L’accidia e il volo

Posto un pezzo di Laura Cioni sull’accidia preso da Il sussidiario e una canzone che vedo ben collegata all’articolo. La canzone è dei miei amati Helloween: “Eagle fly free” e il ritornello canta “Aquila, vola libera, lascia che le persone vedano, fallo a modo tuo, lascia indietro il tempo, segui il segno. Un giorno voleremo insieme”

“Tra i vizi capitali il meno noto, anche se molto diffuso, è l’accidia. Se ne è scritto in tutti i tempi, riflettendo sulla vita morale in base ai concetti di vizi e virtù, in una modalità concreta e facilmente osservabile anche nella vita quotidiana. Orazio, così saggiamente epicureo, in una sua epistola definisce l’accidia strenua inertia, smaniosa inerzia, in altre parole inquietudine. Tacito racconta il languire degli studi in tempi di oppressione politica e realisticamente afferma che la ritrovata libertà ne favorirà la ripresa, ma con fatica, perché vi è una segreta dolcezza anche nell’inoperosità che, dapprima invisa, alla fine viene amata.

Per san Tommaso l’accidia non è solo l’indugio a decidersi per il bene e l’incostanza nel perseguirlo, ma più precisamente la tristezza del bene, una inattività dell’anima che non vuole e insieme non può volgersi alla vera gioia.

Dante la rappresenta nell’Inferno ponendo gli accidiosi insieme agli iracondi nel pantano dello Stige: Fitti nel limo, dicon: “Tristi fummo/ nell’aere dolce che dal sol s’allegra,/ portando dentro accidioso fummo:/ or ci attristiam nella belletta negra”: come furono tristi nella vita, avvolti nel fumo della negligenza, così nell’eternità vivono lo stesso umor nero, che li stringe alla gola come la melma di cui hanno piena la bocca. Il poeta ritorna sull’accidia nei canti centrali del Purgatorio, dove spiega la dinamica della libertà umana; per bocca di Virgilio definisce l’accidia amor del bene scemo/del suo dover, ovvero desiderio solo intenzionale, privo degli atti necessari a raggiungerlo e a gustarlo. Dante spiega come ogni uomo desideri il vero bene e lotti per ottenerlo: Ciascun confusamente un bene apprende/ nel qual si queti l’animo, e disira;/per che di giugner lui ciascun contende. E proprio sul limite della balza vede gli accidiosi pentiti espiare il fatto di non aver assecondato alcun desiderio e di non averlo perseguito con amore lesto e operoso: Se lento amore in lui veder vi tira,/ o a lui acquistar, questa cornice,/ dopo giusto penter, ve ne martira.

L’insufficiente energia morale dell’accidia è riconosciuta come propria da Petrarca nel Secretum, il dialogo letterario con sant’Agostino; in quest’opera egli la fa risalire al disinganno. Anche in questo i moderni, e non solo i poeti, sono un po’ tutti suoi eredi.

Si può ipotizzare che l’accidia sia un vizio predominante dei nostri giorni; molti segnali lo indicherebbero alla semplice osservazione: la disistima di direttive decise, la noia, lo spreco, la mania dell’effimero, la scontentezza, il risentimento sono comportamenti diffusi e poco percepiti e proprio per questo generatori di mali peggiori che riempiono la società di violenza e di ingiustizia.

Come si corregge questa cattiva abitudine dell’anima connessa con l’inattività, con l’inquietudine, con l’ira, con la malinconia?  E’ difficile vincere la tristezza del bene con le sole proprie forze, ma  anche tante parole che ingombrano di pareri, di consigli, di prediche appaiono poco efficaci. Un avvenimento  può scuotere la vita e cambiarle direzione, come si nota nelle biografie dei grandi e in vicende famigliari più nascoste. Certo, la grande risorsa è quella di essere presenti a se stessi, di ammettere i propri errori, di prevedere la fatica di rialzarsi e di ricominciare a camminare. Magari la scoperta di un nuovo amore. Ma una esperienza data a taluni, decisiva, è stata descritta da Agostino negli ultimi dialoghi con sua madre: egli immagina che per l’uomo tutto taccia, la terra, il cielo, l’anima stessa e in questo silenzio egli possa udire la voce di Dio parlare non attraverso le cose, ma con la sua stessa bocca; allora non sarebbe questo l’“entra nel gaudio del tuo Signore”? Se la scoperta della gioia di Dio, imprevedibile e duratura, irrompesse in un punto cruciale della vita, vincerebbe l’accidia di schianto: “Noi siamo stati liberati come un uccello dal laccio dei cacciatori; il laccio si è spezzato e noi siamo scampati”. Resterebbe la libertà di volare.”

La domanda

“I cristiani e la Chiesa non dovrebbero mai temere le domande. Anzi, dovrebbero suscitarle, amarle, sostare in esse. Perché è dalle domande che cresce la ricerca della fede, il desiderio di scrutare i pensieri di Dio.”
Simone Weil

Buon anno ebraico

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Oggi, si festeggia Rosh Hashana, il Capodanno ebraico, anno 5772. La festa dura due giorni, sia in Israele che in diaspora, durante i quali bisogna astenersi da ogni attività che non sia legata alla sfera religiosa. La celebrazione è contraddistinta dal suono dello shofar, il corno di montone. Il significato di questa usanza è quello di risvegliare il popolo ebraico dal torpore e ricordargli che si sta avvicinando il giorno in cui sarà giudicato da Dio. La ricorrenza, che cade il primo del mese di Tishrì, commemora sia la creazione del mondo, sia il giorno in cui viene emesso il giudizio su ogni creatura. Si pensa che essa rappresenti per Dio il momento opportuno per ricordarsi delle azioni degli uomini, per questo non sorprende che la festa sia preceduta e ancor più seguita da giorni improntati a un tono fortemente penitenziale. Per questo Rosh Hashana viene chiamato anche il ‘Giorno del giudizio’ (Yom ha-Din). La decisione, però, verrà presa da Dio solo a Yom Kippur (giorno dell’espiazione) che cade dopo appena dieci giorni, durante i quali ogni ebreo dovrà compiere un’analisi del proprio anno ed individuare tutti i peccati compiuti nei confronti dei precetti ebraici e i torti fatti verso i propri conoscenti. I riti culminanti di Rosh ha-Shanah avvengono in sinagoga, in cui ci si trattiene per varie ore in entrambi i giorni della festa. Nei giorni precedenti vengono recitate le ‘Selichot’ (preghiere penitenziali), in momenti diversi a seconda delle usanze nelle varie comunità (dai 30 ai 10 giorni prima della festività). Nel pomeriggio che precede l’inizio di Rosh Ashanà si usa anche fare il ‘Tashlich’, il lancio di oggetti su uno specchio d’acqua (anche una fontana) per liberarsi di ogni residuo di peccato. La cena della prima sera di Rosh ha-Shanah è detta Seder di Rosh ha-Shanah: durante questa cena, assieme alla recitazione di piccole formule di preghiera, si usa consumare sia qualcosa di dolce (tipica la mela intinta nel miele), sia cibi che diano l’idea di molteplicità, come il melograno, per augurarsi un anno dolce e prospero. Tra i vari piatti che si servono durante questa cena, differenti nelle varie tradizioni, è una costante la presenza di qualche parte di animale che faccia parte della testa, a simboleggiare il capo dell’anno. Solitamente viene portata in tavola anche una forma di pane (challa) tonda, a simboleggiare la circolarità dell’anno. Nel pasto della seconda sera, vengono servite più varietà possibili di frutta, perché vengano incluse nella benedizione di shehekheyanu (la benedizione che si recita la prima volta che si assaggia qualcosa nell’anno).

