Arroganza versus debolezza

Ieri, navigando nel web mi sono imbattuto in un articolo di un mese fa del priore di Bose Enzo Bianchi che conduceva un elogio della debolezza. Oggi nella sezione di economia del sito del Corriere della Sera leggo un pezzo breve dal titolo “Sei odioso? Fai carriera e guadagni di più”. Potremmo dire di essere agli antipodi: li posto entrambi.

Corriere della Sera, 17 agosto 2011

gordon_gekko.jpgMILANO – Quanto aiuta nella carriera essere arroganti, sgradevoli e magari anche profondamente antipatici? Moltissimo. Se poi sei uomo la scalata verso il successo è assicurata. A giungere a questa conclusione è un team di ricercatori guidati da Timothy Judge, docente di Managment presso il Mendoza College of Business dell’Università statunitense di Notre Dame, e al quale hanno partecipato anche Beth Livingston, della Cornell University e Charlice Hurst della University del Western Ontario. I ricercatori hanno raccolto e analizzato i dati di venti anni di studi, aggregando i risultati di interviste e sondaggi a più di 10 mila dipendenti e impiegati e interpretandoli in un report dal titolo «Do Nice Guys—and Gals—Really Finish Last?». In vetta alla classifica degli impiegati più premiati ci sono gli uomini odiosi, o quantomeno giudicati tali dai colleghi. Gli antipatici e sgradevoli infatti arrivano a percepire un reddito addirittura il 18,31 per cento superiore rispetto alla loro controparte gentile. Mentre le signore insopportabili guadagnano mediamente il 5,47 per cento in più delle colleghe simpatiche e solidali. Il che significa che nello scalino più basso della carriera lavorativa si trovano le donne piacevoli e amabili. Dunque va notato che il premio all’odiosità è molto più alto per gli uomini che per le donne e che la par condicio tra sessi non esiste nemmeno a questo proposito. In sostanza, come spiega Judge in un’intervista, la percezione dei colleghi cambia di fronte all’arroganza maschile e femminile, forse perché nella società la prevaricazione e la fermezza vengono tollerati meglio da parte di un uomo, quando addirittura non vengono visti in un’accezione positiva e associate all’abilità nell’essere ottimi negoziatori. Se un maschio è capace di imporsi con durezza, anche a costo di essere sgradevole, dimostra autorevolezza, mentre se una donna si afferma in modo troppo deciso rischia di essere etichettata come maniaca del controllo, pur essendo vista meglio rispetto alla collega dolce e gentile (che nel lavoro equivale a dire «mollacciona»). La gradevolezza è in tutti i casi una penalità, a conferma del luogo comune che rappresenta il vincente sul lavoro come un vero duro, poco umano, poco affabile e molto deciso. EMANUELA DI PASQUA

Avvenire, 10 luglio 2011 5244468932_66d37bb74b_b.jpg

Come scriveva Gilbert K. Chesterton, il paradosso attraversa il tessuto della fede cristiana. E così la debolezza, l’asthenía che nasce dalla malattia, dall’handicap, dall’umiliazione, dalla sofferenza imposta dalla vita, nel cristianesimo se è vissuta come un cammino pasquale può diventare addirittura un luogo in cui si fa sentire la forza di Dio. Questo viene proclamato da Gesù nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati (cf. Mt 5,1-12). L’Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). In questo testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza del Signore si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell’uomo. Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor 1,18-31), e noi cristiani abituati a tali parole siamo disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell’antropologia cristiana.

Confessiamolo però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per essere condotti all’«unica cosa necessaria» (Lc 10,42)? Non solo individualmente, ma come comunità, come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della «discreta caritas», dell’amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler «dare testimonianza» a noi stessi? Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di handicappati, ma siamo di fronte a un uomo o a una donna in carrozzella, a una persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle sue, forse solo allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo ha messo la sua tenda.

C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per me essere stato nella debolezza» (Sal 119,71), prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell’ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? Sì, dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo, difficile da accettare e soprattutto da vivere senza tradire l’amore. San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la grazia, la misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova. ENZO BIANCHI

Brucia il denaro: che ne è della cenere?

