Quando la paura uccide la libertà

La libertà religiosa, la libertà di professare una fede, la libertà di seguire una cerimonia religiosa, la libertà di pregare, la libertà di parlare della vita di Gesù o di quella di Siddharta Gautama, la libertà di seguire il Ramadan… Non tutto è scontato: prendo da Asianews

Due donne iraniane in pericolo di morte per apostasia dall’islam.

IRAN_(f)_0816_-_Donne_apostate_e_bibbie.jpgSono state arrestate nel marzo scorso, anche se la conversione sembra risalire ad almeno dieci anni fa. Finora in Iran non è mai stata eseguita una condanna a morte con questa motivazione. Le autorità temono una diffusione del cristianesimo: sequestrate 6500 Bibbie. Teheran (AsiaNews/Agenzie) – Due donne iraniane, rinchiuse nella famigerata prigione di Evin per essersi convertite dall’islam al cristianesimo potrebbero affrontare una condanna a morte per apostasia. La notizia è stata diffusa da radio Farda. Amir Javadzadeh, giornalista di un emittente cristiana londinese, ha dichiarato che le due donne potrebbero essere condannate a morte anche se “non erano politicamente attive. Volevano solo servire il popolo in base alla Bibbia”. Marzieh Amirizadeh, 30 anni, e Maryam Rustampoor, 27 anni, sono state arrestate a marzo, anche se la conversione data a 10 anni fa. Javadzadeh ha aggiunto che sono diventate cristiane dopo “aver speso molto tempo studiando testi religiosi e aiutando gli altri”. La legge iraniana non prevede la pena di morte per apostasia, ma alcuni tribunali locali l’hanno comminata di recente (anche se non è mai stata eseguita) basandosi su testi religiosi. Le autorità sembrano preoccupate per un aumento della diffusione del cristianesimo, soprattutto evangelico. In questo contesto si colloca il sequestro di 6500 bibbie annunciato ufficialmente da Majid Abhari, consigliere del Comitato per gli affari sociali del Parlamento iraniano. Abhari ha attaccato “quei missionari che hanno a disposizione grandi somme di denaro e ,cercando di deviare i nostri giovani, hanno cominciato una grande campagna per sviare l’opinione pubblica. Quelle bibbie, a formato tascabile, stampate con la migliore carta del mondo, ne sono la prova”.

Oltre la genuflessione

Spiritualità e corporeità: dall’Oriente può arrivare una lezione utile? In questo articolo di Vittoria Prisciandaro sul numero di agosto di Jesus si sostiene di sì

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Yoga e lectio divina, T’ai Chi e dialogo interreligioso: in questi anni la sapienza asiatica, soprattutto indiana e cinese, si è fatta strada nelle parrocchie d’Occidente. Non è solo moda, tanto meno gusto per i sincretismi esotici. Piuttosto un aiuto, per analogia, nella meditazione e un arricchimento della propria fede cristiana.

La mano destra va a cercare la sinistra e la impugna: è un gesto antico, è l’unione tra il sole e la luna, tra Yin e Yang, il rito del saluto secondo l’antica sapienza Ming. Così, l’ultima settimana di luglio, ha avuto inizio il corso di T’ai Chi Ch’üan, nella casa Pastor Bonus di Lecce. Qualcuno tra i partecipanti indossa la divisa dell’antica arte orientale appena smessi i paramenti della celebrazione eucaristica. La Messa di primo mattino e poi la ginnastica e la meditazione T’ai Chi. A centinaia di chilometri di distanza, nell’eremo camaldolese di Monte Giove, agli inizi di luglio, la lectio divina su un brano della Scrittura è accompagnata dalle meditazioni sui testi del Mahabharata, uno dei più grandi poemi epici dell’India. Dopo il confronto verbale, i presenti – molte donne, alcuni religiosi, qualche sacerdote – fanno pratica yoga e realizzano alcune sequenze che vanno ad «aprire» quella parte del corpo – il cuore se si parla per esempio della carità – su cui la meditazione si è soffermata. Segue la preghiera silenziosa.

