La fatica di vivere

C’è la globalizzazione dei soldi e quella dello stress, della depressione, della crisi, del suicidio e del vuoto esistenziale perché si è dimenticato che la vita non è qualcosa, ma è sempre l’occasione per qualcosa. Pubblico qui sotto l’articolo FACCIO FATICA A VIVERE di Patrizia Spagnolo, presente nell’ultimo numero di Dimensioni Nuove

Ecco il “testamento” lasciato tempo fa da un sedicenne suicida: “Sarai contento ora papà. Ora che non ti do più grane. Mi dispiace averti deluso, ma è anche colpa tua. Salutami Sara e dille che la tratto così perché le voglio bene. I soldi che ho in banca li lascio tutti a Telefono Azzurro. Mi dispiace per te mamma, che sei stata più gentile del babbo, che mi ha sempre rotto le scatole. Ci rivedremo, spero il più tardi possibile, nell’aldilà. P.S. Spero che la Fiorentina vinca la coppa. Ciao, anzi addio”.

Non è dato sapere se Luca (nome fittizio) si sia tolto la vita avvelenandosi – soluzione che va per la maggiore – o tagliandosi le vene o buttandosi giù da un ponte o impiccandosi. Rientra sicuramente nella schiera di ragazzi tra i 14 e i 18 anni che ogni anno rinunciano a vivere perché sono stati bocciati a scuola, non hanno superato l’esame per la patente, sono emarginati in quanto gay, si vedono troppo grassi, si sentono troppo stupidi, comunque inadeguati. Queste le cause scatenanti, tutte riconducibili alla fatica di vivere, di trovare un senso alla propria esistenza.

“Il senso della vita” fu il tema della prima conferenza tenuta dallo psichiatra Viktor Frankl nel 1921. Morto 12 anni fa, di lui possiamo dire che è stato il fondatore della logoterapia, cioè la cura attraverso la riscoperta del significato dell’esistenza e dei suoi valori fondamentali. Che nel 1930 a Vienna, sua città natale, organizzò un’azione di straordinaria prevenzione nel periodo in cui venivano rese note le valutazioni alla fine della scuola, ottenendo come risultato che quell’anno non si verificò per la prima volta nessun caso di suicidio tra gli studenti. Possiamo dire, ancora, che dal 1942 al 1945, essendo di origine ebraica, fu internato in quattro campi di concentramento, compreso Auschwitz, e toccò con mano la possibilità che la persona sempre conserva di non lasciarsi abbattere dalle circostanze, ma di poter sempre far fronte ai peggiori condizionamenti, addirittura entrando “a fronte alta nelle camere a gas e nei forni crematori”.

“Ho trovato il significato della mia vita nell’aiutare gli altri a trovare nella loro vita un significato”, disse Viktor Frankl. Il suo metodo psicoterapeutico “riconosce – come sottolinea il prof. Eugenio Fizzotti, sacerdote salesiano docente di Psicologia all’Università Pontificia Salesiana di Roma – il ruolo della libertà e della responsabilità e fa leva su due capacità specificamente umane: l’autotrascendenza, ossia la capacità di rivolgersi verso obiettivi al di fuori di se stessi, e l’autodistanziamento, ossia la capacità di prendere distanza dai sintomi”.

Nell’ottobre 2007, L’Università Pontificia Salesiana ricordò Frankl in un convegno sulla qualità della vita e la ricerca di senso. “Il messaggio che Frankl ha trasmesso attraverso libri, articoli, conferenze, corsi universitari, interviste radiofoniche e televisive, e sulla base di una pluridecennale esperienza – disse Fizzotti – risponde pienamente all’attuale condizione esistenziale della persona, che si sente smarrita e interiormente vuota perché assalita da messaggi contrastanti e da allettanti proposte che non hanno niente a che fare con i valori, ma solo con la ricerca spasmodica del piacere o del successo a buon prezzo. La persona è perennemente alla ricerca del senso della propria vita e tale sua ricerca instancabile può avere esito positivo solo nella misura in cui non guarda passivamente se stessa, ma si apre agli orizzonti dei valori, della solidarietà, dell’impegno, della relazione interpersonale che non sfrutta l’altro, ma lo promuove nelle sue risorse e nelle sue capacità”.

Solitudine ed egocentrismo. Alcuni giovani sono ormai così “spenti” da convincersi che la morte sia l’unica soluzione: vogliono togliersi di mezzo e ci riescono. Altri, invece, sono così attaccati alla vita da tentare il suicidio per comunicare la loro disperazione ed essere aiutati a vivere: vogliono essere finalmente ascoltati, considerati, urlano che anche a loro venga riconosciuto uno spazio, che anche loro vogliono sentirsi utili.

Pare che per ogni suicidio “riuscito” ve ne siano almeno 20 “tentati”. E di questi non si parla, ovviamente. In una società in cui la morte viene rimossa, parlare del suicidio è quasi un tabù e affrontare l’argomento con i giovani è cosa poco, pochissimo gradita, quasi come se il solo parlarne inducesse qualcuno a farlo, non riconoscendo quindi il dolore, il senso di solitudine e certe emozioni negative che attanagliano coloro che per definizione sono “nel fiore della vita”.

Se si va a guardare le statistiche, negli ultimi decenni i suicidi tra i giovani sono diventati un’emergenza in ogni angolo del mondo. Alcuni Paesi riportano dati precisi, altri un po’ meno, ma a prescindere dai differenti contesti economici, sociali e culturali, emerge l’incapacità di sopportare difficoltà soggettive e oggettive. Ovunque, lo spettro della disoccupazione, un individualismo competitivo, le aspettative di consumo e modelli di vita irraggiungibili generati da pubblicità e cultura di massa determinano un’assenza di futuro, devastante, opprimente e insopportabile.

Secondo David Baron, professore di psichiatria e scienze comportamentali alla Temple University di Philadelphia, “la decisione di un ragazzo di togliersi la vita trova la sua origine prevalentemente in situazioni di violenza domestica, stati di ansia e depressione, poca stima di sé, fenomeni di bullismo (con percentuali sempre maggiori anche in internet), aggressività e indisciplina, scarsa capacità di socializzare, uso e abuso di sostanze stupefacenti e difficoltà ad accettare la propria identità sessuale”. Sicuramente si vanno diffondendo patologie psichiche quali depressione, disturbo bipolare e schizofrenia, che trasformano i giovani in pentole a pressione pronte ad esplodere.

Tra il 1991 e il 2005, i suicidi in Colombia sarebbero aumentati del 195%, in maggioranza tra i giovani, mentre qualche anno fa anche l’Albania registrava picchi mai visti. In Italia, pare che siano la seconda causa di morte nella fascia di età 15-24 anni, dopo gli incidenti stradali. I dati di una ricerca condotta nel 2006 dall’onlus “L’amico Charly” tra 2312 studenti delle scuole superiori lombarde riportano che il 12% degli intervistati aveva pensato o continuava a pensare al suicidio e il 10% lo aveva tentato.

E ancora: la Chinese Association for Mental Health ha reso noto che tra i ragazzi e ragazze cinesi dai 15 ai 34 anni il suicidio è la prima causa di morte, al punto che le autorità pubbliche sono intervenute disponendo una sorta di “censimento psichiatrico” degli studenti con quiz e questionari rivolti a migliaia di ragazzi per conoscere la loro condizione psichica. Tra le cause del desiderio di farla finita, una società sempre più competitiva, che ha imposto la politica del figlio unico, e la povertà estrema delle campagne (dove infatti si verifica la maggior parte dei suicidi, in prevalenza tra donne, totalmente subalterne agli uomini e senza relazioni sociali, a volte neppure registrate all’anagrafe).

In Cina, i bambini hanno vita dura, con pressioni e obiettivi da raggiungere, tantissime ore di lezione, un enorme carico di compiti, poco spazio per il gioco e la creatività. Spremuti come limoni, considerati “adulti piccoli” e degni di attenzione solo se in grado di emergere e farsi strada, vittime di una cultura conformista che non lascia spazio alle esigenze dell’individuo.

Ma in fondo non è quanto accade anche in Occidente? Pensiamoci. Ritmi serrati, conformismo, bambini delle elementari a scuola fino alle 16,30 e poi i compiti da fare, corsi vari e attività sportive, affannati, stressati e di corsa da una parte all’altra dietro a genitori malati di efficientismo, che se si fermano a guardare un film o se vanno a dormire senza aver lavato i piatti si sentono a disagio, inadeguati, falliti.

Mentre ci circondiamo di oggetti e attività, perdiamo la consapevolezza che abbiamo della nostra vita e blindiamo le nostre case con muri, porte e sbarre di ferro. “Nel Medioevo – ha detto recentemente il cardinale salesiano honduregno Oscar Maradiaga – le città avevano alte mura per proteggersi dalle invasioni dei barbari. Oggi le città sono circondate da mura psichiche di incomunicabilità nell’era in cui paradossalmente esistono le comunicazioni migliori. In particolare molti giovani hanno scelto di non comunicare attraverso i mezzi di comunicazione. Conosco casi in cui in una famiglia i figli comunicano con i genitori attraverso il computer o messaggi sul cellulare. Non hanno tempo di sedersi e dialogare. Assistiamo allora alla globalizzazione dello stress, della depressione, della crisi, del suicidio e del vuoto esistenziale”.

