassegnazione, o mancanza di volontà: c’è ancora spazio per l’elementare sdegno morale contro un regime che tratta così gli esseri umani. Ma le cose che ci accadono sono troppo grandi, troppo diaboliche perché si possa reagire con un rancore e con un’amarezza personali. Sarebbe una reazione così puerile, non proporzionata alla «fatalità›› di questi avvenimenti.
Spesso la gente si agita quando dico: non fa poi molta differenza se tocca partire a me o a un altro, ciò che conta è che migliaia di persone debbano partire. Non è che io voglia buttarmi fra le braccia della morte con un sorriso rassegnato. E’ il senso dell’ineluttabile e la sua accettazione, la coscienza che in ultima istanza non ci possono togliere nulla. Non è che io voglia partire a ogni costo, per una sorta di masochismo, o che desideri essere strappata via dal fondamento stesso della mia esistenza – ma dubito che mi sentirei bene se mi fosse risparmiato ciò che tanti devono invece subire. Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare. Ma quel poco o molto che ho da dare lo posso dare comunque, che sia qui, in una piccola cerchia di amici, o altrove, in un campo di concentramento. E mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un «destino di massa».
Se Dio decide che io abbia tanto da fare, bene, allora lo farò, dopo esser passata per tutte le esperienze per cui possono passare anche gli altri. E il valore della mia persona risulterà appunto da come saprò comportarmi nella nuova situazione. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò. Non si tratta più di tenersi fuori da una determinata situazione, costi quel che costi, ma di come ci si comporta e si continua a vivere in qualunque situazione. Le cose che devo ragionevolmente fare, le farò. I miei reni sono ancora infiammati e anche la mia vescica al piede non è kasher, mi farò rilasciare un certificato medico se sarà possibile. Mi si raccomanda infatti di cercarmi ancora un posto, una specie d’impiego presso il Consiglio Ebraico. La settimana scorsa sono stati autorizzati a impiegare 180 persone e ora i disperati vi si accalcano in massa: proprio come un pezzo di legno che dopo un naufragio va alla deriva sull’oceano infinito, un relitto a cui tutti i naufraghi tentano ancora di aggrapparsi. Ma trovo assurdo e illogico prendere delle iniziative. Né sono il tipo che sfrutta le sue buone relazioni. Del resto, sembra che vi si combinino parecchi intrighi, e il risentimento contro quel singolare organo di mediazione cresce di ora in ora. Inoltre: più tardi toccherà anche a loro.
E’ vero che gli inglesi a quel punto potrebbero essere sbarcati: così dicono coloro che conservano una speranza politica. Ma credo che si debba rinunciare a qualunque aspettativa che punti sul mondo esterno, che non si debba far calcoli sulla durata del tempo, ecc. ecc. E ora apparecchio la tavola. Preghiera della domenica mattina [12 luglio 1942]
Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento -invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: non prenderanno proprio me. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con te e molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio.
Per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio, ma sono piuttosto le mille piccole preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso e a mordermi come altrettanti parassiti. Be’, allora mi gratto disperatamente per un po’ e ripeto ogni giorno: per oggi sei a posto, le pareti protettive di una casa ospitale ti scivolano sulle spalle come un abito che hai portato spesso, e che ti è diventato familiare, anche di cibo ce n’è a sufficienza per oggi, e il tuo letto con le sue bianche lenzuola e con le sue calde coperte è ancora lì, pronto per la notte – e dunque, oggi non hai il diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata, e rendila fruttuosa; fanne un’altra salda pietra su cui possa ancora reggersi il nostro povero e angoscioso futuro. Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle bufere di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza. Non posso garantirti niente a priori, ma le mie intenzioni sono ottime, lo vedi bene.
E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò fra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza inespugnabile. 14 luglio, martedì sera. Ognuno deve vivere con lo stile suo. Io non so farmi avanti per garantirmi quella che può sembrare la mia salvezza, mi pare una cosa assurda e divento irrequieta e infelice. Quella lettera in cui faccio domanda al Consiglio Ebraico, scritta su insistenza di Jaap, per un po’ mi ha fatto perdere l’equilibrio – lieto e insieme serissimo – che avevo oggi. Quasi fosse un’azione indegna – questo star tutti addosso a quell’unico pezzetto di legno che va alla deriva sull’oceano infinito dopo il naufragio, questo salvare il salvabile, spingersi a forza di gomiti, provocare l’annegamento altrui, tutto così indegno: e poi, questo spingere non mi piace. Io appartengo piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un po’ sull’oceano, stese sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, finché – con un gesto rassegnato e devoto – vanno a fondo per sempre. Io non posso fare diversamente. Le mie battaglie le combatto dentro di me, contro i miei demoni; ma combattere in mezzo a migliaia di persone impaurite, contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine, no, questo non è proprio il mio genere. Non ho neppure paura, non so, mi sento così tranquilla, talvolta mi sembra di trovarmi in alto sui merli del palazzo della storia e di far correre lo sguardo su territori lontani. Mi sento in grado di sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo, senza soccombere. So tutto quel che capita e la mia testa rimane lucida. Talvolta è come se sul mio cuore venisse sparso uno strato di cenere. O come se sotto i miei occhi il mio viso appassisse e si dissolvesse, e nei suoi lineamenti grigi i secoli si inabissassero uno dopo l’altro, e tutto si disfacesse, e il mio cuore lasciasse andare tutto. Sono solo brevi momenti, dopo di che ritrovo ogni cosa e la mia testa ridiventa lucida, e sono di nuovo in grado di sopportare benissimo questo pezzo di storia. Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare, e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata. Com’è singolare tutto ciò.
Riesco a capire un pezzetto di storia e di umanità, ma per ora preferisco non scrivere, avrei l’impressione che ogni parola sbiadirebbe e invecchierebbe all’istante, come se la parola nuova capace di sostituire quella vecchia abbia ancora da nascere.
Se io fossi in grado di registrare molte cose che penso e che sento e che talvolta mi si chiariscono in un baleno – cose che riguardano questa vita, gli uomini, e Dio – sono sicura che ne potrebbe venir fuori qualcosa di molto bello. Continuerò ad avere pazienza e lascerò maturare ogni cosa dentro di me.
Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro povero corpo. Lo spirito viene dimenticato, s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in modo sbagliato, senza dignità e anche senza coscienza storica. Con un vero senso della storia si può anche soccombere. Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito.
Se sapessero come sento e come penso, molte persone mi considererebbero una pazza che vive fuori dalla realtà. Invece vivo proprio nella realtà che ogni giorno porta con sé. L’uomo occidentale non accetta il ‘dolore’ come parte di questa vita: per questo non riesce mai a cavarne fuori delle forze positive. Bisogna che cerchi quelle due o tre frasi che avevo già trascritto da una lettera di Rathenau. Ecco cosa mi mancherà: qui basta che allunghi una mano, e subito ritrovo le parole e i frammenti di cui il mio spirito ha bisogno in un determinato momento. Bisogna invece che abbia tutto in me stessa. Si deve anche essere capaci di vivere senza libri e senza niente. Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera.
Ora sono le undici e mezzo di sera. Weyl si allaccia lo zaino troppo, troppo pesante per la sua fragile schiena, e si avvia a piedi alla stazione centrale. Io l’accompagno. Stanotte non si dovrebbe poter chiudere occhio, si dovrebbe soltanto poter pregare.”