“Sono stati bruciati dalle borse europee xyz milioni di euro in poche ore”. In questi giorni è una notizia che si ascolta frequentemente durante i telegiornali quotidiani. Mi sono sempre chiesto: è mai possibile che siano volati nel nulla senza che qualcuno li abbia intascati? Un vivace articolo si Marco Savina comparso su Limesfa qualche ragionamento a tal proposito

CRISI-ECONOMICA.jpg

Inutili le volte nelle quali, in tempi non sospetti e proprio in questa autorevole rivista, si è detto che la crisi del 2008 sarebbe stata solamente propedeutica ad una maggiore, che si verifica, guarda caso, in una onda molto lunga e devastante ça va sans dire, proprio nel 2011. Politica e Mercato non sono mai andati d’accordo. Lo scriveva Niccolò Machiavelli nella sua opera “Il Principe” edita nel 1532 e tali sono rimaste le relazioni interpersonali tra i due poteri nel corso dei secoli. La politica apparentemente dovrebbe rappresentare l’arte dell’impossibile, ma purtroppo tuttavia appare come un moloch globalmente cieco, sordo e muto ai desideri ed alle necessità dei popoli. Di quale categoria sono i popoli? Non importa, qualunque tipo di gente ha il diritto di vivere con dignità e compostezza. Se questo non accade, l’aspetto fa riflettere su tanti altri percorsi che la globalizzazione ha imposto. Ovvero, crescita della povertà relativa rispetto agli standard di minima sopravvivenza anche in paesi industrializzati, ritorsione su consumi basici, sensazione di insicurezza e per finire sfruttamento insensato delle risorse basiche del pianeta. Come dire, il 15 % detiene l’85% del rimanente. Right or wrong, così stanno le cose. La “middle class” post seconda guerra mondiale dei “white collars” già stenta ad esistere e fa fatica a vivere quotidianamente. Di fronte ai tanti top managers che, giustamente o no, guadagnano 50 o 60 mila euro netti al mese plus bonus di ogni tipo e scelta, ci sono decine di migliaia di persone per bene che non arrivano alla fine del medesimo mese. Non per questo sono cittadini di serie B. Però vengono perseguiti con vessazioni pari a quelle imposte da un satrapo feudatario medioevale. Se poi parliamo della lotta all’evasione fiscale che in Italia sempre rappresenta una piaga purulenta, abbiamo l’ultimo ottimo esempio del ministro dell’Economia che paga in nero migliaia di euro al mese per godere di una casa affittata a nome di altri e dove può farsi, è proprio il caso di dirlo, i fatti propri. Per carità, tutto il mondo è paese, però come sempre esiste forma e maniera per le cose private. Su questo punto specifico, l’Italietta insegna a tutto il mondo. Nessuno si dimette e i tagli alla spesa “politica” del paese chissà perché, anche se a gran voce richiesti da tutto l’arco costituzionale, in finale stentano ad essere approvati.

