E ora? E poi?

Posto questo ottimo articolo pubblicato sul sito di Limes.

Odyssey Dawn: l’inizio di un conflitto imprevedibile

di Claudia Gazzini

Non avrei mai pensato che sarebbe venuto il giorno in cui mi sarei trovata d’accordo con la Lega Nord. Ma oggi forse è così. Non mi riferisco al pericolo sbandierato da Bossi sulla possibile invasione di profughi provenienti dalla Libia. Al contrario, credo che sarà doveroso aiutare chi fuggirà dal paese. Mi riferisco invece al fatto che la Lega è l’unica coalizione politica italiana che ha preso posizione contro la chiamata alle armi.

Non si tratta di pacifismo ideologico a tutti i costi, ma di una posizione, simile a quella della Merkel, dettata dal timore che i bombardamenti aerei in sé non bastino né a mettere fine al quarantennio di Gheddafi né a tutelare i libici. Credo anch’io che ci sarebbe voluta più cautela e un’accurata analisi della situazione prima di votare a favore di un intervento militare internazionale contro il regime di Tripoli.SpecRpt_MITCHELL_0319_615PM_320x240.jpg

La velocità con cui il Consiglio di Sicurezza ha approvato la risoluzione 1973 e con la quale Francia, Inghilterra e Stati Uniti sono passati ai fatti ha colto tutti di sorpresa. Qualcuno dirà che non c’era tempo per riflettere. Le immagini di Bengasi assediata all’alba di un possibile ulteriore massacro dei civili sollecitavano una decisione rapida. Altri diranno che ragioni di Stato ci hanno spinto a questo intervento immediato.

Inutile sprecare fiato in un dibattito politico sui pericoli dell’intervento. Di fronte alla minaccia di vedere la Francia rimpiazzare l’Italia come primo partner commerciale della Libia e alla possibilità di lasciare che la futura politica mediterranea fosse decisa oltralpe, il governo non ha potuto far altro che salvare il salvabile accodandosi alla coalizione internazionale. Era anche chiaro che, avendo pubblicamente denunciato Gheddafi come sovrano illegittimo, l’Italia (e dunque l’Eni) desiderasse ormai una rapida uscita di scena del Colonnello, il quale aveva già minacciato di offrire le risorse naturali libiche a Russia, Cina e India.

Comunque sia, ora che sono iniziati i bombardamenti sui cieli di Tripoli, è più che mai urgente fare luce sulle possibili conseguenze di questa scelta pericolosa. Se avessimo la certezza che un divieto di sorvolo aereo e un bombardamento delle installazioni strategiche siano sufficienti per far arrendere Gheddafi, impedire l’assedio a Bengasi e permettere così alla Libia di diventare un paese democratico, sarei io la prima degli interventisti. Ma le cose non stanno così. È più probabile che l’imposizione della no-flyzone sia solo l’inizio di un lungo e complicato percorso dai risvolti imprevedibili sia sul piano tattico-militare che sul fronte domestico libico.

Il primo ovvio problema è l’idea che la no-fly zone sia uno strumento per proteggere i civili. Si inizia con un bombardamento aereo di basi militari e installazioni strategiche per annientare la capacità di fuoco delle forze di Gheddafi e ridurre quindi il rischio che vengano abbattuti i velivoli della coalizione impegnati nel pattugliamento dello spazio aereo libico. Lo scopo di tale operazione – ci viene detto – è di impedire che Gheddafi faccia volare i suoi aerei per assediare la popolazione civile nelle zone che si sono sollevate contro il raìs.

Tuttavia, a me risulta che fino ad ora gli aerei del Colonnello sono stati impiegati per riconquistare i terminal petroliferi di Brega e Ras Lanuf e per distruggere depositi di armi e munizioni in mano ai rivoltosi, e non contro i centri abitati. Le notizie di bombardamenti aerei su Tripoli diffuse nelle prime settimane della crisi libica si sono dimostrate infondate. Anche l’aereo in fiamme che precipita sopra un quartiere residenziale di Bengasi la mattina dopo l’inizio dei bombardamenti alleati – le cui immagini sono state usate per dimostrare che Gheddafi era pronto a bombardare la città ribelle – non era un aereo del Colonnello ma dell’opposizione.

Ciò che è certo è che nei centri abitati, anche nelle città più assediate come al-Zawiya e Misurata, gli attacchi ai civili sono stati effettuati mediante carri armati. Ancora più letali si sono mostrate le scorribande delle milizie del regime su jeep o pick-up trucks. È sufficiente dunque una no-fly zone per proteggere i civili? E se le rappresaglie dell’artiglieria dei fedeli di Gheddafi dovessero continuare, quale ulteriore strategia militare verrà adottata per frenare il raìs?

Il secondo problema è nell’attuazione della no-fly zone. È stato annunciato che il pattugliamento dello spazio aereo libico si concentrerà principalmente lungo la zona costiera (lunga oltre mille chilometri) dal confine con la Tunisia a quello con l’Egitto. È la zona più popolata del paese dove si trova la gran parte delle installazioni militari del governo di Tripoli. Il pattugliamento non prevede la copertura del sud perché i libici di questa zona prevalentemente desertica si sono dichiarati neutrali oppure fedeli al regime e quindi non c’è ragione di temere in tali aree un attacco contro civili. Tuttavia il confine meridionale della Libia, considerata storicamente la porta dell’Africa, è strategico perché da qui possono arrivare rinforzi militari al governo di Tripoli.

Molti stati africani infatti, storici alleati del raìs, hanno ribadito la loro fedeltà a Gheddafi. Tra questi spicca il Ciad, confinante con la Libia, il cui presidente Idriss Deby è rimasto al potere in parte grazie al sostegno finanziario del Colonnello. Si crede che nelle prime settimane del conflitto Deby abbia rifornito il governo di Tripoli di armi e uomini. Per questa ragione l’ambasciatore libico a N’Djamena è ora nella lista nera delle Nazioni Unite con l’accusa di aver reclutato mercenari. Se la no-fly zone non verrà estesa al confine meridionale la coalizione internazionale non potrà impedire l’arrivo di aiuti militari provenienti da Ciad, Mali, Niger e Algeria.

Il terzo problema è nella tacita convinzione che la no-fly zone costringerà il Colonnello e i suoi fedeli ad arrendersi. La risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza non pone come fine ultimo la rimozione di Gheddafi, ma solamente la protezione della popolazione civile. Tuttavia è chiaro che tra i membri della coalizione internazionale sia radicata la convinzione che la sovranità di Gheddafi non sia più legittima. Di conseguenza l’unico modo per garantire un futuro democratico alla Libia (e tutelare gli interessi dei paesi della coalizione) è far uscire di scena il raìs.

La Francia, paese leader dell’intervento militare, ha già riconosciuto il consiglio rivoluzionario di Bengasi come il rappresentante legittimo del popolo libico. Anche gli altri alleati della coalizione sono consapevoli che al punto in cui si è giunti lasciare al potere Gheddafi significa mettere a rischio la stabilità politica ed economica del Mediterraneo. Ma cosa farà la coalizione internazionale se la no-fly zone non basterà a far soccombere il Colonnello? La coalizione non si arresterà fino a quando non lo porterà davanti al tribunale dell’Aja o lo avrà fisicamente eliminato?