Paola Zampieri intervista il teologo Duilio Albarello (Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale) sulla ricerca spirituale e i giovani. “In un tempo in cui il rapporto con il sacro non è più regolato dalle credenze delle chiese, ma dall’espressività e dalla creatività degli individui, la chiesa deve saper tacere e ascoltare, incontrare e testimoniare la bellezza del credere”. Questa la fonte. Prof. Albarello, quali sono le forme inedite di ricerca spirituale, in particolare, che caratterizzano il mondo giovanile in un’epoca in cui il rapporto con il sacro non è più regolato dalle norme morali o dalle credenze delle chiese, ma dall’espressività e dalla creatività degli individui? «Nel nostro tempo quel “paganesimo di ritorno”, o meglio quel secolarismo culturale che attorno alla metà del Novecento si affacciava soltanto sulla scena, si è pienamente realizzato e per la verità ha anche cominciato a mostrare i segni del suo logoramento. Uno di questi segni più evidenti, specie a livello giovanile, è la ricomparsa del “sacro” prevalentemente nella forma del soggettivismo spirituale, ossia del cosiddetto bricolage religioso. Tale fenomeno tuttavia, assai prima di essere stigmatizzato, richiederebbe di essere attentamente decifrato. Esso infatti a mio parere è l’espressione ambivalente di quello che alcuni hanno cominciato a chiamare “l’incredibile bisogno di credere” (Julia Kristeva) che si registra nella nostra epoca». La “fede”, oggi, cos’è? «In un momento in cui l’unica certezza rimasta sembra essere quella che non vi siano più certezze, il problema maggiore diventa rintracciare le risorse disponibili per attivare una fiducia che si mostri effettivamente fondata, pur senza degenerare per forza in una sorta di “credenza fai da te”. Sotto questo profilo, la “fede” si propone oggi come la questione antropologica per eccellenza, sia sul piano individuale, sia sul piano collettivo: una fede che consenta di continuare o ricominciare a dare credito alla vita, prima ancora che a Dio. Sono sempre di più le persone che avvertono questa esigenza, specie tra le giovani generazioni, ma spesso purtroppo la loro domanda non trova accoglienza nel “recinto” ecclesiale, poiché non disponiamo di strumenti capaci di interpretarla e di accompagnarla». In questo contesto, come si pone la spiritualità cristiana? Come risponde al bisogno di senso dei giovani? «A mio avviso, il bisogno di senso si sovrappone proprio a quel bisogno di credere, di cui parlavo prima. A questo riguardo, penso che per intercettare la sensibilità e il coinvolgimento dei giovani – ma non solo – sia indispensabile coltivare la dimensione estetica della fede, o in parole più semplici la “bellezza del credere”. Intendo dire: l’incontro con Cristo che cambia la qualità della vita non può avvenire in un ambiente asettico e in un clima anestetizzante. Purtroppo la sensazione che si prova in molti casi nei percorsi formativi o nelle celebrazioni liturgiche non spinge affatto chi partecipa ad esclamare: “È bello per noi stare qui!”. Eppure una testimonianza ecclesiale, che non accenda i sensi con la luce dello Spirito e non indirizzi gli affetti a percepire il fascino di stringere alleanza con il Signore, è destinata fin dall’inizio a mancare il suo compito». Occorre spingere sulle leve emotive? «Sia chiaro, non sto incoraggiando a spingere sul pedale dell’emotivismo per attivare discutibili strategie pastorali di seduzione, che finiscono per confondere la testimonianza del Vangelo con la pubblicizzazione di un prodotto. Intendo solo evidenziare che senza sperimentare la bellezza del credere nel Dio di Gesù sarebbe del tutto impossibile riconoscere la verità della sua Parola e lasciarsi trasformare dalla bontà della sua Presenza». È l’esempio che muove e trascina. «La spiritualità cristiana nasce e si costituisce ovunque vi siano un uomo e una donna che attestano quanto sia “bello” – dunque promettente e insieme impegnativo – edificare la propria vita nella compagnia del Signore. Tra il resto, per limitarci a una esemplificazione significativa, l’obbiettivo di una cura pastorale per la ricerca vocazionale dei giovani dovrebbe essere appunto questo: suscitare in essi il desiderio di “avere una storia” con il Signore, di incrociare la propria via con quella percorsa da Gesù, riconoscendo che è davvero la via verso la vita buona». Quale contributo può portare la teologia per cambiare lo sguardo della chiesa sui giovani? «A mio avviso si tratta di mettere finalmente in piena luce la portata pratica della “svolta antropologica” maturata nel pensiero teologico del Novecento. Infatti questa “svolta” si basa sulla consapevolezza che sarebbe impossibile dire il Dio di Gesù Cristo senza coinvolgere l’essere umano, la sua esistenza concreta a livello personale e sociale. Anzi, la verità dell’Evangelo individua il terreno di prova decisivo proprio nella sua forza di autentica umanizzazione: se tale forza venisse meno o comunque non fosse più percepita, ne risulterebbe compromesso il carattere affidabile di quella stessa verità». Qual è la sfida che interpella la chiesa? «In questa prospettiva, la chiesa è sfidata a lasciar cadere le incrostazioni dottrinali e morali che spesso ancora la paralizzano, per tornare a condividere con le nuove generazioni il suo unico ‘tesoro’: l’umanità eccedente di Gesù Cristo, come forma e forza, che sono necessarie all’“incredibile bisogno di credere”, diffuso nelle nostre società dell’incertezza, per essere autenticamente degno dell’uomo». Il primo passo da fare? «Un primo passo, indispensabile, per raccogliere tale sfida da parte della comunità ecclesiale sarebbe quello di tacere, per mettersi davvero in ascolto in particolare delle esperienze concrete dei giovani, con le loro attese e le loro disillusioni, con le loro risposte e i loro dubbi. Solo passando attraverso questo silenzio umile dell’ascolto, sarà possibile per la testimonianza ecclesiale incontrare i giovani in carne ed ossa, in modo da offrire loro quel “giusto senso” dell’esistenza, che ha la sua origine in Dio e che Gesù Cristo intende donare a tutti».
In questo articolo, pubblicato su Il Sole 24ore, Massimo Donaddio presenta il libro di Peter L. Berger intitolato I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo.
“C’è stato un tempo in cui la gran parte degli studiosi riteneva che la modernità portasse inevitabilmente a un tramonto del fenomeno religioso, come effetto in gran parte della rivoluzione scientifica e tecnologica, che mette a disposizione di larghi strati di popolazione strumenti dalle enormi potenzialità, rendendo meno pressante l’urgenza del ricorso al divino attraverso la fede e la preghiera. Quest’impostazione, di stampo illuministico ha ancora molti seguaci, come evidenziato nell’ormai classico saggio del filosofo Charles Taylor, L’età secolare (Feltrinelli, 2009). Eppure molti sociologi, da diversi anni, si sono in un qualche modo “convertiti” a un nuovo paradigma, più complesso, che mette in luce non tanto il tramonto delle religioni nel tempo della modernità, quanto la loro convivenza pluralistica all’interno di un mondo dove il discorso secolare rappresenta lo sfondo comune per ciascuno individuo. Uno degli alfieri di questo approccio è il noto sociologo americano di origine austriaca Peter L. Berger, professore emerito alla Boston University e autore nel 2014 del saggio appena tradotto da Emi con il titolo I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo. Berger parte dall’assunto generale che il fenomeno religioso sia sempre molto vivo, addirittura in crescita in alcune zone del mondo, nonostante la globalizzazione abbia portato molti popoli ad aumentare le proprie potenzialità, risorse e conoscenze tecniche. Con l’eccezione del continente europeo, contrassegnato da un certo laicismo, i continenti americano, asiatico e africano continuano a mostrare un grande attaccamento alla religione in tutte le sue varie forme, con un continuo proliferare di chiese, sette e confessioni varie. Sempre più, anzi, religioni diverse sono chiamate a convivere fra loro, come pure con un indubbio approccio di ispirazione secolare, sia nelle menti degli individui che nello spazio pubblico. Secondo Berger, il grande cambiamento portato dalla modernità non è, quindi, il secolarismo (o laicismo), bensì il pluralismo, ossia la coesistenza di diverse visioni del mondo e di scale di valori all’interno della stessa società. Insomma, la laicità europea (e dei circoli intellettuali internazionali) non sarebbe l’unica forma di modernità: esistono, per lo studioso americano, altre versioni di modernità che accordano alla religione un ruolo molto più centrale. Anche la tensione tra modernità e impostazione religiosa è un fenomeno che non è possibile ignorare: è, infatti, una realtà che continua a bussare alla porta del mondo occidentale in diverse forme. Per esempio è la sfida che si trova di fronte l’islam, in Europa come in Africa e in Asia: come è possibile essere devoti musulmani e nella stesso tempo praticare e apprezzare i valori della modernità? Come deve configurarsi una società islamica moderna? Gli stessi interrogativi vengono sollevati in Cina, in India, in Russia, in Israele, in altre società. È la convivenza tra questi due aspetti, il condividere allo stesso tempo valori laici e religiosi, la caratteristica delle società del tempo moderno. Naturalmente è essenziale che siano attive strutture istituzionali e politiche che garantiscano l’equa convivenza di una pluralità di religioni e di visioni del mondo, all’interno di un contesto culturale-giuridico che garantisca la libertà religiosa e l’uguaglianza di ogni persona davanti alla legge. Differenti sono le modalità per raggiungere quest’obiettivo: il mondo occidentale ha battuto la via della laicità di tipo illuministico – anche nella sua variante americana, vedi il Primo Emendamento della Costituzione degli Usa – ma non sono escluse altre sintesi operate da altri contesti sociali e culturali”.
Scrive Jacopo Fo su Il fatto quotidiano (questa la mia fonte): “È ormai scientificamente dimostrato che esiste una zona cerebrale adibita specificamente alla produzione di sensazioni estatiche e al senso di appartenenza, a qualche cosa che ci pervade e ci innalza dandoci la sensazione di far parte di un tutto dominato dall’amore e dalla pietà e dotato di una progettualità rigogliosa, fantasiosa, stupefacente. Cioè il senso del sacro è fisiologico: a fianco delle pulsioni primarie (identificare, attaccare, fuggire, nascondersi) ne esiste una quinta: contemplare. […] Io non credo all’esistenza di un Dio, né con la barba né senza. Ma vedo che la realtà è profondamente magica, nel senso laico del termine, cioè è stupefacente al di là di ogni previsione, è smisurata, sorprendente in modo paradossale… Il creato è una fiera pazza di grandiosità. […] E più ne sappiamo dell’universo più ci lascia sbalorditi. Sembra quasi che sia stato inventato per ingenerare la vertigine che proviamo se ci perdiamo negli incendi del tramonto. Questa assoluta assenza di limite è inebriante. Impossibile da contenere nella limitatezza dei miei circuiti neurali. Per secoli siamo stati convinti che in cielo ci fossero alcune migliaia di stelle. Poi abbiamo scoperto che ce ne sono miliardi nella nostra galassia, ognuna circondata da un numero fantasmagorico di pianeti, satelliti, asteroidi. Poi si è capito che esistono miliardi di galassie, talmente tante che non abbiamo ancora finito di contarle. […] Non possiamo ridurre vita e morte a semplici accadimenti biologici. Sarebbe troppo triste! Troppo! […] Non vedere il sacro, il superpotere, il miracolo, il privilegio, l’improbabilità schiacciante insita nel fatto di vivere e poter parlare e pensare e agire in modo preordinato è un’amputazione emotiva che ci danneggia e limita la nostra capacità di cogliere appieno il regalo della vita”.