“La vita non è qualcosa, ma è sempre, semplicemente, l’occasione per qualcosa”, diceva lo psichiatra austriaco Frankl. Chiudiamo allora con la lettera di una ragazza pescata nel mare di Internet: “Ankio pensavo ke avevo 1 carattere forte e invece sn fragile, solo adesso stanno venendo a galla le mie paure, ansie, speranze, problemi. Questa nn è assolutamente una cosa da sottovalutare. Mi sento sola, sempre, nonostante tutti vogliano diventare miei amici e tutti vogliano fidanzarsi cn me. Mi sento terribilmente sola… Avverto sl la falsità della gente, in tutto c’è un velo di ipocrisia. X me l’amicizia nn conta + nulla xkè oramai ho avuto sempre e solo delusioni e chissà se 1 giorno avrò una vera amica”. “E mi ritrovo sola – ripete – xkè sn io ke già dal primo momento li allontano. Ed ecco ke divento cm loro, gioco il loro stesso gioco, divento falsa e mi faccio skifo. In quel momento vorrei morire, mi tengo sempre tutto dentro e qualke volta mi incazzo x una sciocchezza e inizio a piangere a più nn posso, cado nel buio + profondo. Ovviamente poi nn ho nessuno cn cui confidarmi e sto male. Poi mi ripeto ke esistono cose peggiori nella vita, ke devo fregarmene xkè la vita è una sola, ke ci sono persone in fin di vita ke vorrebbero vivere, ma cm faccio a vivere se nn credo + a niente? Forse è sl un periodo e ne uscirò fuori ma cn l’aiuto di chi? Tutto passa ma riuscirò da sola ad alzarmi…ho paura”.

Musica e Dio / 4

Jovanotti si rivolge a un Dio dell’universo col quale ha perso il contatto che un tempo aveva (“non sa neanche più parlare con te”). Vive una religiosità pluralista formata da un mix di diverse forme religiose (cristianesimo, buddhismo, islamismo, animismo) che professano una rivelazione divina che si esplicita nelle forme creaturali e umane. E’ un Dio che deve ascoltare, proteggere e illuminare il cammino dell’uomo quando esso si fa buio. E’ un Dio che viene comunque cercato e non atteso (“il lato buono delle cose, … in zone pericolose, ai margini di ciò che è comprensione, di ciò che è conformismo, di ogni moralismo”). E’ un Dio che ascolta l’uomo anche se a volte non sembra. L’ultima strofa della canzone sembra mettere da parte Dio per parlare di un mondo interculturale e di una natura protagonista della storia.

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Questa è la mia casa     
O Signore dell’universo ascolta questo figlio disperso, che ha perso il filo e che non sa dov’è e che non sa neanche più parlare con te. Ho un Cristo che pende sopra il mio cuscino e un Buddha sereno sopra il comodino, conosco a memoria il Cantico delle Creature grandissimo rispetto per le mille Sure del Corano c’ho pure un talismano che me l’ha regalato il mio fratello africano, e io lo so che tu da qualche parte ti riveli, che non sei solamente chiuso dietro ai cieli e nelle rappresentazioni umane di te. A volte io ti vedo in tutto quello che c’è e giro per il mondo tra i miei alti e bassi, e come Pollicino lascio dietro dei sassi sui miei passi per non dimenticare la strada che ho percorso fino ad arrivare qua. E ora dove si va, adesso si riparte per un’altra città.  Voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa dove posso stare in pace. Io voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace. Io voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace con te, in pace con te.  O Signore dei viaggiatori, ascolta questo figlio immerso nei colori, che crede che la luce sia sempre una sola, che si distende sulle cose e le colora di rosso, di blu, di giallo e di vita dalle tonalità di varietà infinita. Ascoltami, proteggimi ed il cammino quando è buio illuminami. Sono qua, in giro per la città, e provo con impegno a interpretare la realtà cercando il lato buono delle cose, cercandoti in zone pericolose, ai margini di ciò che è comprensione, di ciò che è conformismo, di ogni moralismo, ie ie. E il mondo mi assomiglia nelle sue contraddizioni, mi specchio nelle situazioni, e poi ti prego di rivelarti sempre in ciò che vedo. Io so che tu mi ascolti, anche se a volte non ci credo.  Voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa dove posso stare in pace. Io voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace con te, in pace con te, in pace con te, in pace con te.  O Signore della mattina che bussa sulle palpebre quando mi sveglio, mi giro e mi rigiro sopra il mio giaciglio e poi faccio entrare il mondo dentro me e dentro al mondo entro fino a notte. Barriere, confini, paure e serrature, cancelli, dogane e facce scure. Sono arrivato qua attraverso mille incroci, di uomini, di donne, di occhi e di voci. Il gallo che canta e la città si sveglia ed un pensiero vola giù alla mia famiglia, e poi si allarga fino al mondo intero e vola su, su in alto fino al cielo. E il Sole, la Luna e Marte e Giove, Saturno coi satelliti e poi le stelle nuove, e quelle anziane piene di memoria, che con la loro luce hanno fatto la storia, storia. Tutta l’energia che c’è nell’aria. Questa è la mia casa, la casa dov’è? La casa è dove posso portar pace. Questa è la mia casa, la casa dov’è? La casa è dove posso portar pace. Questa è la mia casa, la casa dov’è? La casa è dove posso portar pace. Io voglio andare a casa, la casa dov’è? La casa è dove posso stare in pace con te, in pace con te. Questa è la mia casa…

Passione, morte e risurrezione

Ecco una sintesi (+ o -) degli ultimi eventi della vita di Gesù di Nazareth, presi da una vecchia enciclopedia di Jesus.

Passione, morte e risurrezione.doc

Quintini 2 (e direi pure quartini!)

L’altro giorno ho pubblicato un post sull’ammissione all’esame di stato. Oggi vi metto qui sotto l’opinione di Roberto Pasolini, Preside del Liceo europeo Leopardi di Milano. Che ne pensate?

La presentazione dello schema di Regolamento concernente il “Coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni” approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 13 marzo ha suscitato le inevitabili reazioni ed i commenti che usualmente, da anni, incontra ogni provvedimento del Ministero quando propone modifiche all’esistente.

Oltre ad un apprezzamento per la chiarezza del testo (non usuale nei testi normativi), per la volontà di uniformare i criteri di valutazione nei diversi ordini di studio, per aver risolto brillantemente il modo in cui il comportamento “concorre” alla valutazione complessiva e per il rigore normativo, ritengo che la lettura di questo documento dovrebbe essere basata su tre considerazioni fondamentali: serietà degli studi, modalità di valutazione, tempi di attuazione.

Da tempo ogni analisi sul nostro sistema scolastico, sul livello degli apprendimenti dei nostri studenti e sulla responsabilità con la quale affrontano gli studi ha un denominatore comune: occorre ridare serietà al sistema migliorando il livello degli apprendimenti ed aumentando le pretese di studio.

Quando il ministro Fioroni ha deciso l’abolizione del sistema dei debiti formativi introdotto dall’allora Ministro D’Onofrio, ha avuto, sul concetto, un plauso generale e traversale che comprendeva docenti, dirigenti scolastici e famiglie. Il Ministro Gelmini ha proseguito su questa strada chiedendo a docenti e studenti di portare la scuola verso una maggior serietà introducendo anche la richiesta di tornare alla pretesa di un corretto comportamento e che la sua valutazione concorresse sul giudizio espresso nello scrutinio finale, ottenendo a sua volta un plauso ed un consenso “bulgaro”.

In questo contesto la decisione di pretendere la sufficienza in ciascuna disciplina o gruppi di discipline per decidere promozioni ed ammissioni, mi sembra una conseguenza logica ai principi espressi e condivisi, come sopra enunciato. Perché non accettarlo?

In secondo luogo, ritengo occorra introdurre un approfondimento sulle modalità di valutazione. La normativa relativa a questo punto ha sempre dato indicazioni precise ai docenti. Se rileggiamo (senza andar troppo lontano) l’OM 90 del 2001 o l’OM 92 del 2007 troviamo le radici di quanto espresso anche in questo schema di regolamento: «la valutazione ha per oggetto il processo di apprendimento, il comportamento e il rendimento scolastico complessivo degli alunni. La valutazione concorre, con la sua finalità anche formativa e attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze di ciascun alunno, ai processi di autovalutazione degli alunni medesimi, al miglioramento dei livelli di conoscenza e al successo formativo». Di fatto partecipazione, attenzione, diligenza, frequenza, miglioramento disciplinare sono elementi di cui ogni docente dovrebbe tener conto per una sua valutazione finale e dovrebbero concorrere, come hanno sempre concorso, a presentare con una sufficienza gli studenti che sulla base della “mera media” non lo sono ancora (ha senso basarsi solo su un 5,71?). Su questi stimoli occorrerà lavorare affinché gli studenti non si demotivino e sappiano che i loro docenti, con un’opera formativa, sapranno tener conto dei loro positivi sforzi e della loro volontà di miglioramento che si è concretizzata in un rendimento più buono.

La terza parte del mio intervento si riferisce ai tempi. Nella scuola vigeva la consuetudine che modifiche normative avevano immediata applicazione se emanate entro il 31 dicembre (mi sono confrontato e non è solo nella mia memoria), altrimenti entravano in vigore dall’anno scolastico successivo con l’intento di “non cambiare le regole del gioco a gioco in corso”. Per questo ritengo che il Ministro possa fare una riflessione basata sullo stesso principio che l’ha spinta a far slittare di un anno l’avvio della riforma della scuola secondaria di II grado e procedere a far spostare di un anno l’applicazione per l’ammissione all’esame di stato. Ritengo che una decisione in tal senso sarebbe accolta con un altro plauso, ma soprattutto permetterebbe di rivedere la normativa complessiva delle ammissioni all’esame di stato, razionalizzandola in una logica di equità.

Bere in Friuli

Il 21 luglio 2008 su Repubblica è uscito questo durissimo articolo sul consumo di alcol in Friuli Venezia Giulia. Visto che ne stiamo parlando in II, ve lo ripropongo: da brividi!

