Tra cielo e terra

Pubblico da Avvenire questo racconto di Alessandro D’Avenia che mi è piaciuto molto.

icaro.jpgIcaro e la caduta verso l’alto

Il mio segreto è volare. Per volare bisogna avere le ali e io le ali adesso le ho. Sono quelle che mi ha costruito mio padre. Sono ali di carne, penne e cera. Sono ali pesanti, ma il loro peso mi permette di non avere peso. L’ho imparato dai gabbiani e dalle aquile che hanno ali grandi, più pesanti di tutti gli altri uccelli: così si librano alti nell’aria più a lungo di tutti e guardano fisso il sole.

Non mi sono mai accontentato della Terra. Io volevo guardarla dall’alto, sorprenderla a vivere e respirare, dall’alto. L’ho scoperto fissando le stelle nelle notti tranquille d’estate e in quelle fredde dell’inverno. Ne avevo fame. Tutto passa. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, ma le stelle resteranno, anche quando l’ombra del mio corpo non striscerà più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Le stelle mi hanno insegnato a volare, a volerle contare a una a una capisci come si fa.

Ho chiesto a mio padre le ali. Lui è un inventore, un creatore, oltre che mio padre. Mi ha costruito e regalato le ali: una specie di medicina per guarire la mia nostalgia del cielo. Così ho cominciato a volare. Volevo innalzarmi nel puro azzurro dei cieli e accompagnare aquile e gabbiani nelle loro cacce. Ma poi… ho avuto nostalgia della Terra. A guardarla dall’alto me ne sono innamorato come avevo desiderato il cielo, perché solo dall’alto scopri che anche la Terra è piena di stelle, di fuochi che si accendono.

Volevo imparare le strade degli uomini, lambire le loro costruzioni, i palazzi, i tetti, le guglie, le case degli uomini con i loro fuochi accesi per i racconti, le parole, le fatiche e gli amori. Amavo le loro vite ora che le guardavo dall’alto. Ho accarezzato la Terra con il mio volo e scoperto il segreto delle rondini e dei martin pescatori, del loro volo radente, che parla con le cose più da vicino, senza paura. Quante vite ho ascoltato dietro mura, finestre, porte… Quanti fuochi ho visto accendersi e pulsare, stelle di cieli quotidiani.

Quando mi abbasso troppo sulla Terra, però poi torna la nostalgia dell’altezza, delle stelle. Quando sto solo con le stelle, mi afferra la nostalgia della Terra, dei fuochi nelle case. Non sono fatto né per il cielo né per la Terra, mai contento solo dell’uno o dell’altro, o forse sono fatto per unirli, come fanno i poeti. Solo le parole infatti hanno lo stesso potere, per questo i poeti le chiamano alate.

Ho capito che il cielo e la terra non si uniscono sulla linea dell’orizzonte, ma all’altezza del mio cuore. Ora mi innalzo in cielo con le mie membra di fango, ora sprofondo nel fango con il mio respiro di cielo. Sollevo la terra di cui sono fatto in cielo, soffio il cielo di cui sono fatto dentro la terra.

Rinnovo l’uno e l’altra, do respiro all’una, carne all’altro. Tranne quando mi perdo e ci si perde sia nel cielo sia sulla Terra. Mi perdo nelle altezze celesti quando non voglio più saperne del peso della terra. Le ali si seccano, le penne si staccano, la mia carne si scioglie e il volo diviene folle, perché non sono un angelo, ho il sangue di terra. Ma mi perdo anche negli abissi terresti, creatura del sottosuolo, quando mi stanco del cielo. Sento allora le ali inumidirsi, appesantirsi al punto da non riuscire a prendere il volo e il volo farsi schianto, la bocca attaccata alla terra, gli occhi pieni di polvere.