Da queste domande emerge un quarto problema, ovvero fin dove il mandato Onu permetterà alla coalizione internazionale di operare e fin dove hanno intenzione di spingersi i paesi che partecipano all’intervento. La risoluzione 1973 non si limita a sancire la legalità di una no-fly zone, ma permette di utilizzare “tutte le misure necessarie” per fermare l’assedio alla popolazione civile e tutelare gli interessi della popolazione libica. E questo è un mandato piuttosto ampio. È pur vero che la risoluzione esclude esplicitamente un intervento di terra, ma lasciare alla coalizione la possibilità di usare tutte le misure necessarie dà loro una ampia possibilità di manovra.

I bombardamenti delle forze alleate, quindi, potrebbero non limitarsi a bersagli strategici (aeroporti, basi militari e radar), precondizione, come abbiamo detto, per l’imposizione della no-fly zone. I bombardamenti potrebbero continuare ogni qual volta la coalizione riterrà che la popolazione civile sarà in pericolo. A rigor di logica anche la presenza di carri armati e truppe del raìs messi a pattugliare le strade di Tripoli potrebbero essere ragione sufficiente per estendere il bombardamento.

Quali sono “tutte le misure” che la coalizione ha intenzione di usare e oltre le quali non andrà? Innanzitutto armare le forze dell’opposizione di Bengasi così che possano difendersi da possibili incursioni via terra da parte delle forze di Gheddafi. Armare l’opposizione è previsto dal mandato Onu e quindi legittimo. Ma se un domani le forze dell’opposizione, ben equipaggiate e addestrate grazie agli aiuti degli alleati, dovessero poi passare dalla difesa all’attacco e muovere contro Tripoli, sarebbe sempre con il beneplacito delle Nazioni Unite?

Il quinto problema è chi c’è e chi non c’è nella coalizione. Prima di intervenire gli Stati Uniti hanno sostenuto che le condizioni necessarie per un intervento contro Gheddafi dovevano essere un mandato Onu, la creazione di una coalizione multilaterale e l’appoggio della Lega Araba e dell’Unione Africana. L’approvazione Onu è arrivata di sorpresa quando il consiglio di sicurezza ha approvato la risoluzione 1973 con un voto 10-0 in favore e 5 astenuti. La composizione della coalizione internazionale è emersa al summit di Parigi a meno di 48 ore dall’approvazione della risoluzione.

L’ok della Lega Araba è arrivato ancora prima del voto al palazzo di vetro, e ha permesso al Libano, unico membro arabo sul consiglio di sicurezza, di votare a favore della risoluzione. Ma la grande assente rimane l’Unione Africana. Considerato inizialmente un prerequisito per l’intervento, l’appoggio dell’Unione ha inspiegabilmente perso importanza. Non solo, ma il disaccordo con la coalizione e la condanna dell’attacco da parte dell’Unione sono state palesemente ignorate. I tre stati africani del Consiglio di Sicurezza hanno appoggiato la risoluzione Onu.

L’Unione si è invece rifiutata di prendere parte al vertice di Parigi, riunendosi invece lo stesso giorno in Mauritania per studiare una soluzione diplomatica alla crisi libica. È ovvio che l’opposizione dell’Unione non avrebbe potuto fermare la coalizione , tanto più che – si sa – l’Unione ha in Muammar al-Gheddafi il suo maggior finanziatore. Ma non credono i membri della coalizione che il mancato appoggio dell’Unione Africana all’intervento possa favorire la collaborazione sia finanziaria che militare degli stati africani con il regime di Gheddafi e contribuire così a tenere in vita il regime di Tripoli?

Ma oltre agli aspetti strategico-militari, sono problematiche le ripercussioni che l’intervento della coalizione potrebbe avere nella Libia del futuro. L’intervento della coalizione internazionale rischia infatti di alienare tripolini che finora sono stati spettatori relativamente quieti di un conflitto tra Gheddafi e le forze dell’opposizione. Con l’eccezione di alcuni abitanti dei quartieri di Tajura e Fashlum, dove ci sono stati scontri con le forze governative, la gran parte degli abitanti della capitale (che conta quasi due milioni di persone) non ha preso parte attiva alle proteste contro il regime. Ora invece gli abitanti di Tripoli rischiano di diventare le vittime di una guerra che non hanno mai voluto.

Per questo molti tripolini hanno iniziato a condannare la chiamata alle armi che i loro connazionali di Bengasi hanno rivolto all’Occidente e ad avvicinarsi alla posizione antioccidentale del raìs. Di conseguenza si rischia di provocare una cesura, che prima dell’intervento non c’era, tra tripolini e bengasini. È stato il consiglio nazionale di transizione di Bengasi a richiedere l’intervento straniero contro Gheddafi ma al momento sono i tripolini che ne stanno subendo le conseguenze. A lungo termine ciò significa che l’intervento aereo in corso contro il regime, che agli occhi dei tripolini appare come l’inizio di una nuova guerra coloniale, indebolisce la possibilità che la transizione politica dopo Gheddafi possa avvenire in maniera pacifica e compatta. Ciò che l’intervento della coalizione mette a rischio è l’unità nazionale libica.

Forse, prima di lanciare le bombe contro Tripoli, sarebbe stato il caso di soffermarsi almeno su alcuni di questi problemi. Sarebbe stato anche opportuno decidere fin dall’inizio la leadership militare della coalizione. Ciò per non trovarci a dover seguire in gran fretta una politica interventista dai modi incerti e soprattutto voluta da altri. A tre giorni dall’inizio dell’intervento, l’Italia brancola nel buio. Calma e prudenza ci avrebbero giovato.

Dare per scontato

Leggendo il bell’articolo di Azzurra Meringolo preso da www.rivistailmulino.it mi è venuto in mente che spesso ci capita di dare per scontate alcune cose come andare a votare, confrontare idee diverse e magari opposte, esprimere liberamente opinioni. L’esercizio dei diritti si accompagna a quello dei doveri, è la condizione per rendere possibili gli spazi di libertà e di espressione.

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Il Cairo, 21/03/2011

La prima volta ai seggi. “Awal marra” continuavano a ripetere mentre stavano in fila, a volte anche per più di un paio d’ore. “È la prima volta” questo il motto degli egiziani che sabato hanno assolto, dopo anni di sudditanza, il loro dovere di cittadini, votando al referendum che deciderà se approvare o meno gli emendamenti costituzionali proposti dalla Commissione  nominata dal Consiglio delle Forze Armate il 15 febbraio scorso, poco dopo la caduta di Mubarak. “È la prima volta che sono andata a un seggio e ho avuto la sensazione che quello che scrivevo sulla scheda avrebbe avuto un peso” scrive una blogger egiziana. “Per la prima volta io non avevo paura di dire quello che avrei votato”, commenta un’altra utente. L’appuntamento elettorale è arrivato dopo settimane che, avvicendandosi sul palcoscenico di piazza Tahrir, roccaforte della rivoluzione del 25 gennaio, giovani e adulti non facevano altro che spiegare perché sostenevano il “sì” o preferivano il “no”. Nelle vie del centro si sono visti capannelli di gente che rifletteva pubblicamente sull’argomento, cosa che al Cairo, a causa della morsa che il regime aveva stretto attorno alla libertà di espressione, non si vedeva da decenni.