Auguri Kǒng Fūzǐ!

Oggi è il compleanno di Confucio (551 a.C.). Ecco qui cinque citazioni del “giusto tra le genti”

 

In qualsiasi direzione vai, vacci con tutto il cuore.

 

Dimmi e dimenticherò,

mostrami e forse ricorderò,

coinvolgimi e comprenderò.

 

Esiste un mondo dei vivi a un mondo dei morti. Il ponte è l’amore, l’unica verità, la sola sopravvivenza.

 

Prima di intraprendere la strada della vendetta, scavate due tombe.

 

Se c’è rimedio perché te la prendi? E se non c’è rimedio perché te la prendi?

I 40 anni di Bose

Una delle esperienze religiose che mi ha sempre colpito è quella del Monastero di Bose. Senza sapere questa mia preferenza, i ragazzi di 5BL da poco usciti dal Percoto mi hanno regalato l’ultimo libro di Enzo Bianchi, il priore della Comunità. Ecco che nell’ultimo numero di Jesus trovo questo pezzo di Piero Pisarra monastero_di_bose_02.jpg

C’è una frase della tradizione monastica che Enzo Bianchi ripete spesso: «Oggi io ricomincio». Il segreto di Bose è forse qui: nel mettersi in gioco quotidianamente, nel non adagiarsi, perché la vita monastica è appunto «vita», movimento, cammino. Un invito incessante alla conversione dello sguardo e del cuore. Nella sequela dell’unico necessario, Gesù il Signore. Chi tornasse dopo trent’anni in questa frazione del Comune di Magnano, sulla Serra morenica tra Ivrea e Biella, stenterebbe a riconoscere la piccola comunità in cui circolavano le parole del Concilio e la voce dello Spirito suggeriva forme nuove di presenza, una testimonianza radicale, senza compromissioni mondane. Alla cappella spoglia degli inizi e alla casa per gli ospiti si sono aggiunti una bella e grande chiesa, edifici per l’accoglienza e l’ospitalità. E tra i visitatori non passano più di mano in mano i ciclostilati dalla copertina gialla con i detti dei Padri del deserto o gli scritti della tradizione monastica, bensì i libri bianchi – e sobriamente eleganti – delle edizioni Qiqajon.

Eppure lo spirito è il medesimo: se altre comunità nate negli stessi anni sono cambiate in profondità, mettendo in cantina il carisma degli inizi, se con gli anni hanno barattato la profezia con la diplomazia, non così a Bose. Ne è prova anche l’ultima lettera agli amici per la Pentecoste di quest’anno: un invito a perseverare nella speranza, anche quando l’orizzonte è chiuso, manca il respiro e la realtà ecclesiale è dominata da «un grigiore che come nebbia autunnale sembra avvolgere e intridere tutto». Nel tempo della prova e della sofferenza, «in un’epoca appiattita sull’immediato e sull’attualità » e «che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tanto meno di eternità », i fratelli e le sorelle di Bose ricordano il télos, il fine della vita cristiana: «L’incontro con il Dio che viene». Come la sentinella di Isaia, scrutano l’orizzonte alla ricerca dei primi bagliori dell’alba e, a chi chiede quanto resti della notte, rispondono: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21,12). Sentinelle: ecco il vero ruolo dei monaci. Uomini e donne dalla vista lunga, capaci – come la civetta che è il loro simbolo – di vedere al di là della notte. E di coniugare fedeltà e perseveranza, due virtù che, «nel tempo frantumato e senza vincoli» di oggi, «si configurano come una sfida per ogni essere umano e, in particolare, per il cristiano».

Fedeltà al Vangelo e alla tradizione monastica, alla «grande nube di testimoni» – Elia e Giovanni il Precursore, Antonio e i Padri del deserto, Pacomio e Maria, Basilio e Macrina, Benedetto e Scolastica, Francesco e Chiara e tanti altri – cui fa riferimento Enzo Bianchi nelle Tracce spirituali all’origine della Regola di Bose. E perseveranza: nelle scelte essenziali, in ciò che davvero conta, sapendosi sbarazzare dell’accessorio e di quanto ingombra il cammino. Da queste due virtù dipende anche la qualità delle relazioni e l’attenzione all’altro, la capacità di sondare i cuori e le menti. Fin dall’inizio, Enzo Bianchi dice di essere stato «abitato dalla convinzione che ogni monaco sia innanzitutto un cristiano “generato” al monachesimo dal monachesimo stesso»: non un cristiano speciale, ma un semplice laico che in fedeltà al battesimo si pone sulla scia degli ebbri di Dio e di quei primi monaci che, in reazione alla pace costantiniana, andavano nel deserto egiziano muniti di bastone e di melote, il mantello di pelle di pecora che serviva da unico indumento. Perché, come diceva Antonio il Grande, «i monaci possiedono solo due cose: le sacre Scritture e la libertà». A Bose le Sacre Scritture, studiate, indagate, meditate, sono la bussola. E la libertà, il tratto distintivo. Una libertà che si esprime nell’esercizio di un’altra virtù dimenticata, la «parresìa», il parlar chiaro e forte, senza i veli delle convenienze, delle prudenze ecclesiastiche o dell’ipocrisia. Bose è insomma la testimonianza di una vita «altra», paradossale, e di relazioni nuove: una comunità mista e interconfessionale, profezia di unità. Ma c’è un binomio che forse la caratterizza meglio di altri. È il binomio della tradizione monastica medievale di cui parla padre Jean Leclercq nel suo Amore per le lettere e desiderio di Dio, ampiamente citato da Benedetto XVI nel discorso agli intellettuali francesi il 12 settembre 2008: grammatica ed escatologia (accostamento apparentemente incongruo tra due realtà che poco hanno in comune).