Gorizia – Il taxi bianco è vuoto, ma non libero. Sei bottiglie sono accomodate sul sedile posteriore, di pelle nera. Ogni mattina la dose di rosso «della signora» lascia la cantina di Gradisca d’Isonzo. Il viaggio è breve. Discretamente il Refosco raggiunge la grande dimora in via dei Faiti, a Gorizia. Maria Cristina scende nel giardino mite della villa, profumato di magnolie, riceve l’ospite clandestino e si ritira in camera. Sempre a letto, con un segreto. Nessuno l’ha mai vista bere. Il marito, il figlio, di sera osservano i suoi occhi liquidi. Tentano l’alito fermentato. Tacciono. «Sono ricaduta per un bicchiere – dice – dopo 18 anni che non toccavo un goccio». L’ospedale di Monfalcone è a mezz’ora. Hanno salvato un neonato di 54 giorni. Sembrava addormentato, eternamente. Le analisi hanno scoperto che, per arrestarne il pianto, la madre mesceva del Verduzzo nel biberon. Anche a Udine i medici affrontano un nemico nuovo: coma etilico a 9 anni. Come al «Burlo Garofalo» di Trieste: l’intossicazione infantile da alcol ha conquistato la vetta tra le cause di ricovero. Una statistica impotente, rispetto al destino di un infermiere di Pordenone. Brandiva il bisturi contro chiunque gli contendesse il whisky infilato nello scaffale delle garze. Ha ricominciato per festeggiare il terzo figlio. E’ morto ieri, con il bambino in braccio. Il dramma negato del Nordest, epicentro di una sommersa tragedia nazionale, esplode in Friuli Venezia Giulia. Trent’anni fa, tra queste vigne benedette dalla provvidenza, Renzo Buttolo ha fondato l’alcologia italiana. Negli stessi giorni, da Udine, Vladimir Hudolin iniziava a seminare nel Paese i club degli alcolisti in trattamento. Gli ubriachi, grazie al triestino Franco Basaglia, non sono stati più inghiottiti in un manicomio. Non è un caso però, è evidente, se oggi Francesco Piani, responsabile del Sert Medio Friuli, guida la commissione delle regioni italiane finalmente decise a lottare contro il killer di Stato che sta bruciando una generazione. «In Italia la droga ogni anno uccide meno di mille persone – dice – mentre l’alcol ne miete 34 mila. La metà di incidenti stradali, infortuni sul lavoro e domestici, è riconducibile al bicchiere. Se qualsiasi altra sostanza facesse una simile strage, sarebbe proclamato il coprifuoco. E’ tempo di capire perché non succede: e di dirci la verità». La realtà, ostinatamente nascosta per interesse e per vergogna, è questa: l’ Italia, sempre più povera, delusa e priva di speranza, si dà al bere. In Friuli, nel Nordest e nel Paese, l’alcol sta sostituendo le altre droghe. è la terza causa di morte, la prima per i ragazzi tra 18 e 25 anni. Ne assorbiamo 58 ettolitri all’anno. Sette italiani su dieci sono grandi consumatori. Venti bambini su cento iniziano a bere tra gli 11 e i 15 anni. Ogni anno, a causa dell’alcol, muoiono sul lavoro 750 persone. La metà dei morti sulla strada va ricondotta alla bottiglia. Le vittime, solo in Friuli, nel 2007 sono state 1500. Insufficienti i controlli. Gli alcoltest, in Italia, sono 400 mila all’anno: 10 milioni in Francia. La probabilità è di essere fermati una volta ogni due vite. Sei persone su dieci, nel Nordest, consumano quotidianamente alcol lontano dai pasti. Gli italiani colpiti da gravi disturbi sono 12 milioni: 14 mila in cura nella regione friulana. Le cifre, dal 2002, si moltiplicano vertiginosamente. I giovani alcolisti, nel Paese, sono ormai 1 milione e 300 mila. Quattro decessi su dieci, negli ospedali, sono dovuti all’eccesso di alcol: 44 mila, negli ultimi tre anni, i ricoverati in Friuli. “Un trapiantato di fegato – dice Paolo Cimarosti, tossicologo di Pordenone – costa 300 mila euro. Ogni anno almeno 300 interventi sono dovuti all’alcol. Eppure scrivere che un paziente è alcolista, resta un tabù. Scorro cartelle dove si parla ancora di “epatopatia cronica nutrizionale”, invece che di “cirrosi epatica alcolica”. Intanto scoppia la bomba dello “sballo da week-end”. Nel Triveneto, ossessionato da lavoro, ronde xenofobe e neo-precarietà, è uno choc. Il 10% dei teenager si ubriaca almeno una volta alla settimana. Il 74% si abbandona al “binge drinking”: oltre sei bicchieri in poche ore con l’obbiettivo esclusivo di andare fuori di testa. Quanto c’è, da dimenticare? In tre anni il fenomeno è triplicato e ormai colpisce anche sette ragazze su dieci. Il record è in Friuli Venezia Giulia: il 14,2% della popolazione, sotto i 24 anni, eccede con l’alcol lontano da casa e più di due volte alla settimana. Tra vino, birra, superalcolici e alcolpops, le nuove bibite gassate a bassa gradazione, si spendono 129 mila euro al giorno: poco meno di 6 mila, negli ultimi 3 anni, le vittime. “I dati – dice Valentino Patussi, responsabile della medicina del lavoro a Trieste – sono ancora incompleti. Dal 2003 il cambiamento è travolgente. In fabbriche e cantieri iniziamo a scoprire che il 51% degli infortunati ha tracce di alcol nel sangue. La maggioranza dei vecchi fratturati in casa, o per strada, cade perché ha bevuto troppo. Avanza uno spaventoso alcolismo senile da solitudine, mentre un giovane su due deve il ricovero alla bottiglia. Dobbiamo ammettere che il problema è stato drammaticamente sottovalutato”. “Crociate, demonizzazioni, proibizionismo e moralismi – dice Bernardo Cattarinussi, sociologo dell’università di Udine – non danno risultati. Siamo però di fronte ad un’emergenza senza precedenti: chiederci perché la società italiana si suicida con l’alcol, perché gli adulti considerano i giovani un mercato da sfruttare ad ogni costo, è un dovere”. Lo spettacolo, vagando al tramonto tra la baia di Sistiana a Trieste e gli happy hours offerti dai caffè su piazza Matteotti a Udine, è impressionante. Finito il lavoro, si vive con il cocktail in mano. Una tempesta alcolica: sagre del vino, feste della birra, cantine aperte, serate del prosecco, rave party, drive-beer, pub che promuovono il “drink as you like”, o il “paghi uno e bevi tre”. Al ristorante il cameriere ti riceve solo con lo spumante in mano. Migliaia di adolescenti e di adulti svuotano calici colmi di ghiaccio, alcolici fosforescenti e mix a base di vodka e taurina. Una comunità impegnata, pubblicamente, ad anestetizzare una paura misteriosa con un’autoprodotta droga legale. Sottrarsi al rito costa imbarazzo e diffonde uno stupore ilare. “Per restare nel gruppo – dice Andrea, 36 anni, agricoltore di Duino – in due anni sono arrivato a bere 5 litri di vino al giorno, o 40 bicchieri di superalcolici. Un professionista. Scambiavo i miei incubi, fuochi e serpenti, con la realtà. Cercavo di uccidere l’ansia, di arrivare in cima al dolore: non ci sono mai riuscito”. Medici e psichiatri puntano il dito contro l’ipocrisia delle leggi. In Italia, ai minori di 16 anni, è vietata la somministrazione di alcol, ma non la vendita. Un’assurdità controproducente: ciò che è consentito alla commessa, a prezzo di paghetta, è precluso al barista, ad un costo da stipendio. Le aziende, a differenza della maggioranza dei Paesi europei, possono fare pubblicità. Sulle bottiglie non si scrive che l’eccesso “nuoce gravemente alla salute”, come sulle confezioni del tabacco. Negli uffici pubblici, ospedali compresi, il fumo è vietato ma l’alcol è a portata di mano: non si può acquistare, ma “assumere” sì. Concerti rock, mostre d’arte ed eventi sportivi sono sponsorizzati dalle industrie degli spiriti. La televisione martella con gli spot che spiegano come l’alcol sia il sigillo di successo, ricchezza, amore. Lo Stato, per contrastare ufficialmente l’alcolismo, investe gli spiccioli delle imposte sugli alcolici. Nessun ticket aggiuntivo, per gli alcolisti. Il licenziamento per giusta causa o le ferie forzate, se uno lavora nonostante la sbronza, sono vietati. Solo a Pordenone, da due anni, sindacati e imprese collaborano per un accordo anti-alcol sul lavoro. In autunno la Regione potrebbe essere la prima ad approvare un piano contro l’alcol alla guida e nei luoghi di lavoro. “L’82% delle persone con gravi problemi legati all’alcol – dice Rosanna Purich, psicoterapeuta del centro di alcologia di Trieste – considera però il proprio comportamento normale. Nelle scuole, medie e superiori, la bevanda preferita è il “Bacardi Breezer”, seguita dal “Campari Mixx”. Non si capisce più la differenza tra un’aranciata e una grappa. Siamo al killeraggio dell’offerta-studenti: come se uno che per divertirsi è obbligato a ubriacarsi, fosse normale”. Friuli e Venezia Giulia non sono l’epicentro della crisi di una nuova società “costretta all’alcolismo per restare in corsa”. Sono però, assieme a Veneto, Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna, la sconcertante punta dell’iceberg di un’emergenza nazionale prossima all’esplosione. L’allarme unisce medici, psichiatri e sociologi: l’Italia è alcolizzata perché è malata e soffre perché non crede più nei valori civili espressi dalla sua classe dirigente. “Dopo vent’anni di veti – dice la responsabile del Sert di Trieste, Roberta Balestra – in ottobre si terrà la prima conferenza nazionale sull’alcol. Per approvare la prima e inadeguata legge contro l’alcolismo, nel 2001, c’ è voluto mezzo secolo. Si insegna a “bere bene”, invece che a “bere meno”. Si tuona contro la “velocità assassina”, invece che contro la “bottiglia omicida”. Piuttosto che chiarire la causa, si criminalizza l’effetto. Nel frattempo le strutture che combattono l’alcolismo sono lasciate senza soldi e i servizi, senza personale, e chiudono”. A far riflettere, la diversa considerazione tra alcol e droga. Il primo è legale, tollerato e promosso. La seconda è illegale, demonizzata e rimossa. “La bottiglia – dice lo scrittore triestino Mauro Covacich – non richiede pusher. Anche un bambino può portarsela in giro e tracannare whisky alle feste di compleanno. Un litro di vodka costa pochi euro, non come una dose di coca. Lo trovi vicino alle patatine e nessuno ti sbatte dentro. Al Nord l’alcol è ormai l’ultimo collante della comunità dei normali che studiano, lavorano e producono: il loro estremo e tragico anestetico sociale”. Davanti alla strage in Friuli, timidamente e per la prima volta, si comincia così a discutere. La domanda è: se l’Italia non fosse uno dei principali produttori di vini pregiati e distillati di qualità, si userebbe il termine droga anche per l’alcol? Si chiamerebbe tossicodipendente anche un alcolizzato? Si definirebbe overdose una sbornia? “La differenza – dice l’alcologo giuliano Salvatore Ticali – in effetti non c’è. Se l’alcol dovesse essere iniettato con la siringa, o dovessimo importarlo, sarebbe vietato da anni. E’ chiaro che la pressione dei produttori italiani è decisiva. Si è iniziato a parlare di una legge contro l’alcol negli anni Settanta: in parlamento piovvero 800 emendamenti per bloccarla. In regione, anche alle ultime elezioni, si sono svolti comizi offrendo da bere gratis. Oggi chi nega che l’alcol sia una droga, deve assumersi le proprie, pesantissime, responsabilità. Il mondo politico, riluttante a informare e a investire nella prevenzione, rischia di macchiarsi di una storica omissione”. Non che, in termini assoluti, il consumo sia aumentato. Il problema è il suo devastante cambiamento. Si beve dalla prima adolescenza, con l’obbiettivo di ubriacarsi, per non essere diversi ma puntando ad isolarsi. “Esordienti dell’alcol – dice Anna Peris, responsabile regionale della direzione salute – ma con l’atteggiamento del vecchio alcolizzato. Nessuno li informa che bere sotto i 16 anni quadruplica le probabilità di ritrovarsi alcolizzati dopo i 21”. Si sballa più volte alla settimana e con bevande dolci in cui l’alcol è scientificamente nascosto. Così le femmine, da un paio d’anni, consumano quasi le stesse dosi di alcol dei maschi. Gli anziani, con pensioni da fame, abbandonati o nelle mani delle badanti, adottano la bottiglia quale alternativa all’eutanasia. “Uno scandalo – dice Anna Muran, medico dell’Asl di Trieste – misconosciuto. Le chiamate, dalle case di riposo, aumentano ogni giorno: c’è chi baratta la bistecca con lo spriz”. Tra Sauris e Ravascletto, nelle montagne della Carnia e tra i colli di San Daniele, i frequentatori degli alcolisti anonimi e di quelli in trattamento, superano pompieri volontari, ex alpini e parrocchiani. Un esercito: 250 tra gruppi e club, 3500 in cura, 358 associazioni mobilitate, centinaia di degenti e migliaia di curanti. Eppure, vicino alle discoteche, aprono i chioschi che possono vendere alcol anche ai ragazzini e dopo le 2 di notte. “Dal barbone sulla panchina – dice Franco Boschian, presidente dell’Acat di Udine – siamo però passati all’avvocato nel wine-bar. Gli alcolisti in trattamento non sono emarginati, ma persone normali: vescovi, generali, bambini, manager, medici, operai, preti, politici, mamme, studenti. Ricchi o miserabili, sono afflitti da un incubo comune: rivelare il loro stato ai conoscenti. Nelle serate degli incontri, tra province e città diverse, le colonne di auto sono sempre più lunghe”. Pino Roveredo, scrittore triestino di essenziale poesia, è tra i pochi che resistono. “Ho iniziato a 15 anni – dice – e a 17 ero in galera. Mi hanno definito “irrecuperabile”. Invece la scrittura è stata più forte della paura di vivere e mi ha salvato. Non mi impressiona l’alcolismo, ma la noia disperata che oggi lo alimenta. I ragazzi non vogliono più sentire i morsi dell’esistenza. Possibile che una simile emergenza non sia in cima all’agenda di un governo che trova il tempo di prendere le impronte a una manciata di zingari? L’accettazione sociale dell’alcol, in Italia, è incredibile”. E’ una notte marina e sugli spettri umani del centro alcologico residenziale, nel parco di San Giovanni a Trieste, soffia il vento che arriva dall’ex Jugoslavia. Ogni annullato è un reduce, un morto sopravvissuto a un lutto ideologico, culturale, o affettivo. Dino e Maura fumano. Siedono fuori dall’ingresso, sotto l’ombrello di quattro pini. “Ho bevuto per protesta – dice lei – mi sono fidata degli Intillimani”. Lui dice che ci è caduto “per non salire alla risiera di San Sabba, con il vino nelle vene per guardare nel fondo della fessura che ha inghiottito due millenni”. L’Italia che ha superato il Novecento e il Nordest che si cancella brindando all’incubo del suo ritorno: riflessi assieme, fiasco contro flut, in un doppio specchio. – GIAMPAOLO VISETTI