Anche se sulla questione referendaria non esisteva un consenso unanime, tutti concordavano su almeno due aspetti. Il referendum di sabato sarebbe stato una pietra miliare della storia del Paese, probabilmente il primo appuntamento elettorale non truffato degli ultimi sessant’anni. Ciononostante questo ha navigato in un mare di confusione visto che quando, dopo l’uscita di scena del raís Mubarak, i militari hanno preso il potere, hanno di fatto sospeso la Costituzione, lo stesso testo del quale hanno chiesto in questa votazione l’approvazione del cambiamento di alcune sue briciole. Gli emendamenti costituzionali proposti introducono alcuni cambiamenti per quanto riguarda l’elezione del presidente: limitano la durata della presidenza a due mandati di quattro anni ciascuno, reintroducono la supervisione giuridica delle elezioni, rendono più complicato per il presidente mantenere lo stato di emergenza e lo obbligano a nominare un vicepresidente, impedendogli di avere una moglie straniera. Prevista poi l’aggiunta di un comma all’articolo 189, per permettere al Parlamento di emendare la Costituzione.  Anche se sembrano tutti passi positivi, tra gli emendamenti più criticati c’è quello che definisce i criteri per l’eleggibilità del presidente, perché anche se sono stati ampliati, continuano ad essere restrittivi. Tuttavia, non sono stati tanto questi tecnicismi a dividere il fronte del “sí” da quello del “no”, quanto le conseguenze che tale referendum potrebbe avere sul processo di transizione in corso. Dicendo di volersi liberare dei militari al più presto possibile, i sostenitori del “sì”, la Fratellanza Musulmana, il Wafd, e le briciole del Partito Nazional Democratico del deposto raís, sanno che una volta approvati  tali emendamenti si andrebbe in fretta a elezioni parlamentari e presidenziali. Ed è proprio questo aspetto a preoccupare maggiormente il fronte del “no”, nel quale troviamo tutti gli altri movimenti di opposizione e l’ala riformista della Fratellanza, che ritengono prematuro andare a elezioni ora, non sentendosi adeguatamente pronti a tale appuntamento e temendo di lasciare gioco facile alla Fratellanza, che ha tutti gli interessi ad accelerare i tempi. Tra chi si oppone agli emendamenti troviamo anche il Movimento del 6 aprile, i giovani protagonisti della rivoluzione, e i due candidati alle prossime presidenziali, Amr Moussa e Mohammed El Baradei, al quale alcuni estremisti islamici hanno impedito di votare, lanciandogli sassi quando l’hanno visto arrivare nei dintorni del seggio. A parte qualche sporadico episodio di disordine, fuori dai riflettori degli ultimi tempi, l’Egitto ha vissuto la sua grande giornata, quella che ha segnato l’inizio di un pezzo di cammino, difficile, ma entusiasmante. I dati definitivi non sono ancora noti, ma ormai indietro non si torna. Nonostante i rischi di una controrivoluzione.

In memoria delle vittime delle mafie

Giornata della memoria e dell’impegno Si ricordano le vittime delle mafie Centro Balducci – Lunedì 21 marzo ore 18.00

E’ questa l’occasione nella quale “Libera” rilancia ogni anno un impegno che non deve venire mai meno.
In continuità con le altre edizioni, il 21 marzo 2011 ribadisce con forza la voglia di tanti di essere contro tutte le mafie, contro la corruzione politica e gli intrecci clientelari che alimentano gli affari delle organizzazioni criminali e l’illegalità, e di voler continuare a costruire percorsi di libertà, cittadinanza, informazione, legalità, giustizia, solidarietà.

Con alcuni momenti di riflessione e la lettura dei nomi delle vittime delle mafie.


Su Gheddafi e tutto il resto…

E’ uscito il nuovo numero di Limes tutto dedicato alla questione dei paesi in rivolta. Il titolo è tristemente attuale, benché non abbia alcun riferimento al Giappone: “Il grande tsunami”. Dal sito ho tratto questi articoli decisamente interessanti

23. La trappola dell’intervento.pdf

24. Le sabbie mobili dell’Arabia Saudita.pdf

25. Il ghibli soffia anche su Zagabria.pdf

26. Non ci sono pompieri per l’incendio mediorientale.pdf

27. La controrivoluzione d’Egitto.pdf

28. Le opzioni dell’America in Libia.pdf

29. Il giorno della rabbia in Arabia Saudita.pdf

Prima che

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Nel triennio abbiamo parlato in queste 2 settimane di quello che stava succedendo nel bacino del Mediterraneo, cercando di capire quello che stava realmente accadendo là. Tra le altre cose abbiamo anche riflettuto su come le vicende riguardassero da vicino l’Italia, anche per i notevoli interessi politici, economici, culturali coinvolti. Eppure due settimane fa nessuno si chiedeva quale vita conducessero gli abitanti della periferia di Tripoli o di Bengasi, di quali libertà godessero i cittadini del Cairo, quale impresa potesse mettere in piedi un piccolo imprenditore di Tunisi. La maggior parte di noi si interessa a questi paesi nel momento in cui deve andarci in vacanza (preferibilmente organizzata). Ma poco o nulla sappiamo di quanto succede al di fuori dell’Italia: qualcosa arriva dall’Europa, dagli Stati Uniti e nulla più. Purtroppo non possiamo fare affidamento sui canali televisivi e neppure sui giornali; ci dobbiamo affidare alla rete. Ed è necessario farlo: ormai penso sia visibile a tutti che viviamo in un mondo unico, in cui non è possibile essere interessati soltanto a quanto accade nel proprio orticello o al massimo nel cortile del vicino. E’ da tempo che dico quanto sia assurdo ripetere per tre volte durante il percorso scolastico la “storiella” (perché alla fine troppo spesso si riduce a questo) delle guerre puniche e non arrivare mai o quasi mai ad affrontare seriamente la storia contemporanea, che poi è la storia della nostra vita. Nei miei ricordi di bambino di 8 anni c’è l’immagine di mio padre in lacrime davanti alla tv durante i funerali del Generale Dalla Chiesa: la storia me la sono ricostruita da solo, perché nessun programma scolastico vi è mai arrivato (ma neppure agli anni ’60). Penso allora sia necessario mantenersi informati, aperti alle notizie, andandosi a cercare autonomamente i fatti da sapere senza attendere l’urgenza della cronaca e possibilmente sintonizzandosi sul cuore del mondo che non sempre ha un battito chiaro e distinto.

L’Abbé Pierre

Riprendo la pubblicazione della sezione TESTIMONI. Oggi presento la figura dell’Abbé Pierre: l’articolo è vecchiotto, dell’anno 2000, e l’Abbé era ancora vivo. Se ne è andato nel 2007. Una delle cose che mi piace di più è la profonda umanità di quest’uomo che non lo fa sentire lontano, invincibile, perfetto, superman…

HENRY GROUÉS, L’ABBÉ PIERRE

di Teresio Bosco

Basco nero tirato a destra, occhiali con montatura pesante, barba che con gli anni diventa sempre più rada e bianca sulla faccia minuta, scarpacce impolverate che vengono sempre da “luoghi dove bisogna infangarsi”. E’ così che l’Abbé Pierre è presente nella mente di milioni di persone, specialmente francesi, come una delle ultime “icone viventi”. 