Sono solo due esempi, tra i tanti, che dicono come in questi anni la sapienza orientale, cinese e indiana, si sia fatta strada tra il popolo cristiano. Pochi sanno che in passato fu un gesuita francese, Jean Joseph Marie Amiot, che nel 1700 anticipò nei suoi scritti quella che sarà l’odierna comparazione tra la saggezza cinese e l’ascesi cristiana, introducendo, tra l’altro, come definizione sintetica di una qualsiasi attività svolta bene e virtuosamente, il termine Kung Fu. Oggi, sul solco aperto da questo religioso e da altri precursori del dialogo interreligioso, in Italia si muovono diverse realtà, alcune più attente al contesto della preghiera e della meditazione, altre – come il T’ai Chi – più specificamente legate alla riscoperta della corporeità quale luogo fondamentale e indispensabile della pratica spirituale e terreno fecondo dell’incontro interreligioso: le esperienze di meditazione di consapevolezza, tra le quali va citato l’autodidatta 96enne padre Piras, in Sardegna, o la sezione italiana della Christian Meditation, fondata negli anni ’70 dal monaco trappista Thomas Keating. E ancora, la meditazione profonda curata dal padre gesuita Mariano Ballester a Roma; la pratica dello zazen cristiano del missionario saveriano Luciano Mazzocchi; i gruppi che si rifanno all’esperienza dell’incontro tra cristianesimo e zen del tedesco padre Johannes Kopp Rosh; i corsi di meditazione silenziosa tenuti dal cappuccino Andrea Schnoller; quelli di meditazione profonda al convento dei Barnabiti di Campello, guidati da padre Antonio Gentili, o organizzati in giro per l’Italia da suor Marisa Bisi, delle Figlie della Croce. Si tratta di un universo che non cerca la ribalta e in gran parte ruota attorno alla rivista Appunti di viaggio, nata come coordinamento delle esperienze nel campo della meditazione profonda, dove è possibile trovare indicazioni su percorsi e date dei diversi corsi e appuntamenti. Va detto che i sospetti nei confronti di pratiche lontane dalla cultura occidentale, e quindi avvertite come «altre » rispetto allo specifico cristiano, non sono mancati. Un paio di anni fa, dalle pagine del quotidiano Repubblica, Eros Selvanizza, il presidente della Federazione italiana yoga, invitava a un dialogo aperto tra teologi e yogi, dichiarando che alcune «suore e monaci hanno maturato un’esperienza notevole, ma preferiscono non farlo sapere. Non è che se ne vergognino: non hanno capito se per la Chiesa è un bene o un male». Il disagio è comprensibile: la Congregazione per la dottrina della fede, nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana pubblicata nel 1989, infatti, dichiarava: «Con l’attuale diffusione dei metodi orientali di meditazione nel mondo cristiano e nelle comunità ecclesiali, ci troviamo di fronte a un acuto rinnovarsi del tentativo, non esente da rischi ed errori, di fondere la meditazione cristiana con quella non cristiana». La Lettera entrava nello specifico: «Alcuni esercizi fisici producono automaticamente sensazioni di quiete e di distensione, sentimenti gratificanti, forse addirittura fenomeni di luce e di calore che assomigliano a un benessere spirituale. Scambiarli per autentiche consolazioni dello Spirito Santo sarebbe un modo totalmente erroneo di concepire il cammino spirituale». Eppure, più avanti, la stessa Congregazione affermava: «Ciò non toglie che autentiche pratiche di meditazione provenienti dall’Oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un’attrattiva sull’uomo di oggi diviso e disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne».