Quante volte mio padre ha riparato le mie ali, come un padre con la bicicletta del figlio, per liberarle dal peso dell’umidità o dall’arsura del sole. Lui me lo dice sempre: “Assomigli agli alberi, sospeso tra cielo e terra. Sei fatto per vivere in mezzo, tra cielo e Terra. Tu sei fatto per unirli. E quando non ne avrai più le forze farai come i martin pescatori che si adagiano sul dorso degli alcioni che li trasportano ancora in alto quando loro non ne hanno più la forza.”

E quando cadrò ormai stanco vorrei ascoltare ancora una volta quella canzone che mia madre un tempo cantava: Le foglie cadono, cadono / come se giardini lontani avvizzissero nei cieli. / E nelle notti cade, cade la terra pesante da tutte le stelle. / Noi tutti cadiamo. Questa mano cade. / Eppure c’è Uno che senza fine, dolcemente, / tiene questo cadere nelle sue mani.

Sono fatto per cadere in alto.

Gmg e catechesi

gmg(1).jpg

Nel 2005 ho partecipato alla Gmg di Colonia ed è stata un’esperienza particolare, sicuramente forte. Una delle cose che ricordo con più felicità è il momento delle catechesi mattutine (a parte le difficoltà logistiche che hanno caratterizzato tutta quell’avventura: organizzazione tedesca pessima!). Le ho trovate decisamente arricchenti e meno dispersive degli altri appuntamenti, magari più suggestivi. Pubblico allora la sintesi che Silvia Guidi ha fatto per L’Osservatore romano delle due catechesi di Bagnasco e Crociata, entrambe molto interessanti.

«Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera»: il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua prima catechesi alla Giornata mondiale della gioventù di Madrid, il 17 agosto, cita la lirica sulla precarietà della vita di Salvatore Quasimodo. Un canto accorato su «giorni che sono come un raggio, presto inghiottito dall’oscurità della morte»; un canto apparentemente in contraddizione con il tema della settimana madrilena, «Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede». «Sembrerebbero queste parole — ammette lo stesso presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) — non avere particolare significato per il nostro tema; ma così non è. Il canto della brevità inarrestabile dell’esistenza ha uno sfondo sottinteso ma presente: il desiderio di non morire, di vivere per sempre, di una felicità senza fine. Qui emerge il paradosso e il dramma umano di tutti i tempi, anche dei nostri». Il cardinale cita Camus, che nel suo romanzo Il mito di Sisifo porta questo paradosso alle sue estreme e tragiche conseguenze: «Vi è assolutamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la penna di essere vissuta. Il resto (…) viene dopo». L’uomo non solo vuole vivere, ma vuole sapere: sapere inteso come ricerca e conoscenza sempre più ampia e profonda del mondo, ma anche come conoscenza del perché e del significato del mondo, e, innanzitutto, di se stesso. L’esperienza insegna che vivere non è consumare delle cose e del tempo, non è un calendario di giorni, ma è un intreccio di significati, un orizzonte di senso. È conoscere non solo gli scopi immediati delle nostre singole azioni e scelte particolari — il lavoro, gli affetti, la casa — ma soprattutto il fine ultimo dell’esistenza, è rispondere alla domanda che vibra dentro ciascuno: perché, per che cosa vivo? Qual è il fine pieno che dà valore a ogni altro scopo particolare? Lo stupore di fronte al mistero dell’Essere, ha ricordato ancora Bagnasco, è profondamente radicato nel cuore dell’uomo: «Difficilmente — affermava Albert Einstein — tra i pensatori più profondi nel campo scientifico riuscirete a trovarne uno che non abbia un proprio sentimento religioso». Ma viandante e pellegrino non sono sinonimi, spiega il cardinale: «La meta di un pellegrinaggio ci fa pellegrini, che conoscono da dove partono e verso dove vanno; tutto ciò che accade nel tempo del pellegrinaggio è segnato e misurato dall’obiettivo, dalla meta. Altrimenti siamo dei vagabondi senza casa e senza terra, naufraghi della vita, che vivono alla giornata, come viene, per i quali ciò che conta è quanto sta loro davanti momento per momento: sarà naturale allora cercare di spremere la maggiore soddisfazione possibile dall’attimo presente».