GLI ANNI CON SAN FRANCESCO

A15 anni, legge e rilegge una biografia di san Francesco, insieme al vangelo. Decide di imitare Francesco, che ha trovato Dio e si è fatto fratello dei poveri.

L’Abbé Pierre ha compiuto 88 anni il 5 maggio scorso (anno 2000, ndr), e ha celebrato il 50° della sua opera più conosciuta, Emmaus, cheabbe_pierre2.jpg nacque per giovani studenti e gli si trasformò tra le mani per le persone «rifiutate dalla vita». Neppure lui (che pure di libri ne ha scritti tanti) ha tentato di far ordine e di condensare in una narrazione la sua lunghissima attività, sbalzata senza schemi preordinati in tante direzioni diverse dal doppio motore che l’ha sempre testardamente guidato: l’amore di Dio e del prossimo. Fin dai primi anni si è trovato incapsulato in quel temperamento «impeto e furore» che sarà sempre la sua luminosità e il suo limite. E ha pagato sempre la tassa ai tre difetti che ammette tranquillamente di avere: poco ordine, poca pazienza, poca salute. Terzo figlio della famiglia lionese dei Groués, Henry (è il suo nome di battesimo) ha la fortuna di trovare tra gli scout, dove si trova come a casa sua, degli amici formidabili. Uno, adolescente, gli scrive dalla scuola che frequenta: «Vecchio mio, ciascuno fa della vita quello che vuole. Alcuni la trascinano nel fango. Approfittiamo della lezione e rendiamola splendida». A 15 anni incontra san Francesco. Non in un viaggio ad Assisi (come più volte si è scritto), ma leggendo e rileggendo la biografia di J. Jorgensen. Suo padre (impegnato nelle opere parrocchiali di carità) gli aveva regalato il vangelo, ma non l’aveva ancora letto. Lo legge insieme alla vita di san Francesco, durante una lunga convalescenza da difterite. Capisce il vangelo alla luce di Francesco, che ha trovato Dio e perciò si è staccato dalle cose e si è fatto fratello dei poveri e dei sofferenti. Sarà questa, per sempre, la lettura evangelica di Henry Groués, detto l’Abbé Pierre.

NOVE ANNI PER AVVICINARE DIO

A 19 anni (nel lontano 1931) dice a suo padre e a sua madre che vuole diventare francescano. Entra nel noviziato dei cappuccini di Saint-Etienne e prosegue nel convento di Crest. La disciplina è subito durissima: testa rasata, piedi scalzi nei sandali, saio ruvido, cella fredda, assegnazione di un nome nuovo, frate Filippo, per nascere una seconda volta a una vita di mortificazione totale. Henry ha fame, ha freddo, ha sonno perché la campana suona a ogni mezzanotte, e bisogna andare in cappella per due ore di preghiera notturna. La salute va in pezzi una decina di volte, ma Henry non si sogna nemmeno di tornare indietro. Per nove anni piega con violenza se stesso. Impara ad adorare Dio, che è l’Amore, che è tutto, senza il quale non c’è niente. «Mio Dio e mio tutto» è la preghiera di Francesco e sua. Il cardinale Gerlier l’ordina prete il 24 agosto 1938. Subito dopo paga carissimo quello sforzo sovrumano: arriva la depressione che lo riduce a uno straccio umano. Non mangia più, non dorme più, dimagrisce a vista d’occhio, il corpo s’incurva, il volto è cereo e scavato. Il cardinale Gerlier, che lo stima, lo incontra e cerca di capire cosa sta capitando in quel giovane religioso. Poi gli dice: «II tuo fisico non è in rapporto con il tuo entusiasmo e i tuoi desideri. Andare avanti così è uccidersi, e il suicidio non è una grande soluzione». Gli consiglia di lasciare il convento e di entrare tra i preti della diocesi di Grenoble: l’aria di montagna e la vita attiva possono far miracoli. Dal 1939 il prete Henry Groués non è più cappuccino, ma scrive al suo ex-superiore: «II buon Dio ha voluto donarmi un tesoro inestimabile con gli anni passati nell’Ordine». In quei nove anni, Henry aveva avvicinato Dio, si era lasciato possedere da lui. Negli anni che sarebbero seguiti Dio gli avrebbe fatto avvicinare i poveri, gli avrebbe insegnato a lasciarsi possedere da loro.

SULLE MONTAGNE A SALVARE EBREI

20 luglio 1942. Henry è vicario della cattedrale di Grenoble, e a notte si è ritirato nella sua stanza a fianco della grande chiesa. In questi tre anni ha visto la Francia entrare nella seconda guerra mondiale. Lui pure mobilitato, in alcune giornate gelide è quasi stato stroncato da una violenta pleurite. Ha visto la sua patria travolta dalle divisioni corazzate di Hitler, ha sentito la voce stanca del vecchio generale Pétain annunciare l’armistizio. Sembrava la salvezza per quella Francia apparsa senza forza e senz’anima. Invece all’ombra di Pétain si era scatenata la ferocia dei filonazisti che cominciarono a dare la caccia e a consegnare a Hitler migliaia di ebrei, destinati alle camere a gas (saranno in tutto 75.721). L’anima della Francia aveva cominciato a ridestarsi. In quella notte di luglio, alla porta del vicario bussano con insistenza. Apre. Sulla soglia due uomini impauriti. «Abbia pietà, padre. Siamo ricercati. Le nostre famiglie sono giù che aspettano». Fa entrare tutti. Per le strade, la polizia filo-tedesca dà la caccia agli ebrei con i moschetti. Da quel 20 luglio, la camera di Henry è sempre occupata da clandestini. Li smista in conventi, chiese, famiglie amiche. Senza  accorgersene,  è entrato nella «Resistenza». Nel mese di agosto, con in tasca l’ordine medico che gli prescrive aria di alta montagna, guida una cordata di dodici ebrei fino alla Svizzera. La ripete una ventina   di volte. Tra le montagne la Resistenza si organizza. I tedeschi salgono a bruciare i villaggi, a torturare per conoscere i nomi delle guide clandestine. Il prete Henry è scoperto, una taglia viene messa sulla sua testa. Tra peripezie varie riesce a spostarsi a sud. Lo chiamato Abbé Pierre, un nome di copertura che lo coprirà tutta la vita. Fa da guida sui passi montani dei Pirenei. Arrestato da zelanti «franchisti», viene consegnato alla Croce Rossa da un vescovo basco. In uno «scambio», può raggiungere Algeri per due tonnellate di grano. Ad Algeri ci sono de Gaulle e il governo della Francia libera. Viene nominato cappellano di marina sul Jean Bart. Ma è appena salito sulla nave che la salute ha un nuovo crollo. Difterite recidiva. Per sei mesi in mano ai medici. 