Trapianti

In IV stiamo finendo di parlare dei trapianti e allora vi metto un po’ di materiale utile, che in parte abbiamo già visto in classe:

  1. un manuale completo in modo che possiate sapere praticamente tutto
  2. un file sull’atteggiamento molto generale delle diverse religioni
  3. un articolo preso da L’espresso sul commercio di organi in Nepal e India
  4. un articolo preso da Internazionale sugli xenotrapianti

manuale.pdf

Trapianti e religioni.doc

Ho comprato un rene in Nepal.doc

Xenotrapianti (da Internazionale).doc

La felicità di un anonimo

E crescendo impari che la felicità non è quella delle grandi cose.

Non è quella che si insegue a vent’anni, quando, come gladiatori si combatte il mondo per uscirne

vittoriosi…

La felicità non è quella che affannosamente si insegue credendo che l’amore sia tutto o niente,…

non è quella delle emozioni forti che fanno il “botto” e che esplodono fuori con tuoni spettacolari…,

la felicità non è quella di grattacieli da scalare, di sfide da vincere mettendosi continuamente alla prova.

Crescendo impari che la felicità è fatta di cose piccole ma preziose….

…e impari che il profumo del caffè al mattino è un piccolo rituale di felicità, che bastano le note di una

canzone, le sensazioni di un libro dai colori che scaldano il cuore, che bastano gli aromi di una cucina, la

poesia dei pittori della felicità, che basta il muso del tuo gatto o del tuo cane per sentire una felicità lieve.

E impari che la felicità è fatta di emozioni in punta di piedi, di piccole esplosioni che in sordina allargano il

cuore, che le stelle ti possono commuovere e il sole far brillare gli occhi,

e impari che un campo di girasoli sa illuminarti il volto, che il profumo della primavera ti sveglia dall’inverno,

e che sederti a leggere all’ombra di un albero rilassa e libera i pensieri.

E impari che l’amore è fatto di sensazioni delicate, di piccole scintille allo stomaco, di presenze vicine anche

se lontane, e impari che il tempo si dilata e che quei 5 minuti sono preziosi e lunghi più di tante ore,

e impari che basta chiudere gli occhi, accendere i sensi, sfornellare in cucina, leggere una poesia, scrivere su

un libro o guardare una foto per annullare il tempo e le distanze ed essere con chi ami.

E impari che sentire una voce al telefono, ricevere un messaggio inaspettato, sono piccolo attimi felici.

E impari ad avere, nel cassetto e nel cuore, sogni piccoli ma preziosi.

E impari che tenere in braccio un bimbo è una deliziosa felicità.

E impari che i regali più grandi sono quelli che parlano delle persone che ami…

E impari che c’è felicità anche in quella urgenza di scrivere su un foglio i tuoi pensieri, che c’è qualcosa di

amaramente felice anche nella malinconia.

E impari che nonostante le tue difese,

nonostante il tuo volere o il tuo destino,

in ogni gabbiano che vola c’è nel cuore un piccolo-grande Jonathan Livingston.

E impari quanto sia bella e grandiosa la semplicità.

Anonimo

La Rosa di Emil

Venerdì 27 marzo 2009 alle 21.00 al Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” si terrà “La Rosa di Emil”, serata alla quale parteciperà anche il coro della nostra scuola. Qui sotto altre informazioni

“La Rosa di Emil”

Venerdì 27 Marzo 2009

UDINE

Teatro Nuovo “Giovanni da Udine”

La serata, fa parte di una serie di progetti pianificati in occasione del 25° anno di attività dell’Associazione. Il filo conduttore comune di questi progetti è il concetto della solidarietà e del dono di se stessi attraverso la donazione del sangue, del midollo osseo e del sangue del cordone ombelicale. Il percorso di sensibilizzazione è rivolto in particolar modo ai giovani e mira a suggerire stili di vita sani e corretti anche al fine di preservare ciò che in noi può essere di importanza vitale per gli altri.

I protagonisti della Rosa di Emil saranno gruppi di studenti di alcuni licei udinesi e, precisamente, del liceo scientifico “Marinelli”, coordinati dalla professoressa Chiara Vidoni, del liceo pedagogico “Percoto”, diretti dalla professoressa Simonetta Fabro e del liceo classico “Stellini”, diretti dai musicisti Sarah Anania, Angela Caporale e Stefano Mesaglio, i quali si esibiranno in cori e orchestra. La recitazione è, invece, affidata a Erik Pagnutti, uno studente dell’Istituto d’Arte “Sello”, che è anche animatore.

Il repertorio musicale e quello teatrale si alterneranno creando un intreccio di monologhi, canto e musica di elevato spessore qualitativo ed emotivamente coinvolgenti. Allo spettacolo contribuiranno, a titolo gratuito, la giovanissima pianista Alice Moretti, studentessa dello “Stellini”, il direttore Alessandro Pozzetto, il maestro Rudy Fantin e, con una sua performance, il jazzista di fama internazionale Daniele D’Agaro. Saranno presenti inoltre personaggi del mondo dello spettacolo, di quello scientifico e dell’informazione. Introdurrà e concluderà la manifestazione Daniele Damele.