Ma la «grammatica», l’amore per lo studio, il lavoro ben fatto, il rispetto delle regole, la ricerca filologicamente accurata è ciò che contraddistingue lo scriptorium di Bose: nelle molteplici traduzioni dei Padri della Chiesa o nelle altre imprese editoriali, dalle Regole monastiche d’Occidente, per Einaudi, ai testi su Maria nella collana dei Meridiani Mondadori e al Libro dei testimoni, il martirologio ecumenico pubblicato dalle edizioni San Paolo. Senza dimenticare la nuova traduzione del Salterio. E la Preghiera dei giorni che permette ai tanti amici della Comunità di celebrare le ore canoniche come parte di un monastero invisibile che dal paesino del Piemonte si estende all’intera Europa e oltre. Perché Bose è anche questo: un monastero senza mura, fatto di persone che alla Comunità guardano come a un riferimento sicuro, di amici che frequentano i corsi biblici e spirituali o che aspettano con impazienza la registrazione in cd delle nuove conferenze, le lezioni di Enzo Bianchi o di Luciano Manicardi, le letture bibliche di Sabino Chialà o di Daniel Attinger, gli interventi o le meditazioni di altri fratelli e sorelle. Un monastero che con i convegni annuali di spiritualità ortodossa getta un ponte verso l’Oriente cristiano, eliminando incomprensioni e pregiudizi nel dialogo ecumenico. In quarant’anni di esistenza, Bose ha intrecciato rapporti con numerosi monasteri occidentali, con i grandi centri spirituali dell’Ortodossia russa, ha ospitato vescovi, teologi e monaci di ogni confessione, ponendosi come luogo di uno scambio libero e fecondo. Senza cedimenti new age, senza cavalcare mode, ha proposto, nei libri del priore (ma non solo), un’arte di vivere, una saggezza dei giorni che parla al cuore anche di molti non credenti e di uomini in ricerca, musicisti e artisti di primo piano. Come il compositore estone Arvo Pärt, o il pianista Stefano Battaglia e il percussionista Michele Rabbia che a Enzo Bianchi hanno dedicato uno dei brani più belli di Pastorale (Ecm), il loro ultimo disco. E poi la pratica della lectio divina, del confronto quotidiano con le Scritture, che Bose ha contribuito a rinnovare e a diffondere in tutta la comunità cristiana.

Questo per la «grammatica». E l’escatologia? Essa è «memoria del futuro », tensione verso il non ancora, segno di un desiderio che sarà colmato nel Regno. Perché i monaci, più di altri, sanno di abitare una dimora provvisoria, in attesa della città definitiva. La loro non è fuga mundi, ma ricerca, sequela: è quaerere Deum, cercare Dio. Sovente Enzo Bianchi ricorda le parole di Evagrio, il brillante diacono che nel IV secolo da Costantinopoli scelse la via del deserto, sulle tracce dei primi anacoreti: «Monaco è colui che è separato da tutti e unito a tutti». La ricerca dell’unità in sé stessi implica questo doppio movimento: il ritrarsi in una cella e l’aprirsi alle dimensioni del mondo. Coltivare il silenzio e la solitudine come beni preziosi, amando profondamente la compagnia degli uomini. «Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa», ha detto Benedetto XVI degli antichi monaci. Ed è così anche per Bose. Se il nostro è tempo di nebbia, di grigiore e di torpore spirituale, su questa collina del Piemonte si gettano i semi di una stagione nuova, di un rinnovamento che non si intravede ancora, ma che verrà. Preparato silenziosamente da quanti, come i fratelli e le sorelle di Bose, testimoniano la novità del Vangelo e l’intelligenza della fede.

Rugby, sport e globalizzazione

Prendo da Linkiesta questo articolo molto interessante che fa vedere quanti interessi economici ci siano dietro i grandi eventi sportivi.

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Adidas versus Nike: il confronto si espande dai campi di calcio e atletica a quelli del rugby. I due più grandi colossi di abbigliamento sportivo del mondo – i loro fatturati messi assieme ammontano a 22 miliardi di euro – dopo essersi dati battaglia nei Giochi Olimpici e nei Mondiali di calcio, si stanno concentrando sul terzo evento sportivo del mondo per fatturato. La Coppa del mondo di rugby, che si sta disputando in Nuova Zelanda, genererà un volume d’affari stimato di 500 milioni di euro.

Il simbolo di questo nuovo fronte della guerra commerciale tra la multinazionale tedesca e quella americana sta tutto in una maglietta e, soprattutto, il suo colore. Lo scorso agosto la nazionale di rugby inglese (una delle più forti al mondo, vincitrice del Mondiale nel 2003), il cui sponsor tecnico è la Nike, ha svelato le due maglie con le quali presentarsi a sfidare il resto del mondo in Nuova Zelanda. La Federazione mondiale di rugby, per regolamento, obbliga tutte le rappresentative a presentarsi alla competizione con due modelli di maglia, una ufficiale e una di riserva. La prima divisa inglese non ha rivelato particolari novità rispetto al passato: bianca, con un motivo rosso ai fianchi che ricorda la Croce di S.Giorgio, simbolo dell’Inghilterra. Il colore della seconda maglia ha invece confermato alcune voci diffuse da alcuni mesi, che la volevano nera. Un sacrilegio, per la Nuova Zelanda. La nazionale dell’arcipelago oceanico gioca da sempre con una divisa completamente nera, tanto che il suo soprannome è All Blacks. «Pienamente coscienti del significato della maglia nera in Nuova Zelanda, ci siamo consultati con la federazione neozelandese, e ci ha risposto che non c’è alcun problema», ha spiegato la Federugby inglese in un comunicato. Per criticare la scelta cromatica, è sceso in campo niente meno che il primo ministro neozelandese, John Key: «Gli inglesi sono una banda d’invidiosi. C’è una sola squadra che porta con fierezza la divisa nera e si tratta degli All Blacks».