Sul suo profilo facebook il teologo Vito Mancuso ha ripreso la notizia e ha scritto:
“L’articolo di Jacopo Fo da me ripreso in questa pagina iniziava dicendo che è “scientificamente dimostrato che esiste una zona cerebrale adibita specificamente alla produzione di sensazioni estatiche e al senso di appartenenza”. Non faceva nessun riferimento e giustamente qualcuno ha obiettato che, se si cita la scienza, occorre poi procedere scientificamente. Giusto. Siccome ho citato l’articolo di Fo con un certo plauso, mi sento in dovere di dare un contributo al riguardo. Cito quindi dal volume di Franco Fabbro, “Le neuroscienze: dalla fisiologia alla clinica”, Carocci 2016 (n. 175 della collana Manuali universitari): “Recentemente, attraverso una meta-analisi dei lavori di visualizzazione cerebrale riguardanti la meditazione, è stato evidenziato che le pratiche che si ispirano alla tradizione induista attivano prevalentemente le strutture dei lobi temporale e parietale (aree associate all’affettività e alla rappresentazione dello spazio e del corpo), mentre le pratiche che si ispirano alla tradizione buddhista attivano prevalentemente le strutture del lobo frontale (aree associate alle funzioni esecutive e all’attenzione volontaria) (Tomasino et al., 2012; Tomasino, Chiesa, Fabbro, 2014; Raz, Fan, Posner 2006)” – pp. 434-435. Franco Fabbro, già docente di Fisiologia umana, è professore ordinario di Neuropsichiatria infantile all’Università di Udine, e ha all’attivo numerose pubblicazioni in italiano e in inglese. Quindi? Con questo non si dimostra né la verità della religione né l’esistenza di Dio né nulla di esterno all’uomo; si dimostra solo che la dimensione religiosa è fisiologicamente coerente con il fenomeno umano. Del resto c’è tutta la storia dell’umanità a dimostrarlo. Ovviamente con tutta la sua ambiguità, perché è noto che la religione, esattamente come l’umanità (scienza compresa), produce bene e anche male, e nessuno sa con certezza, se ci fosse una bilancia e si potesse pesare, se risulterebbe più pesante il bene oppure il male. Tutto qui. Ovvero, summa summarum: chi ancora oggi medita e coltiva una dimensione spirituale non tradisce la sua umanità, ma la vive in pienezza a modo suo.”
Prima mi sono imbattuto nel video, poi ho trovato questa recentissima intervista di Filippo Brunamonti a Moby, pubblicata ieri su La Repubblica. Vi si parla di musica, globalizzazione, ecologia, spiritualità, linguaggio…
“LOS ANGELES – Il cancello muschiato, le radici degli alberi color vino bianco, un sole vittorioso a forma di freccia. L’appuntamento con Moby, vero nome: Richard Melville Hall, 51 anni lo scorso 11 settembre, è all’una del pomeriggio nella sua casa al confine di Hollywood, sulle colline di Los Feliz. L’acqua della piscina è percorsa da luci stroboscopiche, come quelle a cui ci ha abituato il cantante e DJ di Harlem negli anni Novanta. Venti milioni di dischi in tutto il mondo, un talismano di breakbeat, suoni dance e techno, dai successi di Play e 18 passando per le fabbriche di Michael Jackson, David Bowie e Brian Eno. Per loro ha prodotto, co-scritto e remixato brani inediti e allucinazioni di rottura. Nel memoir Porcelain, pubblicato da Mondadori nella collana Strade blu, ha svelato il suo passato nei club, attaccato alla tavoletta di porcellana dei cessi di New York; l’abuso di alcol e droga, “gli spacciatori di crack che si prendevano regolarmente a pistolettate” in un gospel urbano fatto di Public Enemy, EPMD e Rob Base and DJ E-Z Rock.
“Sono cresciuto a Stratford, Connecticut” racconta Moby in terrazza, polo nera, occhiali rotondi. “Vedevo il mio futuro dal vetro di una lavanderia a gettoni, in blue jeans e con una giacca presa a cinque dollari dall’Esercito della Salvezza. Mia madre piegava i miei vestiti su un banco di linoleum screpolato, per arrotondare lavava anche quelli dei vicini”. Dalla vita, dice, ha avuto tutto: “Quando ti puoi permettere una villa con sei stanze da letto, subito dopo ne desideri una che ne abbia dodici. L’ego, l’edonismo, il successo e i soldi sono un veleno che non mi tocca più”. Da qui la conversione al cristianesimo (lui preferisce “taoista-cristiano-agnostico-meccanico quantistico”), la battaglie per i diritti degli animali, la beneficenza e la dieta vegana. È appena uscito il nuovo disco, These Systems Are Failing, sotto il nome di Moby & The Void Pacific Choir. Lo hanno definito un ritorno politico e furioso. Concorda? “Credo che l’album sollevi una questione su tutte: perché un cinquantunenne che non va in tour si ostina a sfornare dischi? Al giorno d’oggi le band fanno musica per diventare ricchi e andare in giro per il mondo. Io suono semplicemente perché amo la musica e, attraverso la mia arte, parlo di problematiche che mi stanno a cuore. So già che non farò un soldo buttando fuori un album nel 2016, perché nessuno compra musica se non vai in concerto. Ci sono ragioni personali che mi hanno portato a comporre These Systems Are Failing, altrimenti me ne sarei stato sul divano a guardare Il Trono di Spade. Se penso che questo sia un album politico? Tutto quello che gli sto cucendo attorno – il manifesto, il suono post-punk e new wave, il video cartoon di Are You Lost In The World Like Me realizzato da Steve Cutts e ispirato alle illustrazioni di Max Fleischer, l’animatore di Betty Boop, Popeye e Superman – tutto questo, direi, è iperpolitico. La musica è un’altra cosa: non sono bravo a scrivere testi civili, sono più intrigato dall’antropologia, dall’evoluzionismo e dal comportamento umano. Mi interessano le scelte della gente, in particolar modo le scelte sbagliate. La politica è importante da un punto di vista pratico ma la cognizione umana ha delle regole proprie, ingovernabili. E’ la nostra cognizione a dettare la linea e non la politica”. Credo che per la maggior parte di noi, la risposta alla domanda del singolo Are You Lost In The World Like Me, sia “sì”. “A me capita spesso di sentirmi perso proprio mentre sono ultraconnesso con questo mondo. Più mi connetto, più mi disoriento. Qui dove ci troviamo, a Los Feliz, guardo gli alberi, ascolto gli uccelli, faccio trekking, mi tuffo in piscina, esco con i miei amici vegani… Sono protetto. Poi mi sintonizzo su un rally di Donald Trump, vado a fare la spesa in uno shopping mall di Los Angeles, e all’improvviso mi sento disconnesso dall’umanità, dalla mia cultura, dal mio paese”. Quali sono le sue isole felici negli Stati Uniti? “In genere sono le città universitarie e i parchi nazionali. Abbiamo 58 Parchi Nazionali, tutti amministrati dal National Park Service. Aree protette. Dalle acque cristalline nello Yosemite park all’Antelope Canyon, dal Virgin River al fiume Tuolumne. A Los Angeles esistono due milioni di acri di bellezze mozzafiato. Angeles National Forest è un esempio straordinario: nel pieno della città sorge una foresta con alberi, orsi e leoni. Entrare in contatto con un ambiente che non ha nulla a che vedere con le persone, mi fortifica. Ovunque tu vada – Milano, Sydney, Londra, New York – ogni parte della città è costruita a misura d’uomo. Dal momento in cui ti svegli all’ora di andare a dormire, vedi soltanto dei “dischi umani” accartocciati su strade, rotaie, semafori, marciapiedi. L.A. integra l’elemento naturale a quello umano. Hai mai provato a perderti in montagna o nel deserto? Ogni preoccupazione sulle relazioni affettive, quanti Like hai guadagnato su Facebook… Tutto questo viene spazzato via”. È ottimista o pessimista sui social media? “Tutti e due. Se solo usassimo Facebook, Twitter, Instagram per fronteggiare questioni più serie e urgenti, sarei più positivo. Se qualcuno finalmente riconoscesse i rischi del cambiamento climatico, del riscaldamento globale e dei livelli record di anidride carbonica, tirerei un sospiro di sollievo. Ora che, a New York, i 193 Stati membri delle Nazioni Unite firmeranno un documento congiunto sulle linee guida per la lotta alla resistenza antimicrobica, penso di essere meno solo. Credo che i super batteri che non rispondono più alle cure con antibiotici siano davvero la più grande minaccia alla medicina moderna. Ma questo genere di informazione circola sui social? E’ presa sul serio? Come musicista, persino come “strambo personaggio pubblico”, non posso più essere egoista. Non è giusto chiedere soldi alla gente perché devo comprarmi una macchina nuova. La mia missione, qualsiasi talento io abbia, è risvegliare coscienze e mettere in stato di allerta chi mi segue”. E un risveglio c’è stato? “C’è e non c’è. Non posso generalizzare, non conosco personalmente i 7,450 miliardi di persone su questa Terra, immagino siano impegnati a fare altro… Amo questa frase di Martin Luther King Jr.: “The arc of the moral universe is long, but it bends towards justice”, “L’arco dell’universo morale è lungo, ma tende verso la giustizia” (secondo il Washington Post a pronunciarla non è stato il premio Nobel ma Theodore Parker, ndr.). Oltre alla giustizia, credo che tenda verso un cambiamento della ragione. Nel corso della storia umana, ho visto e vedo parecchi progressi: diritti per gay, neri, donne, animali… Lentamente diventiamo tutti più acuti. Ci sono sempre meno persone attorno a me con una sigaretta in bocca, per dire; meno genitori che picchiano i loro bambini, e così via. Siamo svegli ma i nostri cervelli si sono evoluti in un ambiente del tutto differente da quello in cui si trovano adesso. Occorre tempo”.