Rosa si apre agli altri in un’ottica di dono, dona una parte di sé e diventa ogni giorno più ricca, di una ricchezza che si alimenta e si rigenera continuamente. Rosa è una persona come tante, che trova in sé la forza di ridere e far ridere in situazioni che sembrano le più lontane dalla gioia. Sono proprio queste situazioni che fanno scaturire in lei risorse che non avrebbe mai pensato di possedere, dando un significato nuovo ed autentico alla sua vita. Attraverso le parole del giovane Emil, noi potremo conoscerla, rivivere alcuni momenti della sua singolare storia, significatamene felici o, talvolta, connotati dalla tragedia umana, in un’alternanza di sentimenti ed emozioni che ci porteranno ad un profondo confronto con noi stessi e l’altro…

Con questa serata, l’A.G.M.E.N. – F.V.G. rende inoltre omaggio a tutto quel volontariato silenzioso che sostiene ed aiuta gli altri nelle situazioni più difficili.

I biglietti gratuiti per la partecipazione alla serata vanno ritirati alla biglietteria del Teatro Giovanni da Udine a partire da lunedì 9 marzo (ore 16.00- 19.00 dal lunedì al sabato).

Organizzato da:

Associazione Genitori Malati Emopatici Neoplastici del F.V.G.

040 764441 – agmen@burlo.trieste.it

Ginetta Pozzoli (referente del progetto)

348 7936562 – ginnypozz@libero.it

Sito web: www.agmen-fvg.org

Quintini!!!

Carissimi studenti del 5° anno non voglio generare in voi particolari allarmismi, ma certo non voglio nascondervi quello che sta succedendo. Il 13 marzo (non sono scaramantico, ma…) è stato emanato lo schema di Regolamento concernente il “Coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni” approvato in mattinata dal Consiglio dei ministri (è l’unico testo in bozza che compare sul sito del MIUR). Lo schema non è definitivo, ma a mio avviso è bene che, nel malaugurato caso fosse approvato così come appare, siate pronti a reggere la botta.

All’art. 6 comma 1, che riguarda l’ammissione all’esame conclusivo del secondo ciclo di istruzione (il cosiddetto “esame di maturità“), sta scritto: «Gli alunni che, nello scrutinio finale, conseguono una votazione non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline … e un voto di comportamento non inferiore a sei decimi sono ammessi all’esame di stato».

Questa disposizione modifica radicalmente l’art. 1 comma 3 del D.M. n. 42 del 22 maggio 2007 che recita: «A decorrere dall’anno scolastico 2008/2009 (quest’anno!!), ai fini dell’ammissione all’esame di Stato sono valutati positivamente nello scrutinio finale gli alunni che conseguono la media del “sei”».

Ripeto: il regolamento non è ancora definitivo, ma le antenne vanno tenute ben dritte…

A 15 anni dalla morte di don Peppino

Quindici anni fa, la mattina del 19 marzo 1994, a Casal di Principe, in provincia di Caserta, i sicari della camorra uccisero don Giuseppe Diana. Pubblico questo articolo scritto da Roberto Saviano su Repubblica.

La mattina del 19 marzo del 1994 don Peppino era nella chiesa di San Nicola, a Casal di Principe. Era il suo onomastico. Non si era ancora vestito con gli abiti talari, stava nella sala riunioni vicino allo studio. Entrarono in chiesa, senza far rimbombare i passi nella navata, non vedendo un uomo vestito da prete, titubarono.

Chi è Don Peppino?

Sono io…

Poi gli puntarono la pistola semiautomatica in faccia. Cinque colpi: due lo colpirono al volto, gli altri bucarono la testa, il collo e la mano. Don Peppino Diana aveva 36 anni. Io ne avevo 15 e la morte di quel prete mi sembrava riguardare il mondo degli adulti. Mi ferì ma come qualcosa che con me non aveva relazione. Oggi mi ritrovo ad essere quasi un suo coetaneo. Per la prima volta vedo don Peppino come un uomo che aveva deciso di rimanere fermo dinanzi a quel che vedeva, che voleva resistere e opporsi, perché non sarebbe stato in grado di fare un’altra scelta.

Dopo la sua morte si tentò in ogni modo di infangarlo.

Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan. Appena muori in terra di camorra, l’innocenza è un’ipotesi lontana, l’ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. Persino quando ti ammazzano, basta un sospetto, una voce diffamatoria, che le agenzie di stampa non battono neanche la notizia dell’esecuzione. Così distruggere l’immagine di don Peppino Diana è stata una strategia fondamentale. Don Diana era un camorrista titolò il Corriere di Caserta. Pochi giorni dopo un altro titolo diffamatorio: Don Diana a letto con due donne.

Il messaggio era chiaro: nessuno è veramente schierato contro il sistema. Chi lo fa ha sempre un interesse personale, una bega, una questione privata avvolta nello stesso lerciume. Don Peppino fu difeso da pochi cronisti coraggiosi, da Raffaele Sardo a Conchita Sannino, da Rosaria Capacchione, Gigi Di Fiore, Enzo Palmesano e pochi altri. Ricordarlo oggi – a 15 anni dalla morte – significa quindi aver sconfitto una coltre di persone e gruppi che pretendevano di avere il monopolio sulle informazioni di camorra, in modo da poterle controllare. Ricordarlo è la dimostrazione che anche questa terra può essere raccontata in modo diverso da come è successo per lungo tempo. Come dice Renato Natale, ex sindaco di Casal di Principe e amico di don Peppe, “è sempre complicato accettare l’eroismo di chi ci sta vicino, perché questo sottolineerebbe la nostra ignavia”. Don Peppino fu ucciso nel momento in cui Francesco Schiavone Sandokan era latitante, mentre i grandi gruppi dei Casalesi erano in guerra e i grandi affari del cemento e dei rifiuti divenivano le nuove frontiere dei loro imperi. Don Peppino non voleva fare il prete che accompagna le bare dei ragazzi soldato massacrati dicendo “fatevi coraggio” alle madri in nero. A condannarlo fu ciò che aveva scritto e predicato. In chiesa, la domenica, tra le persone, in piazza, tra gli scout, durante i matrimoni. E soprattutto il documento scritto assieme ad altri sacerdoti: “Per amore del mio popolo non tacerò”. Distribuì quel documento il giorno di Natale del 1991. Bisognava riformare le anime della terra in cui gli era toccato nascere, cercare di aprire una strada trasversale ai poteri, l’unica in grado di mettere in crisi l’autorità economica e criminale delle famiglie di camorra.

“Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della Camorra. – scriveva – La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone con violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario, traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti…”.

La cosa incredibile è che quel prete ucciso, malgrado tutto, continuò a far paura anche da morto. Le fazioni in lotta di Sandokan e di Nunzio di Falco cominciarono a rinfacciarsi reciprocamente la colpa del suo sangue, proponendo di testimoniare la loro estraneità a modo loro: impegnandosi a fare a pezzi i presunti esecutori della banda avversaria. Oltre a cercare di diffamare Don Peppino, dovevano cercare di lanciarsi dei messaggi scritti con la carne, per togliersi di dosso il peso dell’uccisione di quell’uomo. Così come era stato difficile trovare i killer disposti a farlo fuori. Uno si ritirò dicendo che a Casale lo conoscevano in troppi, un altro accettò ma a condizione partecipasse pure un suo amico, come un bambino che non ha il coraggio di fare da solo una bravata. Nel corso della notte prima dell’agguato, uno dei killer tormentati riuscì a convincere un altro a rimpiazzarlo, ma il sostituto, l’unico che non sembrava volersi tirare indietro, era l’esecutore meno adatto. Soffriva di epilessia e dopo aver sparato rischiava cadere a terra in convulsioni, crisi, bava alla bocca. Con questi uomini, con questi mezzi, con queste armi fu ucciso Don Peppino, un uomo che aveva lottato solo con la sua parola e che rivoluzionò il metodo della missione pastorale. Girava per il paese in jeans, non orecchiava le beghe delle famiglie, non disciplinava le scappatelle dei maschi né andava confortando donne tradite. Aveva compreso che non poteva che interessarsi delle dinamiche di potere. Non voleva solo confortare gli afflitti, ma soprattutto affliggere i confortati. Voleva fare chiarezza sulle parole, sui significati, sui perimetri dei valori.

Scrisse: “La camorra chiama “famiglia” un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all’onestà; la camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di “famiglia”, strumentalizzando persino i sacramenti. Per il cristiano, formato alla scuola della Parola di Dio, per “famiglia” si intende soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l’amore è servizio disinteressato e premuroso, in cui il servizio esalta chi lo offre e chi lo riceve. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, ad ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime (…) Non permettere che la funzione di “padrino”, nei sacramenti che lo richiedono, sia esercitata da persone di cui non sia notoria l’onestà della vita privata e pubblica e la maturità cristiana. Non ammettere ai sacramenti chiunque tenti di esercitare indebite pressioni in carenza della necessaria iniziazione sacramentale…”.

Questo è il lascito di Don Peppino Diana, un lascito che ancora oggi resta difficile accogliere e onorare. La speranza è nelle nuove generazioni di figli di immigrati, e nuovi figli di questo meridione, persone che torneranno dalla diaspora dell’emigrazione, emorragia inarrestabile. Il pensiero e il ricordo di Don Peppino sarà per loro quello di un giovane uomo che ha voluto far bene le cose. E si è comportato semplicemente come chi non ha paura e dà battaglia con le armi di cui dispone, di cui possono disporre tutti. E riconosceranno quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. Realmente, non come metafore. Una parola che è sentinella, testimone, così vera e aderente e lucida che puoi cercare di eliminarla solo ammazzando. E che malgrado tutto è riuscita a sopravvivere. E io a Don Peppino vorrei dedicare quasi una preghiera, una preghiera laica rivolta a qualunque cosa aiuti me e altri a trovare la forza per andare avanti, per non tradire il suo esempio, offrendogli le parole di un rap napoletano. “Dio, non so bene se tu ci sei, né se mai mi aiuterai, so da quale parte stai”.