Dietro le strategie delle due multinazionali cercano di spartirsi il mercato globale sportivo. Se l’Adidas punta ad attaccare la statunitense Nike in casa sua, cercando di espandersi nel calcio e nel basket (di cui la marca tedesca è main sponsor dal 2007), il marchio del baffo contende a quello delle tre strisce il dominio nell’Europa dell’est (in vista dei prossimi Europei di calcio del 2012 in Polonia e Ucraina) e in Sudamerica. La Nuova Zelanda non è esclusa dalla competizione. Questo piccolo arcipelago composto da due isole è diventato un campo di battaglia senza esclusione di colpi. Cominciò tutto nel 1996. Da una anno il rugby era diventato un sport professionistico, alimentando il giro d’affari complessivo della palla ovale. Per il Mondiale del 1995 nel Sudafrica post-Apartheid gli spettatori furono 2,5 miliardi, per un totale di 150 paesi collegati per vedere la nazionale di casa vincere la Coppa, sollevata anche da Nelson Mandela. Gli introiti per i diritti televisivi furono di 50 miliardi di lire. Non vinsero quindi gli All Blacks, che però si rivelarono al grande pubblico. E alla Nike, che fu tentata di metterli sotto contratto.

Come svela il periodico americano Time, al quarto piano della sede principale della Nike a Beaverton, in Oregon, c’era nel 1996 una lavagna con i tre obiettivi futuri da centrare: la nazionale di calcio brasiliana (ovvero quella più famosa al mondo), gli All Blacks e un giovane golfista-fenomeno afroamericano di nome Tiger Woods. Con una mossa, giudicata da molti analisti a sorpresa, la Nike dopo aver incassato il sì della Federcalcio carioca, puntò tutto su Woods per un compenso record di 150 milioni di dollari, un investimento che dirottò gli All Blacks nell’orbita Adidas. Attualmente, tra Nuova Zelanda e tedeschi vige un contratto di 9 anni da 150 milioni di euro. Con una clausola, fino ad ora rispettata: la nazionale neozelandese deve vincere il 75% delle partite disputate ogni anno.

La scelta cromatica inglese, imposta dalla Nike, si inquadra quindi nel tentativo del brand a stelle e strisce di recuperare terreno nel mondo del rugby, sport nel quale si è registrato nell’ultimo decennio un trend del più 91% di sponsorizzazioni. Delle squadre che partecipano al Mondiale in corso, il baffo compare sulla squadra europea più forte assieme all’Inghilterra, la Francia. Paesi dove il rugby rappresenta un bacino d’utenza appetitoso. Il Sei Nazioni, ovvero il torneo di rugby più importante d’Europa giocato, oltre che da Francia e Inghilterra, da Galles, Scozia, Irlanda e Italia ha generato nel 2010 ricavi per 400 milioni di euro ed è stato visto da 1 miliardo di persone. L’Adidas non ha intenzione di restare ferma al palo. Tutt’altro. Vuole rilanciare, ma dopo la Coppa. L’emergente nazionale italiana, che fa parte del Sei Nazioni, avrà il contratto in scadenza con la Kappa nel 2012. E i tedeschi avrebbero tutta l’intenzione di accaparrarsi la sponsorizzazione di un movimento il cui giro d’affari sfiora i 90 milioni di euro l’anno. Un confronto di volumi d’affari che diventa impietoso, se paragonato con un’altra casa di abbigliamento sportivo: la Puma. Fondata da Rudolph Dassler, fratello di Adolf (fondatore dell’Adidas), la marca di Herzogenaurach fattura 2,5 miliardi di euro e sponsorizza al Mondiale solo l’Irlanda e la Namibia. Le mire della ‘sorellastra’ di Adidas si stanno concentrando, negli ultimi anni, nella Formula Uno. Puma sponsorizza infatti i colossi della Ferrari e dei campioni del mondo in carica della austriaca Red Bull, nel tentativo di raggiungere i 4 miliardi nel 2015. Nell’ambito della sua espansione, la Nike prevede di aumentare il proprio fatturato dai 13 miliardi di euro attuali a 19 miliardi nel 2015. Un lasso di tempo che abbraccerà gli Europei di calcio e i Giochi olimpici del 2012 e i Mondiali di calcio in Brasile del 2014. Per quanto riguarda le due competizioni calcistiche, il confronto con l’Adidas sarà serratissimo. La marca tedesca è partner ufficiale di Fifa e Uefa, per la quale disegna i palloni ufficiali e le divise degli arbitri. E il Mondiale di calcio in Sudafrica è stato vinto dalla Spagna, di cui è sponsor tecnico. Il tutto è valso alla Adidas un utile netto del +131%. Adidas ha annunciato di voler diventare brand leader della Polonia, sede dei prossimi Europei del pallone, proprio entro il 2015. E nell’aprile 2008, alla vigilia dei primi Giochi olimpici cinesi, il marchio aprì il più grande negozio monomarca sportivo del mondo nel centro di Pechino. Un’offensiva massiccia, che costa alla marca tedesca il 12% dei ricavi l’anno. La Nike, che sponsorizza grandi nazionali di calcio (Brasile, Olanda, Francia) e atletica (Usa su tutte), ha provato quest’anno a contrastarla offrendo alla nazionale di calcio tedesca, targata Adidas, un contratto da 500 milioni di euro, invano.

Illusioni ottiche

In seconda stiamo parlando di illusioni ottiche e di tutte quelle volte in cui gli occhi o gli altri organi di senso possono essere ingannati. Molti sono rimasti affascinati dall’arte di Julian Beever: eccovi allora il link al suo sito http://www.julianbeever.net/pave.htm

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Auguri

Beh, buon compleanno al blog che il 20 settembre ha festeggiato il suo 4° anno di vita!