DEPUTATO A 33 ANNI

Nella Francia libera e fragile torna all’aria delle sue montagne. Ha il petto coperto di decorazioni: croce di guerra, legion d’onore, medaglia della Resistenza…

Nell’ottobre 1945 si annunciano le prime elezioni del dopoguerra. Si tratta di dare alla Francia una nuova costituzione e di cominciare a ricostruire. La nazione è coperta di macerie, di case e di uomini. È assediata dalla povertà. I giornali parlano di centinaia di neonati che muoiono perché le madri non hanno latte per nutrirli, mentre nuovi ricchi ostentano lusso e arroganza. Da Parigi i compagni di lotta chiamato l’Abbé Pierre. Vogliono che diventi deputato. Lui si consulta con il cardinale di Parigi, Suhard, e accetta. Si presenta nell’MPR (Movimento Popolare Repubblicano) che ha per programma la giustizia sociale, ma come «indipendente». Un legame politico troppo stretto incatenerebbe la sua libertà, la sua schiettezza, la sua passione poco politica per la verità. Viene eletto, deputato a 33 anni. Non ha ancora messo piede in Parlamento, che è sommerso di lettere, petizioni, suppliche, inviti. Sono persone senza casa, senza lavoro, senza più nulla. Paesi distrutti che l’invitano ad «andare a vedere». Fortunatamente a Parigi incontra una vecchia amicizia del tempo della Resistenza, Lucie Coutaz. Ha 13 anni più di lui, è solida e ordinatissima, e gode di buona salute da quando è stata miracolata dalla tubercolosi ossea a Lourdes. «Signorina, mi vuole aiutare?». «In che cosa?», risponde lei, aggiustandosi gli occhiali e ricordando quante volte ha dovuto mettere in ordine le carte di quella coraggiosa e disordinata guida alpina. «Legga e capirà», e le tende la pila di telegrammi, lettere, fascicoli che dovrà ammucchiare, insieme agli altri che sommergono già la sua scrivania, e che lo stanno seppellendolo nel disordine. Lucie Coutaz farà attendere il suo sì otto giorni. Ma sarà un sì che durerà 40 anni, e salverà l’Abbé Pierre dal caos.

L’AVVOCATO DEGLI INDIFESIAbbePierre3.jpg

Gli anni 1949-55 sono i più conosciuti della vicenda dell’Abbé Pierre, quelli che lo resero famoso in tutta la Francia. Sono stati anche portati sullo schermo da un film di Denis Amar. In Parlamento diventa l’avvocato degli indifesi. Riceve migliaia di sollecitazioni, e interviene, intenta cause, si piazza nei ministeri: Sanità, Ex-combattenti, Giustizia, Famiglia… Intenta cause sempre su un dossier preparato rigorosamente da Lucie, che a differenza di lui (fortunatamente) possiede buone nozioni di diritto. Trentadue cause in due mesi, molte vinte, molte perse. L’Abbé è furioso contro i partiti, anche il suo. Gli «indifesi» sono ammassati in stanze strapiene, non riescono a nutrirsi, non hanno un lavoro. E i deputati sono impegnati in dispute lontanissime dall’unica urgenza: quella del bene comune. Più volte è sul punto di lasciare la politica. In pochi mesi si trova sfrattato due volte. La concorrenza imbattibile degli americani, che stanno invadendo Parigi e pagano in dollari e sull’unghia, si allea alle macerie della guerra per produrre senzatetto e vagabondi. A Neuilly Plaisance, dodici chilometri a est di Parigi, c’è una grande rovina da affittare. «Andai a vederla. Era una casa abbandonata da parecchi anni prima della guerra e poi saccheggiata. Il pavimento del primo piano stava cadendo. Non c’era luce elettrica né riscaldamento. I tubi dell’acqua erano stati rubati e il pozzo nero si versava in cantina. Mi parve sciocco lasciarla andare in rovina, anche se Lucie era stupita di non vedere spuntare delle belve feroci dai cespugli che avevano invaso il giardino». Così un mattino di ottobre i passano vedono sbalorditi un prete-deputato che sul tetto fa il muratore. Sostituisce i pali marci, porta a spalla pile di tegole. L’idea dell’Abbé, approvata da Lucie, è di farne un luogo dove i giovani di Parigi vengano per incontrarsi, interessarsi degli indifesi, rompere la solitudine dell’egoismo. I giovani vengono per i fine-settimana e per le vacanze. L’Abbé sta con loro, stringe le mani, partecipa alle risate, e racconta le storie dei suoi indifesi.

EMMAUS

«Bisogna risuscitare il sentimento di comunità – dice -, il desiderio di stare insieme, di aiutarsi a vicenda». I giovani cominciano a chiamare quella casa «Emmaus», come il villaggio vicino a Gerusalemme dove alcuni discepoli hanno incontrato Gesù risorto. Al mercato delle pulci l’Abbé compra coperte, materassini, lettucci, tende per il giardino. «Ne faremo un accampamento della pace». Il suo stipendio da deputato se ne va sempre il giorno stesso in cui lo riceve per pagare i debiti. Il giorno dopo cominciano altri debiti. Ma un freddo giorno d’inverno tutto si trasforma nelle sue mani. Un giovane arriva gridandogli di correre: in un garage un uomo ha tentato di uccidersi. È un ex-galeotto di 40 anni, George, che dalla vita non ha ricevuto che schifezze. All’ospedale, dove l’Abbé l’ha portato, rinviene. Il prete gli domanda brusco: «Perché l’hai fatto?». George a pezzi e bocconi racconta una storia di orrori. Ma poi anche l’Abbé gli conta parecchie storie d’orrore: famiglie senza casa che l’aspettano da lui, donne e bambini che muoiono di fame e aspettano qualcosa da lui, lavoratori senza lavoro che l’aspettano con rabbia da lui, giovani studenti che lui cerca ogni settimana di far uscire dalle tane dell’egoismo. «Ci manca ancora che debba mettermi a correre dietro a chi vuole suicidarsi». Conclude brusco: «Ho bisogno che venga a darmi una mano». George rimane di sasso: è la prima volta che qualcuno non gli dice «Ti aiuterò», ma: «Ho bisogno che venga ad aiutarmi». Il prete e l’ex-galeotto lavorano fianco a fianco sul tetto, poi fanno incredibili pellegrinaggi ai luoghi della miseria, a portare annullamenti di sfratti, carte necessarie per entrare in un ospedale, cibo… George sente ripetere tante volte le parole che vorrebbe anche lui dire all’Abbé: «Grazie, lei mi ridà una ragione di vivere». Capita però una cosa che nessuno si aspettava. L’Abbé e l’ex-galeotto sono una strana coppia. Se ne parla nel paese e nei paesi vicini. E per molti (autorità e preti) diventa l’occasione di sbarazzarsi di barboni e mendicanti che stanno alle costole. Mettono loro in mano una moneta e dicono: «Prendi l’autobus e va’ a Neuilly-Plaisance, dall’Abbé Pierre. C’è un cartello con scritto “Emmaus”». I poveracci arrivano, bussano, entrano. «Cerco l’Abbé Pierre». Nessuno li manda via. Gli danno da mangiare, da dormire. Il giorno dopo se ne vanno o rimangono. Molti rimangono. A tutti il prete dice: «Datemi una mano».