L’istante presente va accolto come un dono, non «spremuto»; il carpe diem tanto spesso raccomandato dai cattivi maestri della nostra epoca nasconde un retrogusto amaro, e un pericoloso e «nevrotico» potenziale di violenza e prevaricazione. Lo ha spiegato, nella stessa giornata, il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei: i beni materiali non sono una rete di protezione sufficiente dagli imprevisti della vita. «Quando anche avessi assicurato tutto ciò di cui ho bisogno, chi può dirmi che la mia vita sarà sempre al sicuro? In realtà non c’è nulla di empirico, ma alla fine nemmeno di umano, che possa darmi questa garanzia. Potremmo anzi riconoscere nella ricerca spasmodica di una sicurezza sempre maggiore il meccanismo che sta all’origine di tendenze e comportamenti umani ultimamente frustranti anche se talmente diffusi da sembrare naturali e ragionevoli». All’idolatria della sicurezza materiale — ha ricordato Crociata — si affianca «un altro meccanismo, più elaborato, che può essere innescato dalla ricerca di sicurezza, ed è quello che si basa non tanto, o soltanto, sul possesso di beni, ma sul bisogno di riconoscimento, di stima, di amore, e perciò cerca negli altri il punto di appoggio alla propria ricerca di un solido fondamento alla vita. Anche in questo caso si produce facilmente una distorsione che trasforma le relazioni in una prigione insopportabile. Questo si verifica quando si cerca di ottenere con la costrizione o altre forme di strumentalizzazione un riconoscimento e un amore che raramente arriva spontaneamente dagli altri. Sono molte le forme che assume la pretesa di estorcere dagli altri riconoscimento e amore ad ogni costo; questo genera solo un groviglio di ricatti, insoddisfazioni e infelicità». La vittoria contro le insicurezze è frutto di uno stabile rapporto con Dio, continua il segretario generale della Cei: diventiamo «liberi da ogni possibile schiavitù di cose e persone, poiché la sicurezza della nostra vita non ha bisogno di essere cercata nel surrogato di un possesso pur sempre alienabile né in creature finite come noi, il cui riconoscimento e apprezzamento è pur sempre sottoposto alle evenienze imponderabili della revoca improvvisa o semplicemente degli imprevisti esistenziali. Adesso che la vita trova la sua sicurezza e il suo fondamento in Dio, nell’unico Dio che è il Dio di Gesù, posso usare di tutti i beni senza ansia o nevrosi di sorta, posso vivere le relazioni con tutti senza aspettare o pretendere una dedizione e un riconoscimento che hanno trovato una realizzazione piena e irrevocabile nell’incontro con Gesù e con il Padre suo e nostro».