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Tensione in Burundi

Sarà che conosco un missionario che da anni lavora là, sarà che anni fa avevo seguito con attenzione lo svilupparsi della guerra, ma il Burundi è nel mio cuore. E allora queste notizie mi fanno preoccupare. Prendo da Limes

In Burundi si avvicina una nuova guerra civile di Roberto Colellaburundi.jpg

Trentasei persone sono state uccise in un attacco contro un bar di Gatumba, nei pressi di Bujumbura, in Burundi. Una nuova escalation di violenza segno di una guerra civile già tendenzialmente in atto. Il presidente Pierre Nkurunziza ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale. I responsabili dell’attacco sono ancora una volta i membri dell’Fnl, guidato da Agathon Rwasa, tornato in clandestinità a partire dal 2010. E pensare che proprio nel 2008 l’ultimo gruppo ribelle, appunto l’Fnl, si era arreso e dopo diversi tentativi era entrato a far parte del governo, deponendo le armi solo nel 2009. In precedenza, dopo le elezioni del 2010 boicottate dai partiti d’opposizione che avevano riconfermato la leadership di Nkurunziza, una escalation di crimini politici aveva lanciato un avvertimento. Uno degli ultimi attacchi era avvenuto nella provincia (nord-ovest) di Cibitoke quando otto uomini armati vestiti da poliziotti avevano preso d’assalto un minibus nel Buganda (60 chilometri a nord di Bujumbura). Tutti i passeggeri erano stati costretti a togliersi i vestiti prima di essere bagnati con la benzina e dati alle fiamme. Un uomo era stato bruciato a morte, due rimasti gravemente feriti.

Il bar di Gatumba, oggetto dell’ultimo massacro, appartiene a un membro del partito di governo che ha dichiarato che coloro che hanno attaccato il locale non erano semplici banditi ma combattenti, ribelli che lui stesso ha visto agire. Altri testimoni hanno detto che l’assalto è durato circa 20 minuti. Vestiti in uniforme e armati di granate e kalashnikov hanno cominciato a sparare. Gatumba, 13 chilometri da Bujumbura, era stata già nel 2004 teatro del massacro di circa 160 rifugiati congolesi tutsi. L’atto venne poi rivendicato dall’Fnl. Considerando la farsa delle elezioni del 2010 e le sue disastrose conseguenze sul consolidamento del processo di democratizzazione in Burundi, dato il clima di intimidazione, terrore e violenza, e considerando i crimini e gli omicidi impuniti, si può ben notare una politica di malgoverno culminata con la corruzione diffusa, la cattiva gestione economica e appropriazione indebita di fondi pubblici, la mancanza di trasparenza e opacità nella gestione dei beni dello Stato. L’Adc-Ikibiri, rappresentante dell’opposizione, ha chiesto diverse volte di fermare immediatamente le manovre distruttive nei confronti dei partiti politici di opposizione; vuole inoltre riprendersi la leadership dell’Fnl, e invita le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’Unione Africana, e i paesi della regione a lavorare insieme per aiutare il Burundi a creare un quadro appropriato per i negoziati.

In Burundi l’attuale classe dirigente sta trascinando il paese verso il baratro. Dalla tribuna dell’Unione Africana ad Addis Abeba il 13 giugno 2011, davanti a una platea di capi di Stato africani, il segretario di Stato americano Hillary Clinton aveva dato un chiaro messaggio che spiegava le ragioni della cacciata di Mubarak e Ben Ali: “Lo status quo è finito, i vecchi modi di governare non sono più accettabili. È tempo per i leader di essere responsabili, di trattare le persone con la loro dignità, rispettare i loro diritti e ottenere risultati economici. Se non lo fanno, è il momento che se ne vadano”. Questi leader che si aggrappano al potere a tutti i costi, che sopprimono le voci dei dissenzienti, che hanno arricchito se stessi e i loro sostenitori a scapito del loro popolo non possono stare al potere a queste condizioni. Di qui il rifiuto da parte di Nkurunziza di negoziare con i partiti di opposizione. “Eccellenza, non sottovalutate il popolo del Burundi. Il vento della rivoluzione soffierà presto anche sul Burundi” come sostenne poco tempo fa Pancrace Cimpaye, rappresentante dell’opposizione (Frodebu) in una lettera a Nkurunziza. Una profezia azzardata visto che il Burundi dopo 13 anni di guerra civile (1993-2006) pensava di non ricadere nel dramma bellico, ma le premesse e gli ultimi accadimenti indicano  il contrario.

Il piacere e l’amore

In terza stiamo parlando dei valori. Ecco un breve pensiero di Herman Hesse:

“Tutti sanno per esperienza che è facile innamorarsi, mentre amare veramente è bello ma difficile. Come tutti i veri valori, l’amore non si può acquistare. Il piacere si può acquistare, l’amore no.”

Una pace dello spirito che va sul concreto

“La pace nel mondo può passare soltanto attraverso la pace dello spirito, e la pace dello spirito solo attraverso la presa di coscienza che tutti gli esseri umani nonostante le fedi, le ideologie, i sistemi politici ed economici diversi, sono come membri di una stessa famiglia.”

Dalai Lama

Non daremo ragione ai terroristi

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Il 22 luglio verrà ricordato per sempre dal popolo norvegese. E’ il giorno della strage all’isola di Utoya avvenuta quest’anno. L’uccisore voleva difendere la “cultura cristiana” e arrivare allo scontro di civiltà diverse. Il 28 luglio, il sindaco di Oslo Fabian Stang ha rilasciato a Le Monde questa dichiarazione:

“Preferiamo concentrare i nostri sforzi a costruire scuole di qualità, a fare in modo che gli immigrati sappiano parlare il norvegese e trovino un lavoro. Tocca alla polizia prendere misure di sicurezza, ma io voglio una capitale aperta, trasparente. Non daremo ragione ai terroristi. Guardando ieri questa folla tranquilla, persone senza numero che si raccoglievano, questi fiori dappertutto, ho capito che l’uccisore aveva perduto: lo puniremo reagendo con più tolleranza e democrazia. Ci ha preso esseri cari, ma non ciò che siamo. Lui sperava di entrare nella Storia lanciando un messaggio al mondo intero: ci ha saldati e rafforzati. Alla fine dei conti ci si ricorderà delle vittime, non di lui.”