Quindi e senza fare nomi, la qualità degli esseri umani in politica è pessima. Tanto pessima che nessuno degli attuali alti vertici è in condizione di varare norme atte a mettere un freno alla odierna, seppure insita nel sistema, crisi dei mercati. Ci vuole coraggio, ci vogliono attributi, ci vogliono capacità, ci vuole credibilità, ci vuole esperienza, ci vuole conoscenza, ci vuole molta professionalità, ci vuole anche sentiment dello Stato, inteso come il conglomerato di attitudini tra chi governa e chi subisce l’essere governato. Magari ogni tanto a questa platea gli girano anche le balle e con ragione, uomo o donna che sia. Il tema non è destra, sinistra o centro, laburisti o conservatori, repubblicani o democratici. Il vero dilemma sono i bisogni pragmatici di chi vive tutti i giorni, la scuola, l’educazione, il rispetto, il lavoro, oltre ai pochi valori rimasti nella vita quotidiana e che si vanno erodendo, globalizzando oltremodo una pervicace forma di “mors tua, vita mea”, affatto contraria non tanto ai dogmi delle varie religioni, quanto al consueto vivere civile. Egoismo, scaltrezza, indifferenza e casta stanno concependo un mondo imperfetto che, meno male, sta implodendo sotto il suo stesso peso. Bid & Ask sono le uniche parole conosciute in borsa. E un mercato in 3D le pone ancora più riflettenti ed opache se non si usano gli appositi occhialini. Che succede? Niente, se non l’assurdo. Che una oncia troy di oro pari a 31,11 grammi circa valga quasi milleottocento dollari sembra uno scherzo di cattivo gusto. Che faranno gli investitori con questo oro? Lo sfoglieranno e se lo metteranno in mezzo a due fette di pane, ammesso che ci sia ancora pane commestibile. Come sempre la mente umana è capace di qualunque tipo di pervicace nefandezza. I più ricchi, inclusi i così detti fondi sovrani non sanno dove mettere i soldi che hanno accumulato con traffici più o meno leciti. Usura, droga, prostituzione, gioco d’azzardo e affari sul limite, rendono miliardi di dollari o euro a chi li maneggia. In momenti di crisi dove vengono diretti tutti questi stimabili denari a cui qualunque governo fa l’occhiolino? Sull’oro. Ovvero sul niente. A che serve l’oro? Qualche uso industriale, gioielleria per ricche signore arabe e indiane e poi? Niente. Non è strategico e non serve per usi militari. Fort Knox è tanto desueto, così come la convertibilità delle divise che non pareggia più con il pur gustoso minerale color giallo zafferano. Infatti anche James Bond adesso preferisce giocare a poker. Quindi si torna al bid & ask, al mercato che non fa prigionieri, al mercato che vive di impeto e non di ragionamento. “Buy the rumors & sell the news”, normale pratica ovviamente di quando escono le notizie e pertanto non ci sono più notizie su cui appendersi. Men che meno da quelle della politica. In fondo, il mercato odia la politica. Il mercato si è fatto i propri circuiti viziosi dai quali mangia e muore. Il mercato si è costruito tali e tanti sistemi sintetici e virtuali per cui alla fine si apparenta ad un Avatar che o stacca la spina ai pc, o termina collassato sotto la spinta non tanto delle informazioni giornalistiche di miliardi “bruciati”, visto che i miliardi bruciati in sedute di borsa non esistono. Il denaro non brucia, solo va da una parte differente, che è quella di chi gode di grandi capacità di manovra. Come dire, se sei Citigroup o Goldman Sachs, solo per fare un esempio, sei tu che fai il mercato e molte volte ti remi contro senza accorgertene. Ecco perché alla fine il gioco estremo non dà ritorno. Nessuno vince e nessuno perde. Somma zero. La vittoria di Pirro dei poveri che non hanno niente da perdere. Ai ricchi una bella sforbiciata e i meno abbienti rimangono quello che sono, pagando però ogni volta lo scotto di aumenti sconsiderati dei prezzi atti a calmierare le perdite dei ricchi. Certo nessuno vorrebbe essere nei pantaloni di qualche esimio banchiere di Miami, dovendo giustificare inusuali sparizioni milionarie a cocaleros messicani, paraguayos, peruviani, boliviani, argentini o comunque centro e latino americani. Non è gente che convive con l’algido aplomb della Angela Merkel, un poco avara nel portafoglio, ma comunque sempre pronta a fare cassa con i titoli di stato di altri paesi amici dell’area euro. Magari nessuno gli racconta che anche la grande Germania è in pericolo di sopravvivenza, così come la Francia dell’arrogante Sarkozy e il Regno Unito dell’inetto David Cameron alle prese tra l’altro, ciliegina sopra la torta, con una notevole sequenza di teppisti e delinquenti che gli stanno mettendo a fuoco mezzo paese. Parecchi opinionisti ritengono che Barack Obama sia una specie di stolto, arrivato per caso alla Casa Bianca. Nessuno ricorda che gli USA negli ultimi due secoli si sono risollevati da tante traversie ed hanno alla fine vinto a loro modo tante di quelle situazioni per le quali un dime di scommessa sarebbe stato troppo. Che serve?

Per l’appunto, un quantum leap, un colpo d’ala. Il ritorno alla grande di un John Nash, sarebbe oltremodo magico. Di gente che parla a vanvera, il mondo ne detiene in quantità industriale. Inclusi coloro che dissertano sulla Cina, l’eccellente economia globale a due cifre fatta tutta di numeri falsi, esattamente come i loro prodotti. Per questo se la fanno sotto se gli Stati Uniti hanno seri problemi. E’ come lasciare la calda e comoda cuccia di una madre amorosa e andare per la strada a vendere a prezzi stracciati il poco di copiato che si ha in tasca. In quattro fra gli stati più importanti latinoamericani, dove sarebbe il caso di mettere ordine economico, sono casualmente fuggiti dalla finestra negli ultimi sei mesi qualcosa come cinquecentontoventi miliardi di dollari. Questo la dice lunga sull’effetto mercato vs. politica. Ma chi rischia e rimane sa che potrà godere di rendite indefinite, perché il costo della politica lo permette. D’altro canto non è una primizia dell’emisfero sud del mondo, piuttosto in questa parte del globo le risorse primarie sono ancora voluminose, considerevoli e appetitose. Morale della favola, l’incompetenza regna sovrana ma la supponenza dei politici, commentatori economisti, falsi esperti e affini sempre vuole fare la differenza. Questa volta la pellicola è diversa. Con buona pace dei suonatori e pure dei suonati.