«Se l’esistenza di Dio — tornando all’intervento di Bagnasco — cambia tutto nella vita dell’uomo, e questo significa un vivere sensato e bello, vuol dire che Dio corrisponde all’uomo, al suo essere, e quindi dovrebbe essere facile e desiderabile accoglierlo nel proprio orizzonte di vita». Allora perché — si interroga l’arcivescovo di Genova — l’uomo contemporaneo fa così fatica a fidarsi di Dio? Il clima culturale che oggi si respira certamente non aiuta. «Che cosa significhi il termine nichilismo ce lo dice Nietzsche: significa “che i valori supremi perdono valore”. Vidi una grande tristezza invadere gli uomini — scrive in Così parlò Zarathustra — I migliori si stancarono del loro lavoro. Una dottrina apparve, una fede le si affiancò: tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto fu! (…) Che cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? Tutto il nostro lavoro è stato vano, il nostro vino è divenuto veleno (…) Aridi siamo divenuti noi tutti (…) Tutte le fonti sono esauste, anche il mare si è ritirato. Sentiamo un opprimente senso del tramonto. In questo orizzonte, le domande radicali – quelle che ci siamo posti insieme all’umanità – sembrano perdere di valore, sembrano diventare “domande oziose” come dicevano Comte, Marx e Feuerbach». Un’analisi puntuale del modo di pensare che sembra diffuso in Europa — continua il presidente della Cei — può essere rintracciata tra le pagine de I fratelli Karamazov di Dostoevskij: «Secondo me, non c’è proprio da distruggere nulla, ma è sufficiente che sia distrutta, nell’umanità, l’idea di Dio: ecco il punto su cui bisogna far leva! Di qui, di qui bisogna partire: ah, ciechi senz’ombra di intendimento! Una volta che l’umanità si sarà distaccata, nella totalità dei suoi membri da Dio, allora di per sé, senza bisogno di antropofagia, cadrà tutta la precedente concezione del mondo, e soprattutto la precedente morale, e a queste succederà qualcosa di assolutamente nuovo. Gli uomini si conosceranno per prendere dalla vita tutto ciò che essa può dare, ma senz’avere altra mira che la felicità e la gioia in questo mondo presente. L’animo dell’uomo si innalzerà in un divino, titanico orgoglio, e farà la sua comparsa l’uomo-Dio. (…) il problema ora è questo: esiste o non esiste la possibilità che un simile periodo sopravvenga un giorno? (…) Siccome, tenendo conto della radicale stupidità umana, questa sistemazione potrebbe tardare magari anche mille anni, a chiunque abbia fin d’ora riconosciuto la verità è permesso sistemare la propria vita come più gli fa comodo, su nuove basi. In questo senso, a costui “tutto è permesso”. (…) All’uomo nuovo è permesso mutarsi in uomo-Dio, dovesse essere il solo a farlo in tutto il mondo, e, inseritosi ormai nel nuovo ordine, con cuor leggero saltare oltre ogni vecchio ostacolo morale del vecchio uomo-schiavo: tutto è permesso, e tanto basta!».

Fine dell’economia globalizzata?

Prendo da www.ariannaeditrice.it questo articolo di Gunter Pauli (imprenditore e autore di “The Blue Economy”) che ci sarà utile in quinta appena ricomincia la scuola.

16/08/2011 La realtà dimostra che nell’economia globalizzata, la povertà è l’unico fenomeno sostenibile

L’economia mondiale per decenni ha seguito la strada della globalizzazione. Il timone è stato tenuto dalle economie di scala ogni volta più grandi a costi marginali sempre più bassi, spingendo il settore manifatturiero a standardizzare e a ridurre radicalmente i costi attraverso l’outsorcing e il controllo della catena delle forniture. Così si sono imposti la concentrazione dei fornitori e l’eliminazione delle inutili gestioni interne, la promozione delle fusioni e delle acquisizioni e la riduzione dei costi per assicurare un maggior ritorno per gli investitori e prezzi più bassi per i clienti, in modo da aumentare il loro potere di acquisto e ingrossare le fila della cosiddetta classe media. Si supponeva che questo processo globalizzatore di crescita portasse ricchezza dagli strati sociali più alti fino ai più bassi, distribuendola e permettendo a più membri della classe media di diventare ricchi. Però la realtà dimostra che, nell’economia globalizzata, la povertà è l’unico fenomeno sostenibile. Anche se si può sostenere che c’è stata la crescita e l’espansione del mercato, la quantità di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno non sono mai state tante come ora.

Si riteneva che il controllo dell’esplosione demografica fosse un fattore chiave per uno sviluppo sociale equo per tutti nel pianeta. Però controllare la crescita della popolazione non è sufficiente. L’azione più decisiva che è necessaria – e la meno dibattuta – è cambiare il modello di business. Il nostro sistema economico è sempre stato organizzato per l’efficienza, ma però nessuno ha considerato la sufficienza. L’avidità, invece della necessità, è stata la musa ispiratrice della dinamica imprenditoriale. E il baratro tra i più ricchi ed i più poveri del mondo non è mai stato tanto ampio come ora. L’alternativa, proposta dalla Blue economy è quello di soddisfare le nostre necessità di base con quel che abbiamo. E’ finta l’ora di cessare il consumo di più della capacità reale del pianeta.