Dubbio non ammesso

Su giornali, tg, siti di oggi c’è un gran parlare dell’esecuzione capitale del 42enne Troy Davis. Ecco una sintesi dell’articolo del Corriere della Sera.usa-troy-davis-300.jpg

“Dopo una lunga serie di rinvii, sospensioni e ritardi, è stata infine eseguita la condanna alla pena capitale inflitta a Troy Davis, 42 anni, divenuto suo malgrado l’ennesimo simbolo, dentro e fuori l’America, della battaglia contro la pena di morte: in un carcere di Jackson, in Georgia, gli è stata praticata la prevista iniezione letale. A nulla sono servite le manifestazioni a suo sostegno in varie città del mondo e gli appelli di alte personalità per salvargli la vita. Una campagna che ha visto nelle scorse settimane l’adesione di papa Benedetto XVI, dell’ex presidente Jimmy Carter, dell’arcivescovo Desmond Tutu e di molti esponenti politici e personaggi pubblici americani e internazionali…

Davis era stato condannato a morte per l’uccisione nel 1989 a Savannah di un agente di polizia, Mark MacPhail, che seppur fuori servizio era intervenuto di notte in difesa di un senzatetto che era finito al centro degli scherzi violenti di un gruppo di teppisti. All’epoca, Davis aveva 19 anni…

Dalla condanna di Davis, sette dei nove testimoni hanno modificato o ritrattato le proprie dichiarazioni, alcuni dicendo di essere stati costretti dalla polizia a testimoniare contro di lui. Nessuna prova fisica collegava Davis all’omicidio. La maggior parte di coloro che avevano avviato la campagna per salvarlo sostenevano che, per la scarsa consistenza delle prove a suo carico, avrebbe dovuto avere almeno un altro processo. In particolare, un esperto come l’ex direttore della Cia ed ex giudice William Sessions aveva sottolineato che sulla sua colpevolezza c’erano «seri dubbi, alimentati da ritrattazioni di testimoni, accuse di coercizione da parte della polizia, e mancanza di serie e concrete prove». Tutti argomenti che hanno portato per quattro volte, dal 2007, a rinviare l’esecuzione. L’ultima volta, per appena tre ore e mezza, ancora mercoledì sera, per dare alla Corte suprema il tempo di esaminare e respingere l’ultimo disperato ricorso della difesa. Uno stillicidio. «Il trattamento riservato a Troy Davis – sostiene Brian Evans di Amnesty – si può paragonare alla tortura, soprattutto quando più volte si è trovato a poche ore dalla morte, dopo aver già dato i suoi ultimi addii». Questa volta, alle 11.10 locali (le 5.10 di giovedì mattina in Italia), l’incontro con il boia per Troy Davis è però infine arrivato. Inesorabile.

Accendo il sole per te

Un’altra cantante che amo moltissimo è Gianna Nannini che in questo brano parla del rapporto di amore-odio con suo padre. Il titolo è “Babbino caro”. La canzone l’avevo già proposta all’interno del post “A caccia!” ma vale la pena riprenderla

Aiutami a non piangere adesso siamo soli

La rabbia ormai è cenere mio eterno dittatore

Stai qui stai qui e dammi il buon esempio

Non devi far vedere al cielo che hai paura oh oh

Babbo non l’avevi detto che finiva tutto e mi lasciavi qui

Babbo dammi ancora addosso

la vita è un gioco rotto se non ci sei più

Stai giù stai giù, fermiamo questo tempo

ed io con la forza che ho di te non ti abbandono oh oh

Babbo non l’avevi detto che finiva tutto e mi lasciavi qui

Babbo stammi ancora addosso

la vita mi fa freddo se non mi copri più

E vai via dalle mani babbino caro

accendo il sole per te e non ti perderò

E la vita non è come un angelo che

si alza e danza sulla punta dei piedi

E la vita che hai e che vedi andar via

io vorrei ridartela come se fosse mia.

Babbo non l’avevi detto che finiva tutto e mi lasciavi qui

Babbo stammi ancora addosso

la vita mi fa freddo se non mi copri più

E vai via dalle mani babbino caro

accendo il sole per te e non ti perderò

Verso l’altro lato del mare

In 4BL abbiamo cominciato a parlare di un argomento molto delicato che va a toccare corde profondamente personali: morte e aldilà. Mi è venuto in mente il testo della canzone “I don’t wanna cry no more” del mio gruppo metal preferito, gli Helloween. Vi posto testo (tradotto da www.dartagnan.ch) e video.

Hey, fratello, ti ho perso così

hai bussato alla porta del Paradiso

e non t’abbiamo più visto

dev’essere assurdo ciò per cui viviamo

perchè Dio ha smesso di tenerti sulla scala della tua vita

chiamo il tuo nome con le lacrime agli occhi

Non voglio più piangere

il passato mi ha dato felicità e dolore

la vita è fuggita come un fiore

da una distanza, dopo la sofferenza

prego il Signore di custodire la tua anima

non voglio più piangere mentre ti perdiamo

La vita è come una passeggiata su un filo alto

tu sei scivolato ti ho visto in una vena morente

alti come le montagne sembrano tutti i problemi che ho

ma quando sento la tua voce molto lontano fuori dal buio

ti fai strada in fondo alla mia mente

Non voglio più piangere

il passato mi ha dato felicità e dolore

la vita è fuggita come un fiore

da una distanza, dopo la sofferenza

prego il Signore di custodire la tua anima

non voglio più piangere mentre ti perdiamo

Pelle ed ossa non toccano il cielo

Spero che troverai il passaggio fuori dal buio

verso l’altro lato del mare e so che ti vedrò ancora

Non voglio più piangere

il passato mi ha dato felicità e dolore

la vita è fuggita come un fiore

da una distanza, dopo la sofferenza

prego il Signore di custodire la tua anima

non voglio più piangere mentre ti perdiamo

Riga o fune?

Se tracci col gesso una riga sul pavimento, è altrettanto difficile camminarci sopra che avanzare sulla più sottile delle funi. Eppure chiunque ci riesce tranquillamente perché non è pericoloso. Se fai finta che la fune non è altro che un disegno fatto col gesso e l’aria intorno è il pavimento, riesci a procedere sicuro su tutte le funi del mondo. Ciò che conta è tutto dentro di noi; da fuori nessuno ci può aiutare. Non essere in guerra con se stessi, vivere d’amore e d’accordo con se stessi: allora tutto diventa possibile. Non solo camminare su una fune, ma anche volare. (Hermann Hesse)

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E’ vietato calpestare i sogni!