Intanto in Cina…

In quinta trattiamo sempre l’argomento della globalizzazione e facciamo qualche cenno all’economia. Questo articolo è a firma del dissidente cinese Wei Jingsheng ed è tratto da Asianews.

Washington (AsiaNews) – I dati di ricerca accademica presentati dall’Accademia cinese per le Scienze sociali mostrano che il 99% delle imprese cinesi sono di statura media o piccola. Queste piccole e medie imprese (Pmi) contribuiscono circa al 60% del Prodotto interno lordo, forniscono più del 50% del gettito fiscale e danno circa il 75% dei posti di lavoro nelle aree urbane. Il fatto che nello scorso anno il 40% delle Pmi sia stato chiuso pone delle domande, che la gente rivolge nei confronti dei dati del governo. Data l’iper-produzione nel mercato automobilistico, alla fine del 2011 ci saranno 10 milioni di veicoli in eccesso in Cina. Questo dato supera l’intera produzione giapponese del 2009. Un altro grande problema viene dal surplus del mercato immobiliare, che ha creato una bolla pari al 30% dell’intera situazione abitativa. Al momento ci sono 64,5 milioni di appartamenti vuoti nel Paese, abbastanza per dare una casa a 200 milioni di persone.

Nel Paese, si stima che 1.300 persone controllino circa mille miliardi di dollari di investimenti. Secondo un sondaggio condotto da alcune istituzioni finanziarie occidentali, l’1,5% della popolazione cinese possiede il 45% dei depositi bancari e il 67% degli asset finanziari. Il coefficiente Gini (che misura la disparità negli stipendi) ha raggiunto lo 0,57. Nei primi anni Ottanta, esso era pari allo 0,25; negli anni Novanta arrivava allo 0,39. Questo coefficiente odierno è di gran lunga superiore allo 0,43 degli Stati Uniti e allo 0,37 dell’India. In Cina, la popolazione che vive nei pressi dell’assoluta povertà -ovvero un guadagno quotidiano uguale o inferiore ai 2 dollari al giorno – è pari alla metà dell’intera popolazione (1,3 miliardi di persone).

Le imprese controllate dallo Stato succhiano circa il 75% del totale degli investimenti, oltre a controllare circa i 2/3 degli asset totali. Durante la crisi economica e finanziaria che ha colpito il mondo fra il 2008 e il 2010, alle aziende statali è andato il 90% dell’intero pacchetto di aiuti economici per stimolare l’economia. Eppure, l’80% dei profitti aziendali in Cina proviene dalle 120mila Pmi (private) e da circa 12 delle maggiori industrie statali. Soltanto grazie a queste condizioni di monopolio è stato permesso ad aziende enormi come la Sinopec di realizzare enormi profitti.

Dopo aver letto tutti questi dati, possiamo immaginare cosa è andato male: dove sono nati i problemi economici e sociali della Cina. Il “modello Cina” è veramente un modello economico di tipo socialista che, come un vampiro, succhia il sangue dall’impresa privata e ottiene i vantaggi della cosiddetta “economia orientata alle esportazioni”, in modo da ottenere benefici danneggiando gli altri. Le economie di mercato semi-privato devono usare i profitti che ottengono dal mercato internazionale grazie al basso costo del lavoro per riparare i danni dell’economia statale e delle imprese rette da un gruppetto di capitalisti burocrati. Ma i capitali accumulati verranno usati per espandere e migliorare gli elementi tecnici dell’economia cinese? Molto probabilmente, no. Sono pochissime le Pmi che, ottenuti dei profitti dal mercato straniero, decidono di investirli in miglioramenti tecnologici: e questo avviene perché i vantaggi che si possono ottenere con il lavoro a basso costo – che sfrutta delle enormi violazioni ai diritti umani dei lavoratori – sembra sempre la strada più conveniente. Fino a che si riescono a vendere dei prodotti di bassa qualità, a che serve spendere denaro per migliorare la tecnologia? Accoppiata con l’ingiustizia e la corruzione del governo, questa situazione fa sì che i profitti ottenuti non siano poi così alti. Molti degli investitori privati, che guidano le Pmi, stanno iniziando a trasferire la maggior parte dei propri capitali all’estero, in modo da aiutare loro e le proprie famiglie a sopravvivere ai cambiamenti sociali in corso. Chi potrebbe comprare queste compagnie, una volta compiuti dei miglioramenti tecnologici? Nessuno, ed ecco perché i padroni attuali non fanno nulla e non beneficiano la popolazione.