Ma da dove arriva il nostro cervello? “Chi viene prima di noi ha sperimentato il freddo, la fame, la paura. I nostri antenati, milioni e milioni di anni fa, erano dei baby-scoiattoli. Il loro unico modo di sopravvivere era usare la ferocia e l’aggressività per superare la paura. Abbiamo ereditato questi geni ed è per questo che, costantemente, ci sembra che il mondo vada a rotoli. La sola differenza è che oggi controlliamo il mondo, lo teniamo in pugno, pur avendo nel DNA gli istinti dei magnifici avi. Il nostro cervello non è ancora tagliato per questo mondo. Siamo davanti ad una incomprensione naturale”. Mi dica qualcosa di incomprensibile nel mondo. “L’obesità è una delle disfunzioni più visibili: gli americani, e non solo, mangiano come se stessero morendo di fame. Mi domando: come riusciremo a portare la nostra specie al livello di evoluzione tecnologica moderna? L’architettura del nostro cervello è un grande mistero: abbiamo la corteccia cerebrale, uno strato laminare continuo, in comune con parecchie creature; poi il sistema limbico, una porzione del diencefalo che possiedono i mammiferi, le scimmie, i cavalli, gli orsi e noi umani. Quello che ci distingue dalle altre specie è la corteccia frontale, anche se non sappiamo farne buon uso. Per esempio, se un tizio mi attraverso la strada mentre sono imbottigliato nel traffico, lo vorrei uccidere. Punto. Non credo sia una reazione razionale, è l’istinto che guida. Se metti alcune persone davanti a McDonald’s vogliono abbuffarsi come se non esistesse un domani. Anche qui: non è una risposta razionale, è un disordine. Idem per i tossici: riempili di crystal meth e non ne potranno più fare a meno”. Nella sua autobiografia parla del momento di perdizione a New York, dal Palladium al Limelight, l’epoca underground della comunità afro e latina, lo sfogo dell’AIDS. Che fine ha fatto quel Moby animalesco? “E’ diventato vegano e astemio, per cominciare. C’era un tempo in cui mi dicevo: “Se ora strappo un accordo a quell’etichetta musicale, se ho la ragazza, se ho abbastanza alcol, droga, fama, tour… sarò felice”. Invece non ero mai felice. Volevo di più, di più, di più. Lo noto ogni giorno a Hollywood. Molti artisti vivono male, si sentono miserabili pur avendo tutto quello che desiderano. Io ero uno di loro, pur avendo conosciuto la povertà da ragazzo. Quando ho studiato la filosofia del monkey mind e mi sono avvicinato al Buddismo, ho capito che quello che desideravo finivo poi per prenderlo a cazzotti, e rigettarlo”. È in contatto con qualche sciamano? “Ora sono sobrio e non pratico l’Ayahuasca; mai provata, anzi. Ma conoscono molte persone che lo fanno e le rispetto”. Sobrio da quanto? “Otto anni. Comunque non reputo l’Ayahuasca una droga potente come la cocaina. Il mondo degli sciamani, invece, mi rappresenta molto. Sono un appassionato di spiritualità e religioni del mondo, da sempre; le ho studiate all’università assieme alla filosofia. Se dovessi elencare gli insegnanti della mia vita, a questo punto, direi la natura e lo spirito”. Crede in Dio? “Per diverso tempo credevo che il modo migliore per conoscere Dio fosse quello di leggere libri che parlassero di Dio. Ho letto Bibbia, Corano, Tripitaka, Dhammapada, Dao de jin, Guru Granth Sahib… Cercavo di trovare Dio attraverso narrazioni di altri testimoni. Poi un giorno mi son detto: “Perché al posto di cercare Dio nei testi sacri non guardi che cosa Dio fa mentre il suo popolo non presta attenzione?”. Per “Dio” intendo una forza di vita. Allora mi sono accorto che attorno a me ci sono arbusti, papaveri, api. Gli sciamani li sento alleati nella mia ricerca, diffido però da qualunque guru spirituale affamato di denaro e da chi chieda in cambio la mia adesione a un culto. Mi spaventa. La risposta divina non la puoi intascare con una banconota da cento. Non credo che Dio lavori come commercialista per una squadra di football”. Lei ha dichiarato che c’è qualcosa di molto familiare e confortevole nel fallimento e nell’oscurità. Che cosa intendeva? “Attenzione, il fallimento può diventare un autosgambetto. Nessuno vuole fallire, dico bene? Al tempo stesso, se guardiamo alle nostre esistenze, il fallimento è il nostro più grande maestro. Il successo ci rende solo arroganti e compiacenti. Sto cercando di scrivere un romanzo sulle cadute storiche del genere umano, sui fallimenti che ci trasciniamo o dai quali impariamo una lezione”. Chi è il fallito a cui guarda con maggior rispetto? “Indubbiamente Bill Clinton. Da giovane la sua corsa a governatore dell’Arkansas riuscì a vincerla. Nella rielezione perse di venti punti. Che brutta botta! A soli trent’anni, disoccupato, sognatore, qualcosa lo aveva spinto a diventare un politico migliore. George W. Bush, invece, è diventato presidente degli Stati Uniti grazie ai 537 voti in più rispetto ad Al Gore, ottenuti in Florida nelle elezioni del 2000, eppure Al Gore ha fatto di quel fallimento un vantaggio: è stato insignito del Premio Nobel per la pace nel 2007 e il suo documentario, Una scomoda verità, ha ricevuto l’Oscar. Solo perché ha fallito, oggi è un asso nell’industria dei computer, membro del Consiglio di Amministrazione di Apple e consulente presso Google. Un paradosso? Non possiamo evitare il fallimento. Sarebbe un errore. Fallire è bellissimo: ci accadono cose terribili ma restiamo “ok”, in piedi, più coraggiosi. Il solo concerto che farò per promuovere These Systems Are Failing sarà al Circle V, il festival di musica e cibo vegano, al Fonda Theater; la mia ex, ora miglior amica, continua a chiedermi se sono nervoso. Io le dico: “No, al peggio suonerò da schifo”. Chi se ne frega. La possibilità di fallire non è la fine del mondo, dovremmo vederla come un comfort”. Torniamo all’album. Questi sistemi stanno fallendo: perché questo titolo? “Se sei un attivista, se ti interessa il benessere di questo pianeta, devi tramutarti in un lottatore di arti marziali o in uno stratega militare. Quando ti butti nel mondo devi capire quale sia l’arma migliore per combattere. Anni fa ho pubblicato un libro, Gristle, una guida al modo più efficace di consumare cibo. Aveva un look piuttosto accademico ma parlava delle conseguenze dell’agricoltura animale ed io ci tenevo”. Best-seller? “Fiasco totale”. Quanto ha venduto? “Circa 5.000 copie, la maggior parte finita negli armadietti delle scuole. Insomma, è evidente che quella non è la maniera vincente di far passare un messaggio. L’adorabile cartoon del video di Are You Lost In The World Like Me ha totalizzato 5 milioni di visualizzazioni nelle prime 24 ore. Voglio creare buona arte ed essere responsabile, per questo ho fatto un cyber-stalking a Steve Cutts chiedendogli per email di girare un video per me. Ogni fotogramma di Are You Lost In The World Like Me è fenomenale. Adoro quei personaggi semplici ma iperesagerati, come delle Betty Boop alienate dalla tecnologia”. E Betty Boop è una filosofa? “Ogni forma di animazione anni Trenta, prodotta dai Fleischer Studios, è filosofica. Betty Boop è per di più una flapper, una ragazza emancipata della Jazz Age”. Era solito inserire dei brevi saggi all’interno dei suoi dischi. Sarà così anche per questo? “No, oggi non sarebbe un modo intelligente di fare attivismo, infilare un saggio nel cd. Chi compra più un cd fisico? Chi compra saggi? Preferisco un manifesto e un cartone animato”. Che ricordo ha di David Bowie? “Diventare amico del mio più grande eroe di tutti i tempi è stato un regalo del cielo. Tutti amano Bowie, la sua musica, lo stile. Finire per fare barbecue insieme a lui e girare il mondo in tour al suo fianco… Indescrivibile. Ricordo la sua tristezza interiore miscelata ad un entusiasmo extraterrestre”. E Michael Jackson? “Non posso dire di averlo conosciuto bene. Ci siamo incontrati una volta sola e non era presente a se stesso. Mi sembrava di essere al cospetto di una conchiglia, di un guscio. Farfugliava, mormorava, non era più “umano”. Uscii dal nostro incontro sconcertato”. Che cosa significa “umano”? La musica è ancora umana per lei? “Ho letto qualche libro del neurologo Oliver Sacks e in particolare Musicophilia che parla dell’effetto della musica nel nostro cervello. Ho visitato anche l’istituto di Sacks a New York, l’Institute for Music and Neurologic Function. La musica guarisce le emozioni, cura il nostro corpo. Credo sempre di più nella musicoterapia. Certo, se sei nato in Indonesia e ti faccio ascoltare Bach, non mi aspetto reazioni. Ma se metto il Gamelan tutto cambia. Musica è istinto. Musica è ritorno all’infanzia”. Lei è cresciuto con quale riferimento? “Da Neil Young ai Sex Pistols fino a WC. E ancora: Donna Summer, i New Order, George Gershwin…” Quanto è grande il suo ego? “Taglia media. C’è ancora, da qualche parte nel mio corpicino, ma lo tengo a bada. Come canto in Almost Loved, i milioni che ho fatto con il mio ultimo disco non mi fanno sentire diverso, non rendono la mia pelle migliore, non cambiano la luce del sole, non rendono il frullato mattutino di un sapore diverso o le mie amicizie più sane. E’ la libertà che riempie la vita”. Firma il suo nuovo progetto come Moby & The Void Pacific Choir. Da dove arriva quel Void Pacific Choir? “Da una frase del poeta e drammaturgo inglese D. H. Lawrence: “People in LA are content to do nothing and stare at the void pacific”, “La gente a Los Angeles è contenta di non fare nulla e guardare il vuoto del Pacifico”. E’ un concetto che ha a che fare con il nostro design biologico. Siamo programmati per trovare comfort in presenza di altre persone. Quando la gente si isola, si ammala. Per me funziona l’opposto (ride). Io mi sento vivo solo quando sto per conto mio, quando medito, compongo, faccio trekking. Non mi isolo a priori. Se qualcuno o qualcosa non mi convince, osservo la mia reazione, da fuori. Cerco di capire da dove arriva la reazione; proviene quasi sempre da traumi passati. Spesso non ha nulla a che vedere con quel preciso momento”. Come è cambiato il linguaggio nella sua vita ordinaria? “La funzione del linguaggio appartiene alla musica. E come dice Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus il linguaggio può essere “non specifico”. Non è matematico. C’è una forte correlazione tra il linguaggio e la realtà: parla al nostro cervello. “Il linguaggio traveste il pensiero”. Il linguaggio, per me, è pratico quanto lo è assemblare un tavolo con tutti i pezzi o come guardare le distanze da un posto all’altro su Google Maps. Il linguaggio è divertente e completamente inesatto. Noi crediamo che sia accurato, non lo è. L’albero di casa mia, ad esempio, non è un albero. E’ un insieme di trilione di anni di energia, materia e vita. Ho paura che il linguaggio ci renda stupidi”. Per questo ha scelto la musica? “Non ho scelto di fare il musicista per vivere in eterno, lo metto subito in chiaro. Non ho idea di cosa ci sia dopo di me. Non rincorro l’immortalità e rido quando mi dicono che generare figli è un modo per non morire, per continuare a scorrere da qualche parte. Durante un mio viaggio in Europa, a un certo punto qualcuno indica Notre-Dame e dice: “Guarda! E’ immortale”. E io: “No, quella cattedrale è stata completata nel 1345, è vecchia di qualche centinaia di anni ma non è preistorica come quella roccia accanto a Notre-Dame. Quella roccia avrà sì e no 7 milioni di anni e nemmeno lei è immortale”. Quando vado nello Utah, e osservo l’acqua dalla cima della montagna, ho un forte senso di vastità di fronte a me, eppure neanche quello mi dà l’idea di toccare la Genesi. Se a dieci anni dalla mia morte qualcuno non ascolterà più le mie canzoni, pace. Le canzoni sono “carine”; se durano, durano. Tengo, piuttosto, all’eredità del mio messaggio: la conversazione che abbiamo appena avuto, qualche parola, qua e là, forse avrà toccato il cuore dei lettori e portato qualcuno ad un livello superiore di coscienza”. E se non ci fossimo riusciti? “Ne sono comunque grato”.”
Un articolo di Gian Mario Ricciardi pubblicato su Avvenire: un monastero, il silenzio, la pace, la semplicità per ritrovare l’essenziale e il senso del tempo fuori e dentro.
“Li ho visti arrivare, nel ’95, a piedi scalzi come i profughi d’oggi, tra gli arbusti della valle dell’Infernotto a Bagnolo Piemonte, vicino Saluzzo. Due monaci, padre Cesare Falletti e fratel Paolo. Soli, sorridenti, con nella bisaccia la tradizione millenaria dei Cistercensi che tornavano sotto il Monviso. Ora sono sedici e, tra i dirupi di questa strana montagna, in un monastero di pietra e legno, cercano la voce di Dio, ma, contemporaneamente, raccolgono quelle delle vittime della interminabile crisi. Ascoltano e aprono la porta a chi bussa. Tutt’intorno c’è una pace che ti entra dentro. Sveglia alle 3,55. Già nella notte da ogni cella filtra tra gli alberi il canto delle Vigilie e delle lodi. Poi il lavoro. C’è chi s’incammina lungo i sentieri per curare le more che serviranno per le marmellate. Chi costruisce icone, chi studia, chi prepara il pranzo, chi taglia la legna o l’erba. Nelle stanze degli ospiti, famiglie salite dalla Francia, uomini e donne venuti a cercare uno spazio senza parole. E ognuno vive il proprio con discrezione, in solitudine, passeggiando, fermandosi ad osservare gli alberi, le foglie, le nuvole. Il monastero Dominus Tecum sembra una grande tenda in mezzo alle auto che, poco sotto, sfrecciano con i troppi telefonini incollati all’orecchio, le mail da leggere, le connessioni sempre accese. Eppure la crisi è passata anche di qui. Non ha portato il deserto, anzi. Sono sempre di più quelli che salgono a Pra ’d Mill. Vengono in tanti a bussare perché si sentono soli, abbandonati, traditi dalla vita e dalle persone: vittime del deserto provocato dalla recessione. «C’è un gran numero di persone che vengono qui perché hanno bisogno». Padre Cesare, ora priore emerito perché ha passato la mano a padre Emanuele, ha visto camminare tra queste pietre migliaia di persone. A loro, lui e i monaci non hanno altro da dare che saggezza e preghiera. Hanno abbracciato manager che dovevano fare scelte difficili, persone messe fuori dai cancelli delle fabbriche a cinquant’anni, giovani senza speranza. La crisi li ha fatti aumentare? «Ha fatto certamente crescere il nostro dover portare il peso della gente, perché la gente soffre in questo momento, e noi la ascoltiamo». E perché vengono a cercarvi? «Credo cerchino Dio, non tanto noi. Questo è un luogo che almeno nella nostra idea c’è sempre stato, in cui tutto è organizzato per stare davanti a Dio, non potevamo tenercelo tutto per noi, solo per noi, ecco… lo offriamo anche ad altri». Ma in questo grande silenzio, soprattutto nelle giornate d’inverno, che cosa c’è? «C’è Dio, ci sono i fratelli». Insomma un pezzo di cielo strappato ai compromessi, agli insulti, alla fretta. Il terreno l’aveva regalato la famiglia dei baroni d’Isola all’abbazia di Lerins, casa madre dalla quale è nato questo incredibile esempio di monastero nato e cresciuto ai tempi del disagio dilagante. Una donazione voluta da Leletta d’Isola. A suggerire l’avventura l’allora cardinale di Torino, Anastasio Ballestrero. A mettere insieme il complesso puzzle, la mano della Provvidenza, l’entusiasmo di un piccolo drappello di uomini di preghiera che alle 10, chiamati dalla campana, raggiungono la chiesa per poi riprendere il lavoro fino alla Messa di mezzogiorno. E la cappella si riempie. Rituale antico, gioie e sofferenze moderne che vengono posate sull’altare, proprio sotto la croce e il campanile, come da tradizione monastica. Filtrano fasci di luce intensi e calmi allo stesso tempo. La semplicità, la sobrietà: «Non portate vino a tavola – c’è scritto – per rispetto al nostro stile di vita e di accoglienza». Ci sono due suore, ma passano in molti con la disperazione dentro: industriali in grosse difficoltà, giovani in cerca di lavoro e di valori, disoccupati, preti