Copio dal blog Ho ascoltato il silenzio questo piccolo intervento. Aggiungo che sulla miaÈVIETA~1.JPG stufa c’è un piccolo sasso verniciato con una scritta “E’ vietato calpestare i sogni!”. Un prof che lascia calpestare i sogni può smettere di fare il prof, così come uno studente, ma un prof che li calpesta è veramente un cattivo prof…

Le dirò che io quest’anno a scuola non ci volevo proprio tornare. Pensare che voi (lei e i suoi colleghi) mi farete perdere il primo mese di scuola per ambientarmi (è l’undicesimo anno che varco quella soglia!), che comincerete già dalla seconda ora a parlarmi degli esami di maturità quando mancano ancora tre anni, che parlerete male di Berlusca e dei suoi inservienti, che mi riempirete la testa della nuova Manovra e dell’incapacità del Governo di rappresentarci e che condirete il tutto intervallandolo con i vostri problemi familiari ed esistenziali un po’ mi fa incavolare. Perchè lei, prof, dovrebbe sapere che sotto la mia faccia da asino ci sta un alfabeto di desideri: di correre, di gridare, di piangere, di amare, di sognare, di diventare grande, di sognare da capitano. Per fare questo le sue frustrazioni mi sono più d’intralcio che d’aiuto. Scusi se glielo dico, ma se ci torno a scuola è perchè anche quest’anno – mi creda: non giochi con la bontà degli studenti – spero che la musica cambi per davvero. Io vorrei tanto vederla piangere mentre spiega la sua materia, scoprire dentro il suo sguardo la passione per quello che dice, inabissarmi nel suo entusiasmo per poi scoprire che lei è davvero quello che dice. Sentirmi raccontare di quando Pasteur tratteneva il fiato sopra il suo miscroscopio, di quando Cèzanne immobile e muto scrutava il mare dentro i suoi quadri, di quando Platone s’accorse di consumare più olio nella lampada che vino nella coppa. Quest’estate ho sognato tante notti di entrare in classe e scoprire che la mia prof crede davvero che la vita abbia un senso splendido da far sbocciare, che noi non siamo qui per caso, che dentro noi c’è un microcosmo meraviglioso da illuminare. Quando penso che alla mia età Mozart già componeva musica, Domenico Savio era già santo, Alessandro Magno stava per vincere la battaglia di Cheronea e Pascal già scrivera opere, sento nascere la passione nel mio cuore. Le chiedo solamente, prof, che qualora lei non l’avvertisse questa passione mi faccia il piacere di starsene a casa quest’anno: s’inventi una scusa qualsiasi, ma ci faccia il favore di non scegliere ancora noi come destinatari della sua frustrazione esistenziale. C’abbiamo grandi aspettative noi ragazzi. E tanta speranza che qualche prof entri in classe e ci faccia finalmente innamorare delle cose più alte e nobili. Di Berlusca ne parli pure. In sala docenti, però.

Let’s go

Oggi c’è il rimasuglio di questa perturbazione che ci ha dato il primo segnale che l’estate sta finendo; non penso di fare il mio solito giretto a piedi in compagnia del fido Mou (eccolo qui in foto) per le strade di campagna che circondano il mio paese. Tra l’altro stasera inizia la nuova stagione pallavolistica e non posso arrivare stanco ad allenamento. Mi mancherà quel giretto di corsa per i campi, quel contatto quotidiano con la natura e i suoi ritmi. Nel giro di una settimana molte viti si sono svuotate dei grappoli che portavano e molte pannocchie sono diventate grumi di grani: la campagna torna ad aprirsi a perdita d’occhio senza essere delimitata dalle pareti di granoturco. Le giornate si stanno accorciando e il buio inizia sempre prima. Le cimici iniziano a cercare riparo nei pressi delle case, tra infissi e zanzariere. Sono tutte cose che mi dicono che la scuola è iniziata anche se il caldo delle aule della scorsa settimana facesse più pensare a giugno che a settembre… Insomma desidero augurare un buon anno a tutti, un anno ricco di nuove conoscenze e nuove esperienze, un anno di molte cose e di molti incontri. Ho fatto riferimento alle mie passeggiate o corse nella natura perché mi piacerebbe che durante quest’anno ci ricordassimo anche dei ritmi della natura, fatti di accelerazioni ma anche di periodi di rallentamenti. Mi piacerebbe che a volte ci concentrassimo sull’essenziale, sulle cose importanti, su ciò che dà senso e significato alla vita di ciascuno. Quindi buon anno a tutti!

 

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Di generazione in generazione…

I tempi non sono più quelli di una volta. I figli non seguono più i genitori. (Papiro egizio, 3000 a.C.)

Questa gioventù è guasta fino al midollo; è cattiva, irreligiosa e pigra. Non sarà mai come la gioventù di una volta. Non riuscirà a conservare la nostra cultura. (frammento babilonese di argilla, 1000 a.C.)

Non nutro più alcuna speranza per il futuro se deve dipendere dalla gioventù superficiale di oggi, perché questa gioventù è senza dubbio insopportabile, irriguardosa e saputa. Quando ero ancora giovane mi sono state insegnate le buone maniere ed il rispetto per i genitori: la gioventù di oggi invece vuole sempre dire la sua ed è sfacciata.” (Esiodo, 700 a.C.)

Musica di libertà

In prima quasi ogni anno riusciamo a vedere il film Swing Kids. Ecco che sull’ultimo numero di XL Carlo Lucarelli ne parla in un pezzo.

Immaginiamo una sera, ad Amburgo, metà anni 30, nel cuore della Germania nazista. C’è un gruppo di ragazzi che ne incontra un altro proveniente dalla direzione opposta. Sono vestiti in modo simile, hanno la stessa cultura, lo stesso stile di vita e quando si incontrano si salutano alzando il braccio: «Swing heil»! È un errore? Un difetto di pronuncia? Il saluto nazista è «sieg heil!», ma no, l’hanno fatto apposta. Perché presi dall’abitudine e visto il luogo e il periodo abbiamo immaginato quei ragazzi vestiti con le divise brune della Gioventù hitleriana e invece sono tutti giovani appassionati di musica jazz, quello di Count Basie, Duke Ellington e Benny Goodman. Così appassionati da vestirsi nello stesso modo e parlare con lo stesso gergo, come più avanti succederà a rockabilly, punk, dark e così via.