Di conseguenza, il cosiddetto “modello Cina” dominato dall’economia orientata verso l’esportazione non ha fatto quello che doveva, con i profitti eccessivi ottenuti dopo aver riempito di spazzatura i mercati occidentali. Non ha formato o consentito un effettivo accumulo nella società cinese, ha a stento migliorato di poco i contenuti tecnologici dell’entità economica del Paese. I risultati di questo strano fenomeno si vedono adesso. Appena si verifica un problema nei mercati internazionali, praticamente la metà delle Pmi chiude. Eppure per la Cina i calcoli statistici prevedono un raddoppio nella crescita del Pil del prossimo anno: ma questa crescita è il risultato di inflazione e frode del sistema statistico. La vera crescita economica, al momento, è negativa. Oltre al fattore tecnologico delle Pmi, la politica finanziaria del governo cinese è il secondo fattore per importanza che spiega l’enorme chiusura delle aziende nel Paese. Durante la recessione economica globale, il governo ha aumentato gli investimenti per salvare l’economia: e questo è comprensibile. Tuttavia, questo denaro non è stato usato per salvare le Pmi, ma è stato versato quasi tutto in quelle aziende statali, o in mano a burocrati dello Stato, che l’hanno ottenuto grazie alla corruzione politica. Le imprese del grande capitale, che non avevano bisogno di fondi, hanno usato le iniezioni economiche governative per speculare: questo ha creato la bolla immobiliare. Così da una parte vediamo la chiusura di piccole e medie imprese che creano profitto, mentre dall’altra si deforma il mercato immobiliare con i fondi che servivano per salvare le Pmi.

Il problema più ingente viene però dai 3mila miliardi di dollari di debito estero americano che Pechino ha in cassa. Queste riserve dovrebbero essere usate come scambio per emettere altra valuta durante i terremoti economici. In recessione, il governo dovrebbe applicare una politica di mantenimento della valuta interna per tenere a bada l’inflazione. Questo approccio specifico è molto semplice: permettere la libera conversione della valuta straniera da una parte e dall’altra alzare il tasso di scambio di valute. In questo modo la circolazione della moneta interna sul mercato verrebbe ridotta, e l’inflazione declinerebbe in maniera naturale. Ma perché il governo cinese si mantiene sulla sua posizione, e non applica queste semplici misure? A causa delle differenze fra la politica democratica e quella governata dal capitalismo dei burocrati. Dal punto di vista di questi ultimi, eliminare l’inflazione non è un beneficio dato che comunque continuano ad accumulare profitti in eccesso. Radunare gli yuan della popolazione e alzare i tassi di scambio, favorendone la libera circolazione, ed eventualmente inviare all’estero i profitti eccessivi rimane per loro la strada migliore. Inoltre, apprezzare lo yuan renderebbe ancora più difficile trovare compratori per gli immobili in eccesso che già gravano sul mercato. Il collasso del mercato immobiliare cinese sarebbe un danno diretto ai burocrati capitalisti. Si tratta di un danno che loro, che controllano la politica, non sono disposti ad accettare. Naturalmente, neanche il regime del Partito comunista cinese – che gode del sostegno di questi capitalisti, è disposto ad accettarlo. La politica è divenuta la politica dei capitalisti, ancora più lontana dai problemi e dagli interessi della media della popolazione. E questo è il motivo alla base dell’impossibilità di risolvere i problemi sociali ed economici cinesi. Dal punto di vista dell’interesse nazionale della popolazione cinese, la questione è totalmente rovesciata. Aprire il libero scambio della valuta e aumentare il tasso dello yuan, insieme all’apertura di un mercato corretto delle importazioni, eliminerebbe entro sei mesi il problema dell’inflazione. Non sarebbe migliore soltanto la vita dei cinesi: il miglioramento delle tecnologie nelle Pmi creerebbe condizioni di lavoro migliore. Insieme a una relativa espansione del mercato dei consumatori interni, queste politiche aiuterebbero la sopravvivenza di quelle imprese. E questo migliorerebbe la vita della gente senza colpire nessuno. Ma questo renderebbe impossibile ai capitalisti dal cuore nero di fare soldi. Ancora più importante, rischierebbero la bancarotta quei tycoon del settore immobiliare che hanno avuto enormi vantaggi dalle demolizioni forzate e dai terreni espropriati con la forza dal governo. E quindi la Cina perderebbe la metà dei propri miliardari. Allo stesso tempo, i prezzi delle case crollati dopo le bancarotte ridurrebbero della metà la popolazione che non trova un posto dove stare. In questa guerra di interessi, vediamo con chiarezza che tipo di governo sia quello del Partito comunista cinese. Un potere politico, in mano ai capitalisti, che lotta contro la propria popolazione.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: