Perdono e giustizia

Pubblico un altro pezzo di Enzo Bianchisulla questione del male e in particolare sul rapporto tra perdono e giustizia.

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Perché il perdono è un tema così decisivo nella nostra vita umana e cristiana? Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa negazione del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, il male che noi facciamo a noi stessi e agli altri, il male che gli altri ci fanno. Il male – nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo parlare – è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male – dice Gesù – è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cf. Mc 7,20-23; Mt 15,18-20). Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo (cf. Rm 7,18-19). Non a caso le domande che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro, la preghiera insegnataci da Gesù, sono: «Non abbandonarci alla tentazione» e «Liberaci dal male» (Mt 6,13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché ci renda capaci di perdonare i nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12).

Il male come azione malvagia compiuta da noi esseri umani ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non è epifanico, non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale… L’uomo si abitua al male, e soprattutto la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo talvolta alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? Non giungiamo perlomeno a sperare il male per chi ci ha fatto soffrire?

Questo è il nostro istinto di conservazione: vogliamo vivere e vivere a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi il nostro istinto è quello di difenderci attaccando, non diversamente dagli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e di vendetta che ben presto finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi esseri umani, in verità, sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, di una vita segnata dalla qualità della convivenza, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto, umanamente, un’interruzione del male, un porre un argine al male, un dire no a una logica di morte.

Gesù con la sua vita ha cercato di narrarci questo volto di Dio fino a vivere lui stesso, in prima persona, il perdono fino all’estremo. Perdono donato anche ai suoi carnefici, ai suoi aguzzini, a quanti lo hanno condannato a morte, a quanti lo hanno angariato durante la sua esecuzione: «Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno» (cf. Lc 23,34). Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l’insegnamento di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ha potuto rivelarci Dio quale fonte di ogni perdono. Ascoltate questo straordinario annuncio dell’Apostolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,8-10).

È una scandalosa simultaneità: mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo, a tal punto che Hannah Arendt, una filosofa ebrea e non credente, è giunta a scrivere: «A scoprire il ruolo del perdono nell’ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret» (Vita activa. La condizione umana V,33 [orig., 1958; Bompiani, Milano 200814, p. 176]). Questo è lo scandalo della croce di Cristo (cf. 1Cor 1,23), e solo nella folle logica della croce (cf. 1Cor 1,18.23.25) si può comprendere il perdono di Dio verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi e gli altri.

Ma nel nostro cuore, di fronte a questo perdono così radicale ed esteso, sorge una domanda, un dubbio: e la giustizia? Sentiamo dire: misericordia, perdono; e ci chiediamo: sì, ma la giustizia? Certo, la giustizia è anch’essa un attributo del Nome di Dio («… non lascia senza punizione, castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione»: Es 34,7). Ma guai a noi se misurassimo la giustizia di Dio con i nostri criteri umani, se proiettassimo in Dio la nostra giustizia. La giustizia degli uomini è necessaria, è capace di arbitrare, di sanzionare il male, talvolta anche di arginarlo; ma solo la misericordia sa rendere all’uomo la sua dignità, sa fare del colpevole una creatura nuova, perché l’uomo ha bisogno certamente della giustizia, ma anche dell’amore e della gratuità del perdono. Solo la misericordia permette di fare giustizia senza vendicarsi, senza umiliare il colpevole, e di perdonare senza svuotare la legge, il diritto. Noi cristiani dobbiamo fare un ulteriore passo avanti nella comprensione della giustizia e nel cammino di umanizzazione. È stato il beato Giovanni Paolo II a farci il dono di aprire il cammino alla comprensione di come sia possibile coniugare insieme perdono e giustizia. Nel suo Messaggio per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002 egli ha innanzitutto confessato che, confrontandosi con la Parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, era giunto a comprendere che il Vangelo esige che il principio «perdono» sia immanente al principio «giustizia» (cf. § 2). Così ha potuto coniare un’affermazione lapidaria, che dà il titolo all’intero suo testo: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono». Questo il messaggio annunciato ai cristiani e anche ai non cristiani, messaggio straordinario che osa chiedere a tutti una prassi di perdono affinché sia possibile edificare insieme una polis, una città segnata da giustizia, pace, solidarietà comune. Ma Giovanni Paolo II con forza e audacia ha anche chiesto che l’esercizio del perdono non avvenga soltanto a livello personale, ma sia una virtù proposta all’intera comunità civile. Così scriveva: “Solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una «politica del perdono», espressa in atteggiamenti sociali e istituti giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano” (ibid.§ 8).

Questa la risposta vera alle patologie della società, ai conflitti che dividono gli uomini e li contrappongono tra loro. L’ordine sociale e la costruzione della polis non possono avvenire senza coniugare tra loro giustizia e perdono. In quest’ottica – lo ripeto – è particolarmente necessario situare il perdono anche nell’ambito giuridico: occorre sì arginare e disarmare il colpevole, occorre anche la detenzione per impedirgli di reiterare i delitti; ma nello stesso tempo occorre pensare a una rieducazione, ad apprestare un cammino di umanizzazione e di reinserimento nella società, mostrando anche la possibilità di un perdono, di un condono. Nel contesto politico, già ad Atene, nell’antichità, si conosceva la legge dell’amnistia, con lo scopo della riconciliazione tra partiti politici e della pace nella polis. Nel contesto economico, il perdono può essere esercitato con la remissione del debito dei paesi poveri, dando loro la possibilità di un’economia che conosca uno sviluppo. Sì, il perdono, come ha detto Giovanni Paolo II («Le famiglie, i gruppi, gli stati, la stessa comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale»:ibid.§ 9), a livello giuridico, politico ed economico internazionale non è solo un atto che vuole dimenticare un passato che altrimenti potrebbe solo alimentare il conflitto, ma è un atto che apre a un nuovo futuro. Perdonare è prendere coscienza che è necessario rinnovare la comunicazione, la relazione con l’altro, per non negarlo, per non lasciarlo nella condizione di nemico. Si pensi al perdono reciproco che si è attuato tra neri e bianchi in Sudafrica o a quello assolutamente necessario tra ebrei e palestinesi al fine di giungere a una pace vera e duratura. Il cammino del perdono è il cammino dell’umanizzazione, è il cammino di Dio per noi uomini.

Facebook a scuola

Prendo dalla rete questa notizia. Sapete che io ho deciso di accettare amicizi su fb dagli studenti solo dopo l’ultimo scrutinio dell’ultimo anno. Ma vietarlo per legge è un’altra cosa…

STATI UNITI – Una nuova legge sta per entrare in vigore nello stato del Missouri: sarà fatto divieto assoluto agli insegnanti e studenti di diventare amici tramite siti di social networking come Twitter e Facebook. La legge entrerà in vigore il 28 agosto ed è emanata per rafforzare il senso di ‘limite’ tra studenti e insegnanti. Dopo tutto, se uno studente diventa amico di un insegnante su Facebook e gli altri non lo sono, si può anche dare l’impressione di essere favoriti. Il disegno di legge non esclude del tutto il contatto online. Gli insegnanti possono avere pagine su Facebook e Twitter che permettono il contatto diretto con tutti gli studenti online ma senza essere amici. Restano domande su come il divieto sarà applicato e se è davvero costituzionale impedire alla gente di avere rapporti sociali con gli altri. Tuttavia, il Missouri povrebbe essere solo il primo di una lunga serie a proporre una legge per regolare il contatto online tra insegnanti e studenti.

Tra cielo e terra

Pubblico da Avvenire questo racconto di Alessandro D’Avenia che mi è piaciuto molto.

icaro.jpgIcaro e la caduta verso l’alto

Il mio segreto è volare. Per volare bisogna avere le ali e io le ali adesso le ho. Sono quelle che mi ha costruito mio padre. Sono ali di carne, penne e cera. Sono ali pesanti, ma il loro peso mi permette di non avere peso. L’ho imparato dai gabbiani e dalle aquile che hanno ali grandi, più pesanti di tutti gli altri uccelli: così si librano alti nell’aria più a lungo di tutti e guardano fisso il sole.

Non mi sono mai accontentato della Terra. Io volevo guardarla dall’alto, sorprenderla a vivere e respirare, dall’alto. L’ho scoperto fissando le stelle nelle notti tranquille d’estate e in quelle fredde dell’inverno. Ne avevo fame. Tutto passa. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, ma le stelle resteranno, anche quando l’ombra del mio corpo non striscerà più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Le stelle mi hanno insegnato a volare, a volerle contare a una a una capisci come si fa.

Ho chiesto a mio padre le ali. Lui è un inventore, un creatore, oltre che mio padre. Mi ha costruito e regalato le ali: una specie di medicina per guarire la mia nostalgia del cielo. Così ho cominciato a volare. Volevo innalzarmi nel puro azzurro dei cieli e accompagnare aquile e gabbiani nelle loro cacce. Ma poi… ho avuto nostalgia della Terra. A guardarla dall’alto me ne sono innamorato come avevo desiderato il cielo, perché solo dall’alto scopri che anche la Terra è piena di stelle, di fuochi che si accendono.

Volevo imparare le strade degli uomini, lambire le loro costruzioni, i palazzi, i tetti, le guglie, le case degli uomini con i loro fuochi accesi per i racconti, le parole, le fatiche e gli amori. Amavo le loro vite ora che le guardavo dall’alto. Ho accarezzato la Terra con il mio volo e scoperto il segreto delle rondini e dei martin pescatori, del loro volo radente, che parla con le cose più da vicino, senza paura. Quante vite ho ascoltato dietro mura, finestre, porte… Quanti fuochi ho visto accendersi e pulsare, stelle di cieli quotidiani.

Quando mi abbasso troppo sulla Terra, però poi torna la nostalgia dell’altezza, delle stelle. Quando sto solo con le stelle, mi afferra la nostalgia della Terra, dei fuochi nelle case. Non sono fatto né per il cielo né per la Terra, mai contento solo dell’uno o dell’altro, o forse sono fatto per unirli, come fanno i poeti. Solo le parole infatti hanno lo stesso potere, per questo i poeti le chiamano alate.

Ho capito che il cielo e la terra non si uniscono sulla linea dell’orizzonte, ma all’altezza del mio cuore. Ora mi innalzo in cielo con le mie membra di fango, ora sprofondo nel fango con il mio respiro di cielo. Sollevo la terra di cui sono fatto in cielo, soffio il cielo di cui sono fatto dentro la terra.

Rinnovo l’uno e l’altra, do respiro all’una, carne all’altro. Tranne quando mi perdo e ci si perde sia nel cielo sia sulla Terra. Mi perdo nelle altezze celesti quando non voglio più saperne del peso della terra. Le ali si seccano, le penne si staccano, la mia carne si scioglie e il volo diviene folle, perché non sono un angelo, ho il sangue di terra. Ma mi perdo anche negli abissi terresti, creatura del sottosuolo, quando mi stanco del cielo. Sento allora le ali inumidirsi, appesantirsi al punto da non riuscire a prendere il volo e il volo farsi schianto, la bocca attaccata alla terra, gli occhi pieni di polvere.

Quante volte mio padre ha riparato le mie ali, come un padre con la bicicletta del figlio, per liberarle dal peso dell’umidità o dall’arsura del sole. Lui me lo dice sempre: “Assomigli agli alberi, sospeso tra cielo e terra. Sei fatto per vivere in mezzo, tra cielo e Terra. Tu sei fatto per unirli. E quando non ne avrai più le forze farai come i martin pescatori che si adagiano sul dorso degli alcioni che li trasportano ancora in alto quando loro non ne hanno più la forza.”