Per uscire dalla trappola della scarsità ed entrare nel mondo della sufficienza per tutti gli esseri senzienti, e non solo per la specie umana, dobbiamo introdurre innovazioni e tecnologie che forniscano nutrienti ed energia a cascata, proprio come fanno gli ecosistemi. Amory Lovins ed i suoi esperti energetici del Rocky Mountain Institute hanno dimostrato che la società moderna ha raggiunto nel 2007 il “picco del petrolio” – nel momento in cui l’estrazione annua dei combustibili fossili raggiunse il suo punto più alto – e che da allora si stanno riducendo progressivamente le riserve. In questa situazione, abbattere il consumo e cercare fonti rinnovabili di energia è una necessità assoluta. Ma la fine dell’era dell’accesso illimitato ai combustibili fossili porta con sé il “picco della globalizzazione”.

Le imprese che si sono espanse fino a trasformarsi in multinazionali ora si confrontano con una tendenza di dinamica decrescente. Le vincitrici saranno le piccole e medie imprese, ispirate da milioni di impresari che sapranno rispondere alle necessità di base delle loro comunità con le risorse locali disponibili. Questo cambiamento permette di concepire un sistema competitivo nel quale il libero commercio ed il libero flusso degli investimenti stranieri diretti non saranno più la chiave per il successo economico. Il nuovo modello offrirà opportunità alle imprese locali che saranno capaci di creare un’ampia alleanza di attività economiche e sociali con molteplici guadagni e benefici. Questo modello è l’alternativa alla camicia di forza imposta dal mantra dell’uniformato e globalizzato mondo contemporaneo: il giro di attività e competenze essenziali e il suo feticcio, le analisi dei flussi di cassa. Abbandonare il modello dell’Harvard Business School, che obbliga i manager a concentrarsi su un prodotto e un processo alla volta, permetterà che Davide vinca un’altra volta Golia. Davide vincerà, non perché ha un accesso privilegiato ai mercati globali di capitale, lavoro, energia e minerali, ma perché l’accelerata espansione che ha incentivato la globalizzazione avrà lasciato i giganti estremamente vulnerabili. E, a differenza delle 500 corporazioni più grandi che elenca la rivista Fortune, pochi imprenditori aspirano a rimpiazzare questi giganti e saranno soddisfatti se ognuno riuscirà a mordere una porzione del 2 o 3% del mercato dei loro formidabili avversari.

Questo nuovo paradigma faciliterà la venuta di sistemi decentralizzati di produzione e consumo che sono già competitivi e tecnicamente percorribili in tutti i settori dell’economia, incluse il minerario, la forestazione, l’agricoltura, i metalli, la chimica l’energia e l’industria cartiera. Il portafoglio di 100 innovazioni descritte in “Blue economy” e i loro crescenti successi di mercato in tutti gli angoli del mondo, dimostrano che questi singoli successi non sono isolati ma parte di una nuova tendenza che chiamiamo “La fine della globalizzazione”. Anche se la penetrazione completa della blue economy nel nostro tessuto sociale ed economico potrebbe richiedere qualche decennio, sta già forgiando forze competitive guidate dalle necessità e dalle risorse locali. Così nascerà una nuova società nella quale si creeranno posti di lavoro sufficienti, dove i migliori prodotti per la salute e l’ambiente saranno meno costosi e si creerà capitale sociale con la semplice dinamica di essere più produttivi e competitivi. In definitiva, questo è quello che spera l’economia umana: realizzare molto di più con molto meno.

Questo intervento è stato pubblicato su Tierramérica l’8 agosto 2011 con il titolo “Tras el pico del petróleo, la globalización se irá a pique”

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: