Lo scrittore triestino Claudio Magris prende spunto dagli eventi della maratona di Boston per riflettere sul terrorismo. Ne stiamo parlando in V e daremo un’occhiata insieme a questo articolo preso dal Corriere.
“Non credo abbia molto senso chiedersi, come alcuni fanno, come mai e perché il terrorismo stavolta abbia scelto, per il suo bagno di sangue, un’occasione come la maratona di Boston, una manifestazione dal carattere particolarmente popolare, meno collegabile di altre a centri o a simboli di potere. Certamente il terrorismo o meglio i terrorismi hanno pure i loro rituali simbolici, talora un perverso e sacrale fanatismo moralistico, come quello che, in un articolo di molti anni fa, Moravia rilevava nella lettera con cui gli assassini della Raf, in Germania, annunciavano, con un tono da austeri giudici, la condanna a morte dell’industriale Hans Martin Schleyer per la sua vita considerata indegna.
Ci sono vari terrorismi, si dice giustamente, e si osserva, ancor più giustamente, che essi hanno radici e origini diverse, talora in ideologie e più spesso in situazioni umane intollerabili o in conflitti sociali, nazionali, religiosi. Senza risolvere, si dice, le sue cause prime – ingiustizie sociali, focolai di guerra – non si elimina il terrorismo. Tutto questo è giusto, ma serve, nel migliore dei casi, a impedire un terrorismo di domani, il che sarebbe già straordinario. Dinanzi a un terrorismo organizzato – comunque sia nato in origine, anche da proteste legittime – l’unica cosa da fare è trovare i mezzi e i modi per stroncarlo. La parola – quando succede ciò che è successo a Boston e, spesso più atrocemente, altrove – non spetta ai commentatori, ai filosofi, ai sociologi, ma, tecnicamente, alle forze incaricate di combattere il terrorismo; gli infiltrati contano più degli opinionisti o degli storici. La lotta al terrorismo è difficile, per varie ragioni. Al terrorismo non interessa tanto uccidere quanto paralizzare un Paese con i controlli che la sua minaccia richiede; pochi uomini organizzati possono mettere in ginocchio le comunicazioni e la vita quotidiana di un Paese. Inoltre ciò può mettere di fronte alla difficile scelta tra la tutela della vita delle persone, che esige misure di sicurezza paralizzanti per tutti, e l’efficienza del Paese, che mal sopporta quelle misure. Inoltre il vertiginoso progresso tecnologico ha diminuito la differenza tra la potenza di cui dispongono gli Stati e quella di cui possono disporre piccoli gruppi di individui. Sotto questo profilo si ritorna, paradossalmente, a situazioni arcaiche fino a poco fa capovolte dal divenire storico. Il capo di una tribù primordiale disponeva delle stesse armi dei suoi avversari, clave e frecce; poteva solo avere più seguaci. Il progresso tecnico ha aumentato, nei secoli, la disuguaglianza tra le armi degli eserciti e delle polizie e quelle di chi si ribellava all’ordine vigente: era facile, per il generale Bava Beccaris massacrare bestialmente i dimostranti milanesi nel 1898. Anche gli strumenti del controllo, dell’informazione, della comunicazione erano in mano al potere costituito. La nostra epoca è, dal punto di vista tecnologico, anche l’era del terrorismo. Oggi invece, anche se non nel caso di Boston, le sofisticatissime conquiste della scienza e soprattutto della tecnologia mettono a disposizione di un gruppo di agguerriti kamikaze e sicari esperti di informatica quasi gli stessi strumenti di cui si servono gli Stati e i vari servizi segreti che danno loro la caccia, anche se fortunatamente non ancora la bomba atomica, come anticipano tanti film. Ciò rende ancor più difficile la lotta al terrorismo. Lotta per altro ardua anche perché spesso tortuosa, ambigua; non sempre è una chiara e limpida lotta dello Stato contro il terrorismo, come tra lo sceriffo e i fuorilegge nel «western», bensì talora è compromissione e scambio di ruoli, forze dello Stato che si infiltrano nelle organizzazioni terroriste non per annientarle ma per usarle contro altre forze dello Stato, come è accaduto in Italia con la vicenda delle Brigate rosse e dell’assassinio di Moro, vicenda tragica ma anche sordida, e come è forse accaduto anche in altre circostanze, in altri Paesi, in altri eccidi.
Perfino la Storia è ambigua con il terrorismo perché, con il passare del tempo, confonde i ruoli a seconda di chi abbia vinto o perso; Guglielmo Oberdan è un eroe per gli italiani, un terrorista per gli austriaci. Qualcuno si è chiesto, pensosamente, cosa sentano e provino gli uccisori vedendo il sangue degli uccisi a Boston o altrove. Interessa poco capire la psicologia e i sentimenti di un assassino. Interessa di più che sia individuato e messo in galera – cosa, purtroppo, più difficile.”