E quando cadrò ormai stanco vorrei ascoltare ancora una volta quella canzone che mia madre un tempo cantava: Le foglie cadono, cadono / come se giardini lontani avvizzissero nei cieli. / E nelle notti cade, cade la terra pesante da tutte le stelle. / Noi tutti cadiamo. Questa mano cade. / Eppure c’è Uno che senza fine, dolcemente, / tiene questo cadere nelle sue mani.

Sono fatto per cadere in alto.

Gmg e catechesi

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Nel 2005 ho partecipato alla Gmg di Colonia ed è stata un’esperienza particolare, sicuramente forte. Una delle cose che ricordo con più felicità è il momento delle catechesi mattutine (a parte le difficoltà logistiche che hanno caratterizzato tutta quell’avventura: organizzazione tedesca pessima!). Le ho trovate decisamente arricchenti e meno dispersive degli altri appuntamenti, magari più suggestivi. Pubblico allora la sintesi che Silvia Guidi ha fatto per L’Osservatore romano delle due catechesi di Bagnasco e Crociata, entrambe molto interessanti.

«Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera»: il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua prima catechesi alla Giornata mondiale della gioventù di Madrid, il 17 agosto, cita la lirica sulla precarietà della vita di Salvatore Quasimodo. Un canto accorato su «giorni che sono come un raggio, presto inghiottito dall’oscurità della morte»; un canto apparentemente in contraddizione con il tema della settimana madrilena, «Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede». «Sembrerebbero queste parole — ammette lo stesso presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) — non avere particolare significato per il nostro tema; ma così non è. Il canto della brevità inarrestabile dell’esistenza ha uno sfondo sottinteso ma presente: il desiderio di non morire, di vivere per sempre, di una felicità senza fine. Qui emerge il paradosso e il dramma umano di tutti i tempi, anche dei nostri». Il cardinale cita Camus, che nel suo romanzo Il mito di Sisifo porta questo paradosso alle sue estreme e tragiche conseguenze: «Vi è assolutamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la penna di essere vissuta. Il resto (…) viene dopo». L’uomo non solo vuole vivere, ma vuole sapere: sapere inteso come ricerca e conoscenza sempre più ampia e profonda del mondo, ma anche come conoscenza del perché e del significato del mondo, e, innanzitutto, di se stesso. L’esperienza insegna che vivere non è consumare delle cose e del tempo, non è un calendario di giorni, ma è un intreccio di significati, un orizzonte di senso. È conoscere non solo gli scopi immediati delle nostre singole azioni e scelte particolari — il lavoro, gli affetti, la casa — ma soprattutto il fine ultimo dell’esistenza, è rispondere alla domanda che vibra dentro ciascuno: perché, per che cosa vivo? Qual è il fine pieno che dà valore a ogni altro scopo particolare? Lo stupore di fronte al mistero dell’Essere, ha ricordato ancora Bagnasco, è profondamente radicato nel cuore dell’uomo: «Difficilmente — affermava Albert Einstein — tra i pensatori più profondi nel campo scientifico riuscirete a trovarne uno che non abbia un proprio sentimento religioso». Ma viandante e pellegrino non sono sinonimi, spiega il cardinale: «La meta di un pellegrinaggio ci fa pellegrini, che conoscono da dove partono e verso dove vanno; tutto ciò che accade nel tempo del pellegrinaggio è segnato e misurato dall’obiettivo, dalla meta. Altrimenti siamo dei vagabondi senza casa e senza terra, naufraghi della vita, che vivono alla giornata, come viene, per i quali ciò che conta è quanto sta loro davanti momento per momento: sarà naturale allora cercare di spremere la maggiore soddisfazione possibile dall’attimo presente».

L’istante presente va accolto come un dono, non «spremuto»; il carpe diem tanto spesso raccomandato dai cattivi maestri della nostra epoca nasconde un retrogusto amaro, e un pericoloso e «nevrotico» potenziale di violenza e prevaricazione. Lo ha spiegato, nella stessa giornata, il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei: i beni materiali non sono una rete di protezione sufficiente dagli imprevisti della vita. «Quando anche avessi assicurato tutto ciò di cui ho bisogno, chi può dirmi che la mia vita sarà sempre al sicuro? In realtà non c’è nulla di empirico, ma alla fine nemmeno di umano, che possa darmi questa garanzia. Potremmo anzi riconoscere nella ricerca spasmodica di una sicurezza sempre maggiore il meccanismo che sta all’origine di tendenze e comportamenti umani ultimamente frustranti anche se talmente diffusi da sembrare naturali e ragionevoli». All’idolatria della sicurezza materiale — ha ricordato Crociata — si affianca «un altro meccanismo, più elaborato, che può essere innescato dalla ricerca di sicurezza, ed è quello che si basa non tanto, o soltanto, sul possesso di beni, ma sul bisogno di riconoscimento, di stima, di amore, e perciò cerca negli altri il punto di appoggio alla propria ricerca di un solido fondamento alla vita. Anche in questo caso si produce facilmente una distorsione che trasforma le relazioni in una prigione insopportabile. Questo si verifica quando si cerca di ottenere con la costrizione o altre forme di strumentalizzazione un riconoscimento e un amore che raramente arriva spontaneamente dagli altri. Sono molte le forme che assume la pretesa di estorcere dagli altri riconoscimento e amore ad ogni costo; questo genera solo un groviglio di ricatti, insoddisfazioni e infelicità». La vittoria contro le insicurezze è frutto di uno stabile rapporto con Dio, continua il segretario generale della Cei: diventiamo «liberi da ogni possibile schiavitù di cose e persone, poiché la sicurezza della nostra vita non ha bisogno di essere cercata nel surrogato di un possesso pur sempre alienabile né in creature finite come noi, il cui riconoscimento e apprezzamento è pur sempre sottoposto alle evenienze imponderabili della revoca improvvisa o semplicemente degli imprevisti esistenziali. Adesso che la vita trova la sua sicurezza e il suo fondamento in Dio, nell’unico Dio che è il Dio di Gesù, posso usare di tutti i beni senza ansia o nevrosi di sorta, posso vivere le relazioni con tutti senza aspettare o pretendere una dedizione e un riconoscimento che hanno trovato una realizzazione piena e irrevocabile nell’incontro con Gesù e con il Padre suo e nostro».

«Se l’esistenza di Dio — tornando all’intervento di Bagnasco — cambia tutto nella vita dell’uomo, e questo significa un vivere sensato e bello, vuol dire che Dio corrisponde all’uomo, al suo essere, e quindi dovrebbe essere facile e desiderabile accoglierlo nel proprio orizzonte di vita». Allora perché — si interroga l’arcivescovo di Genova — l’uomo contemporaneo fa così fatica a fidarsi di Dio? Il clima culturale che oggi si respira certamente non aiuta. «Che cosa significhi il termine nichilismo ce lo dice Nietzsche: significa “che i valori supremi perdono valore”. Vidi una grande tristezza invadere gli uomini — scrive in Così parlò Zarathustra — I migliori si stancarono del loro lavoro. Una dottrina apparve, una fede le si affiancò: tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto fu! (…) Che cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? Tutto il nostro lavoro è stato vano, il nostro vino è divenuto veleno (…) Aridi siamo divenuti noi tutti (…) Tutte le fonti sono esauste, anche il mare si è ritirato. Sentiamo un opprimente senso del tramonto. In questo orizzonte, le domande radicali – quelle che ci siamo posti insieme all’umanità – sembrano perdere di valore, sembrano diventare “domande oziose” come dicevano Comte, Marx e Feuerbach». Un’analisi puntuale del modo di pensare che sembra diffuso in Europa — continua il presidente della Cei — può essere rintracciata tra le pagine de I fratelli Karamazov di Dostoevskij: «Secondo me, non c’è proprio da distruggere nulla, ma è sufficiente che sia distrutta, nell’umanità, l’idea di Dio: ecco il punto su cui bisogna far leva! Di qui, di qui bisogna partire: ah, ciechi senz’ombra di intendimento! Una volta che l’umanità si sarà distaccata, nella totalità dei suoi membri da Dio, allora di per sé, senza bisogno di antropofagia, cadrà tutta la precedente concezione del mondo, e soprattutto la precedente morale, e a queste succederà qualcosa di assolutamente nuovo. Gli uomini si conosceranno per prendere dalla vita tutto ciò che essa può dare, ma senz’avere altra mira che la felicità e la gioia in questo mondo presente. L’animo dell’uomo si innalzerà in un divino, titanico orgoglio, e farà la sua comparsa l’uomo-Dio. (…) il problema ora è questo: esiste o non esiste la possibilità che un simile periodo sopravvenga un giorno? (…) Siccome, tenendo conto della radicale stupidità umana, questa sistemazione potrebbe tardare magari anche mille anni, a chiunque abbia fin d’ora riconosciuto la verità è permesso sistemare la propria vita come più gli fa comodo, su nuove basi. In questo senso, a costui “tutto è permesso”. (…) All’uomo nuovo è permesso mutarsi in uomo-Dio, dovesse essere il solo a farlo in tutto il mondo, e, inseritosi ormai nel nuovo ordine, con cuor leggero saltare oltre ogni vecchio ostacolo morale del vecchio uomo-schiavo: tutto è permesso, e tanto basta!».

Fine dell’economia globalizzata?

Prendo da www.ariannaeditrice.it questo articolo di Gunter Pauli (imprenditore e autore di “The Blue Economy”) che ci sarà utile in quinta appena ricomincia la scuola.

16/08/2011 La realtà dimostra che nell’economia globalizzata, la povertà è l’unico fenomeno sostenibile

L’economia mondiale per decenni ha seguito la strada della globalizzazione. Il timone è stato tenuto dalle economie di scala ogni volta più grandi a costi marginali sempre più bassi, spingendo il settore manifatturiero a standardizzare e a ridurre radicalmente i costi attraverso l’outsorcing e il controllo della catena delle forniture. Così si sono imposti la concentrazione dei fornitori e l’eliminazione delle inutili gestioni interne, la promozione delle fusioni e delle acquisizioni e la riduzione dei costi per assicurare un maggior ritorno per gli investitori e prezzi più bassi per i clienti, in modo da aumentare il loro potere di acquisto e ingrossare le fila della cosiddetta classe media. Si supponeva che questo processo globalizzatore di crescita portasse ricchezza dagli strati sociali più alti fino ai più bassi, distribuendola e permettendo a più membri della classe media di diventare ricchi. Però la realtà dimostra che, nell’economia globalizzata, la povertà è l’unico fenomeno sostenibile. Anche se si può sostenere che c’è stata la crescita e l’espansione del mercato, la quantità di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno non sono mai state tante come ora.

Si riteneva che il controllo dell’esplosione demografica fosse un fattore chiave per uno sviluppo sociale equo per tutti nel pianeta. Però controllare la crescita della popolazione non è sufficiente. L’azione più decisiva che è necessaria – e la meno dibattuta – è cambiare il modello di business. Il nostro sistema economico è sempre stato organizzato per l’efficienza, ma però nessuno ha considerato la sufficienza. L’avidità, invece della necessità, è stata la musa ispiratrice della dinamica imprenditoriale. E il baratro tra i più ricchi ed i più poveri del mondo non è mai stato tanto ampio come ora. L’alternativa, proposta dalla Blue economy è quello di soddisfare le nostre necessità di base con quel che abbiamo. E’ finta l’ora di cessare il consumo di più della capacità reale del pianeta.