COSTRUTTORI E STRACCIAIOLI

E ogni giorno l’Abbé trova alla porta sei, dieci, dodici uomini che in silenzio chiedono tutto. Il posto per i giovani di Parigi, nella grande casa, si riduce sempre più. E quei relitti umani gli danno realmente una mano. L’inverno del 1950 si annuncia glaciale, le famiglie sfrattate si contano a migliaia. Ci sono vecchie baracche militari in vendita. L’Abbé le compra, e i «compagnons d’Emmaus» (così ormai li chiamano) le smantellano, le rimontano nel giardino della grande casa. Arrivano famiglie con bambini violacei di freddo mentre ancora si piantano gli ultimi chiodi. È la solita storia: la voce si diffonde, e le famiglie che vengono a Neuilly si moltiplicano. Non c’è posto per tutti, anche se con un gesto simbolico l’Abbé sfratta Gesù-Eucaristia dalla cappella per trasformarla in luogo riparato per due famiglie disperate. Nel «consiglio» che l’Abbé raduna attorno alla tavola dopo cena, e in cui tutti i compagnos hanno diritto di parola, l’Abbé espone la situazione, e domanda «Che fare?». Dalle parole smozzicate nascono due idee buone: comprare terreni liberi e costruirvi baracche e case di fortuna; per pagare mettersi a fare il mestiere che già alcuni facevano, gli stracciaioli. Frugare cioè nelle pattumiere con uncini di ferro, tirar fuori ciò che è ricuperabile per rivenderlo poi ai grossisti del ricupero. Si parte così. Mentre il Parlamento disegna piani grandiosi «per il futuro», e destina alla guerra d’Indocina i dollari del Piano Marshall che dovrebbero servire alla ricostruzione, i poveri lavorano in silenzio per i poveri. Si va avanti per anni, tirando fuori le famiglie dalle cantine, dalle auto senza ruote parcheggiate su sentieri di campagna. E cominciano le battaglie legali. Chiedere permessi di costruzione è come non chiederli, perché occorrono sempre anni per piani regolatori, fognature, impianti per acque e luce. E allora si costruisce lo stesso. 

GENNAIO 1954: MENO VENTI GRADI

I francesi cominciano a conoscere questo prete scomodo e i suoi compagnons di Emmaus. I fari si accendono a sorpresa su di loro nel 1954. E non sono loro a volerlo…

abbe_pierre7.jpgDavanti agli ispettori venuti per l’ennesima volta a verificare i permessi e a minacciare la demolizione (e ai giornalisti che li accompagnano) l’Abbé perde la pazienza e grida: «Se tornate ancora una volta a chiedere il permesso di costruzione, e non portate i mezzi perché queste famiglie di lavoratori onesti possano comprarsi un alloggio con acqua e luce, metterò un grande cartello, e vi appenderò tutti i certificati di nascita dei bambini che sono qui, convocherò la televisione, e su quei certificati scriverò con la vernice rossa: Permessi di vivere!, perché io preferisco vederli vivere illegalmente che morire legalmente!». Il termometro scende a meno venti. Le previsioni annunciano tempeste di neve. Una circolare del ministero dell’Interno (col massimo tempismo) raccomanda rigore negli sfratti. Il 29 gennaio 1954, tornando dal cantiere, l’Abbé e i suoi compagnons vedono centinaia, forse migliaia di esseri umani stringersi presso gli spiragli di aria calda, cercare un angolo riparato sui marciapiedi avvolgendosi in fogli di giornale, ammassarsi in fondo alle uscite del metrò. La sera stessa l’Abbé telefona a un amico ebreo. Riesce a persuaderlo a mettere a disposizione per il giorno dopo un’enorme tenda da soldati. Nella mattinata del 30 i compagnons la riforniscono di paglia, stufette, una batteria per la luce, un grosso cartello all’entrata: Centro fraterno di soccorso. Girano con camion e auto, raccattano le persone che tremano di freddo, dicendo: «Venite, c’è un posto caldo per voi». In poche ore la tenda è piena zeppa. L’Abbé, dopo un testa-testa molto deciso con il direttore della Radio Nazionale, ottiene tre minuti per lanciare un appello prima del giornale radio. Tutta la Francia ascolta la sua voce piena di angoscia: «Amici, aiuto! Questa notte più di diecimila poveri rischiano di morire sui nostri marciapiedi, di freddo e di fame. Abbiamo creato il primo centro di soccorso sotto una grande tenda militare, in rue St. Geneviève. È già strapieno. Bisogna che questa sera, in ogni quartiere di Parigi, in ogni città della Francia, si aprano centri di soccorso, con paglia, coperte… Chi può porti ciò che può all’hotel Rochester… Risuscitiamo la meravigliosa anima della Francia!». La proprietaria dell’hotel Rochester, madame Larnier, non era stata avvisata, ma l’Abbé la conosceva come una brava cristiana. L’hótel, come gli uffici della radio, furono in poche ore sommersi di aiuti. Bisognò trasformare in deposito una parte della stazione ferroviaria di Orsay. Quella notte, in grandi tende militari montate dall’esercito, i poveri di Parigi poterono passare la loro prima notte al caldo. Quell’avvenimento, che ne trascinò molti altri, fu chiamato «l’insurrezione della bontà». Scosse Parigi e l’intera Francia, e la mobilitò in una gara di solidarietà per i senzatetto. In 48 ore, nella sola Parigi, furono aperti quaranta «Centri fraterni di soccorso».

L’ALT IMPOSTO DALLA SALUTE

Dopo l’inverno 1954, l’Abbé Pierre è conosciuto in tutta la Francia. Viene chiamato a parlare davanti a migliaia di persone in molte città. Dice: «Sogno una Francia in cui tutti partecipino alle sofferenze dei più sfortunati. Una Francia in cui politica sia sinonimo di speranza». All’inizio di questa specie di trionfo ci prende gusto, lo confessa: «È lusinghiero sentire la simpatia, l’ammirazione…». La sua impetuosità e il suo candore lo spingono anche ad errori gravi. Lascia che il governo si serva del suo nome per lanciare un «prestito senza interessi» per la costruzione di villaggi di emergenza. Si rivelerà una mezza truffa. Permette perfino che la sua figura faccia da sponsor al detersivo Persil, la cui proprietà versa contributi per i poveri. Ma nell’attività frenetica la sua salute varca i confini di guardia. Una grave infezione lo porta in ospedale una prima volta nell’estate 1954. Seguono guarigioni e ricadute continue, fino all’esaurimento fisico e psichico, alla cura del sonno. Tra il giugno 1954 e la fine del 1958 trascorse 22 mesi in clinica. Nel silenzio forzato dell’ospedale riacquista «le giuste dimensioni di me stesso». Passa lunghe ore in adorazione, a tu per tu con Dio. Appunta sul taccuino che gli serve per comunicare con Lucie e gli altri collaboratori: «La grande rivolta si è conclusa. Ritorna il tempo dei lavori lenti e pazienti… Voglio essere solo un uomo che parla con altri uomini di buona volontà della liberazione dei poveri e dei miseri». Gli fanno sapere che il movimento Emmaus sta attecchendo in altre nazioni. Occorre dargli una fisionomia. Egli pensa a una federazione che ha alla base un grande amore concreto per i poveri. Per il resto, piena libertà. Nel dicembre 1957 sembra vicina la sua fine. Scrive in due righe il suo testamento: «Non possiedo nulla. Se resta qualcosa, è dei poveri». Ma il suo fisico reagisce oltre le previsioni. È ospite dell’abbazia di Hauterive nell’estate del 1958, e scrive a Lucie Coutaz: «Continuo a offrire…».

IL PARLAMI DEI POVERI DEL MONDO

Nell’autunno torna la salute. Il corpo rimane fragilissimo, ma l’energia è intatta. Sorride quando gli annunciano che è diventato papa Giuseppe Roncalli, già Nunzio e Parigi e suo amico, che gli diceva: «Lei è il mio carbone ardente». C’è una ventata di aria nuova sulla Chiesa. Con la cautela e le pause raccomandate dai medici, l’Abbé riprende a girare per città e nazioni. Non più organizzatore né fondatore, ma umile fratello che dice a tutti: «Aprite gli occhi sulla povertà!». Incontra Emmaus che è arrivato prima di lui in molte nazioni. Sorride ed esorta ad amare i deboli, ad aiutare gli emarginati. Nella Pentecoste del 1969, in Svizzera, si tiene la prima assemblea generale del Movimento Emmaus. 60 organizzazioni che si presentano come «II Parlamento dei poveri del mondo». Nel 1988, a Verona, la sesta assemblea generale vede 317 organizzazioni. Lo spirito, sostanza del Movimento, è: lottare contro la miseria, l’emarginazione, la disperazione degli ultimi. Tutto il resto è condensato nelle parole: «Fai come puoi e come sai». Papa Giovanni Paolo II ha voluto incontrare l’Abbé nel 1991. La fotografia che ricorda l’avvenimento ritrae papa Woytjla fiorente di energica salute che appoggia la mano sulla spalla fragile dell’ormai ottantenne Abbé Pierre. Eppure fu in quella occasione che il vecchietto fragile disse al papa: «A 75 anni tutti i vescovi del mondo devono dare le dimissioni. Mi pare che dovrebbe farlo anche il vescovo di Roma». Giovanni Paolo II sorrise e gli rispose: «È una cosa a cui dovrò pensare». Al compimento dell’80° anniversario (1992) l’Abbé lascia la direzione del Movimento e si ritira a «La Halte» (La Sosta), una fattoria di campagna dove si ritirano i compagnons quando devono cessare la vita attiva: pregano, allevano polli e conigli, badano all’orto. Lo vanno a trovare ogni tanto gruppi di giovani, sacerdoti e religiosi, gli attuali dirigenti del Movimento. A questi ultimi ha detto: «Senza i nove anni di adorazione nel convento dei Cappuccini, non avrei restito al turbinio della mia vita».

(Da “Dimensioni Nuove” Agosto/Settembre 2000, pagg.29-35) 

Sulla ragione

In questi giorni sto leggendo il libro “Senza Dio, del buon uso dell’ateismo” di Giulio Giorello. Sono stato anche alla presentazione del libro, anche se purtroppo l’autore non era presente. Qui sotto posterò un vecchio articolo di Carlo Fiore, tratto da Dimensioni Nuove del gennaio 2001 (Bobbio e Montanelli erano ancora vivi e Biffi era ancora a Bologna), un articolo che fa pensare, meditare, riflettere. Magari anche indispone per alcuni toni e accenti, ma è sempre utile. Personalmente ritengo che essere credenti seri e atei seri sia un percorso comunque arduo, mai scontato. Ho scritto percorso proprio perché penso a un movimento e non a qualcosa di statico. La ricerca del credente e del non credente è continua e non basata sulla certezza filosofica. Un altro bell’argomento sarebbe anche quello su credente e non credente ma rispetto a quale Dio? Ma ecco l’articolo

SULL’ALTARE DELLA RAGIONE

di Carlo Fiore

Il materialismo ha radici antiche. Materialisti erano antichi Filosofi greci come Democrito ed Epicuro, materialisti sono, a tutt’oggi, scienziati e uomini di cultura, anche se il secolo d’oro del materialismo e del positivismo è stato l’Ottocento.

«Le svariate forme di materialismo sostengono che il tutto della realtà, la realtà nella sua totalità, è solo materia in movimento»: materia «eterna e indistruttibile», come afferma Ludwig Buchner (1824-1899) nel suo fortunato libro del 1845 dal titolo Forza e materia. L’uomo è solo materia: quello che noi chiamiamo spirito è, secondo Buchner, «l’effetto del concorso di molte sostanze dotate di qualità e di forze». Ad esempio, il pensiero (D. Antiseri, Credere, Armando). E così pensava tutta una schiera di materialisti del secolo XIX. Qualche espressione tipica per chiarire meglio.

  • «I pensieri si trovano nello stesso rapporto rispetto al cervello della bile rispetto al fegato e dell’urina rispetto ai reni» (Karl Vogt, 1817-1899).
  • «Non c’è pensiero senza fosforo» (Jacob Moleschott, 1822-1893).
  • «L’unica fonte di salvezza è il ritorno alla natura. La natura ha edificato non solo quella comunissima officina che è lo stomaco, ma anche quel tempio che è il cervello» (L. Feuerbach, 1804-1872.).
  • È rimasta celebre un’affermazione del famoso chirurgo dell’Ottocento Claude Bernard: «Signori – disse ai suoi colleghi – sotto il mio bisturi non ho mai trovato l’anima».
  • Un’altra battuta, più esilarante e di grana più grossa, afferma: «L’anima è un gas».

Per il materialista quindi non c’è anima, non c’è trascendenza, non ci sono valori spirituali, non c’è Dio. Solo materia da cui tutto si sprigiona. …

NORBERTO BOBBIO: UN LUME, UN LUMICINO…norbertobobbio.jpg

Qualcosa però sta mutando, il vecchio materialismo ha mostrato la coda di paglia. Anche uomini rappresentativi della cultura attuale si stanno accorgendo che si devono allargare gli orizzonti. Troppo semplicistico dire un no rotondo a tutto il mondo dello spirito e catalogare tutto sotto la voce «materia in divenire», in evoluzione. L’evoluzionismo ottocentesco infatti era radicalmente materialista a causa soprattutto del clima anticlericale del tempo. Oggi la stessa chiesa lo accetta purché liberato dalla sua impalcatura materialistica. Ma ascoltiamo i due grandi vecchi della cultura italiana contemporanea. Norberto Bobbio, non credente, illuminista a passo ridotto: «Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità per me significa, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infinitamente infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo. L’unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione – perché non lo ripeterò mai abbastanza: non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è mio – è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi. Resta però fondamentale questo profondo senso del mistero che ci circonda, ed è ciò che io chiamo religiosità» (N. Bobbio, Religione e religiosità, in «Micromega», 2/2000).