in sofferenza, famiglie raggelate dalla vita. La sfida è un presente che guarda lontano. Saper mettere insieme la fame di soprannaturale e il disagio, spesso molto forte, di chi bussa alla porta. «…se volete lasciare un’offerta… usate la busta che trovate nella mensola». Se volete. Ci sono i libri, insieme ai poveri prodotti della valle – miele, marmellate, estratti di erbe – come in tutti i monasteri. C’è e si sente una grande ricchezza che viene dalla serenità e dalla pace. «Lasciate quello che potete e volete, l’importante è che la mancanza di soldi non vi impedisca di venire a pregare. In caso pensate a chi non può lasciare nulla. Grazie». È vero, come diceva Alfonse de Lamartine, che un grazie non è nulla nel mare dei ricordi ma se resta a galla è qualcosa per sempre. Un uomo, le scarpe consumate, la camicia lisa, posa la sua offerta e poi fissa quel grazie che suggella un patto. Scende lentamente la sera. Si parla con i monaci. «Inutili in un mondo che vive di corsa? Forse, ma noi cerchiamo di dire altro e di guidare il mondo attraverso la preghiera e la carità fraterna ad avere un altro volto, non violento, non arrogante, non prepotente, non asservito al denaro, un volto umano». Una scritta sul muro: «Tutti gli ospiti che giungono qui siano accolti come Cristo poiché un giorno Nostro Signore ci dirà: Ero forestiero e mi avete ospitato». Gli smarriti della modernità e della crisi, quella che ha distrutto famiglie, svuotato anime, sconvolto vite hanno trovato rifugio qui tra un cantico e una preghiera. ‘I poveri di spirito’, come nel docufilm che Fredo Valla ha girato a Pra ’d Mill possono vedere un uomo che cammina in un immenso campo di neve in montagna, seguire il lavoro quotidiano dei monaci, respirare il ‘Laudato si’’ di papa Francesco nel quieto scorrere sotto la pioggia, i monaci che lavorano nei boschi, in cucina, nelle celle o curano le api e pregano in una chiesa scarna ed essenziale. Come nel ‘Grande silenzio’ di Phillip Groening, o in ‘Uomini di Dio’ di Xavier Beauvois, il tempo è senza tempo. Eppure, mentre il sole tramonta, ogni cosa qui sembra tutt’altro che slegata dal mondo. Quei ragazzi appena partiti con il pulmino avevano gli occhi raggianti. Ed erano venuti con tutti i loro dubbi sul futuro, il lavoro, l’amore, la famiglia. Forse anche con il rumore del silenzio si possono curare le macerie della crisi. I monaci come fratel Abramo sorridono con gli occhi. Hanno l’espressione di chi ha il cuore dolce e sente di essere tornato alla sorgente della vita. Vita dura, silenzio, tanto silenzio per ritrovare i gesti dell’anima e poi la vita. Le ore per pregare, le ore per coltivare i frutti per le marmellate, tagliare l’erba, mettere a posto la legna. Terra e cielo, anzi tra terra e cielo per ritrovare il sorriso, quello che viene da dentro, per sempre”.
“Vorrei leggere una frase di Huxley: ho letto molti suoi libri, questa è tratta dal suo saggio «Le porte della percezione»: “Sensazioni, sentimenti, intuiti, fantasie, tutte queste cose sono personali e, se non per simboli e di seconda mano, incomunicabili.” Mi sono sempre chiesto, fin da quando abbiamo affrontato Cartesio, da dove arrivassero emozioni, sensazioni: perché riusciamo a concretizzarle attraverso arti ma mai a trasmetterle in modo puro? Come siamo anima e corpo, penso che abbiamo anche bisogno di rendere corpo le parti dell’anima. Ho anche spesso riflettuto su coscienza, spirito e su quello che sentiamo di essere, la nostra identità. Mi sono avvicinato anche al mondo della psichedelia. Ora penso che sarebbe più razionale provare a chiedersi: ha senso ammettere qualcosa di altro o di spirituale? Aggiungo la canzone White rabbit che molti conoscono: è legata al movimento hippy e l’ho pensata, in questo ultimo anno, come un augurio a tutti a indagare ogni curiosità, a dar da mangiare al cervello.” Questa la gemma di D. (classe quinta).
Mi è venuto naturale pensare a queste parole di Albert Einstein: “La cosa importante è non smettere mai di domandare. La curiosità ha il suo motivo di esistere. Non si può fare altro che restare stupiti quando si contemplano i misteri dell’eternità, della vita, della struttura meravigliosa della realtà. È sufficiente se si cerca di comprendere soltanto un poco di questo mistero tutti i giorni. Non perdere mai una sacra curiosità”.
“Ho portato degli spezzoni degli ultimi due episodi del mio anime preferito: vengono affrontati discorsi interessanti. I riferimenti religiosi sono numerosi e se dovessi sintetizzare potrei dire che lo scopo finale è il perfezionamento dell’uomo.” Mi sono sentito di riassumere così la gemma di S. (classe quinta). In realtà lei si è soffermata sulla trama, ma temendo di commettere degli errori rimando alla pagina wiki di Evangelion. Le sequenze mostrate sono state poi numerose e io ne ho messo un breve estratto. La gemma l’ho commentata subito in classe attraverso un racconto di Selma Lagerlöf letto camminando mentre andavo a scuola quella mattina stessa. Lo allego qui (questa la fonte). Il nocciolo? I miei gesti, il mio approccio al mondo, dipingono il mio mondo. Ho trovato delle assonanze. Notte di natale Lagerlof
E’ dal 15 ottobre che sul blog compaiono “soltanto” le gemme. Sono stato assorbito da impegni di lavoro stringenti, l’ultimo dei quali, ieri pomeriggio, mi ha lasciato l’amaro in bocca e la sensazione che il lavoro che ho scelto di fare si stia lentamente trasformando in altro se non sto attento a mettere in chiaro delle cose con me stesso e con gli altri. Non è la prima volta che succede e ormai ho capito quale sia la migliore medicina in queste occasioni: nutrire la mia anima con quella di qualcun altro. Ho scelto le parole di Alda Merini e di una pagina del suo “Cantico dei Vangeli”:
“Alzatevi dalle vostre sedie di dolore e mangiatevi un corpo d’anima e dimostrate a tutti che senza denti voi divorate l’acqua e che i secoli discendono dalle montagne.
Voi siete padroni dei secoli; cosa vale un tradimento di un miserrimo Giuda di fronte all’incantesimo del mio respiro? Io alito su tutte le cose, sono il germe di Dio, sono il fabbriciere delle nuvole, dei tuoni, delle profondità della terra. Vi do il mio pane perché sappiate di quanta abbondanza un giorno voi sazierete la vostra anima. Voi avete fame di anima, e io ve la regalo perché l’anima è come un feto che sta nel vostro grembo e non riesce a giungere al nono mese né riesce a risalire le correnti del grande dolore. Ma io vi stupirò dimostrando che voi vivete accanto all’uomo che è identico a voi stessi, che sono io, io, la vostra anima.”
“La mia gemma è il libro I quattro accordi, letto un po’ di tempo fa, abbastanza filosofico anche se scritto in modo semplice. Contiene alcune indicazioni su come vivere meglio e penso sia adatto un po’ a tutti, anche a persone che tra loro la pensano in maniera molto diversa.” Questa è stata la gemma di T. (classe quinta). Scrive l’autore: “Possiamo vincere o perdere, ma facciamo sempre del nostro meglio e almeno abbiamo una possibilità di essere di nuovo liberi.”
Veronica è stata una mia studentessa, uscita dal liceo qualche anno fa. Cervello finissimo, idee acute, sensibilità profonda. Sul sito L’undici così si presenta: “In bilico fra cosmopolitismo e apolidia, sono figlia contraddittoria di un decennio complesso. Esteta ed esistenzialista, amo definirmi controcorrente e resiliente, in preda a un’irrinunciabile crisi di fine secolo. Szymborska e Cioran i miei feticci letterari, il dottor Sean McGuire e il professor John Keating i miei guru spirituali, Hopper nell’arte e Einaudi al piano i quotidiani sollievi dall’affanno. Scrivere è un modus vivendi, citare latinismi un hobby. Mi nutro di parole, dubbi e verità. Talvolta, rido. Infine, amo.” Da poco ha scritto questo articolo che trovo ricco di spunti, suggestioni, idee, occasioni per riflettere. Sì, è un po’ lungo, ma è un viaggio che vale il costo del biglietto.
