Prendo da Jesus questo interessante pezzo di Roberto Carnero
È la prima volta che un italiano viene nominato alla presidenza del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco. Ma Stefano Semplici tale traguardo se l’è meritato con un curriculum di tutto rispetto in questo delicato settore. Eletto durante i lavori della diciottesima sessione, che si è svolta a giugno a Baku, in Azerbaijan, Semplici, classe 1961, è professore ordinario di Etica sociale all’Università di Roma “Tor Vergata” e direttore scientifico del Collegio universitario “Lamaro Pozzani” della Federazione nazionale Cavalieri del lavoro. È uscito in questi giorni nelle librerie, pubblicato dalla Editrice la Scuola, il suo volume Invito alla bioetica.
Professore, come ha accolto l’elezione a presidente del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco? 
«Prima di tutto, come credo si possa facilmente comprendere, con grande emozione. Quando fui nominato nel 2008 membro del Comitato dal direttore generale dell’Unesco, avevo già considerato un privilegio la possibilità di fare questa esperienza in un contesto davvero globale, che raccoglie 36 esperti che vengono da tutto il mondo. Aver ricevuto da questi colleghi e amici la responsabilità di guidare il Comitato per i prossimi due anni è stata per me la più bella conferma della validità del lavoro che abbiamo fatto insieme, ma anche un atto di fiducia che mi sento ovviamente impegnato a ripagare. Il presidente è eletto dal Comitato e non nominato. Questo significa che la prospettiva è in primo luogo quella del lavoro di squadra, con quel pizzico di lievito in più che viene da momenti davvero intensi e belli di convivialità. Le sessioni del Comitato durano quasi una settimana e i rapporti che si creano sono spesso profondi e duraturi. La mia elezione è poi avvenuta il 2 giugno: non avrei potuto immaginare, come italiano, una coincidenza più felice».
Di cosa si occupa il Comitato?
«Il Comitato è stato istituito nel 1993. La sua funzione, così come viene indicato dallo Statuto, è essenzialmente quella di promuovere la riflessione sulle questioni etiche e giuridiche che emergono nell’ambito delle scienze della vita e delle loro applicazioni, incoraggiando, in particolare attraverso i canali dell’educazione, lo scambio di idee e di informazioni. La sua specificità è appunto quella di mettere a confronto intorno allo stesso tavolo culture e tradizioni diverse, voci che sono espressione di contesti anche molto lontani per stili e prospettive di vita, livello di benessere, organizzazione istituzionale. È un lavoro difficile, ma proprio per questo appassionante. La molteplicità delle esperienze e delle linee argomentative non ha peraltro impedito al Comitato di produrre in questi anni documenti importanti, fino alla Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo, che è stata adottata per acclamazione dalla Conferenza generale dell’Unesco nel 2005».
Quali sono i temi più scottanti su cui si svolge la riflessione?
«Proprio per la sua dimensione globale, il Comitato dà nella sua agenda ampio spazio sia alle questioni bioetiche emergenti nei settori di punta dello sviluppo scientifico e tecnologico, sia a quelle che continuano a generarsi lungo le faglie della povertà e dell’ingiustizia e che costituiscono altrettante minacce persistenti alle quali far fronte per una effettiva tutela della vita e della sua dignità. In concreto: il Comitato, come è accaduto in questa ultima sessione, entra nel merito di problemi come la clonazione e la ricerca sulle cellule staminali embrionali, ma guarda con almeno pari attenzione alle ragioni di fondo per le quali ci sono uomini e donne che, a seconda della parte del mondo nella quale è toccato loro in sorte di nascere, hanno davanti a sé una speranza di vita che può essere di quaranta, anziché di ottanta anni. La bioetica dell’Unesco non può che prendere drammaticamente sul serio la sfida di questa dignità letteralmente dimezzata, come abbiamo cercato di fare anche nel rapporto sulla vulnerabilità e sul rispetto dell’integrità umana che abbiamo approvato a Baku».
Quali sono gli argomenti sui quali lei pensa di impegnarsi maggiormente in prima persona?
«Il Comitato dell’Unesco ha il compito di mettere a fuoco le questioni che, a partire soprattutto dalle scienze biomediche, sollecitano la responsabilità dei Governi, dei protagonisti della vita economica e sociale e in ultima analisi di ognuno di noi. Occorre far crescere sia la consapevolezza di questi problemi sia la volontà di affrontarli con strategie condivise. Nel mio intervento conclusivo a Baku, ho cercato di sottolineare in questa prospettiva l’importanza delle bridging issues, cioè di quei temi che più immediatamente esprimono questa interconnessione fra i popoli. Sia perché la scienza è globale e le nuove domande che essa pone non si fermano ai confini degli Stati, sia perché proprio la bioetica, intesa nel senso ampio al quale ci stiamo riferendo, è diventata il luogo nel quale misurarsi, per combatterle, con vecchie e nuove forme di sfruttamento e discriminazione. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla difficoltà di bilanciare la tutela del diritto alla proprietà intellettuale con il dovere inderogabile di garantire a tutti i farmaci indispensabili; a pratiche come il commercio di organi o la delocalizzazione nei Paesi più poveri di attività di ricerca inaccettabili o addirittura vietate in quelli più ricchi; alle asimmetrie crescenti dei fattori socio-economici che incidono direttamente sui livelli di salute delle persone. C’è poi, evidentemente, il capitolo degli argomenti bioetici al quale siamo più abituati: l’ingegneria genetica, le neuroscienze, le biobanche. Il presidente del Comitato, in ogni caso, non ha il compito di scrivere l’agenda. Deve aiutare a organizzare il lavoro di tutti in modo che il contributo di tutti possa essere pienamente valorizzato e ci si concentri sui problemi che a livello globale sono davvero prioritari».