«Il T’ai Chi Ch’üan, per esempio, è un’arte che è stata profondamente influenzata dalle più importanti correnti filosofiche e religiose cinesi: scuola Yin-Yang, confucianesimo, neoconfucianesimo, buddhismo Ch’an, taoismo…», dice Roberto Fassi, il pioniere di queste discipline in Italia, autore di alcuni volumi sul tema. «Siamo in un universo lontanissimo dalla meditazione e dalla preghiera cristiane. Non dimentichiamo tuttavia che, grazie al dialogo interreligioso che oggi fa parte della missione della Chiesa, si apre la possibilità di un arricchimento della tradizione cristiana. Certo, è necessario anche un accorto discernimento per evitare pericolosi sincretismi», aggiunge il gesuita Davide Magni, promotore con Roberto Fassi di corsi di T’ai Chi al Centro San Fedele di Milano. È su questa scia che si pongono le pratiche più serie prima citate. «Distinguerei il dialogo interreligioso a livello teologico dal piano della preghiera e meditazione», dice Antonia Tronti, che da molti anni tiene corsi di lectio divina e yoga in alcuni monasteri camaldolesi (Fonte Avellana, Monte Giove, Valledacqua); con l’Associazione Oreundici, dove lavora anche con i bambini; e con alcuni parroci, come a Padova, dove ha iniziato allo yoga un gruppo di giovani del coro e uno di preparazione alla Cresima. «Circa venti anni fa ho deciso di approfondire la mia fede cristiana cercando di trovare dei collegamenti con la spiritualità indiana», racconta Antonia. Un percorso sulle tracce di alcuni cristiani che agli inizi del ‘900 avevano provato a inculturare il Vangelo in terra indiana, come per esempio «il sacerdote francese Jules Monchanin e i monaci benedettini Henri Le Saux e Bede Griffiths», sottolinea padre Magni. «I primi due, nel 1950, fondarono nel Tamil Nadu il Saccidananda Ashram (Eremo della Trinità), a Shantivanam (Foresta della Pace). Alla morte di Monchanin, Le Saux si trasferì nel Nord dell’India, sulle rive del Gange, affidando l’ashram alla guida di Bede Griffiths, che trasformò l’eremo in una piccola comunità monastica di rito cattolico indiano affiliata all’ordine camaldolese, un luogo che sarebbe poi stato visitato da migliaia di persone da ogni parte del mondo». Proprio alla scuola dei camaldolesi Antonia Tronti ha approfondito la sua ricerca e oggi, con i suoi corsi, offre una mano a chi desidera conoscere un’altra via e a volte “usa” lo yoga come introduzione a un percorso più profondo di spiritualità che non finisce nella sola meditazione generica. «Sempre più spesso, capita che gente che si è allontanata dalla Chiesa scopra lo yoga e, facendo pratica, ritorni alla tradizione cristiana e si riavvicini alla fede conosciuta da bambini», dice Tronti. «Sento di fare un lavoro di servizio alla Chiesa, faccio da mediazione tra lo yoga e la preghiera ». In altri casi, capita che alcuni, «che si avvicinano allo yoga per un mal di schiena, poi scoprano un “oltre” e si accostino alla preghiera». Il successo dei corsi, anche tra i cristiani, testimonia – secondo Tronti – che «le persone sentono il bisogno di prendersi cura di sé in modo rallentato». Chi viene dall’area cattolica avvicina lo yoga anche perché sente che la spiritualità ha a che fare con qualcosa di più interno, che abita nel cuore dell’essere umano, e che va incontrata, riconosciuta, alimentata: «Un’esperienza che di solito è difficile fare nelle parrocchie». E scopre un approccio diverso alle discipline orientali, che all’immaginario collettivo vengono sempre più «vendute» per i risultati che permettono di raggiungere, associate all’idea di benessere e business: «Yoga, donne e leadership», «Yoga e T’ai Chi, le posizioni che aiutano a star bene», «La meditazione funziona da analgesico», «Yoga: la battaglia del copyright» sono alcuni titoli di articoli recenti sull’argomento.