Lo scafandro e la farfalla

In V stiamo guardando quello che ritengo essere uno dei grandi film che sono usciti l’anno scorso. E’ un’opera tratta da un libro; è un film che mi prende l’anima, mi fa viaggiare, mi coinvolge totalmente, che desidero vedere e rivedere per assaporarne tutti gli scorci, tutti i gioielli che vi sono contenuti dentro, tutti i piccoli particolari che sfuggono a una prima visione. Vi lascio qui alcune delle battute più importanti del film, compresa la prima pagina del libro.

“Inutile girarci intorno: lei è paralizzato dalla testa ai piedi”

 

“Voglio morire”

 

“Dietro le tende di tela tarmata un chiarore latteo annuncia l’avvicinarsi del mattino. Ho male ai calcagni, la testa come un’incudine e una sorta di scafandro racchiude tutto il mio corpo. La mia camera esce dolcemente dalla penombra. Guardo in ogni particolare le foto di coloro che mi sono cari, i disegni dei bambini, i manifesti, il piccolo ciclista di latta che mi ha mandato un amico la vigilia della Parigi-Roubaix e la forca che sovrasta il letto dove sono incrostato come un paguro bernardo nella sua conchiglia.

Non ho bisogno di molto tempo per sapere dove sono e per ricordarmi che la mia vita si è capovolta quel venerdì 8 dicembre dell’anno scorso.

Fino ad allora non avevo mai sentito parlare del tronco cerebrale. Quel giorno invece ho scoperto tutta in una volta questa parte maestra del nostro computer di bordo, passaggio obbligato tra il cervello e le terminazioni nervose, nel momento in cui un incidente vascolare ha messo fuori uso il suddetto tronco. Un tempo si chiamava “congestione cerebrale” e molto più semplicemente se ne moriva. Il progresso delle tecniche di rianimazione ha reso più sofisticata la punizione. Se ne scampa ma accompagnati da quella che la medicina anglosassone ha giustamente battezzato locked-in syndrome: paralizzato dalla testa ai piedi, il paziente è bloccato all’interno di se stesso, con la mente intatta e i battiti della palpebra sinistra come unico mezzo di comunicazione.

Ovviamente, il principale interessato è l’ultimo a essere messo al corrente di queste gratifiche. Da parte mia, ho avuto diritto a 20 giorni di coma e a qualche settimana di nebbia prima di rendermi veramente conto dell’entità dei danni. Ne sono emerso solo alla fine di gennaio nella camera numero 119 dell’ospedale marittimo di Berck, dove penetrano ora le prime luci dell’alba.

È una mattina come tutte le altre. Alle sette la campana della cappella ricomincia a segnare il fuggire del tempo, quarto d’ora dopo quarto d’ora. Dopo la tregua della notte, i miei bronchi intasati si rimettono a brontolare rumorosamente.

Contratte sul lenzuolo giallo, le mani mi fanno soffrire senza che io arrivi a capire se sono bollenti o gelate. Per lottare contro l’anchilosi faccio scattare un movimento riflesso di stiramento che fa muovere braccia e gambe di qualche millimetro. Talvolta basta a dare sollievo a un arto indolenzito.

Lo scafandro si fa meno opprimente, e il pensiero può vagabondare come una farfalla. C’è tanto da fare. Si può volare nello spazio e nel tempo, partire per la Terra del Fuoco o per la corte di re Mida. Si può fare visita alla donna amata, scivolarle vicino e accarezzarle il viso ancora addormentato. Si possono costruire castelli in Spagna, conquistare il Vello d’oro, scoprire Atlantide, realizzare i sogni di bambino e le speranze di adulto.”

 

“Lo scafandro del corpo non impedì alla farfalla dell’anima di uscire e comunicare”

 

“Ho appena scoperto che a parte il mio occhio ho altre due cose che non sono paralizzate: la mia immaginazione e la mia memoria”.

 

“Ero cieco e sordo, non mi serviva necessariamente la luce dell’infermità per vedere la mia vera natura”

“Un abbozzo di padre, un’ombra di padre è sempre meglio di niente” e “Dev’essere dura per un padre parlare ad un figlio sapendo che non potrà rispondergli”

 

“Il diario del viaggio immobile di un naufrago arenatosi sulle rive della solitudine”

 

“E’ questa la sorpresa? Vedermi?”

 

 “Non so da dove prenderle, quelle ore pesanti e vane, impercettibili come le gocce di mercurio di un termometro spezzato. Le parole sfuggono”

 

“Ero un giornalista conosciuto, avevo un bel lavoro, una bella famiglia. Ero un po’ collerico e avevo una passione per i libri e per la buona tavola. Adesso sono un vegetale: qualcuno ora mi chiama così. Io preferisco definirmi un mutante.”

 

“Ha voglia di dire qualcosa alle persone che si muovono?”

“Continuate. Ma fate attenzione a non essere divorati dalla vostra agitazione. Anche l’immobilità è fonte di gioia.”

Da un’intervista rilasciata da Bauby a Erik Orsenna per “Elle”

Profanata la memoria di Rehman Baba

Sempre a proposito dell’Islam è importante sottolineare che la maggiorparte dei musulmani non la pensa “alla talebana” e che per questo è preseguitata, come sottolineato in questo articolo.

Colpito un mausoleo sufi per “talebanizzare” il Pakistan

di Qaiser Felix

Peshawar (AsiaNews) – L’attacco terrorista al mausoleo del poeta sufi Rehman Baba dimostra il “modello di nazione” nel quale i “fanatici talebani” vogliono trasformare il Pakistan. Ancor più grave è che il tempio sia stato attaccato “perché era aperto anche alle donne”. In questo modo si va verso “il deterioramento del livello di sicurezza nel Paese”. È il grido d’allarme lanciato dalla Commissione pakistana per i diritti umani (Hrcp), secondo la quale il paese corre il rischio di una progressiva “talebanizzazione”.

Ieri a Peshawar – capitale della North-West Frontier Province, al confine con l’Afghanistan – i talebani hanno colpito il mausoleo del poeta sufi del 17° secolo, di lingua Pashtun, la cui figura è molto amata in tutta la provincia e nel vicino Afghanistan. Rehman Baba è considerato un simbolo di pace e tolleranza e i suoi scritti sono studiati ancora oggi per il loro messaggio di “amore a Dio” e di rispetto verso il prossimo. L’esplosione è avvenuta ieri alle 5.10 del mattino; l’edificio in marmo bianco ha subito danni pesanti, ma non vi sono morti o feriti.

Hrcp ricorda che Rehman Baba è un’icona “non solo del popolo Pasthun, ma di tutto il Pakistan” ed è “ironico” che il mausoleo di un poeta “riverito per la sua opposizione all’oppressione e la rivendicazione dei principi di pace e tolleranza sia stato oggetto dell’attacco dei talebani”.

Fonti del governo locale riferiscono che nei giorni scorsi i talebani hanno lanciato un avvertimento, esigendo il divieto per le donne di entrare nel mausoleo. Secondo la polizia il principale imputato per l’attacco è Mangal Bagh, capo del movimento estremista Lashkar-i-Islam. In passato gruppi di persone con capelli e barba lunga si erano più volti avvicinati al luogo dell’attentato.

Oggi la popolazione locale ha indetto una manifestazione di protesta contro l’attacco. Una dura condanna arriva anche dal premier pakistano Yusuf Raza Gilani, che chiede agli inquirenti “indagini approfondite” perché “siano consegnati alla giustizia” i responsabili.

Passi indietro per le donne pakistane

In III stiamo parlando dell’Islam. Purtroppo è di questi giorni la notizia di un abbruttimento della situazione delle donne pakistane. Da AsiaNews ho preso questo articolo preoccupante.

Per le donne iniziano i divieti con la Sharia nella Swat Valley

di Qaiser Felix

Peshawar (AsiaNews) – Da ieri le corti islamiche hanno preso in mano l’amministrazione della giustizia nella Swat Valley. Con l’entrata in vigore della sharia nel distretto di Malakand le donne non possono più muoversi da sole, parlare in pubblico ed il velo diventa obbligatorio. Le scuole femminili, per lo più legate ai missionari, ma frequentate per il 95% da ragazze musulmane, rischiano la chiusura definitiva dopo gli attentati esplosivi negli ultimi mesi che, pur non causando vittime, hanno reso impossibile a circa mille studentesse di frequentare le lezioni.

Per le comunità cattoliche e protestanti presenti nella regione, circa mille persone, si profila un futuro difficile. PAKISTAN_(F)_0317_-_Swat_valley_sharia.jpgImpiegati come manovali e spazzini, o presso gli ospedali e le scuole dei missionari, temono il clima di discriminazione e molti hanno già lasciato le loro case per spostarsi in altre città e zone in cui non vige la sharia. Dall’inizio dell’anno i talebani hanno compiuto centinaia di attentati contro scuole, negozi di musica e cd, barbieri e attività pubbliche e commerciali ritenute anti-islamiche.

Con l’introduzione della cosidetta Nizam-e-Adl Regulations 2009, sono decaduti i tribunali e di giudici civili ed il loro posto è stato preso dal sistema dei Qazis, i giudici islamici che rispondono alla legge coranica. Sono sette, per ora, i tribunali approvati nello Swat dopo l’accordo tra le milizie talebane del Tehreek-i-Nafaz-i-Shariat-i-Muhammadi (Tnsm) ed il governo del presidente Asif Ali Zardari. Sono stabiliti nei due distretti di Dir e in quelli di Buner, Malakand Agency, Shangla, Kohistan e Chitral. Iftikhar Hussain, ministro per le comunicazioni della  North West Frontier Province (Nwfp), ha affermato che i nuovi tribunali saranno da modello per gli altri distretti della provincia in cui non sarà necessaria l’approvazione presidenziale per l’instaurazione di corti islamiche.

Dando l’annuncio dell’entrata in vigore definitiva della sharia, Sufi Muhammad, capo delle milizie Tnsm,  ha spiegato che i tribunali islamici risponderanno ad una nuova corte suprema, la Darul Qaza, per cui sono già stati selezionati due dei tre giudici che la compongono. Sufi ha anche affermato che i qazis che non applicheranno nel modo corretto la sharia saranno subito sostituiti.

L’Alta corte di Peshawar ha espresso preoccupazione per le minacce del capo del Tnsm e chiesto alle autorità della Nwfp di garantire la sicurezza dei giudici.

Incenso o cannabis?

Visto che in II stiamo parlando di tossicodipendenze pubblico questo articolo uscito sul Corriere su un nuovo tipo di droga spacciata come incenso e di cui si è parlato a Trieste nell’ultimo weekend in occasione della Conferenza nazionale sulle politiche antidroga.

Nuova cannabis venduta come incenso

Gli esperti: difficile da identificare. Allarme dell’Istituto di sanità: fa più danni della marijuana naturale

TRIESTE — È venduto come incenso per profumare gli ambienti, viene comperato per essere fumato. Perché «Genie» (uno dei tanti nomi sotto i quali si nascondono mix di erbe aromatiche) contiene una nuova cannabis sintetica, molto più potente di quella naturale. Ed è in vendita negli smart shop italiani. L’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha appena scoperto, proprio in «Genie», un composto sconosciuto finora in Italia, che funziona come il Thc, o tetraidrocannabinolo, il principio attivo della cannabis. Quello che dà il piacere della droga. «Si chiama Jwh-018 — spiega Teodora Macchia dell’Iss che ha coordinato la ricerca — e stimola un recettore della cannabis che sta nel cervello. Questa sostanza appartiene a un gruppo di un centinaio di molecole che sono state studiate per la loro attività analgesica, ma che hanno poi rivelato un’azione simile a quella della cannabis. Sono di sintesi, non hanno niente a che fare con i prodotti naturali». Nel mix di erbe che vanno sotto il nome generico di «Spice » («speziate»: hanno, fra gli ingredienti, l’alchemilla vulgaris, la rosa gallica, e la leonotis nepetifolia, tanto per fare qualche esempio), la cannabis sintetica non ci è finita per caso. Esistono gruppi ben organizzati che producono queste sostanze da mescolare alle erbe e le erbe vengono poi vendute negli smart shop o nei negozi online. Sono le nuove droghe, difficili da identificare perché non c’è letteratura scientifica, perché non sono considerate droghe, e quindi non sono oggetto di sequestro, perché viaggiano su Internet e approdano su una grande quantità di siti ad altissima professionalità grafica per attrarre i giovani (in Italia, negli ultimi sei mesi, il numero di accessi ai siti Internet legati alla droga sono aumentati dal 40 al 60 per cento).

E, infine, perché ancora non esistono test di laboratorio capaci di identificarle, come hanno sottolineato a Trieste gli esperti che hanno partecipato alla «V Conferenza nazionale sulle politiche antidroga » organizzata dalla Presidenza del Consiglio. «Ci dobbiamo confrontare con una serie di nuove sostanze propagandate come legali — commenta Giovanni Serpelloni capo del Dipartimento per le Politiche antidroga —, ma che in realtà sono psicoattive. Sempre più spesso arrivano nei pronto-soccorso degli ospedali giovani con disturbi psicotici inspiegabili, a meno di non pensare all’uso di queste nuove droghe. Che, però, sono difficili da identificare proprio perché sono ancora poco conosciute, anche dai medici. E sono molto potenti ». «Siamo abituati a pensare alla marijuana che contiene 2-3% di principio attivo— aggiunge Macchia — e all’hashish che ne contiene il 7%, ma lo Skunk, ottenuto da un ibrido fra cannabis sativa e cannabis indica, arriva fino al 20%. Gli «Spice» hanno una potenza quattro-cinque volte superiore a quella della cannabis naturale. E il contenuto può variare da prodotto a prodotto, anche della stessa marca ». Per Gustavo Merola dell’Iss: «Gli Spice sono già stati proibiti in Germania, in Austria e da pochissimo anche in Francia».

Adriana Bazzi

Tempo di crisi: cosa ci dice Dante?

Quello che stiamo vivendo è sicuramente un periodo di crisi, economica ma non solo. Girovagando sulla rete ho trovato questo divertente pezzo di Pigi Colognesi su come Dante ha affrontato una crisi nell’Inferno.

La parola «crisi» è sulla bocca di tutti. Essa indica un dato di fatto innegabile, di fronte al quale è decisiva la posizione della persona.

Lo documenta un passaggio cruciale del viaggio di Dante nell’inferno. Quando il poeta giunge di fronte alle mura della città di Dite (alla fine del canto VIII) ha già visto un gran numero di dannati e osservato atroci pene. Ma ora gli si presenta una situazione del tutto nuova. Le porte della città sono chiuse e vigilate da stuoli di demoni. La sua guida, Virgilio, lo lascia solo per andare a parlamentare coi diavoli perché lascino libero il passaggio. Ma torna sconfitto: i custodi infernali si rifiutano di far proseguire i due pellegrini dell’oltretomba. È una situazione di «crisi», uno di quei momenti in cui le certezze su cui ci si appoggiava appaiono insufficienti per proseguire. Tanto che Dante si conferma che l’unica cosa da fare sia quella di tornare indietro, di rinunciare al cammino.

Il canto IX si apre, perciò, in un’atmosfera di paura e smarrimento. Sembra quasi, così interpreta Dante, che lo stesso Virgilio dubiti. Allora gli chiede, come a confermarsi di non aver riposto in lui una speranza vana, se mai avesse fatto il tragitto per il quale lo sta guidando. Tra le certezze che la crisi mette in discussione c’è quella su chi testimonia la possibilità stessa del cammino. È il dubbio più devastante.

Virgilio racconta di essere già stato fin nel fondo dell’inferno e, quindi, sollecita Dante a non temere. Il poeta fiorentino non è molto convinto, ma prima ancora che Virgilio abbia finito di parlare, Dante è distratto da nuove improvvise presenze che compaiono sulle mura ferrigne di Dite: sono le Furie. In esse la tradizione antica e medievale vedeva le varie forme del male e, insieme, il rimorso che perseguita chi ha sbagliato. Quasi a suggerirgli che è la propria debolezza morale a non permettergli nessun cammino positivo. Ma questo problema Virgilio lo aveva già sciolto all’inizio stesso del viaggio. Nel canto II, infatti, Dante aveva detto alla sua guida di non ritenersi degno di compiere lo stesso cammino che Dio aveva permesso a Enea e a san Paolo. Ma il poeta dell’Eneide gli aveva risposto che quel viaggio non gli era consentito per la sua dignità morale, ma perché «tre donne benedette» (Maria, santa Lucia e Beatrice) si erano preoccupate di lui e avevano mandato Virgilio stesso a guidarlo. Infatti ora, senza esitazione Virgilio dice a Dante di guardare bene in faccia le tre Furie e le addita addirittura per nome: non possono più nuocergli.

Ma le Furie hanno in riserva un’altra, più terribile arma. Esse invocano Medusa. E subito Virgilio ordina a Dante di abbassare la faccia, di non guardarla e lui stesso gli copre gli occhi con le sue mani. Medusa, infatti, la donna coi crini di serpente, è la personificazione della disperazione. Guardarla significa diventare di pietra, bloccarsi nell’impossibilità.

Solo dopo aver superato questa estrema tentazione che ogni momento di crisi porta con sé la situazione si sblocca. Preceduto dal vento e dal frastuono di un temporale, appare sulla scena un messo celeste. Senza dire neppure una parola ai due pellegrini ansiosi e impauriti, minaccia i diavoli per la loro «oltracotanza» e con una semplice «verghetta» apre quella porta che sembrava un ostacolo insormontabile. La disperazione della crisi è vinta; il cammino può riprendere.

Anziano rock

Vi posto un articolo di Alessandro Peroni che mi ha divertito moltomick-jagger.jpg ed è preso dal numero di Diogene Magazine che è da pochissimo in edicola. E’ un bel testo su chi, pur avendo una certa età, è ancora in grado di fare del buon rock.

Duemila anni fa lo storico e filosofo Plutarco (46-120 d.C.) scriveva un testo nel quale si chiedeva se la politica fosse un’attività alla quale gli anziani potessero liberamente dedicarsi. Le sue conclusioni erano, in realtà, assai ampie: la politica è un compito in cui tutti i cittadini devono impegnarsi: “Solo gli stolti non fanno politica. Chi invece è socievole, umano, amante autentico della Patria fa sempre politica, sia che esorti i potenti o si offra da guida a chi ne ha bisogno, oppure sia di sostegno a chi deve prendere decisioni importanti, sia che distolga dal male i cattivi e incoraggi gli onesti” (Plutarco, Se un anziano debba fare politica, 260). La politica, dunque, è un’attività nella quale tutti gli uomini devono investire, consacrandovi le proprie forze, sia quando sono giovani e valenti, sia quando sono più anziani, allorché, con la loro esperienza, possono consigliare e sostenere gli altri.

Plutarco era infatti uno strenuo sostenitore dell’impegno “civile”, che si esplicava anche nell’esercizio quotidiano della filosofia: “La maggior parte delle persone immagina che la filosofia consista nel dibattere dall’alto di una cattedra e nel fare corsi su alcuni testi. Ciò che tuttavia sfugge, a persone del genere, è la filosofia che si vede esercitata nelle opere e nelle azioni di ogni giorno. Socrate non si sedeva su una cattedra professorale, non aveva un orario fisso per discutere o passeggiare con i suoi discepoli, ma scherzando con loro, bevendo o andando alla guerra o in piazza, egli ha fatto filosofia. È stato il primo a dimostrare che, in ogni tempo e luogo, in tutto ciò che ci accade, la vita quotidiana dà la possibilità di filosofare” (ibidem).