Ci sono questioni che, come lei diceva poc’anzi, siamo più abituati a discutere. Questioni “sensibili” – fecondazione assistita, ricerca sulle cellule staminali, disposizioni sul fine vita, aborto… – sulle quali in Italia il confronto appare spesso aspro, conflittuale, talora persino antagonistico, soprattutto tra la cultura laica e quella cattolica, che sembrano incapaci di trovare una mediazione. È possibile uscire da questa situazione di stallo?
«I dissensi che coinvolgono tali argomenti hanno effetti particolarmente laceranti, perché in essi sono in gioco il principio fondamentale del rispetto per la vita umana, il riconoscimento dei soggetti ai quali tale rispetto è dovuto e il modo in cui le persone lo assumono all’interno del loro progetto di vita. Per allentare la tensione occorrerebbe prima di tutto “smilitarizzare” la bioetica: essa viene spesso praticata e soprattutto comunicata come strumento di battaglia politica, utile a raccogliere consensi, cementare appartenenze, spingere le persone alla sistematica bipolarizzazione di problemi che hanno invece bisogno della pazienza e del tempo di una ricerca attenta e dai toni pacati. Sono problemi, soprattutto, che non si prestano alla semplificazione che ci vorrebbe sempre e soltanto “o di qua o di là” e che, appunto per la loro difficoltà, non consentono di liquidare chi arriva infine a conclusioni diverse come l’oscuro predicatore di medioevali servitù della coscienza o, viceversa, come l’apripista di un rovinoso nichilismo. La gran parte degli studiosi che ho avuto la fortuna di conoscere in questi anni, e potrei dire la stessa cosa per la platea di gran lunga più ampia dei non addetti ai lavori, è fatta di persone che sono sinceramente interessate a pensare insieme e a trovare soluzioni il più possibile condivise. Il che non significa eludere il dissenso o cercare di edulcorarlo. Non sono però queste persone, purtroppo, che occupano gli spazi del confronto pubblico, che parlano in televisione o scrivono sui giornali».
In che modo, in particolare, la Chiesa cattolica potrebbe offrire contributi costruttivi?
«Nella Dichiarazione sull’eutanasia del 1980, per prendere un tema di particolare attualità in Italia in questo momento, la Chiesa cattolica riconosceva che “in molti casi la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i principi della morale”. E da questo riconoscimento si traeva la conclusione che, nella concretezza di tali situazioni, “prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso”. Oggi, invece, i principi sono diventati “non negoziabili”. Ma credere che in questo modo essi vengano rafforzati potrebbe essere, alla resa dei conti, un’illusione. Ciò spinge a privilegiare, per la loro tutela, la forza esteriore della legge rispetto all’esemplarità della testimonianza che si propone senza costrizione. Ai principi astratti, preferisco l’ultima pagina dell’enciclica dell’attuale Pontefice Deus caritas est, in cui si additano come esempi sublimi di carità figure assolutamente concrete come Giuseppe Cottolengo e Teresa di Calcutta».
Fino a qualche mese fa la discussione sul Testamento biologico era nell’agenda politica italiana. Oggi l’argomento è stato messo in ombra dalla crisi dell’attuale maggioranza, ma prima o poi il Parlamento dovrà tornare a occuparsene. Secondo lei, quali aspetti vanno tenuti in considerazione per arrivare a una buona legge?
«Questo è davvero, a mio avviso, un esempio di tutto ciò che una legge su un argomento bioetico non dovrebbe essere. La proposta ha preso forma sotto la spinta emotiva di un episodio che ha profondamente coinvolto l’opinione pubblica, quello di Eluana Englaro, mentre il legislatore dovrebbe al contrario non essere coinvolto da passioni troppo “calde”. Si è subito cominciato a contestare da una parte l’invasione di campo delle gerarchie ecclesiastiche e il carattere strumentale della posizione di alcuni dei suoi più zelanti sostenitori e, dall’altra, la volontà dissimulata di arrivare a una vera e propria normativa eutanasica. Il risultato è che, ancora oggi, ci troviamo di fronte a un testo pieno di ambiguità e contraddizioni, tutto concentrato sull’obbligo della nutrizione artificiale, che è probabilmente insostenibile in questi termini, e assai meno attento ai rischi impliciti nella formulazione di alcuni articoli. Siamo in molti a pensare che l’esito potrebbe essere paradossale e che proprio applicando la legge si potrebbe arrivare all’abbandono di malati non più in grado di esercitare “qui e ora” il proprio diritto all’autodeterminazione. Si tratta a mio avviso di insistere proprio sulla differenza fra la volontà attuale e quella ora per allora, bilanciando in modo diverso, rispetto a tutti i trattamenti sanitari, i due principi della tutela della salute come interesse della collettività e del rispetto dell’autodeterminazione, che sono entrambi costituzionalmente rilevanti. Si può ancora fare: a condizione di abbandonare gli argomenti e i comportamenti della bioetica “con l’elmetto”».
Lei ha una formazione filosofica e insegna Filosofia all’università. Che cosa ha da dire specificamente la filosofia (ad esempio, rispetto alla politica e alla religione) sui temi legati alla bioetica?
«La bioetica ha una natura essenzialmente interdisciplinare e la filosofia può aiutare a coltivare questa sensibilità aperta, insieme all’abitudine alla contaminazione di linguaggi e metodi diversi. È vero però anche l’opposto. Stephen Toulmin ha scritto che proprio la medicina ha salvato l’etica, spingendo la filosofia a recuperare la sua capacità di dire qualcosa di rilevante e concreto per la vita e i problemi reali degli uomini. Le due cose vanno probabilmente di pari passo. E comunque anche il mio predecessore alla guida del Comitato dell’Unesco, Donald Evans, è un filosofo».
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