Per uscire dalla trappola della scarsità ed entrare nel mondo della sufficienza per tutti gli esseri senzienti, e non solo per la specie umana, dobbiamo introdurre innovazioni e tecnologie che forniscano nutrienti ed energia a cascata, proprio come fanno gli ecosistemi. Amory Lovins ed i suoi esperti energetici del Rocky Mountain Institute hanno dimostrato che la società moderna ha raggiunto nel 2007 il “picco del petrolio” – nel momento in cui l’estrazione annua dei combustibili fossili raggiunse il suo punto più alto – e che da allora si stanno riducendo progressivamente le riserve. In questa situazione, abbattere il consumo e cercare fonti rinnovabili di energia è una necessità assoluta. Ma la fine dell’era dell’accesso illimitato ai combustibili fossili porta con sé il “picco della globalizzazione”.

Le imprese che si sono espanse fino a trasformarsi in multinazionali ora si confrontano con una tendenza di dinamica decrescente. Le vincitrici saranno le piccole e medie imprese, ispirate da milioni di impresari che sapranno rispondere alle necessità di base delle loro comunità con le risorse locali disponibili. Questo cambiamento permette di concepire un sistema competitivo nel quale il libero commercio ed il libero flusso degli investimenti stranieri diretti non saranno più la chiave per il successo economico. Il nuovo modello offrirà opportunità alle imprese locali che saranno capaci di creare un’ampia alleanza di attività economiche e sociali con molteplici guadagni e benefici. Questo modello è l’alternativa alla camicia di forza imposta dal mantra dell’uniformato e globalizzato mondo contemporaneo: il giro di attività e competenze essenziali e il suo feticcio, le analisi dei flussi di cassa. Abbandonare il modello dell’Harvard Business School, che obbliga i manager a concentrarsi su un prodotto e un processo alla volta, permetterà che Davide vinca un’altra volta Golia. Davide vincerà, non perché ha un accesso privilegiato ai mercati globali di capitale, lavoro, energia e minerali, ma perché l’accelerata espansione che ha incentivato la globalizzazione avrà lasciato i giganti estremamente vulnerabili. E, a differenza delle 500 corporazioni più grandi che elenca la rivista Fortune, pochi imprenditori aspirano a rimpiazzare questi giganti e saranno soddisfatti se ognuno riuscirà a mordere una porzione del 2 o 3% del mercato dei loro formidabili avversari.

Questo nuovo paradigma faciliterà la venuta di sistemi decentralizzati di produzione e consumo che sono già competitivi e tecnicamente percorribili in tutti i settori dell’economia, incluse il minerario, la forestazione, l’agricoltura, i metalli, la chimica l’energia e l’industria cartiera. Il portafoglio di 100 innovazioni descritte in “Blue economy” e i loro crescenti successi di mercato in tutti gli angoli del mondo, dimostrano che questi singoli successi non sono isolati ma parte di una nuova tendenza che chiamiamo “La fine della globalizzazione”. Anche se la penetrazione completa della blue economy nel nostro tessuto sociale ed economico potrebbe richiedere qualche decennio, sta già forgiando forze competitive guidate dalle necessità e dalle risorse locali. Così nascerà una nuova società nella quale si creeranno posti di lavoro sufficienti, dove i migliori prodotti per la salute e l’ambiente saranno meno costosi e si creerà capitale sociale con la semplice dinamica di essere più produttivi e competitivi. In definitiva, questo è quello che spera l’economia umana: realizzare molto di più con molto meno.

Questo intervento è stato pubblicato su Tierramérica l’8 agosto 2011 con il titolo “Tras el pico del petróleo, la globalización se irá a pique”

Arroganza versus debolezza

Ieri, navigando nel web mi sono imbattuto in un articolo di un mese fa del priore di Bose Enzo Bianchi che conduceva un elogio della debolezza. Oggi nella sezione di economia del sito del Corriere della Sera leggo un pezzo breve dal titolo “Sei odioso? Fai carriera e guadagni di più”. Potremmo dire di essere agli antipodi: li posto entrambi.

Corriere della Sera, 17 agosto 2011

gordon_gekko.jpgMILANO – Quanto aiuta nella carriera essere arroganti, sgradevoli e magari anche profondamente antipatici? Moltissimo. Se poi sei uomo la scalata verso il successo è assicurata. A giungere a questa conclusione è un team di ricercatori guidati da Timothy Judge, docente di Managment presso il Mendoza College of Business dell’Università statunitense di Notre Dame, e al quale hanno partecipato anche Beth Livingston, della Cornell University e Charlice Hurst della University del Western Ontario. I ricercatori hanno raccolto e analizzato i dati di venti anni di studi, aggregando i risultati di interviste e sondaggi a più di 10 mila dipendenti e impiegati e interpretandoli in un report dal titolo «Do Nice Guys—and Gals—Really Finish Last?». In vetta alla classifica degli impiegati più premiati ci sono gli uomini odiosi, o quantomeno giudicati tali dai colleghi. Gli antipatici e sgradevoli infatti arrivano a percepire un reddito addirittura il 18,31 per cento superiore rispetto alla loro controparte gentile. Mentre le signore insopportabili guadagnano mediamente il 5,47 per cento in più delle colleghe simpatiche e solidali. Il che significa che nello scalino più basso della carriera lavorativa si trovano le donne piacevoli e amabili. Dunque va notato che il premio all’odiosità è molto più alto per gli uomini che per le donne e che la par condicio tra sessi non esiste nemmeno a questo proposito. In sostanza, come spiega Judge in un’intervista, la percezione dei colleghi cambia di fronte all’arroganza maschile e femminile, forse perché nella società la prevaricazione e la fermezza vengono tollerati meglio da parte di un uomo, quando addirittura non vengono visti in un’accezione positiva e associate all’abilità nell’essere ottimi negoziatori. Se un maschio è capace di imporsi con durezza, anche a costo di essere sgradevole, dimostra autorevolezza, mentre se una donna si afferma in modo troppo deciso rischia di essere etichettata come maniaca del controllo, pur essendo vista meglio rispetto alla collega dolce e gentile (che nel lavoro equivale a dire «mollacciona»). La gradevolezza è in tutti i casi una penalità, a conferma del luogo comune che rappresenta il vincente sul lavoro come un vero duro, poco umano, poco affabile e molto deciso. EMANUELA DI PASQUA

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Come scriveva Gilbert K. Chesterton, il paradosso attraversa il tessuto della fede cristiana. E così la debolezza, l’asthenía che nasce dalla malattia, dall’handicap, dall’umiliazione, dalla sofferenza imposta dalla vita, nel cristianesimo se è vissuta come un cammino pasquale può diventare addirittura un luogo in cui si fa sentire la forza di Dio. Questo viene proclamato da Gesù nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati (cf. Mt 5,1-12). L’Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). In questo testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza del Signore si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell’uomo. Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor 1,18-31), e noi cristiani abituati a tali parole siamo disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell’antropologia cristiana.

Confessiamolo però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per essere condotti all’«unica cosa necessaria» (Lc 10,42)? Non solo individualmente, ma come comunità, come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della «discreta caritas», dell’amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler «dare testimonianza» a noi stessi? Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di handicappati, ma siamo di fronte a un uomo o a una donna in carrozzella, a una persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle sue, forse solo allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo ha messo la sua tenda.

C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per me essere stato nella debolezza» (Sal 119,71), prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell’ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? Sì, dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo, difficile da accettare e soprattutto da vivere senza tradire l’amore. San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la grazia, la misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova. ENZO BIANCHI

Brucia il denaro: che ne è della cenere?

“Sono stati bruciati dalle borse europee xyz milioni di euro in poche ore”. In questi giorni è una notizia che si ascolta frequentemente durante i telegiornali quotidiani. Mi sono sempre chiesto: è mai possibile che siano volati nel nulla senza che qualcuno li abbia intascati? Un vivace articolo si Marco Savina comparso su Limesfa qualche ragionamento a tal proposito

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Inutili le volte nelle quali, in tempi non sospetti e proprio in questa autorevole rivista, si è detto che la crisi del 2008 sarebbe stata solamente propedeutica ad una maggiore, che si verifica, guarda caso, in una onda molto lunga e devastante ça va sans dire, proprio nel 2011. Politica e Mercato non sono mai andati d’accordo. Lo scriveva Niccolò Machiavelli nella sua opera “Il Principe” edita nel 1532 e tali sono rimaste le relazioni interpersonali tra i due poteri nel corso dei secoli. La politica apparentemente dovrebbe rappresentare l’arte dell’impossibile, ma purtroppo tuttavia appare come un moloch globalmente cieco, sordo e muto ai desideri ed alle necessità dei popoli. Di quale categoria sono i popoli? Non importa, qualunque tipo di gente ha il diritto di vivere con dignità e compostezza. Se questo non accade, l’aspetto fa riflettere su tanti altri percorsi che la globalizzazione ha imposto. Ovvero, crescita della povertà relativa rispetto agli standard di minima sopravvivenza anche in paesi industrializzati, ritorsione su consumi basici, sensazione di insicurezza e per finire sfruttamento insensato delle risorse basiche del pianeta. Come dire, il 15 % detiene l’85% del rimanente. Right or wrong, così stanno le cose. La “middle class” post seconda guerra mondiale dei “white collars” già stenta ad esistere e fa fatica a vivere quotidianamente. Di fronte ai tanti top managers che, giustamente o no, guadagnano 50 o 60 mila euro netti al mese plus bonus di ogni tipo e scelta, ci sono decine di migliaia di persone per bene che non arrivano alla fine del medesimo mese. Non per questo sono cittadini di serie B. Però vengono perseguiti con vessazioni pari a quelle imposte da un satrapo feudatario medioevale. Se poi parliamo della lotta all’evasione fiscale che in Italia sempre rappresenta una piaga purulenta, abbiamo l’ultimo ottimo esempio del ministro dell’Economia che paga in nero migliaia di euro al mese per godere di una casa affittata a nome di altri e dove può farsi, è proprio il caso di dirlo, i fatti propri. Per carità, tutto il mondo è paese, però come sempre esiste forma e maniera per le cose private. Su questo punto specifico, l’Italietta insegna a tutto il mondo. Nessuno si dimette e i tagli alla spesa “politica” del paese chissà perché, anche se a gran voce richiesti da tutto l’arco costituzionale, in finale stentano ad essere approvati.