“«Naufragium feci, bene navigavi» Semplicità in pillole, come ogni aforisma che si rispetti: lapidario, come ogni piccola grande verità formato tascabile; imperfetto, come ogni prodotto d’umana fattura. A colpo d’occhio, complice il maldestro latino di chi scrive, anche la traduzione risulta criptica come non mai: “Sono naufragato, ho ben navigato”. Sarà effettivamente vero? Attribuite a Zenone di Cizio, quelle poche parole si imprimono – indelebili – come una pronuncia di condanna. Un incipit malaugurante? Non direi. Si tratta piuttosto di una sentenza che evidentemente ha sortito l’effetto sperato dall’autore, cogliendo nel segno dell’applicabilità universale: difficile non ritrovarcisi. Seppur in modi diametralmente opposti a quelli del padre fondatore dello stoicismo, mi sono più volte interrogata su dubbi d’antidiluviana memoria, anche se con risultati scarsamente brillanti. A mia discolpa, non posso che raccontarvi la storia dietro i volti di chi ho conosciuto, volutamente o per sbaglio: frammenti d’identità che si inscrivono in quella galassia multisfaccettata chiamata “vita”. O “viaggio”. Facite vos. Cos’è il viaggio, in fondo? Quale intendimento primigenio ne è alla fonte? Quali considerazioni spingono una persona, con le sue complessità e i suoi dubbi, a prendere il largo, armi e bagagli appresso? Forse, il desiderio di lasciarsi alle spalle un passato scomodo in forza di un futuro non meglio specificato? Oppure il naturale prosieguo di un’esistenza il più delle volte bisognosa di sale, pepe e spezie? Che sia la metafora di un lavorio interiore? La pura meccanica dello spostamento di fisicità da un luogo a un altro? Partecipazione emotiva o distacco “fotografico”? Piacere tout court o sofferente necessità? Tralasciando celebri similitudini d’altri tempi e d’oggigiorno, mi chiedo cosa rappresenti per le persone come noi. Certo, come me, come Voi. Non per l’eclettico Steinbeck, né per il nostalgico Proust sempre in odor di madeleine; non per il pragmatico Bukowski, né tantomeno per quel “disobbediente civile” patentato di Henry David Thoreau. Non è la percezione letteraria che vado cercando, bensì il significato e il significante che il viaggio assume per ognuno di voi, cari Lettori. Con tutto ciò che ne consegue, luci e ombre. Al solito, la straordinaria varietà umana giunge in mio soccorso, dandomi man forte anche in questo ennesimo percorso di ricerca. È così che ho conosciuto decine di storie, di falsi miti, di autoinganni, di luoghi comuni, di esigenze fasulle, di sogni infranti, di vite spezzate, di velleità traballanti, di certezze apparentemente incrollabili. E penso al “viaggio della speranza” di Alina, madre ancor prima che grande lavoratrice, partita molti anni or sono per un paese lontano con un biglietto di sola andata, vane speranze, tante aspettative e un pensiero sempre fisso: garantire un futuro migliore ai propri figli. Ci è riuscita. Rifletto poi sul beffardo destino di Paola che, come una fenice risorta dalle ceneri di un’insicurezza antica, ha saputo ergersi al di sopra d’ogni convenzione sociale, in barba al finto buonismo che permea menti e cuori di molti. Dopo immani sforzi, ora è tornata a nutrirsi nuovamente di vita, incurante e al contempo cosciente dei rischi corsi. Il timore della perdita, l’incertezza dell’ignoto, la voglia di ricominciare daccapo, la beltà di riscoprirsi in terra straniera: il viaggio è questo e molto altro. Rimugino ancora e, fra mille trame intricate, scorgo quelle di Erica, temprata da tante remore e altrettanti andirivieni, sempre in bilico fra il coraggio di restare e la forza di andare. Salpare verso nuove frontiere, perdersi nelle esistenze altrui, trovarsi su sentieri sconosciuti capaci di (tra)valicare il senso stesso del vissuto, smarrirsi nella prepotenza di certi incontri e librarsi nella delicatezza di tanti altri: anche questo è viaggiare, ognuno a modo suo e per conto suo. Difficilmente si vaga senza meta, anche quando la bussola impazza. E nel mio veleggiare di memorie, m’imbatto tutto a un tratto in Anna, nel suo dolore. Divenuta precocemente donna, ha saputo trascendere l’ordinario, colmando il vuoto della perdita con l’affanno della frenesia: il lavoro, gli impegni, le rinunce, l’ansia, le privazioni. Resilienza e sublimazione. Perché il viaggio è anche questo: talvolta, un approdo sicuro al riparo dalla tempesta; altre volte, una risacca che sospinge verso il mare in burrasca. Naufragium feci. Accantono le contorsioni mentali – mi spingerebbero troppo al largo – e, con fare quasi voyeuristico, decido di soffermarmi sui più piccoli particolari di quello spaccato d’umanità che ho sbadatamente incrociato e che, lo ammetto, si è rivelato provvidenziale. Ho avuto la fortuna di essermi trovata vis-à-vis con report di viaggio sorprendenti: stralci di vita che, proprio in virtù della loro diversità, riguardano chiunque e spiegano tutto. In cuor mio, mi rallegro per l’esperienza – anche indiretta – che mi scorre nelle vene: la sento viva, pulsante, chiaramente vibrante. E mi commuovo pensando a Melania, al vuoto emozionale che la circonda e all’inesauribile ricchezza interiore che l’alimenta. E mi tocca il cuore il coraggio di Matteo che, sordo dinanzi alla sfiducia di amici e familiari, ha lasciato un lavoro inappagante per inseguire un sogno d’infanzia, a detta di tutti mera “utopia fanciullesca”: oggi Matteo è ciò che voleva essere e lo deve soltanto a se stesso, al suo istinto, all’averci creduto. Bene navigavi. Il viaggio è anche ma soprattutto questo: una lotta contro il tempo, una fuga dall’incomprensione, un rimedio all’indifferenza, un antidoto all’incomunicabilità, un modo di essere con se stessi e il mondo attorno; non da ultimo, una forma di libertà. Al di là di ciò che si voglia o possa pensare, il viaggio è un passaporto per una vita inclassificabile, fuori dagli schemi convenzionali in cui tendiamo ossessivamente a collocarci: da qui la sua “funzione pubblica”, quale via salvifica per contrastare la tirannia dell’effimero che intacca purezza e nobiltà d’intenti. In sintesi, la nostra felicità. Le circostanze in cui siamo immersi, quella congiuntura storica che ci rende tutti figli di un secolo incredibilmente contraddittorio, l’onnipresente economia di mercato, quel turboliberismo che – nell’offrirci troppo – non ci lascia scelta, la “modernità liquida”, l’inconsistenza delle convinzioni, la fluidità del pensiero, quelle ideologie che – date per morte – ancor oggi informano governi e società, le torsioni distopiche, le incertezze ontologiche: sono questi gli elementi che più ci spingono a viaggiare, a scappare da fame e guerra, dalla mancanza di comodità, da un disturbo compulsivo, dalla bulimia mediatica, dalla persona che ci ha tradito, da un lutto non rielaborabile, da una delusione cocente, dalla frustrazione di una condizione familiare non più sostenibile. A conti fatti, il viaggio non è che una reazione sociale: ci si tende a dileguare da un mondo non più a misura d’uomo, malato di competizione, patologicamente afflitto dal denaro e dimentico della sua umana dimensione. Pertanto, il lascito di un’epoca come la nostra rende il viaggio sì faticoso, ma anche una tappa obbligata: un’indiscussa opportunità di rinascita, che richiede audacia e temerarietà. Insomma, il viaggio non è per tutti, ma fa al caso di molti, questo sì. La dilatazione spropositata delle categorie che ci orientano nel quotidiano – spazio e tempo in primis – porta con sé annessi e connessi, eppure è proprio grazie all’unitarietà della comunicazione globale che ho riscoperto il fascino perduto per “le vite degli altri”. Non quelle tratteggiate dal premio Oscar von Donnersmarck, s’intende: qui l’unico muro è quello dell’immaginazione, dell’infinito oltre la siepe che tutto può, crea, distrugge e improvvisa dal niente. Il bagaglio esperienziale e interpersonale, proprio della dimensione erratica, fa del viaggio un leitmotiv letterario, un fil rouge che lega persone spiritualmente feconde a vicende errabonde: un patrimonio a disposizione di tutti. È proprio dall’incontro tra la letteratura e questa quotidianità che nascono i grandi classici, “capolavori trasversali”: quelli che sanno parlare in più epoche a più generazioni di più genti, usi, costumi, formae mentis, in un formato a prova d’estinzione. È così, con la parola scritta più che con la trasmissione orale, che “le vite degli altri” divengono in parte anche “nostre”, da storie individuali a racconto collettivo: testimonianze di un adattamento sempre possibile, anche dinanzi alle avversità; eredità formative, capaci di ergerci all’altezza delle sfide culturali e degli intoppi esistenziali che il vivere comunitario spesso comporta. Chi viaggia cresce, pensa, fa: indipendentemente dal fatto che si trovi sul vagone di un treno, sull’onda di un pensiero o sul sedile del passeggero; poco importa se sia sotto la spinta di un ricordo di gioventù, di un profumo o di un déjà vu. Chi viaggia fuoriesce dal tracciato di quella routine che succhia vita fino al midollo, cappa persistente di un’accidia che, abbandonata la palude Stigia della Commedia, sommerge gli animi (postmoderni) più indolenti. Chi viaggia non può che amare il gusto della scoperta, la flessibilità della ricerca: che sia del proprio posto nel mondo, di un lavoro ben retribuito o di una casa in campagna, non sembra rilevare. Ciò che conta è altro. Sia esso un “folle volo” verso una maggiore conoscenza di sé o un Gran Tour diretto al soddisfacimento di vizi e diletti, il viaggio rappresenta una cesura nella vita di chiunque lo intraprenda: la metanarrazione preferita dalle donne e dagli uomini d’ogni luogo, tempo ed età. L’uomo è un essere straordinario, un paesaggio d’indomita natura, un soggetto letterario di grandissima versatilità, in continuo divenire: nel quotidiano vive splendori e nefandezze, quegli stessi splendori e quelle stesse nefandezze che reportage, documentari, racconti, diari, romanzi e poesie non fanno che riportare nero su bianco, con risultati (più o meno eccelsi) che sta al solo “lettorato” giudicare. Fuor di metafora, infatti, siamo tutti viaggiatori di mari e monti, procacciatori d’orizzonti, esploratori d’anime, osservatori di colori, fruitori di suoni e odori, spettatori di drammi, protagonisti di tragedie, attori d’opera. Anche da tre soldi. La scoperta parte da noi stessi, il viaggio pure. On the road, il naufragio è un rischio da tenere in conto, non una variabile determinante. Prendete un ombrello, fuori piove spesso. Magari anche un berretto, il sole scotta. E se avete qualche madeleine nello zaino, ben venga.”