Il profondo umanesimo di questo testo di Plutarco mi ha sempre colpito, sicché mi sono chiesto se esso potesse, in qualche modo, essere applicato anche alla musica rock. Questa, come ben sappiamo, è la musica “dei giovani” ormai da oltre mezzo secolo: per questo motivo, i sopravvissuti della prima ondata del rock’n’roll si trovano oggi a essere “giovani” di circa settant’anni. Uno di questi, Jerry Lee Lewis (detto The Killer), ha annunciato che tornerà presto in tour all’età di 72 anni, cantando Great Balls Of Fire e percuotendo il pianoforte con il suo stile selvaggio. Ha poi destato viva impressione un paio d’anni fa, durante la tournée mondiale dei Rolling Stones, la grande vitalità di Mick Jagger (classe 1943), che per tutta la durata dei lunghissimi concerti continuava a correre e saltare per il palco senza stancarsi, senza incappare in cali di voce, e con una simpatia e un’ironia molto british che in passato non aveva mai palesato on stage. Merito senz’altro della sua vita sanissima, della dieta equilibrata e di un’attività fisica controllata.

Poiché ho avuto modo di assistere a un concerto di questa tournée, sono testimone dell’esuberanza del vegliardo, così come delle precarie condizioni di salute di altri membri del gruppo. Degli altri tre Stones rimasti, il batterista Charlie Watts eseguiva il suo lavoro di onesto artigiano, come sta facendo da più di quarant’anni; i due chitarristi Keith Richards e Ron Wood destavano invece qualche preoccupazione, mentre, appoggiati l’uno all’altro in un angolo del palco quasi a sostenersi a vicenda, traevano note talora improbabili dai loro strumenti. Fortunatamente, la nutrita schiera di musicisti di supporto rendeva meno traumatica la resa sonora.

Questo esempio ci dimostra un’amara verità: purtroppo non tutti invecchiano allo stesso modo, nemmeno se militano da sempre nello stesso gruppo, come si è visto pure nel recente concerto italiano degli Who, dove la presenza sul palco del cantante Roger Daltrey era principalmente decorativa, poiché a cantare e suonare la chitarra provvedeva l’ancor tonico Pete Townshend. Recentemente Robert Smith, seppure fisicamente “appesantito”, ha dimostrato che i suoi Cure possono esprimere ancora molto dal vivo. Eric Clapton, il “dio della chitarra” degli anni Sessanta, oggi ha ancora molto da insegnare, David Bowie sembra eternamente giovane e siamo in attesa di vedere gli esiti dell’annunciata reunion dei Led Zeppelin.

Ma cosa possono ancora comunicare questi anziani signori del rock che non abbiano già espresso decenni fa? Dal punto di vista discografico, tutto sommato, spesso pubblicano opere valide. Ad esempio, certi inossidabili come gli Ac/Dc o i Motörhead sfornano da una trentina d’anni dischi dignitosi, seppure a fasi alterne: certo, ripropongono sempre lo stesso sound o le stesse idee, ma finché queste scalderanno i cuori dei fan dai 15 ai 50 anni (e oltre) e ispireranno i giovani a prendere uno strumento e mettersi a suonare, il loro ruolo “sociale” (nel senso inteso da Plutarco) dovrà essere riconosciuto e rispettato.

Del resto, è noto che la musica richiede tempi lunghi di maturazione, forse più di qualsiasi altra attività umana. Nella politica, con buona pace di Plutarco, l’inamovibilità di certi vecchi è cagione, sappiamo, di gravi danni per la società; l’invecchiamento precoce a cui poi vanno incontro i “giovani politici” è un fatto ancor più preoccupante. Nella filosofia, tranne che in rari casi, la grande idea e l’intuizione potente arrivano in gioventù: per il resto della loro (spesso lunga) vita, i filosofi affinano la loro intuizione giovanile, la “nobilitano” (o imprigionano) in ponderosi sistemi o, peggio, la rinnegano per aprire a un imbarazzante “nuovo corso” del loro pensiero.

Così non è per la musica. Certo, capita il caso in cui un autore non riesca mai a superare il proprio capolavoro giovanile (come fu il caso di Mascagni con Cavalleria rusticana), ma nella maggior parte dei casi i grandi compositori si rendono artefici di lunghe e fruttuose maturazioni. Un esempio su tutti, Giuseppe Verdi, che produsse le sue opere più complesse e tutt’altro che anacronistiche in tarda età, potremmo addirittura dire “fuori tempo massimo”. Per quel che riguarda gli interpreti, è noto che i grandi strumentisti e direttori vivono a lungo, come Horowitz, Toscanini o Karajan. Di quest’ultimo, possiamo ricostruire tutta la lunghissima carriera attraverso le testimonianze discografiche, dal disco a 78 giri fino al CD, confrontando come si è evoluto il suo apporto interpretativo.

Per quel che riguarda i musicisti rock, il genere comincia a essere abbastanza duraturo da poter azzardare qualche considerazione. Purtroppo, la vita sregolata fatta di eccessi ha causato la prematura scomparsa o la decadenza fisica e intellettuale di molti “grandi”; inoltre, le esigenze del mercato hanno cancellato o relegato a produzioni di nicchia alcuni artisti che forse avrebbero ancora qualcosa da dire; altri personaggi a tutt’oggi attivi a livello di grande pubblico oscillano tra l’eccellente e l’imbarazzante. Quello che conta, comunque, è sempre, come ci dice Plutarco, la capacità di comunicare, di consigliare, di ispirare.

Ma, come ci insegna ancora il pensatore di Cheronea, le attività umane non si svolgono solo nelle grandi occasioni, come in un grande concerto (eventualmente con un’unità coronarica dietro le quinte pronta a intervenire, come nell’ultima tournée dei Rolling Stones), ma anche nei piccoli spazi o sulla pubblica piazza, e tutti sono chiamati a impegnarvisi.

Cosa dire, allora, a tutti quelli che arrivano a una certa età: alle fatidiche soglie dei 30, 40, 50 o 60 anni? Per rispondere, andiamo a ripescare un film, uno storico rock movie che si intitola No Nukes (1980) e fu ricavato dalle riprese di un grande concerto collettivo contro il nucleare. Nel corso della sua straordinaria esibizione, Bruce Springsteen si rende protagonista di un divertente siparietto: durante una travolgente versione di Thunder Road, il Boss finge istrionicamente un collasso e si getta a terra. Rialzato dai membri della band, si scusa con il suo pubblico: “Non posso andare avanti così! Ho già trent’anni e il mio cuore sta cominciando ad andarsene…”. Da quel concerto al Madison Square Garden sono passati esattamente trent’anni: Springsteen è “andato avanti così” e scrive tutt’ora magnifiche canzoni che continua a proporre dal vivo. Qui sta la chiave del fare musica, al di là dell’età: avere buone idee da proporre (o, al limite, ri-proporre) e tanta energia per tenere concerti. Doti che non sono scontate nemmeno per i giovani, che spesso devono lottare più di quanto avevano fatto i loro padri (o nonni) per proporre una musica che esca dai canoni stabiliti dal mercato più commerciale. Per chi ha una certa età, la passione e l’esperienza sono sempre gradite anche dal pubblico più giovane, ed è proprio la presenza e l’apprezzamento di quest’ultimo a segnalare che si ha ancora qualcosa da dire. Certo, come insegna Mick Jagger, per continuare a calcare il palcoscenico è essenziale che non si trascurino le cautele del caso: vita sana e regolare, niente fumo e alcool, esercizio fisico di preparazione, visite regolari dal geriatra di fiducia… In questo modo, non si finirà in quel limbo cantato tristemente dai Jethro Tull: Too Old to Rock ’n’ Roll: Too Young to Die (Troppo vecchio per il rock’n’roll, troppo giovane per morire).

Sull’amicizia

Nelle prime stiamo parlando di relazioni. Abbiamo dato anche un’occhiata a questo brano sull’amicizia. immaginemanico7.jpgRicordo a chi può interessare che “L’amico ritrovato” fa parte di una trilogia, per cui suggerisco di leggere anche “Niente resurrezioni per favore” e “Un’anima non vile”. Se qualcuno desiderasse leggerli è sufficiente che me lo dica, li posso prestare.

“Tutto ciò che sapevo, allora, era che sarebbe diventato mio amico. Non c’era niente in lui che non mi piacesse. […] Il problema era come attirarlo a me. Cosa dovevo fare per conquistarlo, chiuso com’era dietro le barriere della tradizione, dell’orgoglio naturale e dell’altezzosità acquisita? Senza contare che sembrava perfettamente soddisfatto di starsene solo e di non mescolarsi agli altri, che frequentava solo perché vi era costretto. Come attirare la sua attenzione, come fargli capire che io ero diverso da quella folla opaca, come convincerlo che io e solo io avrei dovuto diventare suo amico, erano tutti quesiti di cui non conoscevo la risposta. […] Tre giorni dopo, il quindici marzo – una data che non dimenticherò più – stavo tornando a casa da scuola. Era una sera primaverile, dolce e fresca. [… ] Davanti a me vidi Hohenfels; pareva esitare come se fosse in attesa di qualcuno. [… ] L’avevo quasi raggiunto, quando si voltò e mi sorrise. Poi con un gesto stranamente goffo ed imprecìso, mi strinse la mano tremante. «Ciao, Hans», mi disse e io all’improvviso mi resi conto con un misto di gioia, sollievo e stupore che era timido come me e, come me, bisognoso di amicizia. Non ricordo più ciò che mi disse quel giorno… e tuttavia io sentivo che quello era solo l’inizio e che da allora in poi la mia vita non sarebbe più stata vuota e triste, ma ricca e piena di speranza per entrambi.”

F. UHLMAN, L’amico ritrovato, Feltrinelli, Milano 1990, p. 23-30