Quindi e senza fare nomi, la qualità degli esseri umani in politica è pessima. Tanto pessima che nessuno degli attuali alti vertici è in condizione di varare norme atte a mettere un freno alla odierna, seppure insita nel sistema, crisi dei mercati. Ci vuole coraggio, ci vogliono attributi, ci vogliono capacità, ci vuole credibilità, ci vuole esperienza, ci vuole conoscenza, ci vuole molta professionalità, ci vuole anche sentiment dello Stato, inteso come il conglomerato di attitudini tra chi governa e chi subisce l’essere governato. Magari ogni tanto a questa platea gli girano anche le balle e con ragione, uomo o donna che sia. Il tema non è destra, sinistra o centro, laburisti o conservatori, repubblicani o democratici. Il vero dilemma sono i bisogni pragmatici di chi vive tutti i giorni, la scuola, l’educazione, il rispetto, il lavoro, oltre ai pochi valori rimasti nella vita quotidiana e che si vanno erodendo, globalizzando oltremodo una pervicace forma di “mors tua, vita mea”, affatto contraria non tanto ai dogmi delle varie religioni, quanto al consueto vivere civile. Egoismo, scaltrezza, indifferenza e casta stanno concependo un mondo imperfetto che, meno male, sta implodendo sotto il suo stesso peso. Bid & Ask sono le uniche parole conosciute in borsa. E un mercato in 3D le pone ancora più riflettenti ed opache se non si usano gli appositi occhialini. Che succede? Niente, se non l’assurdo. Che una oncia troy di oro pari a 31,11 grammi circa valga quasi milleottocento dollari sembra uno scherzo di cattivo gusto. Che faranno gli investitori con questo oro? Lo sfoglieranno e se lo metteranno in mezzo a due fette di pane, ammesso che ci sia ancora pane commestibile. Come sempre la mente umana è capace di qualunque tipo di pervicace nefandezza. I più ricchi, inclusi i così detti fondi sovrani non sanno dove mettere i soldi che hanno accumulato con traffici più o meno leciti. Usura, droga, prostituzione, gioco d’azzardo e affari sul limite, rendono miliardi di dollari o euro a chi li maneggia. In momenti di crisi dove vengono diretti tutti questi stimabili denari a cui qualunque governo fa l’occhiolino? Sull’oro. Ovvero sul niente. A che serve l’oro? Qualche uso industriale, gioielleria per ricche signore arabe e indiane e poi? Niente. Non è strategico e non serve per usi militari. Fort Knox è tanto desueto, così come la convertibilità delle divise che non pareggia più con il pur gustoso minerale color giallo zafferano. Infatti anche James Bond adesso preferisce giocare a poker. Quindi si torna al bid & ask, al mercato che non fa prigionieri, al mercato che vive di impeto e non di ragionamento. “Buy the rumors & sell the news”, normale pratica ovviamente di quando escono le notizie e pertanto non ci sono più notizie su cui appendersi. Men che meno da quelle della politica. In fondo, il mercato odia la politica. Il mercato si è fatto i propri circuiti viziosi dai quali mangia e muore. Il mercato si è costruito tali e tanti sistemi sintetici e virtuali per cui alla fine si apparenta ad un Avatar che o stacca la spina ai pc, o termina collassato sotto la spinta non tanto delle informazioni giornalistiche di miliardi “bruciati”, visto che i miliardi bruciati in sedute di borsa non esistono. Il denaro non brucia, solo va da una parte differente, che è quella di chi gode di grandi capacità di manovra. Come dire, se sei Citigroup o Goldman Sachs, solo per fare un esempio, sei tu che fai il mercato e molte volte ti remi contro senza accorgertene. Ecco perché alla fine il gioco estremo non dà ritorno. Nessuno vince e nessuno perde. Somma zero. La vittoria di Pirro dei poveri che non hanno niente da perdere. Ai ricchi una bella sforbiciata e i meno abbienti rimangono quello che sono, pagando però ogni volta lo scotto di aumenti sconsiderati dei prezzi atti a calmierare le perdite dei ricchi. Certo nessuno vorrebbe essere nei pantaloni di qualche esimio banchiere di Miami, dovendo giustificare inusuali sparizioni milionarie a cocaleros messicani, paraguayos, peruviani, boliviani, argentini o comunque centro e latino americani. Non è gente che convive con l’algido aplomb della Angela Merkel, un poco avara nel portafoglio, ma comunque sempre pronta a fare cassa con i titoli di stato di altri paesi amici dell’area euro. Magari nessuno gli racconta che anche la grande Germania è in pericolo di sopravvivenza, così come la Francia dell’arrogante Sarkozy e il Regno Unito dell’inetto David Cameron alle prese tra l’altro, ciliegina sopra la torta, con una notevole sequenza di teppisti e delinquenti che gli stanno mettendo a fuoco mezzo paese. Parecchi opinionisti ritengono che Barack Obama sia una specie di stolto, arrivato per caso alla Casa Bianca. Nessuno ricorda che gli USA negli ultimi due secoli si sono risollevati da tante traversie ed hanno alla fine vinto a loro modo tante di quelle situazioni per le quali un dime di scommessa sarebbe stato troppo. Che serve?

Per l’appunto, un quantum leap, un colpo d’ala. Il ritorno alla grande di un John Nash, sarebbe oltremodo magico. Di gente che parla a vanvera, il mondo ne detiene in quantità industriale. Inclusi coloro che dissertano sulla Cina, l’eccellente economia globale a due cifre fatta tutta di numeri falsi, esattamente come i loro prodotti. Per questo se la fanno sotto se gli Stati Uniti hanno seri problemi. E’ come lasciare la calda e comoda cuccia di una madre amorosa e andare per la strada a vendere a prezzi stracciati il poco di copiato che si ha in tasca. In quattro fra gli stati più importanti latinoamericani, dove sarebbe il caso di mettere ordine economico, sono casualmente fuggiti dalla finestra negli ultimi sei mesi qualcosa come cinquecentontoventi miliardi di dollari. Questo la dice lunga sull’effetto mercato vs. politica. Ma chi rischia e rimane sa che potrà godere di rendite indefinite, perché il costo della politica lo permette. D’altro canto non è una primizia dell’emisfero sud del mondo, piuttosto in questa parte del globo le risorse primarie sono ancora voluminose, considerevoli e appetitose. Morale della favola, l’incompetenza regna sovrana ma la supponenza dei politici, commentatori economisti, falsi esperti e affini sempre vuole fare la differenza. Questa volta la pellicola è diversa. Con buona pace dei suonatori e pure dei suonati.

Intanto in Cina…

In quinta trattiamo sempre l’argomento della globalizzazione e facciamo qualche cenno all’economia. Questo articolo è a firma del dissidente cinese Wei Jingsheng ed è tratto da Asianews.

Washington (AsiaNews) – I dati di ricerca accademica presentati dall’Accademia cinese per le Scienze sociali mostrano che il 99% delle imprese cinesi sono di statura media o piccola. Queste piccole e medie imprese (Pmi) contribuiscono circa al 60% del Prodotto interno lordo, forniscono più del 50% del gettito fiscale e danno circa il 75% dei posti di lavoro nelle aree urbane. Il fatto che nello scorso anno il 40% delle Pmi sia stato chiuso pone delle domande, che la gente rivolge nei confronti dei dati del governo. Data l’iper-produzione nel mercato automobilistico, alla fine del 2011 ci saranno 10 milioni di veicoli in eccesso in Cina. Questo dato supera l’intera produzione giapponese del 2009. Un altro grande problema viene dal surplus del mercato immobiliare, che ha creato una bolla pari al 30% dell’intera situazione abitativa. Al momento ci sono 64,5 milioni di appartamenti vuoti nel Paese, abbastanza per dare una casa a 200 milioni di persone.

Nel Paese, si stima che 1.300 persone controllino circa mille miliardi di dollari di investimenti. Secondo un sondaggio condotto da alcune istituzioni finanziarie occidentali, l’1,5% della popolazione cinese possiede il 45% dei depositi bancari e il 67% degli asset finanziari. Il coefficiente Gini (che misura la disparità negli stipendi) ha raggiunto lo 0,57. Nei primi anni Ottanta, esso era pari allo 0,25; negli anni Novanta arrivava allo 0,39. Questo coefficiente odierno è di gran lunga superiore allo 0,43 degli Stati Uniti e allo 0,37 dell’India. In Cina, la popolazione che vive nei pressi dell’assoluta povertà -ovvero un guadagno quotidiano uguale o inferiore ai 2 dollari al giorno – è pari alla metà dell’intera popolazione (1,3 miliardi di persone).

Le imprese controllate dallo Stato succhiano circa il 75% del totale degli investimenti, oltre a controllare circa i 2/3 degli asset totali. Durante la crisi economica e finanziaria che ha colpito il mondo fra il 2008 e il 2010, alle aziende statali è andato il 90% dell’intero pacchetto di aiuti economici per stimolare l’economia. Eppure, l’80% dei profitti aziendali in Cina proviene dalle 120mila Pmi (private) e da circa 12 delle maggiori industrie statali. Soltanto grazie a queste condizioni di monopolio è stato permesso ad aziende enormi come la Sinopec di realizzare enormi profitti.

Dopo aver letto tutti questi dati, possiamo immaginare cosa è andato male: dove sono nati i problemi economici e sociali della Cina. Il “modello Cina” è veramente un modello economico di tipo socialista che, come un vampiro, succhia il sangue dall’impresa privata e ottiene i vantaggi della cosiddetta “economia orientata alle esportazioni”, in modo da ottenere benefici danneggiando gli altri. Le economie di mercato semi-privato devono usare i profitti che ottengono dal mercato internazionale grazie al basso costo del lavoro per riparare i danni dell’economia statale e delle imprese rette da un gruppetto di capitalisti burocrati. Ma i capitali accumulati verranno usati per espandere e migliorare gli elementi tecnici dell’economia cinese? Molto probabilmente, no. Sono pochissime le Pmi che, ottenuti dei profitti dal mercato straniero, decidono di investirli in miglioramenti tecnologici: e questo avviene perché i vantaggi che si possono ottenere con il lavoro a basso costo – che sfrutta delle enormi violazioni ai diritti umani dei lavoratori – sembra sempre la strada più conveniente. Fino a che si riescono a vendere dei prodotti di bassa qualità, a che serve spendere denaro per migliorare la tecnologia? Accoppiata con l’ingiustizia e la corruzione del governo, questa situazione fa sì che i profitti ottenuti non siano poi così alti. Molti degli investitori privati, che guidano le Pmi, stanno iniziando a trasferire la maggior parte dei propri capitali all’estero, in modo da aiutare loro e le proprie famiglie a sopravvivere ai cambiamenti sociali in corso. Chi potrebbe comprare queste compagnie, una volta compiuti dei miglioramenti tecnologici? Nessuno, ed ecco perché i padroni attuali non fanno nulla e non beneficiano la popolazione.

Di conseguenza, il cosiddetto “modello Cina” dominato dall’economia orientata verso l’esportazione non ha fatto quello che doveva, con i profitti eccessivi ottenuti dopo aver riempito di spazzatura i mercati occidentali. Non ha formato o consentito un effettivo accumulo nella società cinese, ha a stento migliorato di poco i contenuti tecnologici dell’entità economica del Paese. I risultati di questo strano fenomeno si vedono adesso. Appena si verifica un problema nei mercati internazionali, praticamente la metà delle Pmi chiude. Eppure per la Cina i calcoli statistici prevedono un raddoppio nella crescita del Pil del prossimo anno: ma questa crescita è il risultato di inflazione e frode del sistema statistico. La vera crescita economica, al momento, è negativa. Oltre al fattore tecnologico delle Pmi, la politica finanziaria del governo cinese è il secondo fattore per importanza che spiega l’enorme chiusura delle aziende nel Paese. Durante la recessione economica globale, il governo ha aumentato gli investimenti per salvare l’economia: e questo è comprensibile. Tuttavia, questo denaro non è stato usato per salvare le Pmi, ma è stato versato quasi tutto in quelle aziende statali, o in mano a burocrati dello Stato, che l’hanno ottenuto grazie alla corruzione politica. Le imprese del grande capitale, che non avevano bisogno di fondi, hanno usato le iniezioni economiche governative per speculare: questo ha creato la bolla immobiliare. Così da una parte vediamo la chiusura di piccole e medie imprese che creano profitto, mentre dall’altra si deforma il mercato immobiliare con i fondi che servivano per salvare le Pmi.