Sono gli Swingjugend, la gioventù dello swing, raccontata dal film Swing Kids, di Thomas Carter, e rispetto ai vari gruppi di tendenza che verranno dopo hanno qualche problema in più. Perché non si tratta soltanto di subire le critiche dei genitori e le occhiate della gente “normale”, o di evitare risse coi gruppi rivali tipo mod e rocker o skin e punk. Siamo nella Germania nazista e per ballare lo swing o per ascoltare jazz i ragazzi erano costretti a incontrarsi clandestinamente in qualche locale o a casa per sentire la Bbc, la radio inglese proibita dai nazisti, o per mettere sul grammofono qualche disco fatto arrivare di nascosto dalla Danimarca. La sera c’era il coprifuoco, gli eventi notturni sopravvivevano solo grazie al passaparola, ad una lista segreta di invitati che si dovevano presentare all’ingresso con una parola d’ordine per poter entrare e al continuo spostamento dei luoghi in cui venivano tenute le feste. Sembrava che per poter ballare lo swing si dovesse appartenere a una società segreta. E anche se i ragazzi a volte lo trovavano divertente, c’era poco da scherzare, perché il rischio era quello di finire in un campo di concentramento. Gli Swingjugend indossavano vestiti all’inglese, con giacche lunghe che arrivavano a metà coscia e pantaloni stretti alle caviglie, scarpe larghe a punta, con suole spesse e appositamente non lucidate. Portavano un cappello, quasi sempre una bombetta, e il colletto rotondo della camicia era sorretto da stecche di legno inserite sotto il papillon, o anche sotto sciarpe sgargianti. Portavano capelli lunghi, disordinati, lucidati con l’olio, perché la brillantina in quel periodo di grave austerità era difficile da trovare. E poi un ombrello, che non aprivano mai, neppure sotto la pioggia. Le ragazze, invece, indossavano maglioni a collo alto sotto cappotti di pelliccia, facesse freddo o caldo, e portavano i capelli lunghi fino alle spalle, con grandi boccoli. Scarpe e gonne molto corte. Si segnavano le sopracciglia con la matita e si truccavano con rossetto e smalto. Per vestirsi così in quegli anni di ristrettezze economiche a cavallo della Seconda Guerra I Mondiale ci voleva l’appoggio dei genitori, oppure fare sacrifici, ricorrere al mercato nero o rimediare qualcosa adattando vecchi vestiti dismessi. Ma non era soltanto una questione di soldi. Perché anche se ufficialmente non c’era niente di politico nel vestirsi così e nell’ascoltare jazz e swing, solo la voglia di divertirsi e di seguire una moda originale, essere uno Swingjungend significava mettersi nei guai con la Gestapo, la polizia politica nazista, intanto perché stile e musica venivano da Inghilterra e Stati Uniti, paesi nemici, ma soprattutto perché un sistema totalitario come quello nazista non può tollerare uno stile di vita alternativo.

«La gioventù tedesca del futuro», scriveva Hitler, «deve essere snella e agile, veloce come un levriero, forte come il cuoio e dura come l’acciaio Krupp». Per l’ideologia nazista jazz e swing erano considerati offensivi, erano “Negermusik”, musica composta e suonata da afroamericani, diffusa dall’industria dei media dominata dagli ebrei, e dunque considerata “entartete kunst”, arte degenerata. Era vista come prova di inferiorità delle razze non ariane. Insomma, per i nazisti in quella musica c’erano tutti gli ingredienti con i quali non volevano avere a che fare: americani, ebrei e neri. Altro che swing, per i giovani nella Germania nazista c’era solo la Hitlerjugend, la Gioventù Hitleriana. Il suo compito era modellare i giovani con una rigida disciplina, fatta di obbedienza, cameratismo e senso del dovere, per farla diventare il futuro esercito del Terzo Reich. Le altre associazioni furono sciolte, a partire da quelle sportive, del tempo libero e quelle religiose. Dal 1936 la Hitlerjugend divenne l’organizzazione unica per tutti i giovani di età compresa tra i 10 e i 18 anni e arrivò a inquadrare 8 milioni di ragazzi.

All’inizio non è che i nazisti avessero le idee chiare su come comportarsi con questi ragazzi appassionati di musica che non erano una vera e propria organizzazione. Erano botte quando si incontravano con quelli della Gioventù hitleriana e il fatto che non si preoccupassero del coprifuoco, dei divieti di danza, o del divieto di ascolto delle stazioni radio nemiche, dava la possibilità alla polizia di intervenire con arresti e chiusura dei locali. Il problema, però, è la loro stessa esistenza. Swingjugend, swing heil, il loro stesso stile di vita, così trasgressivo e ironico, è una presa in giro e quindi una critica che un regime non può tollerare. Non è più solo divertimento, o meglio, proprio in quanto tale è “politica”. Intanto arriva la guerra e l’intolleranza nazista alla musica “degenerata” si fa più dura. E non solo in Germania. Nel 1940, con l’invasione di Parigi, i nazisti hanno a che fare con una capitale brulicante di vita notturna. Così si preoccupano subito di chiudere tutti i night club in cui si suonava il jazz. Almeno ufficialmente, e per quelli non frequentati da ufficiali e soldati in libera uscita, che devono arrangiarsi in un altro modo. E così che nasce il termine discoteca, dal nome di un locale sorto illegalmente nel 1941 in rue Huchette, chiamato appunto Le Discothéque. Da allora il termine servì per indicare un night club che,

invece delle performance live dei musicisti, offriva un fonografo per suonare i dischi e un disc jockey per selezionarli.

Ad Amburgo, considerata il centro della Swingjugend la Gestapo e la polizia si accaniscono con arresti, interrogatori e torture. Nel 1941 più di trecento Swingjugend vengono arrestati e l’anno successivo Himmler stesso interviene con una lettera per dare ordine che i leader di questo “gruppo sovversivo” vengano internati nei Jugendschutzlager (i campi di detenzione per la gioventù). I ragazzi finiscono a Moringen e le ragazze a Uckermark. Dal 1942 gli ebrei presenti tra gli Swingjugend furono isolati e deportati in altri campi, come Bergen-Belsen, Buchenwald o Auschwitz.

Nel gennaio del 1943 Günter Discher, uno dei più attivi tra i “giovani dello swing”, viene arrestato e portato a Moringen. È sopravvissuto a quella devastante esperienza e oggi, a ottantacinque anni, ricorda che nella miniera di sale che stava al campo c’era un’ottima acustica. Anche là Günther e i suoi coetanei improvvisavano concertini jazz con strumenti di fortuna o addirittura usando solo la voce per riprodurne il suono. Era una strategia di sopravvivenza. Ancora oggi, Discher coltiva la sua passione per il jazz con una collezione di circa 25.000 lp e oltre 10.000 cd.

Ha una propria etichetta e per la Günter Discher Edition ha realizzato diverse compilation di tracce rare della sua collezione privata che sono state restaurate e rimasterizzate con suoi interventi personali in cui illustra le caratteristiche dei vari artisti jazz. Tiene conferenze alle università in cui racconta del suo amore per la musica swing ed è il più anziano dj della Germania. Con lui la musica, il suo swing, il jazz di Benny Goodman e Duke Ellington, hanno vinto sul nazismo di Hitler.

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