Ho avuta la fortuna di avere due ottime colleghe di Storia dell’arte, Paola e Anna. Con una di loro ho collaborato durante l’anno (abbiamo insegnato insieme in tre corsi), con l’altra avevamo solo due classi comuni e la sto conoscendo meglio su facebook, scoprendo un mondo sorprendente. A loro ho pensato leggendo queste parole di Pierangelo Sequeri su un libro che ho appena terminato: “E’ diventato persino doloroso percepire la diffusione epidemica dell’asfissiante vuotezza di quel luogo comune nel quale si riassume la qualità dell’arte: «ci ha regalato emozioni». E’ un modo per non dire niente dell’arte, e delle sue immense corposità spirituali, ammiccando all’idea che, nell’indistinto dell’emozione, si è anche detto tutto quello che c’era da vedere, da sentire e da pensare. E’ il segno più eloquente della morte dell’arte. L’artista si svena per incorporare racconti di pensiero e visione di mondi, e l’utente finale non ha più parole e mente per riceverli. Ha provato emozioni. Ecco tutto. L’enorme lavoro spirituale e mentale dell’arte sincera e più sensibile all’impensato e al non percepito della vita quotidiana, affoga nell’indistinto di un generico senso di benessere e di eccitazione. In questa afasia della mente e dell’anima sensibile è proprio il visibile a morire, nella sua abissale eccedenza di riflessi dell’invisibile. Ed è proprio così che l’invisibile è perso. Narcosi e anestesia dei sensi spirituali, ecco cos’è l’arte come strumento del mero godimento senza mediazione di parole e racconti.” (Pierangelo Sequeri, Non ti farai idolo né immagine)
Non mi dispiace l’attesa. Mi spiego: non mi riferisco ad aspettare qualcuno in ritardo o magari all’esito di un esame o di un accertamento. Penso al periodo in cui un desiderio ha il tempo di formarsi, crescere, definirsi: vi si concentrano aspettative, pensieri, emozioni, immagini, fantasie, tutti generalmente positivi. Quando ho un appuntamento, anche semplicemente andare a prendere Sara in stazione, arrivo in anticipo e mi porto sempre dietro un libro. Quel tempo di attesa tra quando spengo il motore dell’auto e l’arrivo del treno non mi dispiace affatto, non lo evito, anzi lo cerco. Diciamo che vivo il tempo dell’attesa in modo proficuo, fertile e non sempre legato al desiderio dell’ottenimento della cosa o della persona aspettata. Ecco perché forse mi trovo a metà tra il concetto di sete del buddhismo e un brano di Charles Juliet che ho letto stamattina. Tra le quattro nobili verità enunciate dal Buddha si ricorda: “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione”. Attraverso l’Ottuplice sentiero si deve cercare di arrivare alla soppressione di questa sete “annientando completamente il desiderio, bandirla, reprimerla, liberarsi da essa, distaccarsi”. E’ facile comprendere come la nostra mentalità formata dalla cultura del desiderio (scopo principale di un qualsiasi spot pubblicitario) sia lontana da queste idee. Messe le cose in questa maniera, il discernimento pare abbastanza semplice. Ecco che a complicare le cose arrivano testi come questo estratto di “Dans la lumière des saisons” di Charles Juliet, a cui si fa riferimento a un altro tipo di attesa o desiderio o sete:
“L’attesa. Avete conosciuto, conoscete che cos’è l’attesa? Quell’attesa che per anni non ha smesso di tormentarmi, che m’ha impedito di partecipare, che ha reso vano ciò che avrebbe dovuto farmi sazio. Se sapeste in quale deserto m’ha costretto a vivere. Nulla di ciò che mi si offriva era a misura della mia sete. E di che cosa ero io in attesa? Non avrei saputo dirlo di preciso. Senza dubbio, ero in attesa dell’evento meraviglioso capace d’appagare la sete di ciò che manca ad ogni vita. Ma non c’è alcun evento meraviglioso e io comprendo soltanto ora che non ho da lamentarmene. Ciò che è in grado di rispondere a quella attesa non può venire a noi che dall’istante – quell’istante che è là, prima che muoviamo qualsivoglia nostro passo, e che si offre alla nostra brama. Ma spesso noi lo troviamo troppo grigio, troppo banale e, poiché non ci sembra degno di veicolare ciò di cui desideriamo saziarci, lo oltrepassiamo senza cercare di scoprire ciò che esso cela. Che sbaglio! In ogni momento la vita abbonda, scorre, irriga il quotidiano al quale non sappiamo prestare attenzione. E’ dalla realtà più ordinaria che filtra l’acqua della sorgente. Ma prima di arrivare a comprenderlo, ad ammetterlo, c’è tanto da sfrondare. L’avidità che tale attesa presupponeva, mi rendevo ben conto che era eccessiva, e ho fatto ricorso a diversi mezzi per tentare di contenerla, ma nessuno ha avuto la ben che minima efficacia. Esistono in noi appetiti, paure, vincoli, angosce… che non siamo in grado di controllare, per quanto grandi siano la lucidità, la determinazione, la conoscenza di noi che mettiamo in opera per dominarli. Il tedio, che nulla riesce a dissipare, è la conseguenza dell’attesa che viviamo fin dall’inizio come immancabilmente delusa. Fin dall’adolescenza ho imparato a leggere su alcuni volti e in alcuni sguardi la forma di tedio in cui si manifesta la sofferenza di una mancanza fondamentale. L’attesa e la paura. La paura e l’attesa. Non credete che ambedue definiscano, per una grande parte, l’essere umano?”. Non penso che alla fine i due punti di vista siano così distanti come possono apparire a uno sguardo veloce e posato sulla superficie; in fin dei conti anche il credente buddhista è teso a qualcosa, pur cercando di non fondare questa tensione sul desiderio, sulla brama. Mario Bertin, commentando le parole di Juliet, scrive: “Non un’attesa totalmente passiva. Un’attesa che è tensione versa qualcosa capace di saziare il nostro desiderio. Di appagare la sete di ciò che sentiamo mancarci. Perché non esiste alcun senso predefinito della vita. Il senso della vita, afferma Chaplin in Luci della ribalta, è il desiderio. Quel richiamo ad un oltre sempre inattingibile, che non si spegne mai. Il desiderio traccia la strada – ma te ne accorgi percorrendola – e infonde l’energia per andare verso ciò che l’autore chiama “la sorgente”, cioè verso la propria verità. L’istante è quello che viene immediatamente prima che cominci il nostro cammino. E’ un clic… E’ come un bagliore improvviso, che ci fa intravvedere una strada, da prendere piuttosto che qualsiasi altra strada. Senza ragioni. E’ un lampo nella notte. Soltanto una intuizione… Quasi sempre l’istante si configura in una circostanza banale, quotidiana, che sembra non avere alcun rapporto con il nostro desiderio, con quello che pensiamo sia in grado di saziare la nostra fame. Ma non è così. L’istante è soltanto il momento in cui si dischiude lo spiraglio. Quello che cerchiamo sta oltre la soglia. E non lo vediamo. Non siamo noi ad andare verso l’oggetto del nostro desiderio. D’altronde, il nostro desiderio non ha alcun oggetto. E’ la stessa energia vitale che scorre abbondante e che “irriga il quotidiano” a portarci verso di lui e ad offrircelo in dono. La verità è davanti a noi, “umile, quotidiana, feconda, inesauribile”. Dobbiamo soltanto essere disponibili ad accoglierla. E allora, come d’incanto, tutto si mostra e si chiarisce, il senso di tutto si illumina e si fa evidente. Come in una nuova nascita, si presenta la possibilità di
“suscitare il me stesso che dovrà darmi alla luce”.” E non penso che alla fine si sia così lontani di quella ricerca del vero sé che sia oltre la propria semplice autopercezione cosciente, cammino al centro delle religioni orientali. (i testi di Juliet e Bertin sono tratti da “Scuola e formazione” pagg.33-34)
“Alcune persone sono incapaci di cogliere l’essenza della vita e il soffio intrinseco in ciò che contemplano, e passano la loro esistenza a discutere sugli uomini come si trattasse di automi, e sulle cose come se fossero prive di anima e si esaurissero in ciò che di esse si può dire, sulla base di ispirazioni soggettive.” (Muriel Barbery, L’eleganza del riccio)