Il problema più ingente viene però dai 3mila miliardi di dollari di debito estero americano che Pechino ha in cassa. Queste riserve dovrebbero essere usate come scambio per emettere altra valuta durante i terremoti economici. In recessione, il governo dovrebbe applicare una politica di mantenimento della valuta interna per tenere a bada l’inflazione. Questo approccio specifico è molto semplice: permettere la libera conversione della valuta straniera da una parte e dall’altra alzare il tasso di scambio di valute. In questo modo la circolazione della moneta interna sul mercato verrebbe ridotta, e l’inflazione declinerebbe in maniera naturale. Ma perché il governo cinese si mantiene sulla sua posizione, e non applica queste semplici misure? A causa delle differenze fra la politica democratica e quella governata dal capitalismo dei burocrati. Dal punto di vista di questi ultimi, eliminare l’inflazione non è un beneficio dato che comunque continuano ad accumulare profitti in eccesso. Radunare gli yuan della popolazione e alzare i tassi di scambio, favorendone la libera circolazione, ed eventualmente inviare all’estero i profitti eccessivi rimane per loro la strada migliore. Inoltre, apprezzare lo yuan renderebbe ancora più difficile trovare compratori per gli immobili in eccesso che già gravano sul mercato. Il collasso del mercato immobiliare cinese sarebbe un danno diretto ai burocrati capitalisti. Si tratta di un danno che loro, che controllano la politica, non sono disposti ad accettare. Naturalmente, neanche il regime del Partito comunista cinese – che gode del sostegno di questi capitalisti, è disposto ad accettarlo. La politica è divenuta la politica dei capitalisti, ancora più lontana dai problemi e dagli interessi della media della popolazione. E questo è il motivo alla base dell’impossibilità di risolvere i problemi sociali ed economici cinesi. Dal punto di vista dell’interesse nazionale della popolazione cinese, la questione è totalmente rovesciata. Aprire il libero scambio della valuta e aumentare il tasso dello yuan, insieme all’apertura di un mercato corretto delle importazioni, eliminerebbe entro sei mesi il problema dell’inflazione. Non sarebbe migliore soltanto la vita dei cinesi: il miglioramento delle tecnologie nelle Pmi creerebbe condizioni di lavoro migliore. Insieme a una relativa espansione del mercato dei consumatori interni, queste politiche aiuterebbero la sopravvivenza di quelle imprese. E questo migliorerebbe la vita della gente senza colpire nessuno. Ma questo renderebbe impossibile ai capitalisti dal cuore nero di fare soldi. Ancora più importante, rischierebbero la bancarotta quei tycoon del settore immobiliare che hanno avuto enormi vantaggi dalle demolizioni forzate e dai terreni espropriati con la forza dal governo. E quindi la Cina perderebbe la metà dei propri miliardari. Allo stesso tempo, i prezzi delle case crollati dopo le bancarotte ridurrebbero della metà la popolazione che non trova un posto dove stare. In questa guerra di interessi, vediamo con chiarezza che tipo di governo sia quello del Partito comunista cinese. Un potere politico, in mano ai capitalisti, che lotta contro la propria popolazione.

Quando la paura uccide la libertà

La libertà religiosa, la libertà di professare una fede, la libertà di seguire una cerimonia religiosa, la libertà di pregare, la libertà di parlare della vita di Gesù o di quella di Siddharta Gautama, la libertà di seguire il Ramadan… Non tutto è scontato: prendo da Asianews

Due donne iraniane in pericolo di morte per apostasia dall’islam.

IRAN_(f)_0816_-_Donne_apostate_e_bibbie.jpgSono state arrestate nel marzo scorso, anche se la conversione sembra risalire ad almeno dieci anni fa. Finora in Iran non è mai stata eseguita una condanna a morte con questa motivazione. Le autorità temono una diffusione del cristianesimo: sequestrate 6500 Bibbie. Teheran (AsiaNews/Agenzie) – Due donne iraniane, rinchiuse nella famigerata prigione di Evin per essersi convertite dall’islam al cristianesimo potrebbero affrontare una condanna a morte per apostasia. La notizia è stata diffusa da radio Farda. Amir Javadzadeh, giornalista di un emittente cristiana londinese, ha dichiarato che le due donne potrebbero essere condannate a morte anche se “non erano politicamente attive. Volevano solo servire il popolo in base alla Bibbia”. Marzieh Amirizadeh, 30 anni, e Maryam Rustampoor, 27 anni, sono state arrestate a marzo, anche se la conversione data a 10 anni fa. Javadzadeh ha aggiunto che sono diventate cristiane dopo “aver speso molto tempo studiando testi religiosi e aiutando gli altri”. La legge iraniana non prevede la pena di morte per apostasia, ma alcuni tribunali locali l’hanno comminata di recente (anche se non è mai stata eseguita) basandosi su testi religiosi. Le autorità sembrano preoccupate per un aumento della diffusione del cristianesimo, soprattutto evangelico. In questo contesto si colloca il sequestro di 6500 bibbie annunciato ufficialmente da Majid Abhari, consigliere del Comitato per gli affari sociali del Parlamento iraniano. Abhari ha attaccato “quei missionari che hanno a disposizione grandi somme di denaro e ,cercando di deviare i nostri giovani, hanno cominciato una grande campagna per sviare l’opinione pubblica. Quelle bibbie, a formato tascabile, stampate con la migliore carta del mondo, ne sono la prova”.

Oltre la genuflessione

Spiritualità e corporeità: dall’Oriente può arrivare una lezione utile? In questo articolo di Vittoria Prisciandaro sul numero di agosto di Jesus si sostiene di sì

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Yoga e lectio divina, T’ai Chi e dialogo interreligioso: in questi anni la sapienza asiatica, soprattutto indiana e cinese, si è fatta strada nelle parrocchie d’Occidente. Non è solo moda, tanto meno gusto per i sincretismi esotici. Piuttosto un aiuto, per analogia, nella meditazione e un arricchimento della propria fede cristiana.

La mano destra va a cercare la sinistra e la impugna: è un gesto antico, è l’unione tra il sole e la luna, tra Yin e Yang, il rito del saluto secondo l’antica sapienza Ming. Così, l’ultima settimana di luglio, ha avuto inizio il corso di T’ai Chi Ch’üan, nella casa Pastor Bonus di Lecce. Qualcuno tra i partecipanti indossa la divisa dell’antica arte orientale appena smessi i paramenti della celebrazione eucaristica. La Messa di primo mattino e poi la ginnastica e la meditazione T’ai Chi. A centinaia di chilometri di distanza, nell’eremo camaldolese di Monte Giove, agli inizi di luglio, la lectio divina su un brano della Scrittura è accompagnata dalle meditazioni sui testi del Mahabharata, uno dei più grandi poemi epici dell’India. Dopo il confronto verbale, i presenti – molte donne, alcuni religiosi, qualche sacerdote – fanno pratica yoga e realizzano alcune sequenze che vanno ad «aprire» quella parte del corpo – il cuore se si parla per esempio della carità – su cui la meditazione si è soffermata. Segue la preghiera silenziosa.

Sono solo due esempi, tra i tanti, che dicono come in questi anni la sapienza orientale, cinese e indiana, si sia fatta strada tra il popolo cristiano. Pochi sanno che in passato fu un gesuita francese, Jean Joseph Marie Amiot, che nel 1700 anticipò nei suoi scritti quella che sarà l’odierna comparazione tra la saggezza cinese e l’ascesi cristiana, introducendo, tra l’altro, come definizione sintetica di una qualsiasi attività svolta bene e virtuosamente, il termine Kung Fu. Oggi, sul solco aperto da questo religioso e da altri precursori del dialogo interreligioso, in Italia si muovono diverse realtà, alcune più attente al contesto della preghiera e della meditazione, altre – come il T’ai Chi – più specificamente legate alla riscoperta della corporeità quale luogo fondamentale e indispensabile della pratica spirituale e terreno fecondo dell’incontro interreligioso: le esperienze di meditazione di consapevolezza, tra le quali va citato l’autodidatta 96enne padre Piras, in Sardegna, o la sezione italiana della Christian Meditation, fondata negli anni ’70 dal monaco trappista Thomas Keating. E ancora, la meditazione profonda curata dal padre gesuita Mariano Ballester a Roma; la pratica dello zazen cristiano del missionario saveriano Luciano Mazzocchi; i gruppi che si rifanno all’esperienza dell’incontro tra cristianesimo e zen del tedesco padre Johannes Kopp Rosh; i corsi di meditazione silenziosa tenuti dal cappuccino Andrea Schnoller; quelli di meditazione profonda al convento dei Barnabiti di Campello, guidati da padre Antonio Gentili, o organizzati in giro per l’Italia da suor Marisa Bisi, delle Figlie della Croce. Si tratta di un universo che non cerca la ribalta e in gran parte ruota attorno alla rivista Appunti di viaggio, nata come coordinamento delle esperienze nel campo della meditazione profonda, dove è possibile trovare indicazioni su percorsi e date dei diversi corsi e appuntamenti. Va detto che i sospetti nei confronti di pratiche lontane dalla cultura occidentale, e quindi avvertite come «altre » rispetto allo specifico cristiano, non sono mancati. Un paio di anni fa, dalle pagine del quotidiano Repubblica, Eros Selvanizza, il presidente della Federazione italiana yoga, invitava a un dialogo aperto tra teologi e yogi, dichiarando che alcune «suore e monaci hanno maturato un’esperienza notevole, ma preferiscono non farlo sapere. Non è che se ne vergognino: non hanno capito se per la Chiesa è un bene o un male». Il disagio è comprensibile: la Congregazione per la dottrina della fede, nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana pubblicata nel 1989, infatti, dichiarava: «Con l’attuale diffusione dei metodi orientali di meditazione nel mondo cristiano e nelle comunità ecclesiali, ci troviamo di fronte a un acuto rinnovarsi del tentativo, non esente da rischi ed errori, di fondere la meditazione cristiana con quella non cristiana». La Lettera entrava nello specifico: «Alcuni esercizi fisici producono automaticamente sensazioni di quiete e di distensione, sentimenti gratificanti, forse addirittura fenomeni di luce e di calore che assomigliano a un benessere spirituale. Scambiarli per autentiche consolazioni dello Spirito Santo sarebbe un modo totalmente erroneo di concepire il cammino spirituale». Eppure, più avanti, la stessa Congregazione affermava: «Ciò non toglie che autentiche pratiche di meditazione provenienti dall’Oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un’attrattiva sull’uomo di oggi diviso e disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne».