INDRO MONTANELLI: «ATEO IO? NO, GRAZIE»

montanelli.jpgIndro Montatelli è tra i più noti giornalisti italiani. Anche lui è sulla dirittura di arrivo con i suoi 90 anni. Una lunga vita, i dubbi, le esitazioni, le angosce di un non credente. Dopo una serie di articoli-confessione su problemi di fede, un lettore gli scrisse: «Lei è ateo». Montanelli reagì vivacemente. «Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo. La nostra vita, il Mondo, il Creato, l’Esistente devono pure avere un perché che la mia mente e la mia ragione non riescono a spiegarmi. Ed è là dove mente e ragione finiscono e finiscono troppo presto che per me comincia il Grande Mistero di Dio, di Dio che non mi ha dato i mezzi per capire». E rivolgendosi al suo lettore: «Per lei evidentemente Dio non è affatto un Mistero perché, da buon cattolico, accetta come Verità quella rivelata dalla Chiesa. Io la invidio, ma non riesco a seguirla perché mi manca la Fede in quella rivelazione, come in quelle di tutte le altre religioni e confessioni… So che morrò senza aver trovato risposta alle tre più importanti domande della nostra vita: di dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare: il che mi da, quando ci penso (e ci penso sempre più spesso) un senso di disperazione. Ma non posso giocare a rimpiattino con me stesso, tanto meno con Dio, fingendo una fede che non ho».

TRA DONO DI DIO E SCELTA DELL’UOMO

E qui si pone il grande problema: in che senso la fede è dono di Dio? L’uomo non ha una sua libertà e responsabilità nell’accettare o respingere questo dono? Attenzione a non porre il problema in modo sbagliato e fatalistico: Dio non mi ha dato questo dono, dunque… Don Luigi Giussani, che sta dirigendo una collana di spiritualità per la BUR di Rizzoli, ha scritto: «Vi sono tanti scienziati che, approfondendo le loro esperienze di scienziati hanno scoperto Dio; e tanti scienziati che hanno creduto di eludere o di eliminare Dio attraverso le loro esperienze di scienza. Vi sono tanti letterati che attraverso una percezione profonda dell’esistenza umana hanno scoperto Dio; e tanti letterati che attraverso l’attenzione all’esperienza dell’uomo hanno eluso o eliminato Dio. Allora vuol dire – conclude don Giussani – che riconoscere Dio non è un problema di scienza, né di sensibilità estetica e neanche di filosofia. È un problema di libertà… Alla fin fine, l’opzione è decisiva» (L. Giussani, II senso religioso, Jaka Book). E in un passo analogo: «Anche Althusser, il filosofo neomarxista, la pensava così quando diceva che tra esistenza di Dio e marxismo il problema non è di ragione ma di opzione». Devo scegliere, la mia libertà mi è data per questo: fare delle scelte che orientino tutta la mia vita.

UNA GABBIA CHIAMATA RAGIONE

È evidente che tra la visione ultrapiatta e unidimensionale dei materialisti e positivisti e le aperture al «mistero» di Bobbio e di Montanelli c’è un evidente progresso. Si è aperto lo spiraglio, sia pur piccolo, a una certa trascendenza. «Trascendere senza trascendenza» scriveva Ernst Bloch, il filosofo ebreo marxista eretico. Ma perché il cammino di Bobbio e Montanelli si ferma ostinatamente qui, perché non riesce a fare il balzo verso la Trascendenza in senso pieno? Risposta: a causa dell’illuminismo, che condiziona tuttora la cultura laica. L’illuminismo, sorto in Francia nel sec. XVIII, è passato poi in tutta la cultura europea laica e, per quel tempo, anticlericale. Ha posto sull’altare la Ragione, la Dea Ragione. La Ragione è stata vista come il metro di tutta la realtà: nulla contro la Ragione, nulla al di fuori della Ragione, nulla al di sopra della Ragione. Bobbio e Montanelli, come molti laici italiani tuttora, sono anch’essi figli di questo illuminismo anche se lo hanno ridimensionato molto: i «lumi» della Ragione, seppur semispenti, sono ancora gli unici che possono far luce sulla nostra strada. La Ragione assolutizzata, totalizzante, filtro universale della verità. La Ragione però ha creato una sua religione, ha finito per diventare un idolo che si è sostituito al Dio trinitario. Ha creato quella «soglia» che, per Bobbio, è invalicabile. E ha finito per sigillare in una gabbia la sua libertà, la sua capacità di scelta, di opzione. Chi ci si è rinchiuso non riesce più a uscirne. Bobbio, «un pensiero intimamente tragico», ha detto Vittorio Possenti, afferma di essere rimasto, per onestà intellettuale, «entro la soglia che l’uso di ragione non consente di valicare… Ho sempre avuto un grande rispetto scrive Bobbio per i credenti, ma non sono un uomo di fede. La fede, quando non è dono, deriva da una forte volontà di credere. Ma la volontà comincia dove la ragione finisce: io mi sono arrestato prima». Sulla soglia appunto della gabbia. È possibile allora parlare di opzione, di un sussulto di volontà che approdi a una scelta? No, risponde Bobbio. I confini della gabbia sono invalicabili. «Per me la ragione è un lume: un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere dalle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso cui andiamo».

SIAMO RANE GRACIDANTI, OPPURE…?

Biffi.jpgIl cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, è un uomo abituato a dire pane al pane e vino al vino. Anche quando è «politicamente scorretto». Nel primo numero della rivista Nuntium, Biffi si chiede: «I confini del visibile sono sì o no anche i confini dell’esistente? O, che è lo stesso: c’è o non c’è la possibilità che ci sia qualcosa oltre il mondo visibile?». L’uomo, precisa il cardinale, non può sfuggire a questo dilemma: deve aderire all’una o all’altra di queste due prospettive. O noi siamo come delle rane gracidanti sulle rive dello stagno del nulla, o siamo i fortunati invitati a una festa cosmica che non finirà. Siamo dunque di fronte a una inevitabile scelta tra «una chiara ed evidente insignificanza e una nascosta trascendente significazione. O si dà credito al non senso, che sembra connotare ogni cosa, o ci si affida a un’intelligenza più alta: dobbiamo scegliere». E Biffi conclude: «Questo salto in direzione del mistero è il solo modo che ci è consentito per evadere dalla gabbia della più atroce contraddizione». E dell’assurdo, che oggi ci tallona continuamente. «E’ un salto», prosegue il cardinale, «che mi secca e mi costa, ma non mi è data altra strada per uscire dal non senso di tutto». E chiude con un paragone forse «teologicamente scorretto», ma molto chiaro. «Se sto dormendo al secondo piano di un palazzo e si sviluppa dal basso un incendio, che ha già distrutto le scale, è ragionevole che io mi butti dalla finestra dopo essermi accertato che sotto c’è il telone dei pompieri. Non è la discesa più comoda, quella che d’istinto preferirei, ma è l’unica che può salvarmi. Ebbene, la Rivelazione cristiana è in sostanza l’annuncio che c’è il telone dei pompieri. È il salto della salvezza, che per essere raggiunta, ci chiede il salto ardimentoso dell’atto di fede» (G. Biffi, Al bivio tra l’assurdo e il mistero, in Nuntium, pp. 58-60). 

Ribollente

Ecco un’ulteriore infornata di articoli presi da Limes, Il Sole 24 ore e Nigrizia

17. Medio Oriente tra tecnologia e capitalismo.pdf

18. Internazionalizzazione della questione libica.pdf

19. Gheddafi contrattacca.pdf

20. I ribelli chiedono aiuto.pdf

21. Il ruolo della Cina.pdf

22. Costa d’Avorio nel caos.pdf