Che ci sia, comunque, anche un risvolto salutista in queste pratiche, è ormai ufficialmente assodato: «In passato nei protocolli clinici il T’ai Chi era riconosciuto come medicina preventiva, ma adesso viene identificato anche come cura per la cronicità di alcune malattie», conferma il maestro Ignazio Cuturello, tra gli organizzatori del corso di Lecce e tra i promotori di numerose scuole in diverse regioni. «È interessante sapere che in Italia il T’ai Chi Ch’üan è conosciuto e apprezzato soprattutto per merito del maestro Chang Dsu Yao, che trascorse gli ultimi diciotto anni della sua vita nel nostro Paese. Militare di carriera e alto ufficiale dell’esercito cinese, per molti anni Chang Dsu Yao è stato istruttore capo delle Forze armate e della Polizia di Taiwan. Ha insegnato anche all’Università di Taipei», aggiunge padre Davide Magni, che con Francesco Tomatis, Roberto Fassi e Ignazio Cuturello ha curato un testo di prossima pubblicazione: Corpo e preghiera. La via del T’ai Chi Ch’üan. Il maestro Chang Dsu Yao era di fede cattolica e – ricorda Fassi – ogni sua lezione iniziava e terminava con la cerimonia del saluto a Dio, agli antenati e agli antichi maestri: «Metteva sovente in evidenza che, pur essendo questo un rito di matrice confuciana, i cristiani credenti dovevano rivolgere, prima e dopo la pratica, il loro saluto riverente al Dio uno e trino». Insomma – conclude padre Magni – ciascuna religione elabora differenti spiritualità, intese come cura della vita interiore: «La comparazione tra le diverse religioni e relative spiritualità è possibile solo nell’orizzonte dell’analogia, non attraverso la ricerca di equivalenze. E l’esperienza di questo dialogo mostra notevoli intersezioni tra cammini distinti. È per questa ragione che possiamo ricorrere a patrimoni lontanissimi dalla tradizione cristiana, quali lo yoga e il T’ai Chi Ch’üan: non facendo sincretismi, ma cogliendone le suggestioni per via analogica. Il luogo fecondo di questo dialogo è l’esperienza della corporeità». Una intuizione che è stata benedetta dallo stesso Pontefice: da 40 anni, infatti, Dominic Chan Chi-ming, attuale vicario generale della diocesi di Hong Kong, promuove la pratica del T’ai Chi quale via per una spiritualità matura, capace di integrare tutte le dimensioni della persona umana. Nel 2006 Benedetto XVI ha ufficialmente riconosciuto questa iniziativa pastorale, impartendo la sua benedizione apostolica all’associazione Holy Spirit Society for Tai Chi Spirituality.

Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco, un italiano Presidente

Prendo da Jesus questo interessante pezzo di Roberto Carnero

È la prima volta che un italiano viene nominato alla presidenza del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco. Ma Stefano Semplici tale traguardo se l’è meritato con un curriculum di tutto rispetto in questo delicato settore. Eletto durante i lavori della diciottesima sessione, che si è svolta a giugno a Baku, in Azerbaijan, Semplici, classe 1961, è professore ordinario di Etica sociale all’Università di Roma “Tor Vergata” e direttore scientifico del Collegio universitario “Lamaro Pozzani” della Federazione nazionale Cavalieri del lavoro. È uscito in questi giorni nelle librerie, pubblicato dalla Editrice la Scuola, il suo volume Invito alla bioetica.

Professore, come ha accolto l’elezione a presidente del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco? col5a.jpg

«Prima di tutto, come credo si possa facilmente comprendere, con grande emozione. Quando fui nominato nel 2008 membro del Comitato dal direttore generale dell’Unesco, avevo già considerato un privilegio la possibilità di fare questa esperienza in un contesto davvero globale, che raccoglie 36 esperti che vengono da tutto il mondo. Aver ricevuto da questi colleghi e amici la responsabilità di guidare il Comitato per i prossimi due anni è stata per me la più bella conferma della validità del lavoro che abbiamo fatto insieme, ma anche un atto di fiducia che mi sento ovviamente impegnato a ripagare. Il presidente è eletto dal Comitato e non nominato. Questo significa che la prospettiva è in primo luogo quella del lavoro di squadra, con quel pizzico di lievito in più che viene da momenti davvero intensi e belli di convivialità. Le sessioni del Comitato durano quasi una settimana e i rapporti che si creano sono spesso profondi e duraturi. La mia elezione è poi avvenuta il 2 giugno: non avrei potuto immaginare, come italiano, una coincidenza più felice».

Di cosa si occupa il Comitato?

«Il Comitato è stato istituito nel 1993. La sua funzione, così come viene indicato dallo Statuto, è essenzialmente quella di promuovere la riflessione sulle questioni etiche e giuridiche che emergono nell’ambito delle scienze della vita e delle loro applicazioni, incoraggiando, in particolare attraverso i canali dell’educazione, lo scambio di idee e di informazioni. La sua specificità è appunto quella di mettere a confronto intorno allo stesso tavolo culture e tradizioni diverse, voci che sono espressione di contesti anche molto lontani per stili e prospettive di vita, livello di benessere, organizzazione istituzionale. È un lavoro difficile, ma proprio per questo appassionante. La molteplicità delle esperienze e delle linee argomentative non ha peraltro impedito al Comitato di produrre in questi anni documenti importanti, fino alla Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo, che è stata adottata per acclamazione dalla Conferenza generale dell’Unesco nel 2005».

Quali sono i temi più scottanti su cui si svolge la riflessione?

«Proprio per la sua dimensione globale, il Comitato dà nella sua agenda ampio spazio sia alle questioni bioetiche emergenti nei settori di punta dello sviluppo scientifico e tecnologico, sia a quelle che continuano a generarsi lungo le faglie della povertà e dell’ingiustizia e che costituiscono altrettante minacce persistenti alle quali far fronte per una effettiva tutela della vita e della sua dignità. In concreto: il Comitato, come è accaduto in questa ultima sessione, entra nel merito di problemi come la clonazione e la ricerca sulle cellule staminali embrionali, ma guarda con almeno pari attenzione alle ragioni di fondo per le quali ci sono uomini e donne che, a seconda della parte del mondo nella quale è toccato loro in sorte di nascere, hanno davanti a sé una speranza di vita che può essere di quaranta, anziché di ottanta anni. La bioetica dell’Unesco non può che prendere drammaticamente sul serio la sfida di questa dignità letteralmente dimezzata, come abbiamo cercato di fare anche nel rapporto sulla vulnerabilità e sul rispetto dell’integrità umana che abbiamo approvato a Baku».

Quali sono gli argomenti sui quali lei pensa di impegnarsi maggiormente in prima persona?

«Il Comitato dell’Unesco ha il compito di mettere a fuoco le questioni che, a partire soprattutto dalle scienze biomediche, sollecitano la responsabilità dei Governi, dei protagonisti della vita economica e sociale e in ultima analisi di ognuno di noi. Occorre far crescere sia la consapevolezza di questi problemi sia la volontà di affrontarli con strategie condivise. Nel mio intervento conclusivo a Baku, ho cercato di sottolineare in questa prospettiva l’importanza delle bridging issues, cioè di quei temi che più immediatamente esprimono questa interconnessione fra i popoli. Sia perché la scienza è globale e le nuove domande che essa pone non si fermano ai confini degli Stati, sia perché proprio la bioetica, intesa nel senso ampio al quale ci stiamo riferendo, è diventata il luogo nel quale misurarsi, per combatterle, con vecchie e nuove forme di sfruttamento e discriminazione. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla difficoltà di bilanciare la tutela del diritto alla proprietà intellettuale con il dovere inderogabile di garantire a tutti i farmaci indispensabili; a pratiche come il commercio di organi o la delocalizzazione nei Paesi più poveri di attività di ricerca inaccettabili o addirittura vietate in quelli più ricchi; alle asimmetrie crescenti dei fattori socio-economici che incidono direttamente sui livelli di salute delle persone. C’è poi, evidentemente, il capitolo degli argomenti bioetici al quale siamo più abituati: l’ingegneria genetica, le neuroscienze, le biobanche. Il presidente del Comitato, in ogni caso, non ha il compito di scrivere l’agenda. Deve aiutare a organizzare il lavoro di tutti in modo che il contributo di tutti possa essere pienamente valorizzato e ci si concentri sui problemi che a livello globale sono davvero prioritari».

Ci sono questioni che, come lei diceva poc’anzi, siamo più abituati a discutere. Questioni “sensibili” – fecondazione assistita, ricerca sulle cellule staminali, disposizioni sul fine vita, aborto… – sulle quali in Italia il confronto appare spesso aspro, conflittuale, talora persino antagonistico, soprattutto tra la cultura laica e quella cattolica, che sembrano incapaci di trovare una mediazione. È possibile uscire da questa situazione di stallo?

«I dissensi che coinvolgono tali argomenti hanno effetti particolarmente laceranti, perché in essi sono in gioco il principio fondamentale del rispetto per la vita umana, il riconoscimento dei soggetti ai quali tale rispetto è dovuto e il modo in cui le persone lo assumono all’interno del loro progetto di vita. Per allentare la tensione occorrerebbe prima di tutto “smilitarizzare” la bioetica: essa viene spesso praticata e soprattutto comunicata come strumento di battaglia politica, utile a raccogliere consensi, cementare appartenenze, spingere le persone alla sistematica bipolarizzazione di problemi che hanno invece bisogno della pazienza e del tempo di una ricerca attenta e dai toni pacati. Sono problemi, soprattutto, che non si prestano alla semplificazione che ci vorrebbe sempre e soltanto “o di qua o di là” e che, appunto per la loro difficoltà, non consentono di liquidare chi arriva infine a conclusioni diverse come l’oscuro predicatore di medioevali servitù della coscienza o, viceversa, come l’apripista di un rovinoso nichilismo. La gran parte degli studiosi che ho avuto la fortuna di conoscere in questi anni, e potrei dire la stessa cosa per la platea di gran lunga più ampia dei non addetti ai lavori, è fatta di persone che sono sinceramente interessate a pensare insieme e a trovare soluzioni il più possibile condivise. Il che non significa eludere il dissenso o cercare di edulcorarlo. Non sono però queste persone, purtroppo, che occupano gli spazi del confronto pubblico, che parlano in televisione o scrivono sui giornali».

In che modo, in particolare, la Chiesa cattolica potrebbe offrire contributi costruttivi?

«Nella Dichiarazione sull’eutanasia del 1980, per prendere un tema di particolare attualità in Italia in questo momento, la Chiesa cattolica riconosceva che “in molti casi la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i principi della morale”. E da questo riconoscimento si traeva la conclusione che, nella concretezza di tali situazioni, “prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso”. Oggi, invece, i principi sono diventati “non negoziabili”. Ma credere che in questo modo essi vengano rafforzati potrebbe essere, alla resa dei conti, un’illusione. Ciò spinge a privilegiare, per la loro tutela, la forza esteriore della legge rispetto all’esemplarità della testimonianza che si propone senza costrizione. Ai principi astratti, preferisco l’ultima pagina dell’enciclica dell’attuale Pontefice Deus caritas est, in cui si additano come esempi sublimi di carità figure assolutamente concrete come Giuseppe Cottolengo e Teresa di Calcutta».

Fino a qualche mese fa la discussione sul Testamento biologico era nell’agenda politica italiana. Oggi l’argomento è stato messo in ombra dalla crisi dell’attuale maggioranza, ma prima o poi il Parlamento dovrà tornare a occuparsene. Secondo lei, quali aspetti vanno tenuti in considerazione per arrivare a una buona legge?

«Questo è davvero, a mio avviso, un esempio di tutto ciò che una legge su un argomento bioetico non dovrebbe essere. La proposta ha preso forma sotto la spinta emotiva di un episodio che ha profondamente coinvolto l’opinione pubblica, quello di Eluana Englaro, mentre il legislatore dovrebbe al contrario non essere coinvolto da passioni troppo “calde”. Si è subito cominciato a contestare da una parte l’invasione di campo delle gerarchie ecclesiastiche e il carattere strumentale della posizione di alcuni dei suoi più zelanti sostenitori e, dall’altra, la volontà dissimulata di arrivare a una vera e propria normativa eutanasica. Il risultato è che, ancora oggi, ci troviamo di fronte a un testo pieno di ambiguità e contraddizioni, tutto concentrato sull’obbligo della nutrizione artificiale, che è probabilmente insostenibile in questi termini, e assai meno attento ai rischi impliciti nella formulazione di alcuni articoli. Siamo in molti a pensare che l’esito potrebbe essere paradossale e che proprio applicando la legge si potrebbe arrivare all’abbandono di malati non più in grado di esercitare “qui e ora” il proprio diritto all’autodeterminazione. Si tratta a mio avviso di insistere proprio sulla differenza fra la volontà attuale e quella ora per allora, bilanciando in modo diverso, rispetto a tutti i trattamenti sanitari, i due principi della tutela della salute come interesse della collettività e del rispetto dell’autodeterminazione, che sono entrambi costituzionalmente rilevanti. Si può ancora fare: a condizione di abbandonare gli argomenti e i comportamenti della bioetica “con l’elmetto”».

Lei ha una formazione filosofica e insegna Filosofia all’università. Che cosa ha da dire specificamente la filosofia (ad esempio, rispetto alla politica e alla religione) sui temi legati alla bioetica?

«La bioetica ha una natura essenzialmente interdisciplinare e la filosofia può aiutare a coltivare questa sensibilità aperta, insieme all’abitudine alla contaminazione di linguaggi e metodi diversi. È vero però anche l’opposto. Stephen Toulmin ha scritto che proprio la medicina ha salvato l’etica, spingendo la filosofia a recuperare la sua capacità di dire qualcosa di rilevante e concreto per la vita e i problemi reali degli uomini. Le due cose vanno probabilmente di pari passo. E comunque anche il mio predecessore alla guida del Comitato dell’Unesco, Donald Evans, è un filosofo».

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