«Il T’ai Chi Ch’üan, per esempio, è un’arte che è stata profondamente influenzata dalle più importanti correnti filosofiche e religiose cinesi: scuola Yin-Yang, confucianesimo, neoconfucianesimo, buddhismo Ch’an, taoismo…», dice Roberto Fassi, il pioniere di queste discipline in Italia, autore di alcuni volumi sul tema. «Siamo in un universo lontanissimo dalla meditazione e dalla preghiera cristiane. Non dimentichiamo tuttavia che, grazie al dialogo interreligioso che oggi fa parte della missione della Chiesa, si apre la possibilità di un arricchimento della tradizione cristiana. Certo, è necessario anche un accorto discernimento per evitare pericolosi sincretismi», aggiunge il gesuita Davide Magni, promotore con Roberto Fassi di corsi di T’ai Chi al Centro San Fedele di Milano. È su questa scia che si pongono le pratiche più serie prima citate. «Distinguerei il dialogo interreligioso a livello teologico dal piano della preghiera e meditazione», dice Antonia Tronti, che da molti anni tiene corsi di lectio divina e yoga in alcuni monasteri camaldolesi (Fonte Avellana, Monte Giove, Valledacqua); con l’Associazione Oreundici, dove lavora anche con i bambini; e con alcuni parroci, come a Padova, dove ha iniziato allo yoga un gruppo di giovani del coro e uno di preparazione alla Cresima. «Circa venti anni fa ho deciso di approfondire la mia fede cristiana cercando di trovare dei collegamenti con la spiritualità indiana», racconta Antonia. Un percorso sulle tracce di alcuni cristiani che agli inizi del ‘900 avevano provato a inculturare il Vangelo in terra indiana, come per esempio «il sacerdote francese Jules Monchanin e i monaci benedettini Henri Le Saux e Bede Griffiths», sottolinea padre Magni. «I primi due, nel 1950, fondarono nel Tamil Nadu il Saccidananda Ashram (Eremo della Trinità), a Shantivanam (Foresta della Pace). Alla morte di Monchanin, Le Saux si trasferì nel Nord dell’India, sulle rive del Gange, affidando l’ashram alla guida di Bede Griffiths, che trasformò l’eremo in una piccola comunità monastica di rito cattolico indiano affiliata all’ordine camaldolese, un luogo che sarebbe poi stato visitato da migliaia di persone da ogni parte del mondo». Proprio alla scuola dei camaldolesi Antonia Tronti ha approfondito la sua ricerca e oggi, con i suoi corsi, offre una mano a chi desidera conoscere un’altra via e a volte “usa” lo yoga come introduzione a un percorso più profondo di spiritualità che non finisce nella sola meditazione generica. «Sempre più spesso, capita che gente che si è allontanata dalla Chiesa scopra lo yoga e, facendo pratica, ritorni alla tradizione cristiana e si riavvicini alla fede conosciuta da bambini», dice Tronti. «Sento di fare un lavoro di servizio alla Chiesa, faccio da mediazione tra lo yoga e la preghiera ». In altri casi, capita che alcuni, «che si avvicinano allo yoga per un mal di schiena, poi scoprano un “oltre” e si accostino alla preghiera». Il successo dei corsi, anche tra i cristiani, testimonia – secondo Tronti – che «le persone sentono il bisogno di prendersi cura di sé in modo rallentato». Chi viene dall’area cattolica avvicina lo yoga anche perché sente che la spiritualità ha a che fare con qualcosa di più interno, che abita nel cuore dell’essere umano, e che va incontrata, riconosciuta, alimentata: «Un’esperienza che di solito è difficile fare nelle parrocchie». E scopre un approccio diverso alle discipline orientali, che all’immaginario collettivo vengono sempre più «vendute» per i risultati che permettono di raggiungere, associate all’idea di benessere e business: «Yoga, donne e leadership», «Yoga e T’ai Chi, le posizioni che aiutano a star bene», «La meditazione funziona da analgesico», «Yoga: la battaglia del copyright» sono alcuni titoli di articoli recenti sull’argomento.

Che ci sia, comunque, anche un risvolto salutista in queste pratiche, è ormai ufficialmente assodato: «In passato nei protocolli clinici il T’ai Chi era riconosciuto come medicina preventiva, ma adesso viene identificato anche come cura per la cronicità di alcune malattie», conferma il maestro Ignazio Cuturello, tra gli organizzatori del corso di Lecce e tra i promotori di numerose scuole in diverse regioni. «È interessante sapere che in Italia il T’ai Chi Ch’üan è conosciuto e apprezzato soprattutto per merito del maestro Chang Dsu Yao, che trascorse gli ultimi diciotto anni della sua vita nel nostro Paese. Militare di carriera e alto ufficiale dell’esercito cinese, per molti anni Chang Dsu Yao è stato istruttore capo delle Forze armate e della Polizia di Taiwan. Ha insegnato anche all’Università di Taipei», aggiunge padre Davide Magni, che con Francesco Tomatis, Roberto Fassi e Ignazio Cuturello ha curato un testo di prossima pubblicazione: Corpo e preghiera. La via del T’ai Chi Ch’üan. Il maestro Chang Dsu Yao era di fede cattolica e – ricorda Fassi – ogni sua lezione iniziava e terminava con la cerimonia del saluto a Dio, agli antenati e agli antichi maestri: «Metteva sovente in evidenza che, pur essendo questo un rito di matrice confuciana, i cristiani credenti dovevano rivolgere, prima e dopo la pratica, il loro saluto riverente al Dio uno e trino». Insomma – conclude padre Magni – ciascuna religione elabora differenti spiritualità, intese come cura della vita interiore: «La comparazione tra le diverse religioni e relative spiritualità è possibile solo nell’orizzonte dell’analogia, non attraverso la ricerca di equivalenze. E l’esperienza di questo dialogo mostra notevoli intersezioni tra cammini distinti. È per questa ragione che possiamo ricorrere a patrimoni lontanissimi dalla tradizione cristiana, quali lo yoga e il T’ai Chi Ch’üan: non facendo sincretismi, ma cogliendone le suggestioni per via analogica. Il luogo fecondo di questo dialogo è l’esperienza della corporeità». Una intuizione che è stata benedetta dallo stesso Pontefice: da 40 anni, infatti, Dominic Chan Chi-ming, attuale vicario generale della diocesi di Hong Kong, promuove la pratica del T’ai Chi quale via per una spiritualità matura, capace di integrare tutte le dimensioni della persona umana. Nel 2006 Benedetto XVI ha ufficialmente riconosciuto questa iniziativa pastorale, impartendo la sua benedizione apostolica all’associazione Holy Spirit Society for Tai Chi Spirituality.

Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco, un italiano Presidente

Prendo da Jesus questo interessante pezzo di Roberto Carnero

È la prima volta che un italiano viene nominato alla presidenza del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco. Ma Stefano Semplici tale traguardo se l’è meritato con un curriculum di tutto rispetto in questo delicato settore. Eletto durante i lavori della diciottesima sessione, che si è svolta a giugno a Baku, in Azerbaijan, Semplici, classe 1961, è professore ordinario di Etica sociale all’Università di Roma “Tor Vergata” e direttore scientifico del Collegio universitario “Lamaro Pozzani” della Federazione nazionale Cavalieri del lavoro. È uscito in questi giorni nelle librerie, pubblicato dalla Editrice la Scuola, il suo volume Invito alla bioetica.

Professore, come ha accolto l’elezione a presidente del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco? col5a.jpg

«Prima di tutto, come credo si possa facilmente comprendere, con grande emozione. Quando fui nominato nel 2008 membro del Comitato dal direttore generale dell’Unesco, avevo già considerato un privilegio la possibilità di fare questa esperienza in un contesto davvero globale, che raccoglie 36 esperti che vengono da tutto il mondo. Aver ricevuto da questi colleghi e amici la responsabilità di guidare il Comitato per i prossimi due anni è stata per me la più bella conferma della validità del lavoro che abbiamo fatto insieme, ma anche un atto di fiducia che mi sento ovviamente impegnato a ripagare. Il presidente è eletto dal Comitato e non nominato. Questo significa che la prospettiva è in primo luogo quella del lavoro di squadra, con quel pizzico di lievito in più che viene da momenti davvero intensi e belli di convivialità. Le sessioni del Comitato durano quasi una settimana e i rapporti che si creano sono spesso profondi e duraturi. La mia elezione è poi avvenuta il 2 giugno: non avrei potuto immaginare, come italiano, una coincidenza più felice».

Di cosa si occupa il Comitato?

«Il Comitato è stato istituito nel 1993. La sua funzione, così come viene indicato dallo Statuto, è essenzialmente quella di promuovere la riflessione sulle questioni etiche e giuridiche che emergono nell’ambito delle scienze della vita e delle loro applicazioni, incoraggiando, in particolare attraverso i canali dell’educazione, lo scambio di idee e di informazioni. La sua specificità è appunto quella di mettere a confronto intorno allo stesso tavolo culture e tradizioni diverse, voci che sono espressione di contesti anche molto lontani per stili e prospettive di vita, livello di benessere, organizzazione istituzionale. È un lavoro difficile, ma proprio per questo appassionante. La molteplicità delle esperienze e delle linee argomentative non ha peraltro impedito al Comitato di produrre in questi anni documenti importanti, fino alla Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo, che è stata adottata per acclamazione dalla Conferenza generale dell’Unesco nel 2005».

Quali sono i temi più scottanti su cui si svolge la riflessione?

«Proprio per la sua dimensione globale, il Comitato dà nella sua agenda ampio spazio sia alle questioni bioetiche emergenti nei settori di punta dello sviluppo scientifico e tecnologico, sia a quelle che continuano a generarsi lungo le faglie della povertà e dell’ingiustizia e che costituiscono altrettante minacce persistenti alle quali far fronte per una effettiva tutela della vita e della sua dignità. In concreto: il Comitato, come è accaduto in questa ultima sessione, entra nel merito di problemi come la clonazione e la ricerca sulle cellule staminali embrionali, ma guarda con almeno pari attenzione alle ragioni di fondo per le quali ci sono uomini e donne che, a seconda della parte del mondo nella quale è toccato loro in sorte di nascere, hanno davanti a sé una speranza di vita che può essere di quaranta, anziché di ottanta anni. La bioetica dell’Unesco non può che prendere drammaticamente sul serio la sfida di questa dignità letteralmente dimezzata, come abbiamo cercato di fare anche nel rapporto sulla vulnerabilità e sul rispetto dell’integrità umana che abbiamo approvato a Baku».

Quali sono gli argomenti sui quali lei pensa di impegnarsi maggiormente in prima persona?

«Il Comitato dell’Unesco ha il compito di mettere a fuoco le questioni che, a partire soprattutto dalle scienze biomediche, sollecitano la responsabilità dei Governi, dei protagonisti della vita economica e sociale e in ultima analisi di ognuno di noi. Occorre far crescere sia la consapevolezza di questi problemi sia la volontà di affrontarli con strategie condivise. Nel mio intervento conclusivo a Baku, ho cercato di sottolineare in questa prospettiva l’importanza delle bridging issues, cioè di quei temi che più immediatamente esprimono questa interconnessione fra i popoli. Sia perché la scienza è globale e le nuove domande che essa pone non si fermano ai confini degli Stati, sia perché proprio la bioetica, intesa nel senso ampio al quale ci stiamo riferendo, è diventata il luogo nel quale misurarsi, per combatterle, con vecchie e nuove forme di sfruttamento e discriminazione. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla difficoltà di bilanciare la tutela del diritto alla proprietà intellettuale con il dovere inderogabile di garantire a tutti i farmaci indispensabili; a pratiche come il commercio di organi o la delocalizzazione nei Paesi più poveri di attività di ricerca inaccettabili o addirittura vietate in quelli più ricchi; alle asimmetrie crescenti dei fattori socio-economici che incidono direttamente sui livelli di salute delle persone. C’è poi, evidentemente, il capitolo degli argomenti bioetici al quale siamo più abituati: l’ingegneria genetica, le neuroscienze, le biobanche. Il presidente del Comitato, in ogni caso, non ha il compito di scrivere l’agenda. Deve aiutare a organizzare il lavoro di tutti in modo che il contributo di tutti possa essere pienamente valorizzato e ci si concentri sui problemi che a livello globale sono davvero prioritari».

Ci sono questioni che, come lei diceva poc’anzi, siamo più abituati a discutere. Questioni “sensibili” – fecondazione assistita, ricerca sulle cellule staminali, disposizioni sul fine vita, aborto… – sulle quali in Italia il confronto appare spesso aspro, conflittuale, talora persino antagonistico, soprattutto tra la cultura laica e quella cattolica, che sembrano incapaci di trovare una mediazione. È possibile uscire da questa situazione di stallo?

«I dissensi che coinvolgono tali argomenti hanno effetti particolarmente laceranti, perché in essi sono in gioco il principio fondamentale del rispetto per la vita umana, il riconoscimento dei soggetti ai quali tale rispetto è dovuto e il modo in cui le persone lo assumono all’interno del loro progetto di vita. Per allentare la tensione occorrerebbe prima di tutto “smilitarizzare” la bioetica: essa viene spesso praticata e soprattutto comunicata come strumento di battaglia politica, utile a raccogliere consensi, cementare appartenenze, spingere le persone alla sistematica bipolarizzazione di problemi che hanno invece bisogno della pazienza e del tempo di una ricerca attenta e dai toni pacati. Sono problemi, soprattutto, che non si prestano alla semplificazione che ci vorrebbe sempre e soltanto “o di qua o di là” e che, appunto per la loro difficoltà, non consentono di liquidare chi arriva infine a conclusioni diverse come l’oscuro predicatore di medioevali servitù della coscienza o, viceversa, come l’apripista di un rovinoso nichilismo. La gran parte degli studiosi che ho avuto la fortuna di conoscere in questi anni, e potrei dire la stessa cosa per la platea di gran lunga più ampia dei non addetti ai lavori, è fatta di persone che sono sinceramente interessate a pensare insieme e a trovare soluzioni il più possibile condivise. Il che non significa eludere il dissenso o cercare di edulcorarlo. Non sono però queste persone, purtroppo, che occupano gli spazi del confronto pubblico, che parlano in televisione o scrivono sui giornali».

In che modo, in particolare, la Chiesa cattolica potrebbe offrire contributi costruttivi?

«Nella Dichiarazione sull’eutanasia del 1980, per prendere un tema di particolare attualità in Italia in questo momento, la Chiesa cattolica riconosceva che “in molti casi la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i principi della morale”. E da questo riconoscimento si traeva la conclusione che, nella concretezza di tali situazioni, “prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso”. Oggi, invece, i principi sono diventati “non negoziabili”. Ma credere che in questo modo essi vengano rafforzati potrebbe essere, alla resa dei conti, un’illusione. Ciò spinge a privilegiare, per la loro tutela, la forza esteriore della legge rispetto all’esemplarità della testimonianza che si propone senza costrizione. Ai principi astratti, preferisco l’ultima pagina dell’enciclica dell’attuale Pontefice Deus caritas est, in cui si additano come esempi sublimi di carità figure assolutamente concrete come Giuseppe Cottolengo e Teresa di Calcutta».

Fino a qualche mese fa la discussione sul Testamento biologico era nell’agenda politica italiana. Oggi l’argomento è stato messo in ombra dalla crisi dell’attuale maggioranza, ma prima o poi il Parlamento dovrà tornare a occuparsene. Secondo lei, quali aspetti vanno tenuti in considerazione per arrivare a una buona legge?

«Questo è davvero, a mio avviso, un esempio di tutto ciò che una legge su un argomento bioetico non dovrebbe essere. La proposta ha preso forma sotto la spinta emotiva di un episodio che ha profondamente coinvolto l’opinione pubblica, quello di Eluana Englaro, mentre il legislatore dovrebbe al contrario non essere coinvolto da passioni troppo “calde”. Si è subito cominciato a contestare da una parte l’invasione di campo delle gerarchie ecclesiastiche e il carattere strumentale della posizione di alcuni dei suoi più zelanti sostenitori e, dall’altra, la volontà dissimulata di arrivare a una vera e propria normativa eutanasica. Il risultato è che, ancora oggi, ci troviamo di fronte a un testo pieno di ambiguità e contraddizioni, tutto concentrato sull’obbligo della nutrizione artificiale, che è probabilmente insostenibile in questi termini, e assai meno attento ai rischi impliciti nella formulazione di alcuni articoli. Siamo in molti a pensare che l’esito potrebbe essere paradossale e che proprio applicando la legge si potrebbe arrivare all’abbandono di malati non più in grado di esercitare “qui e ora” il proprio diritto all’autodeterminazione. Si tratta a mio avviso di insistere proprio sulla differenza fra la volontà attuale e quella ora per allora, bilanciando in modo diverso, rispetto a tutti i trattamenti sanitari, i due principi della tutela della salute come interesse della collettività e del rispetto dell’autodeterminazione, che sono entrambi costituzionalmente rilevanti. Si può ancora fare: a condizione di abbandonare gli argomenti e i comportamenti della bioetica “con l’elmetto”».

Lei ha una formazione filosofica e insegna Filosofia all’università. Che cosa ha da dire specificamente la filosofia (ad esempio, rispetto alla politica e alla religione) sui temi legati alla bioetica?

«La bioetica ha una natura essenzialmente interdisciplinare e la filosofia può aiutare a coltivare questa sensibilità aperta, insieme all’abitudine alla contaminazione di linguaggi e metodi diversi. È vero però anche l’opposto. Stephen Toulmin ha scritto che proprio la medicina ha salvato l’etica, spingendo la filosofia a recuperare la sua capacità di dire qualcosa di rilevante e concreto per la vita e i problemi reali degli uomini. Le due cose vanno probabilmente di pari passo. E comunque anche il mio predecessore alla guida del Comitato dell’Unesco, Donald Evans, è un filosofo».

Fato? Fatto!

Ospito ancora una volta un articolo di Ferdinando Camon che si interroga, prendendo spunto da un fatto di cronaca, sul fato, sul destino, su Dio…

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Gli antichi, quattrocento-cinquecento anni prima di Cristo, avebbero detto: «È il Fato». Chi altri potrebb’essere, a volere la morte di un triestino, nel lontano Messico, in un incidente così banale come uno scontro stradale? E quando il fratello riceve le ceneri del morto, e le porta sulla montagna più alta delle Alpi Giulie, a 2.745 metri, 800 metri al di sopra del “limite della vegetazione”, per disperderle sul mondo, e viene colpito da un fulmine, che scendendo dal cielo piomba dritto sulla sua scala ferrata come un proiettile sparato da un cecchino dalla mira infallibile, e così folgorato precipita per oltre 40 metri e in breve tempo muore, quale altra causa si può inventare, quale altro colpevole si può accusare, se non il Fato? La morte dei due fratelli Dean, uno in Messico e uno qui sulle Alpi  Giulie, sembra il frutto di una volontà superumana e maligna, alla quale la volontà umana non può sottrarsi. Era un pensiero gentile, civile e umano, quello di portare le ceneri del fratello, morto così lontano, così solo, così fuori della vista e dell’aiuto dei suoi, portarle il più in alto possibile, dove la vegetazione non cresce più, e sei nudo sotto il nudo cielo, esposto allo sguardo di chi dà la vita e la toglie, e da lì spargerle e lasciarle trasportare dai venti: è come depositare il fratello su tutto il mondo, in un ultimo abbraccio globale. Del resto, questa era la volontà del morto: dopo la morte, disperdersi sul mondo.  Chi ama la montagna, sa come il trovarsi al di sopra del limite della vegetazione dia il senso di un contatto con l’assoluto, il supremo, quel qualcosa che era prima della vita e che è dopo la morte. Gli antichi lo chiamavano Fato, e lo collocavano al di sopra degli dèi. Gli dèi stessi ne avevano paura. Qui il Fato, o chi per lui, ha visto il fratello salire per le montagne, portando le ceneri del fratello morto, per spargerle all’aria col gesto con cui il vivo saluta il morto, un gesto che nessuno ha mai insegnato ma che ognuno impara da sé, perché sta sepolto nell’inconscio di ognuno. Con quel gesto il vivo dice al morto: “Una Forza superiore t’ha strappato a me”. Ma la Forza superiore vedeva e sentiva tutto, e rispondeva: “Ma io non voglio separarvi, io vi voglio prendere tutt’e due”. L’evento che è seguito ha l’astuzia e la malignità dell’agguato: nei cieli si raduna un temporale, dai nuvoloni scoccano tuoni e lampi, un lampo fila dritto sull’uomo inerme che ha appena compiuto un’opera pia, onorare un morto, quell’opera dalla quale, secondo i poeti, trae la sua vera origine la civiltà umana, il lampo di fuoco percorre tutta la scala ferrata e  stacca l’uomo e lo fa precipitare. Con la loro rozza teoria, del Fato che tutto può e contro il quale niente è possibile, gli antichi spiegavano tutto. Noi non possiamo più ragionare così. Noi questi eventi li subiamo e basta. Sono il segno della nostra impotenza, della nostra rassegnazione. La Palma d’Oro di Cannes quest’anno è stata vinta da un film mistico, del regista Malick, all’inizio di questo film una famigliola vive serena e felice in una fattoria americana, è composta di padre madre e tre figli, un figlio muore senza che ci venga detto come e dove, e dalla Terra si sente una voce che sale in alto a chiedere: “Cosa siamo noi per te?”. La risposta dall’alto dà lo sgomento: “Dov’eri tu, quand’io creavo le galassie e gli abissi?”. Già, dov’eravamo noi? Cos’eravamo? Cosa siamo? Cosa sono questi due fratelli, morti uno in Messico e l’altro qui, per pura fatalità? Nell’economia del mondo, non contano niente. Per noi, ci rivelano tutto. Siamo tutti come loro. Esposti ai colpi della fortuna. E senza diritti. Neanche quello di far domande. 

Sul testamento

Traggo dall’ultimo numero della rivista Rocca un articolo che fa molto pensare. Il pezzo è di Raniero La Valle e si può trovare anche sul suo sito http://www.ranierolavalle.it/2011/07/il-falso-testamento.html

5778126038_c6267f28f8_b.jpgUn pessimo segno dei tempi il fatto che il Parlamento, non potendo occuparsi del bene del Paese rimasto in poche sporchissime mani, si sia incattivito nell’impresa di dettare norme su come morire. Costituzionalmente disabile,per come è stato eletto, a provvedere alla vita, si dedica alla morte. Il Parlamento lo fa non solo dettando per legge i termini della «morte naturale», ma intromettendosi in quella sfera personalissima che una volta era il cosiddetto testamento spirituale, nel quale ciascuno pensava se stesso nel momento futuro della morte, per vedere quale fosse l’ultima parola da lasciare ai vivi. Di questa parola il legislatore si appropria, del testamento fa carte false, o anche carta straccia; si chiama testamento biologico, ma in realtà è l’atto di fede in cui una persona dice come crede nella vita: se crede che la vita non stia tutta nella vita fisica, sicché se si lascia questa non è la vita intera che si lascia; se crede alla distinzione tra nuda vita, vegetale o animale che sia, e una vita rivestita dell’umano, e magari umanizzata dallo spirito divino; oppure crede che senza ventilazione non c’è nessuna vita.

È triste e pericolosa una società nella quale si sente il bisogno di fare una legge sulla morte, soprattutto per proibire una buona morte, che in greco si dice eutanasia. Vuol dire che siamo arrivati a un grado di tale sospetto reciproco, di tale sfiducia nei parenti, nei medici, negli infermieri, nei giudici come se tutti fossero lì pronti a toglierci la vita, che c’è bisogno di una legge, di una ferrea norma penale per vietarglielo. Una volta, quando si moriva in casa, e quando le macchine non intercettavano quello che si chiamava «il ritorno alla casa del Padre», ciò sarebbe stato inconcepibile. Ma ora abbiamo a che fare con un legislatore che pretende di estendere il suo controllo su tutte le pieghe della realtà, e con una maggioranza parlamentare che ha patito come uno scacco, come un’intollerabile usurpazione il fatto che la povera Eluana Englaro morisse un attimo prima che un suo sovrano decreto glielo impedisse. Vuole una rivincita su tutte le Eluane Englaro del futuro.

La Chiesa farebbe bene a non mettercisi in mezzo. Per molte ragioni. La più mondana è che se la Chiesa detta alla politica l’agenda etica, una politica cattolica, fatta o ispirata dai cattolici, non è più possibile: è possibile solo una politica ecclesiastica eseguita magari da miscredenti e corrotti per tutt’altri motivi. Fino a quando la Chiesa dei vertici si assume la titolarità delle scelte politiche che giudica per lei rilevanti, la Chiesa della base, cioè i fedeli laici non possono farci niente, ed è inutile auspicare una nuova generazione di politici cattolici e magari proporre ad attempati pionieri di una nuova Dc un codice della Segreteria di Stato arcaicamente chiamandolo codice di Camaldoli. La ragione più ecclesiale è che il declino della Chiesa in Italia, dopo gli anni del Concilio, è cominciato quando essa si è tutta concentrata ed esaurita nella lotta contro il divorzio, e poi in quella dell’aborto, e poi, sempre più polarizzandosi, in quella per la vita «dal concepimento alla morte naturale»; ciò comportava una riduzione del cristianesimo a una sorta di Autorità di garanzia della vita fisica (purché «innocente») e un invilupparsi del movimento cristiano nei movimenti per la vita. Di conseguenza doveva venirne l’arretramento del suo progetto religioso in progetto culturale. La ragione più spirituale è che nella riduzione della fede ad etica, cioè a casistica dei comportamenti ammissibili, si perde l’essenziale del messaggio di salvezza. La religione dei precetti c’era già, erano tanti, ed era il giudaismo. Se c’era da aggiungerne di nuovi, a ogni cambiamento di culture e di tecniche, non c’era bisogno che partorisse Maria. La novità del cristianesimo sta nell’aver portato l’etica, la norma dell’agire, dal dominio della verità al dominio dell’amore, dal regno dell’obbedienza al regno della libertà. Ogni volta la Chiesa fa fatica ad essere la Chiesa di quel messaggio lì: è più semplice affermare una verità, dichiararla oggettiva (in temporale universale e astorica) ed esigere comportamenti conseguenti. L’ultima volta fu quando nella Pacem in terris Giovanni XXIII voleva dire agli uomini che se volevano la pace, dovevano farsi guidare (ducibus) dalla verità, dalla libertà, dalla giustizia e dall’amore. I censori gli obiettarono che non si poteva mettere sullo stesso piano la verità e la libertà, perché il magistero dei recenti pontefici aveva stabilito una gerarchia, era la verità che doveva decidere di tutto, la libertà era vigilata, doveva passare all’esame di chi deteneva la verità. Non parliamo poi dell’amore. Papa Giovanni lasciò quelle parole come stavano. La dignità dell’uomo stava nel poter cercare liberamente la verità, l’etica stava nel farsi discepoli dell’amore di Dio.

… e Ramadan

Prendo da www.ilpost.it 

Il significato spirituale del Ramadan è stato analizzato da molti teologi. Si attribuisce ad esempio al digiuno la dote di insegnare all’uomo l’autodisciplina, l’appartenenza a una comunità, la pazienza e l’amore per Dio. In realtà però nel corso del tempo il Ramadan ha assunto anche altri significati. Foreign Policy ne ha elencati cinque, di cui si parla meno degli altri.

Il Ramadan è un grosso giro d’affari120044838_10.jpg

Il Ramadan è secondo solo al Natale per il livello di consumismo che ormai ha sviluppato. Certo, la produttività durante il mese del digiuno diminuisce, ma i supermercati a Istanbul sono strapieni e per gli autonoleggio di macchine di lusso di Ryad è uno dei periodi migliori dell’anno. Le catene di fast-food offrono pasti speciali durante la notte e in Egitto si compra quasi il doppio del cibo rispetto al solito. Inoltre, visto che durante la notte migliaia di persone sono a casa per celebrare l’interruzione giornaliera del digiuno, i canali televisivi trasmettono i loro programmi più importanti: tra il 25 e il 30 per cento dei guadagni legati alla pubblicità arrivano proprio durante il mese del Ramadan. Persino l’Australia ne risente: durante il periodo immediatamente precedente al Ramadan, le esportazioni di pecore – un lusso che si concedono durante quel mese – schizza fino ad aumentare del 77%.

Il Ramadan è il più grosso prodotto d’esportazione dell’Arabia Saudita

Fino agli anni settanta, la stretta osservanza del Ramadan era limitata ai paesi del mondo musulmano. Poi arrivò la crisi petrolifera del 1973. I petrodollari iniziarono ad affluire nelle casse dei paesi del Golfo Persico, ricoprendo d’oro le monarchie del deserto, che con quei soldi iniziarono anche a costruire moschee e realizzare seminari in tutto il mondo. Regole rigidissime nel trattamento delle donne, nell’educazione e nelle pratiche religiose iniziarono a estendersi anche nelle regioni più remote delle montagne pakistane e nelle pianure del Bangladesh. Oggi ad Aceh, in Indonesia, chi non osserva il Ramadan può essere punito con bastonate. E nel 2009, in Egitto, il Ministro dell’Interno iniziò a inasprire le leggi che fino ad allora consideravano la violazione del digiuno durante il giorno un reato minore.

Il Ramadan è un periodo di pace, ma è stato usato anche come strumento di guerra

La contemplazione religiosa non è sempre stata sinonimo di pace. Il profeta Maometto diede inizio alla battaglia di Badr – la prima vera guerra musulmana contro gli infedeli – durante il mese del Ramadan del 624. E il conflitto del 1973 che gli israeliani chiamano la Guerra del Kippur, è conosciuto come la Guerra del Ramadan in Egitto, Giordania e Siria, che lanciarono il loro attacco a sorpresa durante il digiuno. Più di recente, in Iraq, il mese del Ramadan è stato caratterizzato dagli attacchi dei ribelli contro le truppe dell’esercito americano, raggiungendo il picco di oltre 1.400 attentati nel 2007 (per restare a oggi, si guardi alla Siria, ndr). Ma ci sono stati anche dei casi in cui il Ramadan ha complicato le operazioni militari: durante la battaglia di Tora Bora, alcuni combattenti afgani anti-talebani che erano ormai alle costole di Osama bin Laden decisero di tornare a casa al tramonto per spezzare il digiuno.

La globalizzazione ha cambiato il Ramadan

Per i circa 45 milioni di musulmani che vivono nei paesi occidentali, la stretta osservanza dei precetti religiosi è ormai diventata una questione soprattutto personale. Il lavoro non rallenta in Occidente durante il Ramadan, e quelli che decidono di digiunare devono comunque lavorare a fianco di persone che continuano a mangiare e a bere come se niente fosse. In rete si trovano diverse guide che dispensano consigli su come affrontare la sensazione di solitudine e isolamento, e in alcuni casi sono state previste delle eccezioni per le persone che non vivono in un paese musulmano. Per esempio, le persone che vivono in quei paesi in cui per motivi geografici il sole non tramonta mai durante il mese del Ramadan possono iniziare e finire il digiuno seguendo i ritmi della Mecca, o di qualunque altra città vicina che abbia una successione di alba e tramonto più regolare.

Il Ramadan è il migliore amico dei tiranni

I dittatori di alcuni paesi musulmani fondamentalisti hanno usato spesso il Ramadan per rafforzare la legittimità del loro regime. Turkmenbashi, l’ultimo dittatore neo-stalinista del Turkmenistan, decise di graziare 8.415 prigionieri durante il Ramadan nel 2005; un esempio che più tardi è stato cinicamente seguito anche a Damasco e Algeri. Anche Saddam Hussein – che cercò di vendersi come un fervente musulmano durante gli ultimi anni del suo regime – durante la guerra contro l’Iran offrì per due volte una richiesta di cessate il fuoco nel mese del Ramadan. E nel 2008 – quando l’allora segretario di stato americano Condoleeza Rice andò in visita in Libia – Gheddafi si rifiutò di stringerle la mano prendendo a scusa l’obbligo di non sfiorare una donna durante il periodo di digiuno pur essendo come al solito circondato da uno stuolo di amazzoni, la sua guardia privata tutta al femminile.

C’è Ramadan e…

Traggo dal sito www.sufi.it qualche notizia sul Ramadan iniziato il 1° agosto

Il mese di Ramadan è il nono del calendario islamico, reso doppiamente sacro dall’Islàm per il fatto che è: “Il mese in cui fu rivelato il Corano come guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione e salvezza” (Sura II, v. 185).

Il digiuno, durante il sacro mese di Ramadan, è atto basilare di culto, obbligatorio per tutti i musulmani tranne che per alcune categorie di persone. Per legge sono esenti dal digiuno i minorenni, i vecchi, i malati di mente, i malati cronici, i viaggiatori, le donne in stato di gravidanza o che allattano, le persone in età avanzata, nel caso che il digiuno possa comportare un rischio per loro. E’ proibito alle donne musulmane mestruate e in puerperio. La legge ammette e raccomanda anche il digiuno volontario, in determinati giorni dell’anno. Il Corano stabilisce l’obbligo del digiuno: ” O voi che credete! Vi è prescritto il digiuno, come fu prescritto a coloro che furono prima di voi, nella speranza che voi possiate divenire timorati di Dio.”  (sura II, v.183)palestina3.jpg

Si tratta di un mese di purificazione, ricco di grazie, e durante il quale, in una delle sue ultime notti dispari, detta Lailatu l-Qadr (notte del destino), le porte del cielo sono più dischiuse. L’Inviato di Dio disse: «Quando arriva il Ramadan vengono aperte le porte del Paradiso, e chiuse quelle del Fuoco, e i demoni vengono legati». Il digiuno dura dalle prime luci dell’alba fino al tramonto; in genere va fatto precedere da un pasto leggero poco prima dell’aurora, detto suhur, per poter affrontare la giornata. Consiste non soltanto nell’astensione da ogni cibo e bevanda, ma anche da qualsiasi contatto sessuale e da ogni cattivo pensiero o azione, durante l’intera giornata fino al tramonto. Non bisogna litigare, né mentire né calunniare. Nella prova del digiuno è più importante il significato spirituale di quello materiale per il fatto che l’uomo obbedisce a un ordine divino. Egli impara a tenere sotto controllo i suoi desideri fisici e supera la sua natura umana.

In considerazione del fatto che i mesi lunari sono alternativamente di 29 e 30 giorni, l’anno lunare in tutto è di 354 giorni e indietro di undici giorni rispetto a quello solare. La legge stabilisce che per dichiarare iniziato il mese del Ramadan non basta il solo calcolo, ma dovrebbero esserci testimoni oculari e affidabili che dichiarino avanti a un qàdi di aver visto la luna. Il digiuno, come la salàt, non è valido se non è preceduto dalla niyyah (intenzione). Dopo la pronuncia della niyyah, si incomincia a digiunare quando incomincia ad albeggiare (aurora).  Il tramonto del sole pone fine al digiuno e l’astinenza viene interrotta mangiando dei datteri o bevendo dell’acqua, come vuole la Sunnah del Profeta. L’interruzione iftar, per tradizione viene preceduta da una breve preghiera. Dopo la preghiera rituale della sera si usa fare una speciale preghiera notturna piuttosto lunga detta Tarawih: secondo la Sunnah del profeta, questa preghiera va da un minimo di 8 rak’at ad un massimo di 20.

Il Ramadan è un mese di carità, durante il quale il credente deve dividere i suoi beni con coloro che ne hanno bisogno. La rottura involontaria del digiuno non comporta nessuna sanzione, purché si riprenda subito dopo aver preso coscienza di tale rottura. In caso di interruzione consapevole, bisogna rimediare con l’offerta di un pasto a un certo numero di musulmani bisognosi, oppure dare l’equivalente in denaro; diversamente bisogna digiunare per sessanta giorni. Con il sorgere della luna nuova del mese di Shawwal ha termine il mese di Ramadan e con esso finisce l’astinenza ed inizia ‘Id al-Fitr, la festa della rottura.

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